SISTEMA PREVENTIVO

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SISTEMA PREVENTIVO

In un particolare mondo pedagogico cattolico dell’Ottocento la formula ebbe una certa risonanza dopo la pubblicazione, nel 1877, delle pagine su​​ Il s.p. nella educazione della gioventù,​​ nelle quali don​​ ​​ Bosco affermava con una certa enfasi: «Due sono i s. in ogni tempo usati nell’educazione della gioventù». Ma la contrapposizione dei due «sistemi» era emersa già prima in Francia a proposito di due tipi di educazione: dei «collegi» pubblici e privati laici (scuola di istruzione media-superiore), da una parte, e dei «collegi» cattolici, dall’altra: nei primi austera, esigente, propedeutica a un severo impegno nella società; in quelli confessionali, dolce, paterna o materna, accondiscendente, chiusa e protettiva, meno idonea ad un serio inserimento nella società civile, regolata da leggi uguali per tutti ed eventualmente penali.

1. Precedentemente, in Belgio e in Francia la formula aveva assunto un particolare significato nella politica scolastica relativa all’insegnamento libero: il s.p. ne precludeva​​ a priori​​ l’autorizzazione, mentre il «s. repressivo» l’ammetteva, salvo intervenire con ispezioni, restrizioni o soppressioni in caso di abusi, irregolarità o illegalità. Nell’ultimo terzo del sec. i due s. vengono contrapposti anche in Italia ed altrove in relazione ad analoghi antitetici atteggiamenti dello Stato di fronte al pericolo costituito dall’Internazionale socialista.

2. Ma al di là delle formule, l’indicazione di don Bosco circa il s.p. coinvolge una particolare tradizione educativa preoccupata piuttosto di prevenire in età evolutiva le deviazioni e gli errori che intervenire per reprimerli. La contrapposizione può limitarsi al livello disciplinare, all’ordine esterno, al «governo»; oppure estendersi, come nell’esperienza educativa di don Bosco e in altre iniziative assistenziali (per l’infanzia, l’adolescenza, i ragazzi in particolari situazioni sociali, morali, caratteriali), all’intero impegno formativo. In quest’ottica si può considerare preventivo il s. educativo che presenta in tutto o in misura significativa questi elementi: la​​ prevenzione assistenziale​​ (vitto, vestito, alloggio, istruzione), a cui segue la​​ prevenzione educativa,​​ per cui non si reprimono e puniscono mancanze, errori, deviazioni avvenute, ma si impedisce che accadano e, insieme, si promuove tutto ciò che contribuisce alla crescita in umanità dei soggetti. Questo lavoro può effettuarsi in favore di soggetti in situazioni di normalità (prevenzione primaria) o già con sintomi di adesione a modelli di comportamento in qualche modo devianti (prevenzione secondaria) oppure con comportamenti asociali già strutturati (prevenzione terziaria). Essa si attua con l’assistenza benefica e educativa,​​ sorretta dalla​​ dedizione​​ generosa degli educatori e dalla​​ fiducia​​ degli educandi. Ne sono atmosfera naturale l’amore-«amorevolezza»​​ e l’amicizia,​​ integrate dalla​​ ​​ ragione-ragionevolezza​​ che investono programmi, disciplina, avvisi, correzioni. La prevenzione si realizza in forma privilegiata in​​ comunità​​ strutturate e ispirate al regime e al clima della​​ famiglia,​​ a partire dalla stessa comunità domestica.

3. Nella storia le versioni della prevenzione educativa si esprimono come pedagogia dell’amore. Resta principio ispiratore la formula «plus amari quam timeri», enunciata nelle regole monastiche di sant’Agostino e di san Benedetto, ripresa nella sostanza da sant’Anselmo d’Aosta e letteralmente dal vescovo di Verona Ratherius (sec. IX). Se ne trovano tracce nel Medioevo, in riferimento all’infanzia, nelle trattazioni sull’educazione dei nobili di Vincenzo di Beauvais, di Egidio Romano e di Bartolomeo di san Concordio. Più copiosi elementi di tale s.p. vengono recepiti da cospicui rappresentanti della pedagogia umanistica e rinascimentale (Pier Paolo Vergerio,​​ ​​ Vittorino da Feltre, Maffeo Vegio,​​ ​​ Antoniano) e da trattatisti moderni come​​ ​​ Fénelon e​​ ​​ Rollin. Nell’Ottocento si discute e si scrive di «prevenzione» nei confronti di fenomeni di vario tipo: politica (moti rivoluzionari, minacce all’ancien régime,​​ ecc.), sociale (delinquenza, mendicità, questione operaia), penale (carceri, istituti per corrigendi), educativa (educazione come prevenzione, prevenzione nell’educazione), religiosa (la religione come rassicurazione, ecc.). Si moltiplicano istituzioni scolastiche e educative, istituti di vita consacrata maschili e femminili dediti all’assistenza della gioventù, scrittori di cose pedagogiche che adottano contenuti, lessico e metodi propri del s.p.:​​ ​​ Fratelli delle Scuole cristiane, Barnabiti,​​ ​​ Aporti, L. Pavoni, P.-A. Poullet,​​ ​​ Dupanloup, A. Teppa, ecc. Oggi di «prevenzione» e di s.p. si tratta in rapporto all’«emarginazione», potenziale o effettiva, a molteplici livelli: educativo, didattico, psicologico, sociale, terapeutico.

4. Le «parole» del «preventivo» in don Bosco sono svariate: sul versante protettivo-immunizzante, l’assistenza, la disciplina, la vigilanza, l’ospizio; su quello positivo-costruttivo, la «salvezza», il dovere, il lavoro, lo studio, il gioco, il «tempo libero» (teatro, canto, musica, escursioni), l’obbedienza, la carità, la castità, la pietà, i sacramenti, la famiglia e la familiarità, la paternità e la maternità, l’oratorio, l’ospizio, i laboratori artigianali, le compagnie giovanili, la società, la Chiesa. Sovrastano le tre parole​​ ragione,​​ religione,​​ amorevolezza,​​ fondamento e anima dell’intero s., negativo e positivo, contenutistico e metodologico. In una visione sistematica dell’«esperienza educativa complessiva» si possono mettere in evidenza i seguenti elementi.

5. La prevenzione assistenziale-educativa di don Bosco non è quella di Fénelon o di Rollin, che si riferisce a giovani socialmente privilegiati, né quella di Aporti che riguarda il mondo dell’infanzia da preservare da deformazioni culturali e morali. L’azione di don Bosco nasce e si sviluppa in favore della «classe più pericolante e più pericolosa della civile Società», la gioventù «povera e abbandonata», «povera e pericolante». In proposito, nella sua concreta esperienza personale e istituzionale si verifica uno spostamento di accento nella considerazione della «gioventù povera» e della «povera gioventù». È possibile, infatti, notare un progressivo ampliamento dell’«abbandono» e del relativo pericolo, attivo e passivo: dal mondo ristretto della gioventù «povera» dal punto di vista economico, morale, culturale, «pericolosa» per la società, la visuale e l’operatività si estendono progressivamente alla «povera gioventù», tutta o quasi, sempre più «pericolante» in una società sempre più «pericolosa». In quest’ottica il s. è immaginato e formulato in rapporto non solo alle limitate fasce di giovani di cui don Bosco si occupa direttamente con le sue istituzioni, ma all’intero «pianeta giovani», che egli vede nei «sogni» diurni e notturni, dal Piemonte all’Italia tutta, alla Francia, alla Spagna, all’America, da Santiago del Cile a Pekino, dall’Europa all’Australia, compresi quelli da acquisire alla «civiltà cristiana» nelle terre di missione.

6. Pur consapevole dell’estrema problematicità delle situazioni, dei giovani don Bosco ha una visione sostanzialmente ottimistica, naturalmente solo se soccorre l’efficace e tempestiva opera dell’adulto educatore, assolutamente determinante. «Questa porzione la più delicata e la più preziosa dell’umana società, su cui si fondano le speranze di un felice avvenire, non è per se stessa di indole perversa. Tolta la trascuratezza dei genitori, l’ozio, lo scontro de’ tristi compagni, cui vanno specialmente soggetti de’ giorni festivi, riesce facilissima cosa l’insinuare ne’ teneri loro cuori i principii di ordine, di buon costume, di rispetto, di religione; perché se accade talvolta che già siano guasti in quella età, il sono piuttosto per inconsideratezza, che non per malizia consumata» (Piano di Regolamento,​​ Introduzione,​​ 1854, 1). Di fatto il s. sembra attribuire una quasi onnipotenza all’educazione e all’educatore, protagonista nell’interpretare e attuare le attese dei giovani. Da questo punto di vista la «prevenzione» presenta una certa ambivalenza, con una marcata prevalenza della parte dell’educatore su quella dell’educando, chiamato soprattutto a obbedire e a conformarsi: è certamente un fatto di tempi e di mentalità.

7. La triade​​ ragione,​​ religione,​​ amorevolezza,​​ nota soprattutto nel suo significato metodologico, esprime anzitutto sinteticamente il complesso delle intenzioni, dei fini, dei contenuti e dei programmi del processo assistenziale-educativo preventivo, nell’ambito di una visione antropologica tendenzialmente umanistico-cristiana, non elaborata da don Bosco in sistematiche categorie teoretiche, ma vissuta ed espressa a livello catechistico e biblico-narrativo. Essa implica: a fondamento e coronamento, la​​ dimensione religiosa,​​ cattolica ed ecclesiale, in ordine alla «salvezza» e alla santità, nel rispetto delle diverse disponibilità; il fondamentale ricupero e potenziamento sul piano​​ umano,​​ culturale, professionale e sociale, coll’approdo, secondo una formula spesso ripetuta, al «buon cristiano e onesto cittadino»; l’integrazione​​ affettiva,​​ particolarmente urgente per soggetti deprivati di amore, senza famiglia o lontani da essa. All’una o all’altra delle tre dimensioni fa riferimento una ricca varietà di obiettivi, di contenuti e di lessico, spesso datati, ma non irrilevanti: «pietà», «santo timor di Dio», «osservanza dei religiosi precetti», «adempimento dei propri doveri», «amor della fatica», «istruzione», lavoro, «rispetto alle autorità» religiose e civili, fuga dai cattivi compagni, «l’affetto ai parenti», la «fraterna benevolenza», l’«allegria».

8. L’istituzione tipica del s.p. di don Bosco è l’«oratorio», non nuovo nella tradizione catechistica e educativa italiana (a cominciare dal ’500 con s. Filippo Neri e s. Carlo​​ ​​ Borromeo). Con don Bosco esso assume un significato paradigmatico, indicando qualsiasi «luogo» di incontro con i giovani, su «loro misura», dove in clima di libertà e di amicizia essi incontrano l’educatore padre, fratello, amico: il «cortile», la strada, la piazza, gli «oratori», gli ospizi con arti e mestieri, i collegi per studenti, i piccoli seminari, le scuole festive serali diurne, elementari, classiche, tecniche, i laboratori per la formazione professionale, le colonie agricole; ed ancora, le associazioni, i gruppi, i libri, le chiese, le missioni. Don Bosco non ha privilegiato nessuna istituzione particolare, assumendo quelle esistenti, dando semmai a loro un volto «nuovo», così come vuol essere innovativa la versione del tradizionale s.p. da lui riproposto.

9. La «novità» dello stile educativo di don Bosco è stata percepita fin dai primi anni della sua azione educativo-assistenziale, attraverso l’immagine di un prete alla ricerca dei giovani, vicino a loro, sensibile alle loro esigenze (sicurezza, lavoro), comprese quelle apparentemente superflue (gioco, gioia, espansione vitale); ma soprattutto alla loro fame di affetto, di amore, di amicizia; realtà che don Bosco fissa molto presto in parole essenziali: «Una lunga esperienza ha fatto conoscere che il buono risultato dell’educazione della gioventù consiste specialmente nel saperci fare amare per farci di poi temere»; oppure, dirette al suo vicino collaboratore: «Studia di farti amare piuttosto che [var.​​ prima di – se vuoi] farti temere». L’impianto metodologico si può riassumere nei seguenti fondamentali principi: a) prevenire e assistere [essere presenti, essere per] con intelligenza, fede e amore; b) «poche parole, molti fatti», amore effettivo oltre che affettivo: l’educatore si farà amare e farà amare i valori di cui è tramite se colle parole, e più ancora coi fatti, farà conoscere che «le sue sollecitudini sono dirette esclusivamente al vantaggio spirituale e temporale de’ suoi allievi»; c) predisporre interventi differenziati secondo i livelli morali e culturali, le indoli e le necessità dei singoli; d) «la pratica di questo s. è tutta appoggiata sopra le parole di S. Paolo che dice: la carità è benigna e paziente, soffre tutto e sostiene qualunque disturbo»; e) 1’amore paterno, materno, fraterno che si sviluppa in clima di «famiglia»: «Chi vuol essere amato bisogna che faccia vedere che ama. Chi sa di essere amato, ama, e chi è amato ottiene tutto specialmente dai giovani»; f) nel processo educativo attribuire peso, graduale e individualizzato, ai «mezzi» della grazia salvifica, in particolare alla preghiera, ai sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia («colonne che devono reggere un edifizio educativo»), alla divozione mariana; g) in particolare far «rilevare la bellezza, la grandezza, la santità di quella​​ ​​ Religione che propone dei mezzi così facili, così utili alla civile società, alla tranquillità del cuore, alla salvezza dell’anima»; h) accanto e con altrettanta sollecitudine far nascere e crescere nei giovani il gusto della vita, il senso di responsabilità nei suoi confronti, la proiezione al futuro e al destino eterno, alla luce dei «novissimi», in particolare mediante un’oculata scelta vocazionale; i) arricchire l’intero spazio educativo con le più disparate iniziative di «tempo libero» dirette a creare un clima di gioia, di festa, di «benessere».

10. Don Bosco non si ferma dinanzi a ostacoli quando vuol suscitare il più vasto movimento in favore del progetto-giovani, dovunque e da chiunque promosso; e a tutti, soprattutto negli ultimi anni di vita, osa proporre come stile operativo il s.p. della​​ ragione,​​ della​​ religione,​​ dell’amorevolezza.​​ Vi provvede in vari modi: fonda due istituti religiosi, la società di san Francesco di Sales (​​ Salesiani) e l’istituto delle​​ ​​ Figlie di Maria Ausiliatrice; istituisce l’associazione dei Cooperatori; mobilita gli exalunni e le exalunne chiamati ad attuare nel proprio mondo familiare, civile ed ecclesiale il metodo sperimentato in periodo educativo; e poi la più vasta cerchia di collaboratori, benefattori, ammiratori, uomini e donne di buona volontà, pensosi del futuro dell’età in crescita e della società che da essa sarà costituita e costruita. «Siamo salesiani» egli dice a tutti, intendendo non una qualche appartenenza istituzionale, ma la vasta comunità spirituale di quanti nell’attività assistenziale-educativa si ispirano al vangelo della carità, di cui è testimone credibile l’autore della​​ Filotea​​ e del​​ Teotimo,​​ s. Francesco di Sales, di cui don Bosco vuol perpetuata la nobile amabilità e l’esuberante zelo.

Bibliografia

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P. Braido