PREVENZIONE

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PREVENZIONE

La p. è un aspetto della metodologia educativa che tende a preservare le giovani generazioni da carenze rilevanti sul piano della strutturazione della personalità e della socializzazione e che inoltre mira ad individuare eventuali fattori di rischio nello sviluppo evolutivo del soggetto al fine di evitare l’insorgere di comportamenti disadattanti, come l’assunzione di droghe e alcool, atti di vandalismo, abbandono scolastico (​​ dispersione scolastica), passività nei confronti dei​​ ​​ mass-media, disturbi psichici, condotte suicidarie (​​ suicidio). Etimologicamente il termine​​ pre-venio​​ può assumere più significati. In questo contesto, facciamo riferimento a due di essi in particolare: 1) arrivo prima; 2) anticipo, impedisco, ostacolo, evito qualcosa che ritengo comunque negativo e pericoloso. La p. si colloca in una dimensione temporale di tipo lineare e, specie nella seconda accezione, sembra nascere da finalità negative esplicitandosi attraverso azioni di controffensiva, di sfida contro qualcosa o qualcuno che non è manifesto ma di cui si ipotizzano scenari futuri.

1.​​ Riferimenti storici.​​ La p. affonda le sue radici nell’origine stessa del Cristianesimo, il cui influsso si è esteso, soprattutto nella cultura occidentale, nel corso dei secoli. È però nell’Ottocento che, sia a causa della traumatica esperienza della Rivoluzione francese e sia a motivo del sovvertimento dell’ordine antico causato da Napoleone, l’Europa sembra orientarsi con decisione verso l’idea «preventiva». E la p. investe il campo​​ politico​​ come orientamento a restaurare l’antico, conservando però quanto di positivo avevano portato i tempi nuovi; entra nel tessuto​​ sociale,​​ esprimendosi in una molteplicità di interventi a favore dei poveri (ospedali, istituti per vecchi, vedove, orfani...); propone in campo​​ penale​​ principi e sensibilità nuove (si pensi ad es. a C. Beccaria per il quale è meglio prevenire i delitti che punirli...). Ma in modo ancor più chiaro la p. tende a identificarsi con l’idea stessa di​​ ​​ educazione che è p. prima ancora della modalità di approccio metodologico: preventivo appunto o repressivo. In questo contesto la​​ ​​ religione che da sempre, almeno come tensione ideale, aveva fatto suo questo approccio, viene identificata come mezzo privilegiato di p. personale e sociale, garanzia di ordine e di pace. Don​​ ​​ Bosco ne diventa uno dei rappresentanti più significativi, sia per la sua personalità che per la sua attività. Emblematico il suo scritto sul​​ ​​ sistema preventivo.

2.​​ Attività e obiettivi.​​ L’attività preventiva in campo educativo si esplica attraverso opere di informazione e divulgazione scientifica ma soprattutto di carattere formativo (intendendo con ciò l’instaurarsi di un rapporto tra individuo-individuo o individuo-oggetto che si influenzano reciprocamente interagendo in un determinato contesto storico ed ambientale). In tal senso la p. deve essere intesa come un atto che si fa «con» i destinatari dell’intervento e non «per» loro (da una concezione lineare della p. ad una circolare o processuale); nella p., pertanto, l’azione deve essere sinergica e non è pensabile la delega. Gli obiettivi verso i quali agire (individuazione ed integrazione degli indicatori di rischio, dei fattori protettivi, miglioramento della qualità di vita) devono essere esplicitamente condivisi dai soggetti che vi partecipano (giovani educatori, utenti, operatori, collettività); obiettivo ultimo è il miglioramento della condizione esistenziale dei giovani nella prospettiva di un loro maggior benessere ma, a differenza del concetto di cura, il benessere perseguito nell’ambito dell’educazione è simultaneamente di due destinatari diversi: la persona bisognosa e la collettività. L’idea di​​ ​​ benessere sottesa infatti considera la persona nella sua globalità e interezza, non nella parte malata da curare. Nel contempo si prefigge di evitare che altri membri della collettività si possano trovare in simili situazioni di disagio o possano, in qualche misura, avere ricadute negative, incappare in condizioni sfavorevoli determinate dall’azione del soggetto in difficoltà.

3.​​ Livelli di p.​​ La ricerca di indicatori di rischio capaci di offrire elementi utili ad una classificazione e definizione di possibili percorsi preventivi, pone in evidenza la necessità di operare una distinzione terminologica e di contenuto di diversi possibili livelli entro i quali collocare un progetto mirato. A ciascun livello corrispondono obiettivi, caratteristiche, metodologie e destinatari diversi che ne determinano il segno e l’andamento, pur non dovendoli considerare in maniera statica e chiusa.

3.1.​​ Primo livello: p. potenziale o promozione.​​ In esso si colloca ogni tipo di intervento capace di influire in modo positivo sulla qualità della vita giovanile promuovendo salute, cultura, socializzazione. Entra in gioco la definizione di un quadro di riferimento di più ampio respiro rispetto a quello della pura p.: la promozione. Promuovere vuol dire infatti un andare da qualche parte, probabilmente attraverso cammini sconosciuti, un fare per, ma anche un fare con, orientato alla costruzione di qualcosa che non è preesistente. Nel «promuovere» restano ostacoli e il problema di trovare delle vie per affrontarli o aggirarli; ma diventa importante il di-venire, da dove e in che modo si arriva a certi appuntamenti: il «pro» diviene premessa e orientamento. Rientrano in questa categoria le attività di carattere sportivo, ricreativo, culturale o di socializzazione generica rivolte a minori e / o giovani, e i problemi di aggiornamento generale rivolti ad adulti che rivestono un ruolo educativo.

3.2.​​ Secondo livello: p. specifica del disadattamento.​​ Ad esso corrispondono interventi legati a progetti mirati su fattori di disagio personale e / o sociale che possono favorire l’instaurarsi di situazioni di disadattamento e devianza giovanile. Appartengono a questa categoria servizi e interventi volti ad alleviare condizioni di deprivazione culturale, affettiva e sociale e ad orientare la persona in fasi e momenti di cambiamento cruciale.

3.3.​​ Terzo livello: p. specifica primaria.​​ In essa si collocano interventi centrati su fattori-rischio tipici dei fenomeni di dipendenza giovanile. A questa categoria appartengono i progetti di educazione alla salute, di sensibilizzazione e formazione orientati all’uso di sostanze, alla manipolazione del corpo, ecc., promuovendo nell’individuo senso critico, maturità affettiva, autonomia di pensiero e azione, ecc.

3.3.​​ Quarto livello: p. specifica secondaria.​​ In essa si situano interventi rivolti direttamente a soggetti già coinvolti, in diverso grado, in situazioni ormai compromesse, in qualche «subcultura deviante» (es. consumatori o ex-consumatori di droghe, consumatori di alcool, attori di episodi legati alla microcriminalità, ecc.). Fanno capo a questa categoria attività di carattere psicologico come il​​ ​​ counseling, il sostegno psicopedagogico, la risocializzazione, la psicoterapia breve, e attività di carattere sociale volte a prevenire processi di stigmatizzazione ed emarginazione, come ad es. il reinserimento lavorativo e le iniziative di aggregazione.

4.​​ I​​ modelli.​​ Se nell’ambito della p. sanitaria è possibile individuare un buon livello di elaborazione teorica ed una specifica identificazione di differenti procedure metodologiche, non altrettanto è possibile fare a proposito del tema p. nell’ambito delle scienze sociali e dell’educazione. In esso, infatti, l’introduzione di tale concetto e la conseguente metodologia sono di recente concezione e definizione; come sostiene Colecchia (1995), la ricerca in campo psicosociale non ha ancora raggiunto livelli di definizione chiara circa le tipologie dei comportamenti a rischio che possono provocare, a breve o a lungo termine, effetti nocivi per il soggetto che li metta in atto. La natura stessa del periodo evolutivo in cui sono coinvolti i soggetti a cui è rivolta l’attività di p., è all’origine delle difficoltà di definizione esatta non solo dei comportamenti indicatori di disagio, ma anche delle relative strategie preventive attuabili. I modelli interpretativi dei fenomeni di disagio giovanile e le corrispondenti strategie preventive, possono essere tanti quanti i potenziali destinatari per cui occorre fondamentalmente creare chiarezza intorno all’approccio teorico che si intende utilizzare. Generalmente contemplano al loro interno differenti prospettive ed approcci. È da pensare ad una​​ prospettiva medico-biologica​​ entro l’apporto specifico dell’istituzione scolastica con attenzione puntata sull’individuazione precoce e di recupero dei casi più conclamati. Così pure occorre certamente un​​ approccio psicologico,​​ in cui l’attenzione è centrata sulla ricerca di meccanismi che si trovano alla base dei rapporti distorti fra l’individuo e la collettività, l’individuo e le cose, gli oggetti di consumo, l’individuo e le figure genitoriali ecc. L’indagine è cioè portata più che sugli agenti manifesti del disagio, sulle latenti disfunzioni psichiche cui è andato incontro il soggetto. Né si può trascurare un​​ approccio sociologico,​​ in cui l’attenzione è volta alla ricerca delle motivazioni e dei disagi individuali posti in relazione con il contesto sociale e culturale all’interno del quale l’individuo si colloca. Anche se in genere a ciascun approccio corrisponde un modello di p., non si dimostra di alcuna efficacia il considerarli come interpretazioni contrastanti o escludentesi. Appare invece meno riduttivo utilizzare alcune categorie concettuali capaci di offrire letture più integrali ed integrate dell’idea di p. e della sua possibile progettualità. Ciò comporta aver chiari: in primo luogo la rappresentazione che si ha dell’oggetto verso il quale si intende volgere la propria attenzione (droga, dispersione scolastica, microcriminalità, televisione, ecc.); in secondo luogo l’area d’intervento verso cui si vuole orientare la propria iniziativa (il singolo, la comunità ecc.); in terzo luogo i contenuti dell’intervento (promozione di cambiamenti di ordine culturale, psicologico, sociale); in quarto luogo le finalità «negative» (evitare i processi di emarginazione sociale, intervenire precocemente su fattori che potrebbero dar luogo a comportamenti autodistruttivi); infine le finalità «positive» (creazione di opportunità più consone ai bisogni dei giovani e capaci di favorirne una più concreta ed attiva integrazione nella società adulta). I più recenti orientamenti preferiscono puntare sugli elementi positivi attraverso il rinforzo delle doti e competenze dell’individuo (empowerment,​​ coping, autoefficacia, ecc.), favorendo un ambiente positivo che favorisca lo sviluppo di tali capacità. Pertanto, anche a livello metodologico, la p. richiede che, accanto ai fattori di rischio, da combattere o contenere, si sviluppi una corrispondente analisi dei fattori protettivi, su cui far leva per migliorare la situazione. Ciò significa sostenere la prosocialità più che combattere l’antisocialità. Da una filosofia che tende a contenere e gestire i rischi ad una che vuole promuovere e migliorare le condizioni di partenza e le risorse iniziali del ragazzo, che guarda con favore alle potenzialità attuali che il ragazzo possiede.

5.​​ La metodologia.​​ In tal senso l’obiettivo ultimo di una p. davvero efficace dovrebbe essere quello di produrre un​​ cambiamento​​ sia a livello individuale che sociale in cui i punti di riferimento costanti siano: la dimensione temporale (perché un progetto di p. sia davvero tale occorre un lasso di tempo mediamente lungo, seppur delimitato, capace di garantire la piena attuazione e di consentire l’operare di opportune verifiche in tappe intermedie); la dimensione della consapevolezza (ogni progetto mirato di p. deve avere chiari e definiti gli obiettivi che intende perseguire, deve sforzarsi di conoscere al meglio la realtà su cui intende intervenire ma soprattutto non deve considerare «oggetto passivo» coloro verso e per i quali il progetto è studiato); e la dimensione della coerenza (verso se stessi, verso il giovane e verso il progetto). D’altro canto lo stesso termine p. richiama ad una idea concreta centrata sul​​ fare,​​ sulla pratica attiva, sul coinvolgimento e l’interazione tra colui che propone (educatore) e colui che indica la strada sulla quale immettersi per raggiungerlo in maniera reale e totale (educando), in un continuo​​ feedback​​ fatto di regressioni e avanzamenti, di aggiustamenti e ripensamenti che ne garantiscono la qualità e l’autenticità. Ogni progetto di p. / promozione si prefigge di combattere un nemico che sa di non poter sconfiggere totalmente ma che spera di indebolire attraverso il «rinforzo», inteso come l’elaborazione di strategie non distruttive e di soluzione dei problemi, che può offrire al giovane in fase evolutiva. Potremmo perciò concludere affermando che​​ proprium​​ della pedagogia è la p. in quanto coincidente con l’azione educativa, cioè con il «venire prima», e con l’essere efficace attraverso una connotazione positiva che offra al giovane l’opportunità di realizzare il più compiutamente possibile il suo progetto di vita.

Bibliografia

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D. Castelli - G. Vettorato