VALORI

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VALORI

Il discorso dei v. è tra quelli più comunemente assegnati ad una​​ ​​ filosofia dell’educazione o ad una meta-teoria di essa (​​ pedagogia), nel loro riflettere sul quadro di riferimento ideale dell’agire educativo in genere e sul senso dell’istruzione pubblica in particolare. Nel contesto attuale, segnato dal pluralismo, dall’innovazione, dalla secolarizzazione, dalla crisi, dal​​ ​​ relativismo, dalla perdita di​​ ​​ senso e di oscuramento dei sistemi di significato, dalla ripresa di posizioni fondamentalistiche, c’è una rinnovata attenzione al discorso dei v. e dell’educazione ad essi.

1.​​ Il v. e i v.​​ Il termine v. proviene dal mondo economico, dove sta ad indicare il prezzo dovuto all’uso, al potere di scambio, al lavoro, alle materie prime, ecc. (cfr. il termine gr.​​ axía​​ = prezzo, costo). In senso derivato viene riferito all’ambito della morale (l’etica, il bene, il fine ultimo dell’azione). Ma il termine è diventato di uso comune, nel corso del XX sec., con la cosiddetta «filosofia dei v.» ad opera di autori come H. Rickert, F. Nietzsche,​​ ​​ Weber, M. Scheler, N. Hartmann. Con esso si viene per solito ad intendere: a) la qualità di una persona o cosa in quanto oggetto di apprezzamento («aver v.»); b) persona o cosa o categoria astratta che è degna di apprezzamento («essere un v.»); c) una dignità ed eccellenza che si pone come una sorta di ideale assoluto. In quest’ultimo significato, v. viene ad essere non solo principio di giudizio, ma anche fonte di emozione e principio di azione. Allo stesso tempo richiama un’idea, suscita un impegno, spinge ad agire (cfr. l’aggettivo gr.​​ áxios, degno, stimabile: da cui il termine «assiologia», e «assiologico» detto per tutto ciò che concerne lo studio relativo al mondo dei v.). Al plurale sta per ideali, per idee-forza, che si propongono come umanamente degni in sé ed umanizzanti nella loro attuazione.

2.​​ Per una concezione pedagogica del v.​​ Il v. può essere considerato da quattro versanti (o polarità): a) in sé e per sé, come eccellenza astratta (ad es., amicizia, amore, bellezza, utilità, verità, giustizia); b) come realtà valida (i cosiddetti «beni», ad es. un’opera d’arte, un atto di giustizia, un’affermazione vera); c) come preferenza soggettiva (aspirazioni, bisogni, desideri soggettivi per qualcosa che si considera buono, bello, grande, vero); d) come determinazione storico-culturale di v. (i cosiddetti sistemi di significato o quadri di v. propri di un gruppo, di un popolo o di una determinata epoca storica). Le diverse classificazioni dei v. costituiscono un tentativo di chiarire il panorama vasto e non facilmente generalizzabile del mondo dei v., proprio perché si accentua o l’uno o l’altro versante o polarità o perché nel momento dell’attuazione vengono a conflitto l’uno con l’altro. In rapporto all’educazione può essere interessante considerare la questione in una prospettiva relazionale-dinamica. Secondo questo modo di vedere, il luogo del v. è il rapporto interattivo e storico tra un soggetto ed altri soggetti; tra persone e cose; tra individualità ed ambiente; tra passato, presente e futuro; tra mondo soggettivo e mondo oggettivo; tra naturale e culturale; tra fattuale e possibile; tra attuale e futuribile; tra immanente e trascendente. Si viene a parlare propriamente di v. quando questa relazione innanzitutto è avvertita e più o meno coscientemente è accolta e giudicata «significativa», cioè denotativa di qualcosa che si fa apprezzare perché corrisponde alle esigenze ed alle possibilità di «un di più di umanità» per tutte le parti che entrano nella relazione. All’alba del v. ci sarebbe, infatti, la sensazione, vissuta o cosciente, che nell’apertura agli altri, nel mondo e nella storia, e magari all’Altro (presente e trascendente il mondo e la storia) sia dato intravedere la possibilità di realizzare un di più di umanità, per sé e per tutti, e una riqualificazione del mondo e della storia stessa. Dal punto di vista dei soggetti il v. indicherebbe la possibilità di qualificare umanamente e dare un​​ ​​ senso alla propria esistenza. Parimenti, nella luce del v., si mostrerebbe il ruolo attivo, ricostruttivo e creativo che il soggetto ha nella vita dell’universo, e d’altra parte il ruolo che il mondo storico, fisico e sociale, ha nei confronti del soggetto in ordine al realizzarsi di qualcosa che va oltre il loro attuale incontrarsi e stimolarsi. In tal modo c’è nell’affermazione del v. un aspetto che è sia trans-soggettivo sia trans-oggettivo, pur qualificando l’uno e l’altro e la relazione storica stessa. Con ciò si spiega lo scarto tra fatto e v.; ma anche il fatto che l’esperienza di v. si pone più nell’ordine della scoperta che dell’invenzione. Di per sé, nel giudizio di v. non c’è iscritta l’attuazione concreta. C’è però un appello di realizzazione, sotto il segno della reciprocità e responsabilità relazionale. Così è in particolare in ambito educativo. Perché si realizzi la crescita personale e comunitaria, e la buona qualità della vita personale, che sono i v. supremi dell’educazione, si richiede una «decisione per» ed un impegno da parte di tutti coloro che sono all’interno del processo formativo. Ma prima ancora occorre darsi da fare perché si diano la «piattaforma della comunicazione educativa», i supporti e le strategie medianti e facilitanti il gioco dinamico del​​ ​​ rapporto educativo, lavorando sui mezzi in vista di ciò che si pone come fine.

3.​​ Il v. della formazione. Secondo alcuni la​​ ​​ formazione, l’​​ educazione, l’​​ ​​ insegnamento, l’​​ ​​ addestramento sarebbero intrinsecamente un v., in quanto volti a sviluppare e promuovere uno stato desiderabile in coloro che sono in formazione. L’​​ ​​ apprendimento non è un fatto meccanico. La​​ ​​ comunicazione per essere efficace richiede che sia colta come significativa, vale a dire rispondente ad esigenze di sviluppo intellettuale, culturale e globalmente personale. Nell’insegnamento l’informazione è sorretta dalla motivazione e fa appello alla libertà dell’alunno perché, cogliendo la validità dell’informazione, comprenda che vale la pena d’impegnarsi ad interiorizzarla e a farla propria. La formazione culturale e professionale acquista il suo significato nel contesto di un’integrale umanizzazione personale e non si riduce ad un apprendimento specialistico o ad un addestramento puramente tecnico ed abilitativo. Infatti l’esperienza della formazione mostra in sé non solo la richiesta d’informazioni utili o l’acquisizione di abilità consolidate o di competenze di ruolo, ma anche l’istanza di sostegno alla crescita personale in libertà, responsabilità e solidarietà, l’attesa di relazioni significative, l’aspettativa di un vivace inserimento nel mondo sociale e professionale, nella prospettiva di una cura permanente di sé e del mondo in cui si vive. In tal senso l’educazione nella sua globalità si esprime come un’iniziazione a conoscenze, abilità, atteggiamenti, forme di vita che si considerano intrinsecamente valide e protese verso livelli superiori di completezza umana. Ma non tutti sono d’accordo su tale intrinseca validità dell’educazione. Non solo essa può essere strumentalizzata, ma può anche mortificare irrimediabilmente la spontaneità e la creatività personale. Inoltre la trasmissione di contenuti di v. potrebbe non sottrarsi a forme di ideologizzazione sottomissiva ed alienante. Per tal motivo nella tradizione pedagogica ad un’educazione «materiale» (vale a dire un’educazione focalizzata su quelli che erano considerati i contenuti di verità e di v. del patrimonio sociale di cultura) si contrapponeva un’educazione «formale» (vale a dire un’educazione focalizzata sulla formazione delle capacità, degli atteggiamenti, delle abilità, del senso critico). Ma forse, queste contrapposizioni manifestano più che altro le difficoltà concrete ed intrinseche all’educazione, e mettono in luce le diverse concezioni di​​ ​​ uomo e di​​ ​​ libertà, che si hanno di fronte nell’educare. In tutti i casi resta il v. promozionale e umanizzante della formazione.

4.​​ La scuola e i v.​​ Una tale problematica valoriale si riflette in modo specifico in ambito scolastico. Le questioni sono fondamentalmente di due tipi: la prima, se la scuola debba educare ai v.; la seconda, quali ne debbano essere le forme curricolari, le strategie di insegnamento e di apprendimento. C’è chi considera l’introduzione dei v. nella scuola una turbativa dell’apprendimento ed una forma di indottrinamento e perciò chiede che siano tenuti lontani da essa in nome della libertà degli alunni, della laicità della scuola, della rigorosità ed efficacia dell’apprendimento, del pluralismo sociale. La scuola dovrebbe limitarsi ad una solida istruzione, vale a dire ad una formazione intellettuale basata sulla trasmissione e l’acquisizione competente degli aspetti più universali del conoscere e della cultura. Per converso altri evidenziano il fatto che la neutralità educativa della scuola è illusoria. I v. sono presenti almeno a livello di «curricolo nascosto». La cultura scolastica è già di per sé una selezione del patrimonio sociale di cultura secondo criteri di validità, pertinenza, adeguatezza e significatività formativa. Le compromissioni che si riscontrano nei programmi e nelle iniziative legislative sulla scuola sono, a loro modo, conseguenze delle diverse immagini d’uomo, dei progetti-società e delle concezioni di umanità e di civiltà che i legislatori hanno in mente. In tal senso si può dire che sullo sfondo delle discussioni e delle decisioni di politica scolastica c’è sempre, almeno implicitamente, una referenza valoriale, seppure diversificata. Allo stesso modo si afferma che non si può schivare la responsabilità educativa della docenza e della scuola come istituzione sociale: nel bene e nel male. L’​​ ​​ indottrinamento sarà evitato se l’insegnamento sarà realmente tale, cioè offerta chiara, motivata e critica di quel tanto di informazioni e strategie d’apprendimento che permettano non solo di apprendere, ma anche di continuare a ricercare e ad istruirsi da sé in libertà. Inoltre si ribadisce che i pericoli non vengono solo dalla «dottrina», ma anche dall’assenza d’insegnamento, che lascia la gente in balia dei propri pregiudizi o di un falso sapere; oppure viene da un insegnamento troppo rapido o troppo specializzato, che abbandona la formazione dello spirito per limitarsi a selezionare e a fabbricare degli «attrezzi» umani, abili in prestazioni meccaniche e tecniche, ma poveri di quella competenza umana che permette di partecipare a pieno diritto e con tutti i titoli alla vita comunitaria. Più specificamente in questi ultimi anni alla scuola si è chiesto di fare opera di iniziazione soprattutto a quelli che sono detti «i nuovi v.»: lo sviluppo, l’ecologia, i diritti umani, la mondialità, l’internazionalità, la cooperazione, la solidarietà, la pace, la salute, ecc. In particolare si è posta come finalità peculiare della scuola l’educazione alla convivenza civile democratica, al fine di porre le basi conoscitive, emotive e comportamentali di una «morale pubblica» in un quadro di pluralismo, di complessità e di cambio socio-culturale. Anche in molte altre nazioni occidentali a regime liberale democratico, in alternativa o indipendentemente dall’insegnamento scolastico della religione, sono proposte forme di educazione morale e / o di educazione ai v., sotto forma di disciplina autonoma o di moduli didattici disciplinari e interdisciplinari, magari sostenute da attività formative extra-curricolari. In ambienti anglosassoni si sono pure sviluppate metodologie che hanno avuto un certo seguito. Tra esse giova ricordare la metodologia del​​ Set-of-Values, corrispondente ad un’educazione sociale attraverso l’insegnamento, lo stile dell’insegnamento, l’organizzazione e il clima scolastico di quei v. comunitariamente condivisi e considerati essenziali alla vita sociale (come il primato e la protezione della vita umana, la difesa della sopravvivenza umana, il rispetto della diversità culturale, la tutela dell’ambiente, la giustizia, la libertà, l’uguaglianza). Una seconda è quella denominata​​ Value analysis, che si serve del ragionamento, della riflessione e della discussione di gruppo per evidenziare le implicazioni possibili di differenti scelte pratiche. Entrambe diventano problematiche quando si voglia arrivare a consensi generalizzati e ad indicazioni di v. o di norme in qualche modo universali. In questa linea qualche decennio fa ebbe una certa diffusione, negli ambienti di lingua inglese, la cosiddetta​​ Value clarification, che non pretende questo orientamento normativo, ma solo abituare gli alunni ad esplicitare i criteri personali di giudizio che stanno alla base delle scelte personali. Ma il​​ ​​ relativismo valoriale e morale non viene superato; per tal motivo altri si sono rifatti alla teoria dello sviluppo morale di​​ ​​ Kohlberg per aiutare gli alunni a passare da giudizi morali eteronomi e particolaristici ad altri autonomi ed universalistici. Ma anch’essa non sembra essere esente da questioni più generali che vengono a riflettersi in questa sede: la concezione della libertà e della vita associata, il relativismo culturale e l’universalismo morale, l’ipoteticità e la normatività del conoscere in genere e di quello scientifico in particolare. A livello operativo può essere interessante il riferimento ai principi e ai v. che si ispirano e / o sono espressi nelle Costituzioni nazionali, nelle Dichiarazioni internazionali sui diritti dell’uomo e del fanciullo, in quanto permettono la condivisone ideale e la convergenza pratica nel pluralismo delle giustificazioni teoriche, delle concezioni filosofiche, dei credo ideologici o religiosi particolari o di gruppo (e conseguentemente nel dialogo / dibattito attorno ad essi).

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C. Nanni