INSEGNANTE

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INSEGNANTE

Dal lat.​​ insignare:​​ indicare (da «indice», mostrare con il dito della mano)​​ mediante segni,​​ marcare qualcosa con un contrassegno, significare, esprimere: corrisponde all’azione di tradurre in rappresentazione – in «segni» – la realtà che non è possibile, conveniente o sicuro, conoscere adeguatamente attraverso l’esperienza diretta, e pertanto richiede l’intervento efficace di una mediazione –​​ ​​ l’insegnamento, che sostituisce la realtà con l’indicazione dei corrispondenti segni convenzionali – e di un mediatore – appunto, l’i. Espressione attestata già nell’XI sec., si generalizza nell’uso con la diffusione, a partire dal XVII, del​​ Collegium,​​ la scuola burocratica dell’età moderna che si è prolungata nei sistemi contemporanei di educazione formale. Si dà una stretta correlazione fra sviluppo organizzativo dell’istituzione scolastica e definizione amministrativa del «ruolo» dell’i., fino a farlo coincidere sic et simpliciter con il​​ «personale che,​​ all’interno delle scuole,​​ è incaricato dell’educazione​​ degli alunni»​​ (Recommandation concernant la condition du personnel enseignant,​​ Unesco, 1966).

1.​​ I.​​ e società.​​ L’istituzionalizzazione dell’i. è un dato ricorrente e precoce, anche se non disponiamo a tutt’oggi di una ricostruzione storico-sistematica della sua figura. A seconda dei sistemi sociali e delle epoche storiche, ha potuto variare il tipo dei contenuti dell’insegnamento, l’età, il numero, il ceto dei soggetti destinatari, ma si danno analogie strette per quanto concerne il​​ riconoscimento ufficiale​​ della funzione affidata e la​​ regolamentazione pubblica​​ dell’attività svolta. La legittimazione sociale –​​ licenza di,​​ abilitazione a​​ – emerge in relazione ad alcune condizioni esterne ed interne: fra le prime,​​ la presa di coscienza dell’identità culturale,​​ per es. a seguito di eventi immigratori / emigratori, occupazione di altri territori umanizzati, minacce di acculturazione forzata per invasioni subite; fra le seconde, contesti di integrazione orientati alla​​ produzione di una cultura generale unificante,​​ conseguenti a processi di urbanizzazione, di differenziazione istituzionale e centralizzazione del potere politico, insieme all’insorgere di amministrazioni burocratiche sia pure embrionali. Mentre nasce la scuola, con il compito di assimilare, nel quadro di un progetto storico di egemonia, le culture particolari di ceto, di monopolizzare la produzione culturale e di determinare le credenziali per accedere al mercato culturale –​​ ​​ titoli di studio e mobilità sociale – gli i. vengono definiti come titolari della «funzione docente»: compito specialistico, tendenzialmente esclusivo, che pone termine all’insegnamento come attività complementare incorporata nelle pratiche di socializzazione, propria di figure quali il sacerdote-i., il filosofo-i. e l’uomo di cultura in genere. L’i. può così essere definito attraverso i vincoli che delimitano l’esercizio della sua funzione (o, per il verso opposto, in correlazione alla​​ ​​ libertà d’insegnamento): i controlli imposti possono essere di tipo​​ soggettivo, quali – epoca per epoca – la dipendenza servile dal committente, la fiducia personale, la prestazione di un giuramento, l’accertamento della competenza, in senso sostanziale ed in senso formale, fino a comprendere l’organizzazione di appositi istituti di formazione («scuole normali»); di tipo​​ oggettivo, quando riguardano i contenuti dell’insegnamento – oggi i​​ ​​ programmi di studio – selezionati in base agli interessi delle autorità committenti (in genere le chiese e gli stati) e dei loro progetti simbolici, nel quadro spazio-temporale definito da regole prescrittive e costitutive che vincolano​​ ​​ compiti educativi, determinati da uno status giuridico di grado esecutivo, in condizioni d’esercizio non di rado precarie e con emolumenti di sopravvivenza.​​ Questa intrinseca corrispondenza tra i. e istituzione può contribuire a spiegare le difficoltà che si frappongono regolarmente ai propositi di innovazione nel campo dell’insegnamento: da una parte, stante l’assimilazione fra scuola e i., può sembrare plausibile – come nelle diagnosi ancora attuali della​​ Rand Corporation​​ (1984), della​​ Carnegie Foundation​​ (1986), dell’Holmes Group​​ (1986) – proporre che solo una rinnovata formazione degli i. possa costituire la leva della riforma scolastica; dall’altra, i cambiamenti introdotti attraverso lo sviluppo organizzativo del sistema scolastico – orari, raggruppamenti degli alunni, team teaching, partecipazione dei genitori e di altri soggetti esterni... – incontrano resistenze, ostacoli e barriere nella «zona grigia» dell’istituzione rappresentata dalla «cultura antropologica» degli i. L’intreccio dei fattori soggettivi e strutturali fanno delle riforme scolastiche un impegno proibitivo, che richiede una strategia globale e combinata, articolata in tempi medio-lunghi, in un contesto di stabilità politica. Mentre rinviamo lo svolgimento di questi motivi alla voce​​ ​​ innovazione scolastica, qui occorre giustificare le ragioni della codificazione istituzionale dell’i., che abbiamo disegnato – al negativo – attraverso i vincoli imposti all’esercizio della sua attività, ma che può aver luogo – anche al positivo – attraverso i processi di idealizzazione della sua rappresentazione sociale. Ebbene, non è difficile collegare la necessità, universalmente avvertita e praticata, della legittimazione pubblica della figura dell’i. alla sua​​ rilevanza sociale e culturale:​​ secondo quanto mostrano, convincentemente, gli studi integrati di biologia, etologia, psicanalisi ed antropologia culturale, l’inettitudine dell’uomo alla nascita è correlata all’attitudine pedagogica,​​ che fa della «genericità» originaria uno straordinario potenziale di affermazione sull’ambiente, a condizione di una laboriosa e prolungata dipendenza dall’adulto e della necessaria declinazione dell’aggressività interna al gruppo in senso di appartenenza e condivisione pratica di norme e di valori. La convergenza di questi apporti multidisciplinari conclude con il riconoscimento dell’insegnamento come​​ funzione costitutiva del sociale e del culturale.​​ Pertanto,​​ collocato sulla soglia obbligata e determinante della sopravvivenza della cultura al momento del cambio generazionale, l’i. non può – suo malgrado – non essere oggetto ambivalente di attese esagerate e di sospetti inconfessabili: di qui la prassi universale della minuta codificazione del ruolo, fino alla sua burocratizzazione «esemplare», che plasma l’aria di famiglia degli i., in particolare i loro sempre denunciati comportamenti individualistici ed isolazionisti.

2.​​ I.​​ e professione.​​ Come abbiamo anticipato, si può leggere la questione degli i. dall’altro verso, quello della libertà dell’insegnamento, compreso dalla letteratura pedagogico-sociale sotto il titolo della​​ «professionalizzazione»​​ dell’i. Secondo gli indicatori propri di questo «ideal-tipo» del lavoro sociale, messi a punto dal​​ ​​ funzionalismo – prestigio, formazione di livello accademico, frequentazione della ricerca scientifica per l’innovazione teorico-pratica, specifica deontologia altruistica nei rapporti con i clienti corrispondente all’autogoverno dell’attività, supportato da un associazionismo diffuso, unificato e sensibile all’immagine esterna della categoria – per l’i. si può arrivare a parlare, eventualmente, di «semiprofessione» oppure di «professionalità in senso ristretto». Difatti, nessuno di quei tratti si può considerare caratterizzante della categoria (anche se è innegabile che al suo interno si distinguono da sempre delle élites professionalizzanti): ma sono i requisiti stessi della professionalità ad essere messi in discussione. Una prima serie di obiezioni – ad opera della sociologia conflittualista ed interazionista – riguarda il giudizio sulla professionalizzazione dei servizi sociali, criticata innanzitutto per i suoi esiti – non sempre positivi – per una migliore qualità delle prestazioni al pubblico, ma anche contestata per l’accaparramento delle conoscenze presso i tecnici, «mutilante» per la gente comune, resa sempre più dipendente, sospettata per i legami con il potere politico e infine disvelata nei dispositivi di mercato adottati per accreditarsi presso il pubblico. Eppure il «mito» della professionalizzazione (Bourdoncle) resiste, almeno fra i pedagogisti: dapprima attraverso l’osservazione delle​​ effettive operazioni​​ di cui consiste il lavoro di aula e di scuola – evidenza di comportamenti di tipo interattivo, contestuale, di improvvisazione riflessiva – che manifestano un «sapere professionale» complesso e sofisticato, per quanto inconscio e sottovalutato dagli stessi i. Inoltre, l’indagine sulle pratiche d’insegnamento ha portato ad identificare un tipo di professionalità a carattere «morale», specifica dell’i. (Goodlad, Fenstermacher). Oggi, sullo sfondo del «ritorno» della filosofia pratica, assistiamo all’affermazione di una​​ epistemologia dell’azione come forma di conoscenza propria,​​ fuori del paradigma «applicazionista», che ha indotto un radicale rinnovamento degli studi, che guardano all’i.​​ esperto​​ come fonte della ricerca didattica (Tochon), nella prospettiva di una diversa funzione della teoria, con implicazioni di considerevole portata per la professionalizzazione e la​​ ​​ formazione degli i.

Bibliografia

Prandstraller C.,​​ Sociologia delle professioni,​​ Roma, Città Nuova, 1980;​​ Damiano E.,​​ Società e modi dell’educazione.​​ Verso una teoria della scuola,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1984; Goodlad J. I. - R. Soder - K. A. Sirotnick,​​ The moral dimensions of teaching, San Francisco, Jossey-Bass, l990; Schoen D. A.,​​ The reflective turn: case studies in and on educational practice, New York, Teachers College Press, l991;​​ Bourdoncle R.,​​ La professionalisation des enseignants. Les limites d’un mythe,​​ in «Revue Française de Pédagogie» (1993) 105, 83-120; Tochon F. V.,​​ L’enseignant expert,​​ Paris, Nathan, 1993; Gauthier C.,​​ Pour une théorie de la pédagogie. Recherches contemporaines sur le savoir des enseignants, Paris / Bruxelles, De Boeck Université, 1997; Cenerini A. - R. Drago,​​ Professionalità e codice deontologico degli i., Trento, Erickson, 2000;​​ Recherche sur la pensée des enseignants: un paradigme à maturité, in «Revue Française de Pédagogie» (2000) 133, 129-157; Campbell E.,​​ The ethical teacher, Maidenhead-Philadelphia, Open University Press, 2003; Damiano E.,​​ L’i.​​ Identificazione di una professione,​​ Brescia, La Scuola, 2004; Santoni Rugiu A.,​​ Maestre e maestri.​​ La difficile storia degli i. elementari, Roma, Carocci, 2006; Damiano E.,​​ L’i. etico. Saggio sull’insegnamento come azione morale, Assisi, La Cittadella, 2007.

E. Damiano