DIALOGO

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DIALOGO

Il termine, dal gr.​​ lógos​​ (parola, discorso) e​​ diá​​ (preposizione che designa il passaggio attraverso qualcosa, o anche il movimento da un punto ad un altro), significa l’andare e tornare della parola tra due o più interlocutori, il colloquiare. La freddezza concettuale di questa informazione etimologica non esprime tuttavia la ricchezza che, nell’esperienza umana, comporta il d. nel suo significato più denso.

1. Nel sec. XX la filosofia esistenziale, nella sua versione appunto dialogica, ha messo in luce soprattutto le dimensioni personalistiche del d., riconoscendo in esso uno dei momenti essenziali del rapporto io-tu (​​ Buber). In questa prospettiva il d. viene inteso come un uscire dell’io da se stesso nella parola (verbale o gestuale) e mediante essa andare verso il tu, per consegnarsi a lui e a sua volta accogliere la sua parola e in essa la sua stessa intimità. La dinamica dialogale può essere anche pensata e realizzata in senso inverso, a partire dal tu. In ogni caso si vedono già in questa concezione emblematica quali siano le principali caratteristiche e condizioni del d.: coscienza della propria identità, ma anche consapevolezza del proprio limite; apertura fiduciosa e piena di rispetto verso l’altro; capacità di donazione e di accoglienza reciproca. Visto così, il d. si presenta come una possibilità, anzi come una necessità per la formazione dell’identità soggettiva, della relazione interpersonale e della comunitarietà sociale. In tal senso, oltre che al d. interpersonale (e al d. interiore con se stessi) è da pensare al d. sociale, culturale, politico, religioso, e specificamente a quello ecclesiale. Ognuno di essi ha delle connotazioni proprie.

2. Circa il d. ecclesiale si deve rilevare che la Chiesa cattolica ha fatto dei passi notevoli negli ultimi decenni da tale punto di vista. Mentre infatti essa si era ritenuta da secoli, nell’esercizio del suo​​ ​​ Magistero, quale «Madre e Maestra», e quindi in qualche modo proprietaria esclusiva della verità e perciò anche col diritto di insegnarla agli altri, a partire da Paolo VI, che nell’Enc.​​ Ecclesiam suam​​ (1963) dedicò un’ampia riflessione al tema del d., cominciò a cambiare profondamente il suo atteggiamento. Così il Concilio Vaticano II dichiarò apertamente, nella Costituzione pastorale​​ Gaudium et Spes,​​ di voler dialogare con la famiglia umana, apportando ciò che la Chiesa ha di più originale, e cioè la luce che il Vangelo proietta sui problemi e sugli interrogativi umani, ma accogliendo a sua volta dal mondo le luci da esso offerte (GS​​ nn. 3.44). Su questa necessità di dialogare con gli altri uomini, credenti o no, con le loro idee e sensibilità, con il loro modo di vedere le cose e con le loro impostazioni di vita ritornò il Concilio molte volte, sia parlando della formazione e del ministero dei presbiteri (OT n.​​ 19;​​ PO​​ n. 12d), che riferendosi all’attività dei laici (AA​​ nn. 14b.17b.31a)​​ o all’attività missionaria (AG​​ nn. 11b.12a.34.38g) o ancora all’​​ ​​ ecumenismo (UR​​ n. 11e). Da allora in poi questo atteggiamento andò guadagnando terreno e acquistando maggior forza e concretezza. Uno dei punti più alti in questo cammino lo si ritrova nell’Esortazione Apostolica​​ Evangelii Nuntiandi​​ (1975), in cui Paolo VI propose, come modalità-chiave dell’annuncio evangelico, l’inculturazione, e cioè il d. serio e sincero con la cultura (in senso antropologico) e con le culture dell’uomo contemporaneo (EN n.​​ 20).

3. Nell’ambito educativo, e in quello prettamente scolastico, si deve sottolineare l’importanza che il d. ha dal punto di vista metodologico (Stefanini, 1954). Si può dire che un pregio particolare, pure se non esclusivo, dell’​​ ​​ educazione liberatrice è proprio l’essersi proposta come obiettivo la formazione dell’educando all’autodeterminazione e, in questo contesto, l’aver propugnato un’educazione «aperta al d.» (Medellín​​ 8c). In tale modo viene superata quella concezione secondo cui solo l’educatore educa, mentre l’educando sarebbe solo oggetto di educazione, e viene sostituita da quella secondo cui tutti sono educatori ed educandi, ognuno secondo la propria condizione (P. Freire). Educare implica, quindi, intavolare un d. con gli educandi, ricercando insieme con essi la verità. Una ricerca nella quale l’educatore, senza lasciare da parte la propria identità, offre la sua esperienza e le sue conoscenze agli educandi, ma è anche aperto e disponibile ad accogliere quanto essi stessi apportano e ad arricchirsi con il loro contributo. Educare implica inoltre formare gli educandi alla capacità di dialogare con le persone in quanto tali, accogliendole, rispettandole e contribuendo alla loro realizzazione; ma anche ad avere una sempre maggiore disponibilità, nell’ambito dell’educazione umana generale, a mettere in d. rispettoso e sincero le proprie idee con le idee degli altri, le proprie convinzioni con le convinzioni degli altri, le proprie credenze con le credenze degli altri e, nell’ambito dell’​​ ​​ educazione cristiana, a stabilire un corretto d. tra la fede e la scienza, e tra la fede e la cultura.

Bibliografia

Stefanini L.,​​ La scuola del d.: interrogazione ed esame,​​ in «La Scuola Secondaria» 3 (1954) 4-5, 4-17; Delhaye Ph.,​​ D. Chiesa-mondo secondo la «Gaudium et Spes»,​​ Assisi, Cittadella, 1968; Freire P.,​​ L’educazione come pratica della libertà,​​ a cura di L. Bimbi, Milano, Mondadori,​​ 21974;​​ Jiménez Ortiz A.,​​ Por los caminos de la increencia. La fe en diálogo,​​ Madrid,​​ CCS, 1993; Agazzi E. et al.,​​ Dall’Areopago a Internet: quale d. nella società globalizzata?, Milano, In Dialogo, 2002; Jacobucci M.,​​ I nemici del d. Ragioni e perversioni dell’intolleranza, Roma, Armando, 2005.

L. A. Gallo