ROUSSEAU Jean-Jacques

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ROUSSEAU Jean-Jacques

n. a Ginevra nel 1712 - m. a Ermenonville nel 1778, filosofo e pedagogista svizzero.

1.​​ Vita.​​ Dominio del sentimento, fantasticherie, spirito di avventura, ricerca del nuovo: sono i tratti che caratterizzano R. fin dalla sua infanzia. E ancora: incapacità di sottomettersi a qualsiasi tipo di attività, e perciò insofferenza per l’assunzione di ruoli sociali. È domestico, segretario, incisore, copista, ma anche precettore, musicista, seminarista, cattolico e protestante e poi deista, incapace di coerenza, anzi portato all’esaltazione, e infine al paradosso. Vinse nel 1750 il concorso bandito dall’Accademia di Digione, e da quel tempo i suoi contatti con gli intellettuali si fanno più continui, ma non lo portano, per l’incostanza che lo domina, ad inserirsi nel mondo illuminista. Anche Parigi lo disturba, si rifugia in campagna, dove sembra trovare tranquillità e possibilità di meditazioni. La condanna dei suoi scritti maggiori – l’Emilio​​ e il​​ Contratto sociale​​ – lo allontana dalla Francia; e vive un nuovo periodo di vita errabonda. Rientra in Francia; soggiorna ad Ermenonville dove muore.

2.​​ Paradossalità e dover essere.​​ «Preferisco essere uomo del paradosso che uomo dei pregiudizi»: così afferma R. nel secondo libro dell’Emilio.​​ E in corrispondenza a quanto era stato definito nella​​ Encyclopédie,​​ il paradosso è proposta apparentemente assurda, che tuttavia presenta motivi di verità. In realtà, è termine che, interpretato in riferimento all’opposto «pregiudizio», non solo sottolinea il nuovo con cui R. ritiene di caratterizzare il suo pensiero; ma spiega anche la sua reazione alla convenzionalità del costume sociale del tempo, la manifestazione di quel tanto di incoerente, talvolta di disorganico, certamente di non coerentemente logico, di cui sono caratterizzati i discorsi rousseauiani. Questi non solo richiedono un continuo procedere dall’uno all’altro scritto, ma sono portati ad evidenziare problemi, anzi problemi aperti, piuttosto che soluzioni definitive. In realtà il paradosso, pur nella sua almeno parziale dimensione utopica, permette una lettura delle opere di R. che evita il radicalismo estremo di una interpretazione del tutto critica e negativa, onde R. sarebbe il visionario senza capacità di contatti e di controlli da parte della realtà; interpretazione, questa, che in parte si contrappone all’altra, che sottolinea l’estremo frammentismo degli scritti, e perciò l’asistematicità del programma, sia quello politico, sia quello educativo. Certo è che R. non ci offre trattazioni sistematiche: e ne dà continua conferma. Ma ciò dipende dal fatto che il pensatore guarda al «dover essere», più che all’immediatamente «fattibile», che è sempre «ciò che si fa». Frammentarismo ed irrealtà: R. lo riconosce, e per questo ritiene possibile che dei suoi scritti si parli come di​​ fantasticherie.​​ Si tratta, allora, di sapere​​ leggere​​ «oltre il rigo», al di là della convenzionalità del senso comune, così che dal paradosso possa emergere, nel contrasto con il pregiudizio, una dialettica che impone, da una parte il continuo riferimento al contesto e dunque alla situazione prospettata, ma dall’altra la inevitabilità di sfuggire alla tentazione di un adeguamento al ciò che è. È per questo che l’opera di R. è piuttosto «romanzo» che «trattato» di un programma per un «imparare a vivere». Dove è solo il ripensamento critico che può legittimarlo: «lettore volgare, perdonate i miei paradossi: bisogna farne quando si riflette?». Il riflettere è atteggiamento critico, che conduce ad una valutazione di ciò che è, ma insieme a prospettare – che non vuol dire ancora un progettare concreto – ciò che si vorrebbe che fosse, o che dovrebbe essere. È il rapporto tra volere e dovere, in tensione nei confronti delle possibilità dell’ideale, a caratterizzare un pensiero che, in ogni caso, mai potrà essere definito​​ astratto:​​ al più se ne parli come di una​​ teoria​​ che, almeno dal punto di vista delle​​ idee,​​ non può non confrontarsi con il concreto della esperienza.

3.​​ Natura e libertà.​​ Due i termini-concetti-chiave per una​​ equilibrata​​ lettura di R.:​​ natura​​ e​​ libertà.​​ Ma entrambi i termini non sono univoci, logicamente definibili, e ciò anche perché se ne parla come «atteggiamenti» della prassi, così che sempre il molteplice domina sull’uno, il vario sull’identico. Certo la natura è dichiarata il​​ bene,​​ la naturalità la​​ bontà:​​ «tutto è bene uscendo dalle mani dell’Autore delle cose». Così inizia l’Emilio,​​ ed è dichiarazione che, con modalità varie, impronta tutti gli scritti, e quasi sempre in correlazione-opposizione con il​​ male,​​ prodotto dalle mani dell’uomo. Duplice è la natura cui si fa riferimento: quella​​ fisica,​​ l’ambiente​​ che viene privilegiato nella sua dimensione spontanea, immediata: la campagna e non la città, che è costruzione umana. È preferenza che verrà ampiamente accolta nel mondo romantico e che costituirà il tema preferito di non pochi scrittori, romanzieri e poeti di stile «sentimentale» dell’Ottocento. È la campagna ad accogliere Emilio per la sua educazione: solo in quell’ambiente egli potrà non risentire delle degenerazioni della vita sociale. Non per questo la conservazione – o la ricostituzione – della naturalità significherà ricondurre l’educazione ad​​ individualità,​​ o a fare dell’uomo «un selvaggio» o un abitante dei boschi o delle caverne. Si tratta di evitare che l’uomo venga «travolto dalle passioni» ma anche «dalle opinioni» degli uomini, così che egli possa «vedere con i​​ suoi​​ occhi e sentire con il​​ suo​​ cuore». Ancora qui riappare la radicalità del paradosso usato per sconfiggere l’artificiosità dei pregiudizi. Certo la natura-ambiente ha la sua inflessibilità: è quel che è, così che le​​ cose​​ si impongono all’uomo, prescrivendo l’uso di strumenti e di modalità atti a permettergli l’utilizzazione dell’esperienza a proprio vantaggio. Infatti l’uomo naturalmente tende alla felicità, che è​​ equilibrio di forze​​ ​​ quelle offerte dall’ambiente e quelle costitutive della natura umana – e​​ di bisogni,​​ quelli della crescita umana (dalla puerizia alla giovinezza) riscontrabile negli esiti del​​ piacere,​​ dell’utile,​​ del​​ bene.​​ Si tratta di bisogni naturali: che caratterizzano l’altra faccia del naturale, la natura «originaria» dell’uomo – che è spesso denominata​​ carattere,​​ ma forse meglio si dovrebbe dire «temperamento» – che non si identifica con una solitudine individualistica, come troppo affrettati interpreti hanno concluso. Le dichiarazioni di R. sono esplicite: «l’uomo è socievole per sua natura»; è «fatto per vivere con gli uomini». Ne danno esplicita conferma il quarto e il quinto libro dell’Emilio,​​ ma ancor più il​​ Contratto sociale,​​ dove viene prospettata la via per uscire dallo stato di forza, che mette ciascuno in contrasto con l’altro, e pervenire, attraverso lo stato di diritto, allo stato di realizzazione della piena libertà morale, che non è solo il vertice cui deve pervenire il singolo mediante una corretta educ. naturale, ma anche il contrassegno di quella​​ Res pubblica,​​ in cui si realizza politicamente il bene comune. È un fatto che allo stretto rapporto delle due maggiori opere, l’Emilio​​ e il​​ Contratto sociale,​​ gran parte degli studiosi ha dato scarso rilievo, preferendo piuttosto l’antitesi, basata sul​​ naturalismo​​ dell’​​ Emilio​​ ​​ letto in chiave «individualistica» – e sulla​​ solidarietà​​ di un «contratto», redatto necessariamente in termini di socialità e di politicità.

4. L’«uomo intero».​​ L’inadeguata, perché unilaterale e superficiale, interpretazione dell’uomo naturale​​ ha impedito quell’andare oltre la lettera del dettato, per coglierne l’intenso significato problematico. Eppure R. è, in questo, quanto mai esplicito. «L’uomo naturale è tutto per sé; è l’unità numerica, l’intero assoluto che non ha rapporto che con se stesso o con il suo simile. L’uomo civile non è che una unità frazionata dipendente dal denominatore, e il cui valore è in rapporto con l’intero che è il corpo sociale». È distinzione essenziale, questa, dell’uomo intero dall’uomo frazionato che vive ed esercita i suoi ruoli sociali e professionali. «Nell’ordine sociale in cui tutti i posti sono precisati ciascuno deve essere allevato per il proprio»: su questa base si può intendere l’obiettivo dell’educazione naturale comune a quello del contratto sociale. Qui è la​​ volontà generale​​ ​​ la volontà degli uomini​​ interi​​ ​​ e non la​​ volontà di tutti​​ ​​ gli uomini​​ frazionati​​ ​​ a permettere la realizzazione di uno Stato tutto rivolto al «bene comune»; nella educazione naturale è la ricostituzione dell’interezza dell’uomo o, per dirlo con altra espressione, dell’umanità dell’uomo,​​ a dover essere perseguita, anche perché altrimenti la stessa sua​​ libertà​​ verrebbe intaccata, essendo inevitabilmente l’agire sociale e professionale legato ai limiti dei ruoli. «Nell’ordine naturale, essendo gli uomini tutti uguali, la loro vocazione comune è lo stato di uomo». Come si vede, viene chiaramente prospettato l’obiettivo di sempre: riportare il ruolo all’uomo, e non ridurre l’uomo al suo ruolo. È per questo che R. è in condizione di presentare la famiglia come prima società naturale; ma anche di considerare naturali gli esiti politici di quelle comunità sociali dove non il numero bensì la​​ qualità​​ ​​ l’intero naturale – è il punto di riferimento. Il «bene comune» non esclude una considerazione meritocratica della società, a condizione che il merito professionale non trascuri il valore dell’uomo intero.

5.​​ Mente,​​ cuore,​​ socialità.​​ A smentire l’antisocialità della pedagogia di R. sta anche, fra gli scritti considerati minori, il​​ Progetto per l’educazione del signor Saint-Marie,​​ dove il ventottenne scrittore richiama l’attenzione sulla necessaria collaborazione educativa tra genitori e precettori, e sulla solida azione autoritaria – capace di castigare e non solo di lodare – precisando che in ogni caso bisogna insegnare ad​​ imparare a vivere​​ fin dai primissimi anni dell’infanzia. Un più ampio programma di educazione sociale troviamo nelle​​ Considerazioni sul governo della Polonia​​ (1772), dove la dimensione nazionale dell’educazione viene privilegiata nel quadro di un programma d’insegnamento. Anche l’accentuato sentimentalismo della​​ Nuova Eloisa​​ (1758) riconosce il primato dell’educazione del cuore rispetto all’educazione della mente, così precisando la​​ natura​​ dell’infanzia che «bimbi debbono essere prima che uomini». L’educazione del cuore è preminente anche nel programma educativo di Sofia, che deve essere formata per​​ compiacere​​ Emilio, il suo futuro compagno di vita. Preceduto dal saggio, vincitore del Concorso bandito dall’Accademia di Digione​​ «Se il progresso delle scienze e delle arti abbia contribuito alla corruzione o alla purificazione dei costumi»,​​ e da un secondo saggio sulla​​ «Origine e il fondamento della ineguaglianza tra gli uomini»,​​ è il Discorso sulla​​ Economia politica​​ (1754-55) che offre, accanto alle indicazioni di socialità riguardanti l’educazione, una chiara presentazione delle tematiche riguardanti il vivere sociale e pubblico. Tali temi sono ripresi e più ampiamente discussi nel​​ Contratto sociale​​ del 1762, che vuole essere una ricerca riguardante il «se, nell’ordine civile, ci possa essere qualche regola di amministrazione legittima e sicura, prendendo gli uomini quali sono, e le leggi quali possono essere». Si tratta, in sostanza, di ricercare se l’uomo, nato libero, e perciò costitutivamente libero, possa conservare la sua libertà, o forse anche potenziarla, senza cadere in catene. Il costituirsi della società non deve infatti né diminuire né annullare la libertà di ciascuno, che è diritto cui non si può rinunciare, perché ciò significherebbe «rinunciare alla propria qualità d’uomo». La proposta di costituire una società fondata sulla volontà generale, significa considerare l’aspetto​​ qualitativo​​ dell’uomo, e non la quantità, il numero degli associati, tanto meno fondare la società – lo Stato – sul rapporto maggioranza-minoranza. Per questo R. preferisce parlare di​​ Res-publica​​ piuttosto che di democrazia, solo così attuandosi il passaggio dallo stato di natura (la libertà naturale) allo stato civile (la libertà civile), provocando nell’uomo il cambiamento dell’istinto in giustizia, così che «ogni cittadino non pensi che con la sua testa».

6.​​ Infanzia e religiosità.​​ Ancora due aspetti del pensiero di R. debbono essere evidenziati, sempre entro i limiti di questa sintetica rassegna. Il primo è il riconoscimento dell’infanzia come centro e principio della considerazione educativa. La esplicita dichiarazione che «l’infanzia non è punto conosciuta», pur nella sua paradossalità, conduce R. a pretendere che il fanciullo non sia più da considerare come un uomo in miniatura, così da dover trasformare in atto questa sua potenzialità. Importa considerare il fanciullo per quel che egli è prima di essere adulto:​​ iuxta propria principia.​​ Ciò riguarda anche tutte le altre fasi della crescita biologica e spirituale dell’uomo. Contro l’adultismo ancora dominante ai suoi tempi, R. pone le richieste di un​​ puerocentrismo​​ che troverà dopo di lui la più ampia diffusione. L’altro aspetto riguarda la dimensione educativa della religiosità: essa viene collocata solo verso i quindici anni, in attesa che si manifestino le capacità razionali, peraltro sempre raccordate con le voci del cuore e del sentimento.​​ La professione di fede del Vicario savoiardo​​ si muove così tra​​ deismo​​ e​​ teismo,​​ non senza venature di fideismo. Il pedagogista riconosce che l’uomo non può prescindere da un suo rapportarsi con la Divinità, con l’Assoluto. Vi è una volontà che anima e governa il mondo, della quale si parla in termini di potenza, di bontà, di intelligenza. Perciò la religione è naturale, e dunque lascia libero Emilio di assumere altro atteggiamento: «Non ho il diritto di essere la sua guida; spetta a lui solo di scegliere». Al di là della considerazione dei contenuti della fede, è il rapporto dell’umano con il divino che importa sottolineare.

7.​​ Osservazioni conclusive.​​ Se vogliamo accettare la precisazione di R. «non aspettate da me un discorso sapiente né profondi ragionamenti. Io non sono un grande filosofo e mi curo poco di esserlo»; e se, ancor più, ci rendiamo conto del biografismo che caratterizza tutti i suoi scritti – e non solo le​​ Confessioni,​​ I dialoghi di R. giudice di J.J.​​ e​​ Le passeggiate solitarie​​ ​​ la troppo ripetuta critica di un R. disorganico, quando non anche contraddittorio, dove l’immediatezza del sentimento domina troppo spesso la linearità del razionale, ci può trovare consenzienti. Ma ciò a condizione di considerarla come una chiara testimonianza, una schietta documentazione di uno stile che è del discorso perché è dell’esperienza vissuta. Essa comunque nulla toglie alla ricca problematicità di un’analisi che sempre deve andare oltre l’interpretazione letterale, per evidenziare proposte, progetti, ideali, a volte utopie, tuttavia sempre contrassegnati dal vigoroso ripensamento delle due idee guida: la​​ natura​​ e la​​ libertà.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ R. J.-J.,Oeuvres complètes,​​ a cura di M. Lannay, Paris, Seuil, 1971;​​ Opere,​​ a cura di P. Rossi, Firenze, Sansoni, 1972;​​ Julie o la nuova Eloisa, tr. it., Milano, Casini, 1988;​​ Emilio o dell’educazione, tr. integrale di P. Massimi, Roma, Armando, 1995; b)​​ Studi:​​ Cassirer E.,​​ Il problema di J.J.R.,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1948; Chevallier J. J.,​​ Le grandi opere del pensiero politico. Da Machiavelli ai nostri giorni, Bologna, Il Mulino, 1968; Roggerone G. A., «J. J. R.», in​​ Nuove questioni di storia della pedagogia, vol. II, Brescia, La Scuola, 1977, 109-166; Xodo C.,​​ Maître de soi. L’idea di libertà nel pensiero pedagogico di R., Ibid., 1984; Iannello N.,​​ L’ordine degli uomini: antropologia e politica nel pensiero di Thomas Hobbes e di J.-J.R., Roma-Pisa, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 1998; Pesare F.,​​ Politica e educazione in J.J.R., Bari, Adriatica, 2000; Zedda M.,​​ Rileggendo l’Emilio. Itinerari di pedagogia rousseauiana, Roma, Armando, 2003; Gatti R., «R.», in​​ Enciclopedia Filosofica, vol. X, Milano, Bompiani, 2006, 9870-9878.

G. Flores d’Arcais