LINGUAGGIO

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LINGUAGGIO

Si definisce l.: a) la capacità dell’uomo di scambiare informazioni o comunque di entrare in comunicazione con i propri simili; b) l’oggetto di tale scambio comunicativo, in quanto strutturato in codici e lessici; c) la pratica sociale attraverso la quale detta facoltà produce il suo oggetto. Ciascuna di queste definizioni implicherebbe competenze disciplinari articolate ed eterogenee che riguardano la psicolinguistica, la linguistica, la semiologia, la sociologia, la filosofia del l., rendendo ragione della indiscussa centralità del l. nel pensiero contemporaneo. Tenendo sullo sfondo tale orizzonte problematico è possibile indicare almeno i nodi attorno ai quali il dibattito teorico si è volta a volta organizzato.

1.​​ Il l.​​ come facoltà comunicativa.​​ La linguistica ha sin dall’inizio (Saussure) chiarito la differenza del l. rispetto al fenomeno della lingua pensata come «il prodotto sociale della facoltà del l.», o meglio come «un insieme di convenzioni adottate all’interno di un gruppo di individui per consentire l’uso sociale di questa facoltà». Con questo, essa assume anche un ben preciso punto di vista circa l’origine del l., optando per l’ipotesi convenzionalista, già sostenuta da Ermogene nel​​ Cratilo​​ platonico. Secondo questa posizione teorica, il rapporto che lega la materialità significante della parola (piano dell’espressione) con il significato cui essa rinvia (piano del contenuto) è puramente arbitrario: quindi, ad esempio, non vi è una ragione particolare per cui il noto animale lanuto si chiami pecora in italiano, sheep in inglese o ovelha in portoghese. A questa ipotesi si oppone quella naturalista che, facendo leva soprattutto sullo studio delle onomatopee, evidenzia invece il forte radicamento della parola alle cose: così il verbo tintinnare avrebbe a che fare con il rumore della moneta quando rimbalza più volte per terra. Decidere dell’origine naturale o convenzionale del l. significa decidere del suo valore strumentale. La tradizione occidentale ha sempre concepito il l. come un mezzo attraverso il quale veicolare messaggi. Contro questa concezione strumentalista da più parti (Heidegger, Wittgenstein, Gadamer, Habermas) si è reagito anche in ragione della riscoperta del nesso di coappartenenza tra essere e l. I risultati di questo ripensamento vanno nella direzione sia di una riflessione sulla profondità della dizione metaforica (Ricoeur) come l. dell’essere, sia, più in generale, di un ripensamento dell’ontologia e dell’antropologia proprio a partire dalla centralità del l.

2.​​ Il l. oggetto.​​ La​​ ​​ semiologia ma anche le altre scienze umane e sociali hanno ormai fissato la scansione del l. nelle due grandi aree del verbale e del non verbale. Il l. verbale va inteso come un enunciato (o un insieme di enunciati) orale o scritto la cui funzione è di descrivere stati di cose (constativo) o produrre effetti nel destinatario (performativo). Più articolato il discorso nel caso del l. non verbale. Ad esso si possono ricondurre infatti: gli elementi para-linguistici (mimica, gestualità, prossemica; tono, timbro e altezza della voce), gli elementi sonori (rumori e musica), gli elementi iconici. In entrambi i casi (verbale e non verbale) è facile riconoscere una possibilità di analisi del l. ad almeno tre livelli (Morris): il livello sintattico delle relazioni, interne al sistema linguistico, tra i suoi elementi costitutivi; il livello semantico della capacità di questo sistema di rinviare a una determinata struttura simbolica; il livello pragmatico della sua efficacia comunicativa. Si tratta in sostanza, secondo un’altra nota terminologia (Austin), delle tre dimensioni del l. come sistema di segni (locuzione), sedimentazione di contenuti (illocuzione), produzione di comportamenti (perlocuzione). Soprattutto quest’ultima dimensione è oggi al centro dell’attenzione delle scienze sociali tanto da giustificare prima la nascita e poi l’affermazione della pragmatica (Levinson) come nuovo campo disciplinare.

3.​​ Il l.​​ come pratica sociale.​​ Lo scambio comunicativo, l’interazione fra i parlanti, è ciò che consente di definire il l. come una pratica sociale, forse la più rilevante delle pratiche sociali umane. In quest’ottica si può senz’altro dire che il l. è costitutivo della struttura profonda della persona, cioè del suo essere in relazione. Secondo il vecchio paradosso spiritualista, infatti, anche per parlare da solo a solo, con me stesso, nel chiuso silenzioso della mia coscienza, ho bisogno del l. A maggior ragione non può prescindere dal l. l’altro movimento relazionale, quello che pone in rapporto persona e persona. Come una lunga tradizione teoretica ha messo in luce (Hegel, Husserl, Sartre) la costruzione della coscienza trova nel riconoscimento, e quindi nell’incontro con l’altro, il proprio momento insostituibile. Nella misura in cui il l. rende possibile tale incontro, esso si lascia comprendere come condizione del formarsi di quella struttura socioantropologicamente importantissima che è l’intersoggettività. Lo si comprende bene, oggi, se si pensa alla rilevanza che l’analisi della comunicazione ha assunto nello studio dei processi di formazione in rete telematica o delle culture giovanili.

4.​​ L’importanza educativa.​​ Proprio in relazione a questo spazio umano e sociale si può comprendere l’importanza educativa del l. che si può ricondurre ad almeno tre rilievi. Anzitutto, come la sociologia dell’educazione neomarxista e certa pedagogia cattolica (Don Milani) hanno indicato, educare al l. significa ridurre lo​​ ​​ svantaggio sociale. Perché questo sia possibile è necessario smettere di pensare l’educazione linguistica come apprendimento di abilità (alfabetiche) in vista di prove da superare (Postman): questo tipo di educazione, infatti, mantiene anziché ridurre lo svantaggio (Bourdieu). La nuova concezione dell’insegnamento del l. che occorre promuovere intende il l. come capacità di porre domande, di elaborare metafore che sintetizzino la conoscenza, di produrre definizioni (Postman): in sostanza il passaggio auspicato è da una concezione strumentale e riproduttiva del l., a una concezione culturale ed espressiva. In secondo luogo, l’educazione linguistica potrebbe configurarsi come vera e propria meta-educazione in grado di porre in dialogo le diverse discipline. A prescindere dal set di competenze che le appartengono, ogni disciplina è anzitutto un gioco linguistico dotato di elementi e di regole: lo è evidentemente la letteratura, ma lo sono anche la matematica e la biologia che servono, come direbbe Galileo proprio con metafora linguistica, a leggere il libro della natura. Capire questo implica il compito di ogni educatore di educare a quel tipo particolare di l. in cui il sapere della sua area disciplinare si esprime. Non solo. Consente di ripensare su base linguistica seria l’equivoca interpretazione della transdisciplinarità (o​​ ​​ interdisciplinarità) come semplice convergenza sui contenuti. Da ultimo, proprio alla luce di quanto detto è possibile indicare una terza valenza educativa del l. Esso si presenta all’educatore come un formidabile strumento metodologico per l’approccio alla complessità nel senso, se non di una sua riduzione, almeno dell’offerta al soggetto di una importante mappa cognitiva ai fini di un suo più facile orientamento.

Bibliografia

Morris C.,​​ Lineamenti di una teoria dei segni,​​ Torino, Paravia,​​ 21970; Austin J. L.,​​ Come fare cose con parole,​​ Casale Monferrato (AL), Marietti, 1974; Saussure F.,​​ Corso di linguistica generale,​​ Roma / Bari, Laterza,​​ 51987; Bertuccelli Papi M.,​​ Che cos’è la pragmatica,​​ Milano, Bompiani, 1993; Ferrari S.,​​ Metodi e strumenti per l’analisi psicopedagogia dei forum, Milano, Guerini Studio, 2006.​​ 

P. C. Rivoltella​​