PASTORALE

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PASTORALE

P. è l’insieme delle azioni che la comunità ecclesiale, animata dallo Spirito Santo, realizza per l’attuazione nel tempo del progetto di salvezza di Dio sull’uomo e sulla sua storia, con riferimento alle concrete situazioni di vita. La p. si interessa di problemi concreti. Essa è azione, prassi, organizzazione di risorse e progettazione d’interventi. Certamente però tutto questo è possibile solo all’interno di un’attenta e intensa riflessione, soprattutto teologica. La p. riflette sull’insieme delle azioni che la comunità ecclesiale pone per attuare la salvezza, per interpretarle, verificarle, riprogettarle. La dimensione pratica della p. la pone continuamente nella necessità di confrontarsi con tutte quelle discipline che, in qualche modo, si interessano degli stessi problemi e ne cercano soluzioni, eventualmente a​​ partire da preoccupazioni differenti. È tipico, a questo proposito, il confronto con 1’educazione sul piano pratico della comprensione e della soluzione dei problemi, a partire da una riflessione che li sappia comprendere ed interpretare. La definizione del tipo di rapporto da instaurare tra educazione e p. riguarda lo statuto delle due discipline. In questa voce, si propone un’ipotesi che assume come punto di riferimento il dato teologico relativo alla natura e ai compiti della p.

1.​​ Modelli diversi.​​ P. e educazione non sono la stessa realtà, dal punto di vista formale e sostanziale. Eppure sono molti e intensi i punti di contatto, come porta a supporre, almeno implicitamente, un certo modo di esprimersi comune tra gli addetti ai lavori. Per indicare i compiti e le responsabilità di coloro che sono impegnati nell’ambito della p. si utilizza spesso la formula: «educazione alla fede» (o «educazione della fede», come preferisce dire qualcuno). Il termine​​ ​​ educazione possiede una sua innegabile rilevanza tecnica, che le​​ ​​ scienze dell’educazione analizzano e precisano. È corretto attribuire questi riferimenti ai processi che riguardano la fede e il suo sviluppo? O, al contrario, si tratta di un modo di dire solo analogico? La tradizione p., vissuta e riflessa, offre differenti risposte a questi interrogativi.

1.1.​​ Primo modello: ricomprendere l’educativo a partire dal teologico.​​ Nel modello che per tanto tempo ha dominato il campo della p., si parla molto di educazione alla fede e s’insiste sugli interventi necessari per attuarla. In esso però la voce «educazione» è assunta solo in una visione analogica rispetto a quella caratteristica delle scienze dell’educazione. Il suo contenuto è derivato, quasi deduttivamente, dal dato teologico. Così, in ultima analisi, è svuotata ogni seria preoccupazione educativa nell’azione p. Questo modo di comprendere il rapporto tra teologia ed educazione è ormai in concreto superato nella riflessione e nella prassi p. Sono possibili però quelle sue rivisitazioni, accorte e intelligenti, che conservano l’abitudine di comprendere i problemi p. solo a partire dalle esigenze del dato teologico. Nella definizione delle procedure relative all’​​ ​​ evangelizzazione, per es., si insiste molto sulla dimensione oggettiva e veritativa dell’esperienza cristiana. È attivato un continuo confronto critico tra la sapienza dell’uomo e il dato della fede, quasi per restaurare quelle esigenze a carattere «apologetico», troppo frettolosamente accantonate nel recente passato. I giovani sono sollecitati ad apprendere, con pazienza e fermezza, i contenuti oggettivi della fede nella loro precisa codificazione linguistica. Si parte dall’ipotesi che l’educazione ad accogliere e a comprendere il linguaggio oggettivo della fede aiuti e sostenga la vita di fede, sotto il profilo della consapevolezza riflessa e del confronto con le varie istanze del sapere umano.

1.2.​​ Secondo modello: l’autonomia dell’educativo.​​ Il modello precedente ha una specie di rovescio della medaglia in quelle prassi che tendono a far prevalere l’educativo sopra ogni impegno p. La logica è semplice: la coscienza di quanto sia stretto il rapporto tra dimensioni antropologiche e teologiche porta a concludere che i compiti della p. sono già egregiamente assolti quando si realizza una corretta azione educativa. Prevale l’abitudine di chiamare le cose con i loro nomi concreti, evitando l’astrattismo del linguaggio religioso. Sono accolti i ritmi e i tempi dei normali processi evolutivi. La fiducia verso le scienze dell’educazione sollecita a programmare con serietà e competenza gli interventi adeguati. L’azione p. parte di conseguenza da una gerarchia di preoccupazioni e di esigenze, diversa da quella tradizionale. Molti problemi religiosi passano in secondo piano, per fare spazio ad altri, vissuti come più urgenti.

1.3.​​ Terzo modello: la separazione netta degli ambiti.​​ Lo stimolo della «teologia dialettica» si è fatto sentire presto anche nell’ambito della p. Alcune sue indicazioni, particolarmente incisive, hanno trovato facile risonanza in operatori di p., reattivi rispetto all’eccessiva pedagogizzazione della fede e della vita cristiana. Alla base sta l’affermata irriducibilità del mondo della fede al mondo profano e la constatazione teologica che nella Rivelazione c’è solo un discorso soteriologico, estraneo ad ogni interesse educativo. Dio è Dio; egli è il totalmente altro, colui che è nascosto e avvolto nel mistero. All’assoluta e somma superiorità di Dio va contrapposta l’estrema e infinita inferiorità dell’uomo. Cito alcune indicazioni pratiche che, in qualche modo, si ispirano a questa prospettiva teologica: il rifiuto di ogni mescolamento dell’educativo nell’ambito della p.; l’affermazione che l’unica preoccupazione veramente urgente è quella in fondo più semplice: moltiplicare le occasioni di contatto tra Dio e l’uomo. Di qui l’insistenza sui momenti di preghiera, sulle celebrazioni liturgiche e sacramentali, sull’ascolto della Parola di Dio; la contestazione, almeno pratica, dell’esistenza di un problema originale di «p. giovanile», come se i giovani avessero titoli e difficoltà particolari rispetto alla salvezza di Dio; l’enfasi sulla comunità di fede e di vita ecclesiale come luogo, accogliente e pervasivo, dove tutti i problemi possono essere risolti.

1.4.​​ Quarto modello: la scelta educativa in​​ uno «sguardo di fede».​​ Esistono modelli p. in cui è facile riconoscere una fiducia nell’educazione, costruita a partire da una teologia della Rivelazione. La Parola di Dio, offerta della Rivelazione, assume una sua speciale visibilità umana per farsi conoscere, per rendersi vicina e accessibile all’uomo in vista della fede. C’è quindi un aspetto della Rivelazione, inseparabile da quello trascendente, che è alla portata delle capacità di apprendimento dell’uomo. Esiste, in altre parole, un visibile, rivelatore dell’invisibile, un contenente veicolo al contenuto, un significante che conduce al significato. Per questo è affidato all’educazione un contributo irrinunciabile anche per la p.: il visibile è il luogo di presenza del mistero e via privilegiata per entrarvi.

2.​​ Una prospettiva.​​ Chiariti i termini, si può entrare nel merito, alla ricerca di soluzioni. È certo che la risposta deve nascere da una chiara meditazione sulla fede perché la questione riguarda la natura dell’esperienza di fede e non solo le modalità pratiche della sua trasmissione.

2.1.​​ Leggere il processo nella logica dell’Incarnazione.​​ Consideriamo l’evento che dà origine alla decisione di fede: la Rivelazione. Essa rappresenta il punto centrale per sapere se si può parlare di educabilità della fede ed eventualmente in che senso. Il contenuto della Rivelazione è Gesù Cristo: il mistero di Dio in Gesù Cristo. E cioè l’alleanza: un’alleanza d’amore fra tre Persone nell’unità di una stessa vita (ciò che Dio è); un’alleanza d’amore tra Dio e l’uomo per la realizzazione della salvezza (ciò che Dio fa); un’alleanza d’amore tra gli uomini e Dio nella e per la fede (ciò che Dio attende). Quest’annuncio presenta un carattere trascendente. Si possono prendere seriamente le esigenze dell’educazione, quando ci poniamo al servizio di un evento di questa natura? Non è possibile rispondere in astratto, dimenticando il modo con cui di fatto Dio ha voluto realizzare la Rivelazione. La Tradizione ci sollecita a pensare alla Rivelazione alla luce e nel mistero dell’Incarnazione, perché l’evento di Gesù il Cristo ne rappresenta il contenuto e il modello più radicale. Il riferimento all’Incarnazione ci ricorda che la Parola di Dio è «incarnata»; assume, in altre parole, una sua visibilità. Questo visibile è la vita umana, quell’esistenza concreta e quotidiana che forma l’oggetto delle cure educative. Nella Rivelazione è importante distinguere tra il dono di Dio e il modo con cui questo dono si rende presente, vicino, provocante. La presenza di Dio è sempre «mistero» santo, sottratto ad ogni possibilità di manipolazione e di comprensione esaustiva. Dal dono di Dio scaturisce l’appello alla libertà e responsabilità d’ogni uomo. Tutto questo investe innegabilmente il dialogo diretto e immediato tra Dio e ogni uomo e tocca quelle profondità dell’esistenza umana che sfuggono ad ogni processo educativo. Dono e chiamata si realizzano però «in parole umane»: assumono una dimensione di visibilità storica e quotidiana, legata a quelle regole educativo-comunicative, che sono oggetto anche delle scienze dell’educazione e, in generale, dell’approccio antropologico. La conclusione è immediata: se la Rivelazione assume la vita quotidiana e i suoi dinamismi come suo strumento espressivo, il rapporto tra educazione e p. è molto stretto (proprio dal punto di vista dei compiti della p. stessa).

2.2.​​ Il​​ concreto.​​ Queste distinzioni orientano verso un modello di p. che fa spazio ai contributi, teorici e pratici, delle scienze dell’educazione, fino a riconoscere la loro funzionalità indiretta nella maturazione della fede. a)​​ La priorità del dono di Dio per la fede.​​ Prima di tutto è indispensabile riconoscere che la fede si sviluppa sul piano misterioso del dialogo tra Dio e ogni uomo. Questo spazio di vita sfugge ad ogni tentativo di intervento dell’uomo. In esso va riconosciuta la priorità dell’iniziativa di Dio. La risposta dell’uomo consiste nell’obbedienza accogliente: la fede è un dono, in senso totale; proviene quindi dall’udire e non dal riflettere, è accoglienza e non elaborazione. b)​​ L’educazione alla fede sul piano delle mediazioni educative.​​ L’appello di Dio che costituisce il fondamento del processo di salvezza, si fa sempre parola d’uomo, per risuonare come parola comprensibile dall’uomo, e cerca una risposta personale, espressa in gesti e parole dell’esistenza quotidiana. C’è quindi una dimensione del processo di salvezza che si svolge secondo modi comuni ad ogni processo educativo e comunicativo. Non rappresenta un aspetto che s’aggiunge a quello dell’immediatezza dell’azione di Dio, ma un’esigenza che la pervade tutta. L’azione p. è, nello stesso tempo e con la stessa intensità, un atto sottratto alla qualità della relazione interpersonale, perché attinge direttamente nel mistero di Dio potenza ed efficacia, ed è intensamente condizionato dalla qualità umana dei gesti e delle parole poste e dalla disponibilità «educabile» del soggetto. Il condizionamento (positivo o negativo) è collocato nel rapporto del «segno» rispetto all’evento. Attraverso le modalità antropologiche in cui si svolge, il segno diventa sempre più espressivo rispetto alle attese del soggetto e sono ricostruite queste attese per sintonizzarle con l’offerta della fede e della salvezza. Questo è l’ambito tipico dell’azione p. Riconosce la funzione insostituibile di tutti gli interventi educativi rispetto all’educazione della fede: essi hanno il compito di attivare, sostenere, mediare il processo di salvezza, nel doppio movimento di proposta e di risposta. c)​​ La potenza di Dio investe anche gli interventi educativi.​​ Le due modalità (quella misteriosa in cui si esprime l’appello di Dio alla libertà dell’uomo e quella delle mediazioni educative) non sono sullo stesso piano. Bisogna riconoscere, in una fede confessante, la priorità dell’intervento divino anche nell’ambito educativo, più direttamente manipolabile dall’uomo e dalla sua cultura. La fede dunque riconosce la grandezza dell’educazione: liberando la capacità dell’uomo e rendendo trasparenti i segni della salvezza, essa libera e sostiene la sua capacità di risposta responsabile e matura a Dio. Ma la fede riconosce che anche l’educazione rimane, come tutti i fatti umani, sotto il segno del peccato. La fede dunque deve esprimere un giudizio sull’educazione dell’uomo in genere e, in particolare, sul modello educativo umano che può essere utilizzato nel proporre la fede alle nuove generazioni. Questo, in fondo, non è attentato al dovere di rispettare l’autonomia dei fatti umani. Significa invece che l’approccio educativo e comunicativo è giudicato dall’evento al cui servizio si pone. Nel nostro caso comporta la constatazione che questo approccio, anche se è legato ad esigenze tecniche, avviene sempre nel mistero di una potenza di salvezza che tutto avvolge: la grazia salvifica possiede una sua rilevanza educativa, certa e intensa anche se non è misurabile attraverso gli approcci delle scienze dell’educazione.

3.​​ Una p. attenta all’educazione.​​ Le riflessioni appena suggerite portano a concludere sulla necessità di assumere gli atti educativi anche nei processi di educazione alla fede, almeno fino ad un certo punto. Il confine non è di quantità ma di qualità. Infatti non c’è un primo tratto di strada percorribile in compagnia con i dinamismi antropologici, e un secondo tratto dove tutto resta affidato all’imponderabile presenza dello Spirito. Potenza di Dio e competenza umana sono invece compagni di viaggio dalla partenza all’arrivo, anche se sono interlocutori diversi, cui va riconosciuto uno spazio pratico molto differente.

3.1.​​ A confronto.​​ Il confronto tra educazione e p. sollecita a realizzare i due processi in modo da assicurare a ciascuno il guadagno che il contributo dell’altro è in grado di offrire. La p. assume le esigenze dell’educativo, con disponibilità e attenzione, superando ogni tentazione di strumentalizzazione. Il pluralismo, però, investe e attraversa anche l’educazione e la frammenta in diverse figure. Il riferimento antropologico sotteso non è indifferente per la qualità del servizio di promozione della vita e della speranza, cui l’educazione tende. Essa cerca quindi un’ispirazione che la collochi pienamente dalla parte della vita e della sua qualità. Un dialogo e un confronto possono introdurre nei due processi un principio interessante di verifica e di rinnovamento. Tra i tanti modi attraverso cui si può realizzare la p., chi crede all’educazione preferisce quelli in cui è rispettata meglio la preoccupazione della gradualità, della chiamata alla responsabilità. Essa si realizza sempre in una presenza accogliente, che fa dei gesti di vicinanza, di servizio, di promozione e di amore la sua parola più convincente. In un tempo in cui lo scontro tra le culture avviene sempre di più attorno alla qualità della vita, alla ricerca di senso e ai fondamenti della speranza, chi è impegnato sulla frontiera dell’educazione riconosce di avere un compito che riempie di gioia e di responsabilità, riguardo alla vita e alla sua promozione. La collaborazione, teorica e pratica, con chi opera nell’ambito della p. aiuta ad inventare e sperimentare modelli di esistenza, capaci di dire oggi chi è l’uomo e la donna al cui servizio tutti sono sollecitati a piegarsi.

3.2.​​ L’educazione è il nome concreto per dire oggi «promozione umana».​​ L’educazione è la grande sfida che la cultura attuale lancia a coloro che credono all’uomo e alla sua dignità. Per questo, anche chi è impegnato esplicitamente nell’ambito della p., riconosce di assolvere intensamente il suo compito, impegnando tutte le risorse nell’ambito dell’educazione. Nel nome dell’educazione gioca la sua fede e la sua speranza. Attorno alle esigenze dell’educazione chiede la collaborazione di tutte le persone che amano l’uomo e ne cercano una promozione, oltre le differenze culturali e religiose. La comunità ecclesiale riconosce la «portata salvifica dell’educazione» anche come evento già compiuto e preciso (anche se parziale), nell’ordine della salvezza di cui è sacramento. La comunità ecclesiale riconosce così nell’educazione il modo privilegiato per realizzare oggi i necessari impegni di «promozione umana» nell’ambito dell’evangelizzazione. Affermando la sua fiducia nell’educazione, sente di essere fedele al suo Signore. Con lui crede all’efficacia dei mezzi poveri per la rigenerazione personale e collettiva e crede all’uomo come principio di rigenerazione: restituito alla gioia di vivere e al coraggio di sperare, riconciliato con se stesso, con gli altri e con Dio, può costruire nel tempo il Regno della definitività.

Bibliografia

Schillebeeckx E.,​​ Intelligenza della fede. Interpretazione e critica,​​ Roma, Paoline, 1975; Coudreau F.,​​ Si può insegnare la fede? Riflessioni e orientamenti per una pedagogia della fede,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1978; Latourelle R. - G. O’Collins (Edd.),​​ Problemi e prospettive di teologia fondamentale,​​ Brescia, Queriniana, 1980; Vecchi J. E. - J. M. Prellezo (Edd.),​​ Prassi educativa p. e scienze dell’educazione,​​ Roma, Editrice SDB, 1988; Tonelli R.,​​ Per la vita e la speranza. Un progetto di p. giovanile,​​ Roma, LAS, 1996; Istituto di Teologia​​ p. - Università Pontificia Salesiana,​​ P. giovanile. Sfide,​​ prospettive ed esperienze,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 2003.

R. Tonelli