DISCIPLINA

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DISCIPLINA

Si può dire che la polisemicità del termine, come rilevò già​​ ​​ Comenio, è presente nelle sue origini e uso latini (disciplina:​​ istruzione-ammaestramento, metodo-arte, materia scolastica). Oltre a quello di specifico ambito scientifico, in pedagogia i significati più comuni sono quello di materia scolastica (​​ discipline), di insieme di mezzi, norme e metodi cui adeguarsi per raggiungere determinati obiettivi, e, come effetto del precedente, quello di modo di comportarsi, secondo regole imposte o accettate.

1. Qui interessano gli ultimi due, prevalenti nelle lingue straniere; storicamente (prescindendo dal significato ascetico di penitenza corporale) il concetto di d. è stato collegato, in particolare, alla vita scolastica, che richiedeva, con frequenza, il ricorso a​​ ​​ premi e​​ ​​ castighi, regolati, più recentemente, da disposizioni di legge, per ottenere o mantenere coattivamente un ordine esterno, con cui, spesso, la si è identificata. Si può dunque parlare di un suo versante​​ oggettivo,​​ nel primo dei due sensi in questione (meno interessante educativamente), e di uno​​ soggettivo,​​ nell’altro. Sotto il profilo pedagogico, un’attenzione alla d. è presente fin dall’antichità presso gli autori più significativi, in un senso che privilegia le modalità da seguire, da parte degli educatori, per raggiungere determinati obiettivi, non limitati all’apprendere, ma da estendere prioritariamente al campo morale, in cui si colloca il significato soggettivo della d., che così fuoriesce dagli angusti confini della scuola. Fine della d. non è dunque un ordine esterno, per lo più imposto, bensì un perfezionamento del soggetto. In questa linea, più e meno esplicitamente, si sono mossi i classici della pedagogia, da Comenio, che alla d. dà molta attenzione, a​​ ​​ Locke, a​​ ​​ Herbart, alle​​ ​​ Scuole Nuove e ai pedagogisti contemporanei. Nessuno di loro tralascia l’istanza di un ordine esterno, ma non lo enfatizzano e, comunque, lo iscrivono, almeno a partire dal sec. XIX, all’interno del rapporto tra​​ ​​ autorità e​​ ​​ libertà, inteso in senso ampio, anche sociale e familiare, proprio per preservarne l’educatività.

2. Nel discorso sulla d. vanno richiamate le differenze di ruolo dei protagonisti (educatore, educando, ambiente) in rapporto ai due sensi suindicati e le principali letture che, dell’uno o dell’altro, sono state fatte. Anzitutto i mezzi, i metodi e norme, la dimensione oggettiva della d., sono scelti e decisi solitamente, dall’autorità, che, a volte, si identifica con l’educatore, a volte con governanti (donde le conseguenze giuridiche) o, infine, con tradizioni e costumi locali. In questi casi per l’educando, il tutto sa di imposizione e, facilmente, dà luogo a un rigetto. Quanto all’aspetto soggettivo, cioè al modo di comportarsi, esso dipende, solidalmente, sia dall’autorità che dalla libertà. Dalla prima, perché vi influisce più e meno pesantemente (con le paure che può ingenerare, con l’imposizione, con l’esempio, con ragionamenti...); dalla seconda, in quanto l’interiorizzazione o meno delle norme è una scelta del soggetto, in base a motivazioni. Questi richiami, sul piano dell’educazione, fanno spazio ad altre due letture del fenomeno d., oltre a quella pedagogica: la psicologica e la sociologica. a) La lettura​​ psicologica,​​ che intende interpretarne il senso soprattutto in rapporto al soggetto-educando, è molteplice e variegata, secondo le differenti scuole psicologiche. Quelle di taglio psicoanalitico, specie freudiano, danno una lettura della d. piuttosto negativa, in quanto considerata come ordine esterno, sia pure interiorizzato. Quelle, invece, di tipo umanistico o analoghe, sono più ben disposte verso la d., almeno nel caso di un’assimilazione soggettivamente voluta, tenuto conto di una previa valutazione dei contenuti. b) La lettura​​ sociologica,​​ a sua volta, è pure differenziata secondo le scuole e gli orientamenti di fondo delle singole posizioni: da coloro che esaltano il ruolo delle società, tanto da vedere il singolo strettamente dipendente e come costretto da quelle (N. Elias, per es.); a coloro che, enfatizzando la funzione sociale della stessa educazione, vedono nella d. il «primo elemento della moralità», pur senza trascurarne la valenza e funzione sociale (​​ Durkheim, per es.).

3. Per concludere ancora in​​ chiave pedagogica,​​ è utile un richiamo alla​​ gradualità​​ della d., nelle sue manifestazioni, come nella sua acquisizione, e all’esercizio.​​ Sotto il profilo operativo sono da privilegiare l’osservazione, l’esempio e l’imitazione, il tentativo e la sua ripetizione, la responsabilizzazione, la motivazione, il controllo (esterno e personale) e la correzione. Alla d. va fatto ricorso con sensibilità e criterio, secondo i momenti, i soggetti e le circostanze, cercando di superare l’insensata contrapposizione tra il permissivismo e l’autoritarismo, che pure, nel corso della storia, hanno avuto rappresentanti e sostenitori risoluti, ancora nel sec. scorso.

Bibliografia

a)​​ Classici:​​ Herbart J. F.,​​ Pedagogia generale derivata dal fine dell’educazione,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1997; Id.,​​ Compendio di lezioni di pedagogia,​​ Roma, Armando 1971; Komensky (Comenio) J. A.,​​ Novissima linguarum methodus,​​ in Id.,​​ Opera omnia,​​ vol. 15-II, Praga, Academia, 1989; Id.,​​ Grande didattica,​​ Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1993. b)​​ Studi:​​ Seccet-Riou F.,​​ La discipline et l’éducation. Du dressage à l’autonomie,​​ Paris, Bourrellier, 1946; Durkheim É.,​​ L’éducation morale,​​ Paris, PUF, 1963;​​ Chamberlin L. J.,​​ Discipline: the managerial approach,​​ St. Louis, Torchlite, 1980; Elias N.,​​ La civiltà delle buone maniere,​​ Bologna, Il Mulino, 1982; Vico G.,​​ Educazione morale e pedagogia attivistica,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1983; Scurati C. (Ed.),​​ La d. nella scuola. Problemi e prospettive,​​ Brescia, La Scuola, 1987.

B. A. Bellerate