SENSO COMUNE

image_pdfimage_print

 

SENSO COMUNE

Termine dai molti significati, dal campo gnoseologico a quello morale, estetico, pratico, accompagnati da diverse e spesso contrastanti valutazioni.

1. La filosofia aristotelica parla di s.c. per indicare la facoltà e l’organo sensitivo fondamentale che permette la coscienza delle sensazioni stesse, cioè di «sentire di sentire» (Arist.,​​ De somn. et vig.,​​ 2, 455 a 13); l’unificazione dei dati dei sensi esterni in un unico atto percettivo (Arist.,​​ De anima,​​ III, 1, 425 a 14); e il loro confronto (Ivi,​​ 427 a). Grazie ad esso si avrebbe la percezione dei contenuti che appartengono ad ogni sensazione (i «sensibili comuni»: la figura, il numero, la grandezza, la posizione, il movimento, ecc.). Più largamente, il s.c. è visto come capacità di giudicare in generale.

2. In​​ ​​ Cicerone (De orat.,​​ I, 3, 12) e in​​ ​​ Seneca (Epistole,​​ 5, 4) il s.c. viene a designare il modo di sentire generale di un popolo, di una nazione, del genere umano, come dirà anche G. B. Vico (Scienza Nuova,​​ 1744, Degnità 12). Tramite esso si può parlare di «consenso universale», perché rimanda a quelle verità su cui acconsente la maggior parte degli uomini, frutto più di tradizione che di riflessione sistematica. Questa posizione nel sec. XVIII è stata teorizzata dalla Scuola Scozzese, soprattutto ad opera di T. Reid (1710-1796), arrivando a quella che fu denominata «filosofia del s.c.». In polemica diretta con il fenomenismo scetticheggiante di D. Hume (1711-1776), ci si rifà al s.c., inteso come «istinto originario», che permette l’intuizione di quelle «credenze» (come l’esistenza del mondo esterno o il principio di causalità), che costituiscono il fondamento di verità di ogni conoscenza riflessa. La percezione, infatti, non è solo apprensione dell’oggetto, ma anche constatazione della presenza diretta e immediata dell’oggetto stesso alla coscienza. Negli ambienti anglosassoni il s.c. era del resto già stato concepito come capacità «istintiva» di valutazione morale (A. A. C. Shaftesbury, 1671-1713) o come disposizione naturale a percepire ed apprezzare immediatamente l’ordine e la regolarità che costituiscono il s. del bello e il «s. della virtù», vale a dire il s. morale originario (F. Hutcheson, 1694-1746). Il s.c. fu criticato da I. Kant, in quanto basato su «concetti oscuramente rappresentati», ma ripreso come principio del gusto, cioè come capacità di giudicare gli oggetti secondo il sentimento (Crit. del Giud.,​​ 20).

3. Nel corso della storia il s.c. è preso in considerazione anche a livello di giudizio pratico. Descartes, all’inizio del​​ Discorso sul metodo,​​ lo accosta al «buon s.». Con tono ironico afferma che «è la cosa del mondo meglio dipartita». Ma egli lo pensa come «facoltà di giudicare rettamente, e di distinguere il vero dal falso» e perciò lo dice sinonimo di «ragione». L’inganno sarebbe frutto di un cattivo uso di esso, in quanto «non basta essere ben forniti di ingegno, quel che più conta è indirizzarlo bene». Così inteso il s.c. è la stessa ragione nel suo uso spontaneo. E può essere vista come «sana ragione», vale a dire come disposizione mentale all’equilibrio e alla misura, specie in funzione pratica, quando c’è da agire o da esprimere giudizi sui problemi della vita in situazione di non immediata evidenza logica. Questa «assennatezza» pratica, che aiuta il discernimento e la presa di decisione in circostanze problematiche, accosta il s.c. alla​​ ​​ prudenza e alla saggezza aristotelica (frónesis),​​ soprattutto per ciò che riguarda la ponderazione dei mezzi rispetto al fine dell’azione.

4. Il s.c., spesso visto negativamente come fonte di pregiudizi e di fissazioni concettuali, come pure di convenzionalismi sociali, è stato rivalutato nel nostro sec. da​​ ​​ Dewey e da G. E. Moore. Il primo mette in luce che il s.c. con le sue tradizioni, indicazioni valoriali, tecniche ed operative, culturalmente codificate, sostanzia le interazioni sociali e quelle con l’ambiente. Il secondo ribadisce che una seria analisi delle convinzioni del s.c. sarebbe molto importante come antidoto alle astruserie filosofiche. Per conto suo K. Popper afferma che «scienza, filosofia, pensiero razionale» devono «cominciare dal s.c.», il quale ovviamente è da assoggettare a critica per farlo assurgere a dignità di conoscenza rigorosa (Objective knowledge,​​ cap. 2). Per altri invece, come G. Bachelard, la ricerca scientifica ha da lottare contro la superficialità, la dogmaticità, l’ingannevolezza del s.c. Oggi, nel contesto del pluralismo e multi-culturalismo contemporaneo, c’è una rivalutazione del s.c. in funzione del fondamento comune alle diverse formulazioni di verità. Si pensi in questa linea alle dichiarazioni sui diritti umani.

5. Dal punto di vista pedagogico il s.c. diventa un luogo classico delle tensioni che attraversano l’apprendimento dei contenuti culturali. L’insegnamento e l’educazione hanno infatti da muoversi sempre tra trasmissione e innovazione, tra assunzione del patrimonio sociale di cultura e personalizzazione critica di esso, tra sostegno all’identità e apertura al nuovo e al diverso, tra stimolazione all’appartenenza di gruppo e sviluppo dell’originalità individuale. A livello metodologico sono inoltre chiamati a favorire la correlazione tra esperienza di cui i soggetti in formazione sono portatori e qualità scientifica della cultura scolastica. Certamente acquista qui il suo giusto peso una solida formazione scientifica, storica, culturale.

Bibliografia

Moore G. E., «In difesa del s.c.», in​​ Saggi filosofici,​​ Milano, Lampugnani Nigri, 1970; Siciliani De Cumis N.,​​ Filologia,​​ politica e didattica del buon s., Torino, Loescher, 1980; Livi A.,​​ Filosofia del s.c.,​​ Milano, Ares, 1990; Cavallini G.,​​ La formazione dei concetti scientifici. S.c.,​​ scienza,​​ apprendimento,​​ Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1995; Di Ceglie R. (Ed.),​​ S.c. e verità. Verso un fondamento comune alle diverse formulazioni di verità, Segni, Editrice EDIVI, 2004.

C. Nanni