STORIA DELLA PEDAGOGIA

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STORIA DELLA PEDAGOGIA

Come s. di un settore particolare (più che di una disciplina specifica), rientra nel discorso storico ed è nata ancora prima di un riconoscimento ufficiale della «pedagogia come scienza», almeno con riferimento alle istituzioni e, in certo senso, alla stessa educazione, come, per es., in A. H. Niemeyer (1754-1828). Si userà qui il lemma in senso molto comprensivo, per quanto suscettibile di distinzioni.

1.​​ Il​​ cammino storico:​​ le pubblicazioni di s.d.p. si sono moltiplicate in parallelo al consolidarsi della concezione classica della s. e del suo metodo, attorno alla metà del sec. XIX. In Italia, invece, con un po’ di ritardo. Gli inizi ne hanno denunciato un carattere pratico, mirato all’uso, più che critico-scientifico, donde lo sviluppo della manualistica. La riflessione successiva, che considerò la s.d.p., come la s. in genere, inserita tra le​​ Geisteswissenschaften​​ («scienze dello spirito»), secondo W. Dilthey, ne ha favorito un’elaborazione connessa, se non strettamente dipendente, a criteri e orientamenti teoretici, per non dire «ideologici». Infatti non solo si operava in modo spiccatamente selettivo, tra i materiali a disposizione, ma si procedeva in forma descrittiva, suppostamente asettica e, magari anche, edificante, con una lettura moralistica, allora assai diffusa, della s. in genere. Tale approccio intendeva evidenziare una continuità nelle linee di sviluppo in sintonia (o anche in contrasto) con principi e visioni del reale, per lo più di «scuola» o di corrente. Solo più tardi, gradualmente e lentamente​​ la critica,​​ nelle sue diverse espressioni, passò dalla s. anche alla s.d.p., inizialmente con un ruolo marginale, quando ancora le impostazioni e letture «ideologiche» prevalevano, e, in seguito, più rilevante, soprattutto al rendersi conto che le​​ traduzioni​​ erano, generalmente,​​ infedeli,​​ con conseguenze più e meno evidenti e pesanti. Tale preoccupazione filologica, fondamentalmente, contribuì anche al superamento e, anzi, all’integrazione di punti di vista ideologicamente contrastanti su un terreno meno soggettivo e più gratificante. Una forte spinta a questa​​ deideologizzazione​​ della s. in generale, e, di riflesso, di quella della pedagogia è venuta dal movimento promosso dalle «Annales d’Histoire Économique et Sociale», a partire dal 1929, in quanto si sono messi in evidenza altri interessi, altre fonti (anche orali), l’esigenza di problematicizzazione, di recupero di silenzi storici, di contrasti e differenze che spezzano quella continuità ideale, prima ricercata, e infine l’opportunità di collegare i tempi brevi con quelli lunghi in modo da ricavarne una diversa prospettiva (sia in senso verticale, diacronico e di livelli applicativi, che orizzontale, geografico-comparativo). Di qui derivava, con un’angolazione diversa, una più fondata possibilità di valutazione. Si è così venuta imponendo, a poco a poco, una rilevazione​​ di discontinuità​​ nel divenire storico-pedagogico, con una più attenta​​ valorizzazione del diverso​​ e del sotterraneo (se non sotterrato), ma, al tempo stesso​​ del comune,​​ del plurale di fronte all’antecedente prevalere del singolare. Si è dunque passati, con la mediazione della filologia, da un momento di subordinazione della s.d.p. a concezioni prevalentemente filosofiche, alla ricerca di una sua autonomia, da fondare su una miglior definizione di metodi e strumenti, su una più differenziata individuazione di fonti e sui parametri di riferimento delle scienze dell’educazione, nella scia di orientamenti già affermatisi all’estero (Francia e Inghilterra, specialmente). A questo indirizzo ha fatto riscontro il proliferare di studi più specialistici, con una suddivisione dei campi di indagine in settori e sotto-settori, con una loro identità (per es.,​​ ​​ s. dell’infanzia, dell’istruzione femminile e così via), pur inseriti in più ampi e complessi sistemi, che intervengono comunque con pesanti condizionamenti, soprattutto sociali. Donde, all’interno di una periodizzazione a lungo termine, l’importanza di curare la​​ contestualizzazione,​​ anche quando si intenda occuparsi di un personaggio singolo o di un’istituzione particolare, con espliciti riferimenti alla situazione politica, sociale, economica e culturale, nonché alle mentalità operanti.

2.​​ I​​ contenuti della s.d.p.:​​ da quanto sopra emerge che, in un primo tempo, la s.d.p. si è interessata ed occupata anzitutto di quanto le consentiva una lettura ideologica, con garanzia di continuità: le istituzioni, in primo luogo (famiglia, scuola, extrascuola); le idee e dunque le teorie educative, nonché i loro promotori, in subordine. Anzi, con l’affermarsi dell’idealismo, si è capovolta la priorità e si sono progressivamente trascurate le istituzioni, a vantaggio delle idee e dei sistemi. Oggi, come conseguenza degli sviluppi della ricerca storica generale, si può ipotizzare, non senza divergenze, che una​​ s. dell’accaduto in educazione​​ o, più semplicemente,​​ s. dell’educazione,​​ come concetto più generale e comprensivo, si articoli su​​ tre livelli: culturale,​​ istituzionale e prassico,​​ con uno sforzo però di​​ coglierne le interconnessioni e interdipendenze e di interpretarle.​​ a)​​ Il​​ livello culturale​​ è da intendersi in senso ampio, quasi antropologico, in cui le idee (sistematizzate o meno), in modo più e meno consapevole, hanno un ruolo direttivo dell’agire, tanto sulla base di collaudate esperienze, che sono state trasmesse e recepite, quanto in virtù di una revisione, personale o di gruppo, di quelle stesse tradizioni in vista di comportamenti diversi o anche come frutto di un’elaborazione teorica, suggerita da una propria analisi dell’esperienza oppure da tesi precedentemente formulate e sostenute. Questa «cultura», sia locale che a più vasto raggio, è decisiva nella formazione della​​ mentalità,​​ che si caratterizza per le sue aspettative, per gli interessi e per le valutazioni che dà, nella stimolazione e direzione dell’agire del soggetto. Come non si può parlare di educazione in senso astratto, se non come esercizio retorico, così non esistono idee o sistemi astratti, a sé stanti. L’una e le altre si ritrovano nel vissuto, nel concreto storico o di un personaggio o di gruppi o di esperienze, da cui finalmente si possono ricavare «rappresentazioni», come risultato di un’elaborazione intellettuale personale o comune, che dà origine appunto a idee e, se organicamente collegate, a «ideologie», in senso positivo, o, filosoficamente, a sistemi. Questi come tali non sono un «dato» storico, neppure entro i limiti consentiti per parlare di dato, ma il frutto di un’operazione astrattiva sul medesimo, che risulta invece di comportamenti, di azioni, di relazioni, che costituiscono effettivamente l’oggetto di studio e di valutazione dello storico. b)​​ Il​​ livello istituzionale,​​ che si occupa della famiglia, della scuola, dello Stato, della chiesa e altro ancora, in quanto agiscono o interferiscono sull’educazione, è portatore di una «cultura» e se ne fa promotore. In senso tuttavia più rigido, cristallizzato e conservatore, perché senza vita propria e con una tendenza all’omologazione di tutti coloro che vi fanno capo, di cui individua le espressioni negli usi e costumi, nelle tradizioni, nelle norme e leggi, che, scavalcando appunto il singolo, tendono a subordinarlo e a mantenerlo dipendente, anziché a favorirne la libertà e l’autonomia. Donde la ripetitività e il rischio, cui troppo spesso si cede all’interno delle istituzioni, dell’automatismo e dell’irresponsabilità, dell’incoscienza e incomprensione. Il cambiamento e l’innovazione sono assai più difficili in questo ambito, a causa della più resistente vischiosità delle istituzioni stesse, degli ostacoli che si frappongono, ritenendosi consolidate e dunque pressoché immutabili, del loro minor dinamismo, frenato dalla pluralità dei membri, non tutti e non sempre docili, e infine della preoccupazione vincente per la propria sopravvivenza, che ritengono minacciata da ogni variazione del consueto. In esse, conseguentemente, si è mirato (oggi, si spera, meno) per lo più all’istruzione per non dire all’indottrinamento, anziché a un’educazione responsabile, che privilegi il singolo soggetto con i suoi diritti, con tutte le sue esigenze e possibilità. c)​​ Il​​ livello prassico​​ dovrebbe, nei limiti del possibile, cogliere e tener conto dello sviluppo e della crescita umana del singolo, come dei gruppi, più e meno ampi, in rapporto all’ambiente in cui si vive, agli orientamenti dominanti e ai condizionamenti cui si è subordinati, definendone eventuali scarti e peculiarità e cercando di individuarne i fattori di promozione, nonché gli ostacoli. A questo livello si gioca il futuro dell’individuo, secondo l’esito, a breve, medio e lungo termine, dell’incontro-scontro tra le tendenze e possibilità del singolo soggetto o del gruppo e le richieste e norme della società più ampia o istituzione. Spesso non si indaga in questa linea o non si è in grado di venirne a capo, poiché indubbiamente la «memoria storica» è limitata, ma, se non se ne ricercano e individuano le fonti opportune, si finisce per amputarla ulteriormente. Infatti è assai più facile ritrovare e riconoscere le tradizioni più estese, le norme e le leggi, che le deviazioni dalle medesime, salvo casi di particolare incidenza storica. Un solo esempio. I dati internazionalmente divulgati sono espressione non della realtà di un Paese, ma delle sue leggi e decisioni ufficiali, che tuttavia, spesso, non trovano alcuna rispondenza nei fatti. Eppure la s. «effettuale» è esclusivamente​​ res gestae​​ (sia pure in senso ampio) e, in ogni caso, da quelle dovrebbe derivare la​​ historia rerum gestarum,​​ per riferirsi a una distinzione classica, benché un po’ riduttiva. In questo ambito rientrano, in quanto considerati nel loro esercizio, gli usi e costumi, che, a livello individuale, si traducono in​​ abitudini,​​ ed anche i​​ metodi​​ educativi. Il che non toglie che, in seconda istanza, si possa tentare di confrontarli e valutarli​​ in astratto,​​ teoricamente. Concludendo, è ancora da sottolineare l’interconnessione​​ e​​ interdipendenza​​ tra questi tre livelli: esse sono tanto strette da impedire, da un lato, una chiara spartizione del territorio pedagogico e, dall’altro, da richiedere indispensabilmente il ricorso all’interdisciplinarità,​​ vale a dire all’aiuto e alla collaborazione di altre competenze, che lo storico, per quanto preparato e aperto, non può, per lo più, avere in proprio. Sotto questo profilo si può correttamente parlare di un’aspirazione, anche della s.d.p., alla​​ totalità,​​ all’aver presenti tutti gli elementi e fattori che giocano nella vita umana. A questo punto si può pure guardare a una possibile articolazione dei contenuti in funzione di una distinzione di storie diverse. Più comunemente si parla di​​ s.d.p.,​​ se riferita alla sola​​ s. delle idee e dei «sistemi» educativi​​ (espressione, a mio avviso, da preferire); di​​ s. dell’educazione,​​ se si guarda alle​​ istituzioni​​ (​​ s. della scuola e delle istituzioni educative), o al​​ costume​​ e​​ metodi​​ educativi e così via, riconoscendo a quest’ultima quasi una​​ onnicomprensività.​​ 

3.​​ La metodologia della ricerca e altre considerazioni:​​ nell’entusiasmo dell’affermarsi di una «scienza» storica, nel sec. XIX, si è frequentemente parlato di «metodo storico», volendo rispondere a una delle caratteristiche di ogni scienza, nell’opinione di allora. D’altronde, all’epoca, esaurendosi la s. nella s. politica o quasi, il discorso di​​ un metodo​​ storico poteva apparire accettabile. Tuttavia con l’ampliarsi dei suoi ambiti, oggetti e strumenti, oggi, parlare di metodo storico non ha più senso, se non in quanto insieme di metodi e, perciò, è forse più opportuno far uso, con tale significato, del termine​​ metodologia.​​ Infatti, dato l’indispensabile ricorso all’interdisciplinarità diventa evidente l’utilizzazione di metodi molteplici e differenti, secondo il lavoro che si sta facendo. Ciò non toglie che anche per la s. dell’educazione si passi per i tre classici momenti, costitutivi di ogni ricerca: il​​ momento euristico,​​ quello​​ ermeneutico​​ e quello​​ critico​​ o valutativo. Il primo, teso al reperimento delle fonti e alla raccolta del materiale (bibliografico, testimoniale, filologico...), si colloca su un​​ piano​​ prevalentemente​​ descrittivo;​​ il secondo, che gioca anzitutto sulla contestualizzazione, per una più concreta e adeguata lettura del fenomeno che si studia, tenta un’elaborazione dei dati raccolti, confrontandoli, organizzandoli e collegandoli tra loro, e si propone una comprensione del fenomeno stesso, in​​ chiave​​ anche​​ esplicativa.​​ Indubbiamente il termine «ermeneutico» può suggerire altre aperture, che non è qui il caso di considerare, sebbene si riscontrino, solitamente, su questo livello le più usuali deficienze delle ricerche storico-pedagogiche. Infine il momento​​ critico​​ o valutativo si suddivide in due prospettive: quella​​ sincronica,​​ che punta a definire una valutazione del dato tra i suoi contemporanei, e quella​​ diacronica,​​ che invece, guardando il dato in proiezione sul presente e, nei limiti del possibile, persino sul futuro, ne tenta una valutazione per i contemporanei dello storico. Sotto questo profilo, ci si può aprire ad altre considerazioni valide per la s. in genere, che tuttavia conviene richiamare. In primo luogo, sono da denunciare alcuni​​ errori​​ ricorrenti, specie a livello di divulgazione storica. L’incidenza anzitutto di​​ pregiudizi​​ di ogni genere o di​​ generalizzazioni​​ indebite, che danno luogo agli stereotipi, solitamente duri a morire. Inoltre il facile uso di​​ illusioni retrospettive,​​ per cui addirittura si trasferisce nel passato la cultura o altre tipicità del presente (come quando si creano i​​ precursori​​ di idee o movimenti posteriori, di cui, all’epoca, non si aveva alcun sentore). Infine, limitandosi a cenni esemplificativi, l’etnocentrismo​​ e il​​ mito dell’origine,​​ in virtù dei quali si giudica tutto dalla situazione in cui ci si trova​​ considerata come ideale​​ oppure si ritiene che,​​ trovata l’origine​​ di un fatto, sia​​ tutto spiegato​​ o ci si illude che un​​ ritorno all’origine risolva tutti i problemi.​​ Un ultimo rilievo riguarda​​ lo storico,​​ da cui nasce appunto la​​ historia rerum gestarum,​​ non senza il peso di condizionamenti dovuti a lui stesso. Infatti se la s. è continuamente​​ in fieri,​​ si può riscrivere in continuazione, non è soltanto perché si possono trovare nuove fonti o dati oppure perché, in base a interessi e interrogativi comuni, la si legge e usa in una determinata prospettiva, ma anche perché il singolo ricercatore ha interessi propri, delle domande personali, cui cerca una risposta, e, si voglia o no (nonostante la dichiarata «morte delle ideologie»), qualche idea o suggestione che intende far passare, utilizzando dati storici. Non ci si riferisce, ovviamente, a palesi falsificazioni, come in altri tempi si è fatto, bensì a scelte, angolature da cui porsi, obiettivi da perseguire, che danno dei fenomeni ed eventi una lettura personalizzata, che, d’altro canto, è inevitabile, visto che lo storico è l’autore della s. scritta. L’importante, per il lettore critico, sarà arrivare, sulla base di tutte le informazioni che riesce ad avere, a discernere quegli elementi di soggettività, che se non inquinano (vista la loro ineluttabilità), tipicizzano un apporto storico.

Bibliografia

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B. A. Bellerate