BIBBIA

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La B. è oggi largamente riconosciuta come il «grande codice» (N. Frye) della cultura occidentale ed ancora di più, per milioni di persone – da oltre venti secoli – vale come documento di fede, anche in ciò che concerne l’educazione. Ciò legittima una doverosa e critica attenzione ai valori che essa propone. L’argomento sarà pertanto affrontato da due punti di vista: quale educazione viene proposta dalla B.; come la B. in quanto libro sacro della religione ebraico-cristiana può essere valorizzata in funzione educativa, specificamente religiosa.

1.​​ La concezione di educazione nella B.​​ È doveroso dire subito che l’educazione in senso stretto non è un tema centrale della B. Essa fa delle affermazioni generali, dona delle indicazioni indirette, suscita conclusioni non di rado congetturabili. Danno una qualche luce documenti educativo-scolastici del medio oriente antico (Egitto e Mesopotamia) per i tempi prima di Cristo (AT), mentre per i primi cristiani (NT) continua a valere l’eredità ebraica, avendo sullo sfondo, ma non di più, la grande paideia greca e romana. Dalla B., è possibile raccogliere certe indicazioni fenomeniche ed insieme mettere in luce una propria concezione di fondo, la quale, data la natura della B., è eminentemente religiosa.

1.1.​​ Il fatto educativo.​​ Si possono distinguere due principali forme educative: familiare ed extrafamiliare. a) La​​ ​​ famiglia​​ è il referente costante e dominante, come in tutto il mondo antico. La testimonianza più qualificata è data dalla tradizione sapienziale dove numerosi sono gli insegnamenti per bene allevare i figli (es. Sir 30,1-13), con l’uso del termine tecnico dell’educazione ebraica:​​ musar​​ (rad.​​ jsr).​​ Quanto valore avesse tale educazione familiare appare dal fatto che nei libri sapienziali, e nel Deuteronomio, il saggio trasmette il suo insegnamento interpellando gli uditori con la formula «figlio mio» e propone se stesso come «padre» (Prv 1, 8; Dt 1,31; 32,8). Nei tempi cristiani continua la predominanza della famiglia (Ef 6,1-4). Un’eccellente affermazione sintetica riguarda lo sviluppo di Gesù ragazzo, del quale si dice che «era sottomesso» a Maria e a Giuseppe e «cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,51-52). L’educazione familiare è quella propria di una cultura patriarcale: la madre si cura dei figli in tenera età, poi subentra il padre che dà ai figli maschi una educazione che è essenzialmente formazione religioso-morale e professionale. b) La​​ scuola​​ e il contesto sociale. Più avanti nell’evoluzione sociale, al seguito della monarchia (sec. X-VI a.C.), si rende possibile una sorta di scolarizzazione in funzione dei bisogni della corte e dello Stato, ma come fatto elitario e assai circoscritto («scribi», 1 Cr 27,32). La scuola (la prima volta è nominata in Sir 51,23) prende estensione nel periodo del giudaismo (538 a.C.-70 d.C.), quando per la presenza del dominio straniero urge il bisogno assoluto di fare memoria delle tradizioni religiose e civili onde assicurare la stessa identità del popolo. c)​​ Contenuti e metodo.​​ I contenuti sono attinti dalle tradizioni e dalla sapienza degli antenati, come pure dall’esperienza del quotidiano (Ger 35; Sal 78,1-8; Gb 15,17-19; Prv 1-9), sono sempre finalizzati alla religione (Legge) che diventa così matrice culturale e veicolo di nazionalità. Insigne è la cura didattica, dove prevale lo stile orale, mnemonico, ricco di stimoli, come appare dalla qualità letteraria della B. È lecito pensare che alla scuola siano da collegare alcuni libri biblici o sue parti: la storia di Giuseppe (Gn 37-50), Tobia, Ester, Siracide, Sapienza. L’educazione, sia quella paterna, sia quella data dai saggi, è sempre concepita come una​​ severa disciplina​​ che implica abbondantemente la correzione e il castigo («chi risparmia il bastone, odia suo figlio», Prv 13,24; 3,11-12; Eb 12,4-11). Sarà l’evoluzione della rivelazione, con l’affermazione del primato della carità secondo Gesù Cristo, ad addolcire il metodo (Ef 6,1-4) e naturalmente a dare all’educazione (paideia​​ nel NT) una connotazione tipica dell’umanesimo cristiano.

1.2.​​ L’idea di educazione.​​ È necessario riconoscere che nella B., in quanto documento teologico, sta al primo posto, non l’educazione di una persona, ma la sua​​ salvezza religiosa,​​ grazie alla partecipazione all’alleanza e all’osservanza della legge di Dio. È lungo tale percorso che sono investite tutte le realtà naturali e dunque anche l’ambito educativo (educatore, educando, educazione) che ne viene intimamente trasformato. Il segno linguistico più espressivo appare dal fatto che Dio stesso si presenta come educatore. Ma qui conviene mettere in rilievo alcuni tratti di questa concezione credente di educazione. a) Nell’Antico Testamento,​​ notiamo come l’educazione sia intesa in funzione della celebrazione della fede nel rito della Pasqua, tramite le​​ catechesi eziologiche​​ o domestiche (Es 12,24-27; 13,8-9; Dt 6,20-25; Gs 4,6-7.21-22). Il ricordo dell’esodo, che tali insegnamenti richiamano, intende guidare il popolo facendogli prendere coscienza della portata sempre attuale di quello che Dio ha compiuto una volta per tutte al tempo di quella grande e decisiva liberazione ed alleanza. A questa funzione educativa che è propria della rivelazione storico-profetica (Os 11,1), se ne accompagna un’altra concezione, complementare eppur innovativa, propria della​​ riflessione sapienziale.​​ Dalle testimonianze della parte antica di Prv (10-29) si ricava che per i saggi scopo dell’educazione è il conseguimento della sapienza (Prv l,2s), cioè dell’abilità, affinata dall’esperienza, di risolvere concretamente i problemi posti dalle diverse situazioni di vita. Non dunque soltanto da una rivelazione dall’alto, ma piuttosto dall’interno delle realtà create da Dio, emerge un tracciato educativo da valorizzare. L’importante è essere guidati dal «timore di Dio, inizio della sapienza» (Prv 1,7), anzi «scuola della sapienza» (Prv 15,33). Da una parte la creazione con i suoi ordinamenti naturali, dunque anche la ragione, la ricerca, il sapere hanno valenza educativa e dall’altra parte queste acquisizioni non hanno valore assoluto, sottostanno al rispetto profondo del mistero trascendente di Dio (è il senso di «timore di Dio»). Si può parlare di un «umanesimo educativo in Israele» (G. von Rad), di «umanesimo devoto» (B. di Gerusalemme).​​ Tale e tanta è la fiducia in Dio, da accogliere con valore teologico le espressioni secolari proprie dell’umana ricerca anche in ambito educativo. Si accennava sopra al concetto di​​ pedagogia di Dio.​​ Vi è al proposito una concezione che – al seguito dei Padri della Chiesa (Ireneo,​​ ​​ Clemente Alessandrino, Origene...) – intende tutta l’opera di Dio nella storia come «pedagogia». Ma questa è una concezione talmente lata da diventare generica ed ambigua (così in G. E. Lessing). Stando ai testi dove a Dio sono associati i termini​​ musar​​ e​​ paideia​​ (40 volte nell’AT e 11 nel NT) si vede piuttosto che la «pedagogia di Dio» è una costruzione teologica al fine soprattutto di motivare, spiegandole, le sofferenze e i castighi del popolo di Dio. Non per nulla il motivo appare in testi storico-profetici, in Geremia in particolare, e chiaramente, nel NT in Eb 12,5-6. Pedagogia di Dio sono i «castighi» che purificano e correggono i costumi del popolo. b) Nel​​ Nuovo Testamento,​​ il credo religioso ha il suo centro assoluto nella persona ed opera di Gesù Cristo. Si affacciano così altri aspetti teologici che investono l’ambito educativo in misura di grande efficacia nella successiva tradizione cristiana. Ne nominiamo tre:

– La rivalutazione del bambino.​​ È noto come nel mondo antico, non solo ebraico, il minore avesse scarso rilievo. Si può dire che egli valesse per il suo futuro di adulto. Di conseguenza assieme alla naturale tenerezza si associa un rigore quasi crudele (2 Re 2,23s; Prv 13,24; 22,15). Nel farsi della Rivelazione un fattore importante di cambio si afferma quando il minore, il più giovane, diventa oggetto della elezione divina per una missione speciale nel popolo. Pensiamo a Samuele (1 Sam 1-3), a Davide (1 Sam 16). Ma soprattutto a Gesù, che accogliendo e difendendo i bambini e facendoli modello per l’entrata nel Regno di Dio (Mc 9,33-37; 10,13-16), è colui che esalta non la psicologia dei piccoli o qualche loro disposizione interiore particolare, ma la tenerezza di Dio a loro riguardo. Ne dovrà essere segnata qualsiasi azione nei loro confronti, in primis l’educazione.

– Gesù appare come didaskalos,​​ maestro.​​ Da Clemente Alessandrino fino ad oggi, Gesù «maestro» (41 volte nei vangeli) è stato compreso in senso educativo. Di fatto, come ha dimostrato R. Riesner, egli ha praticato ampiamente lo stile di rabbi del suo tempo, dove era notevole l’impianto pedagogico-didattico. Ma è anche vero che egli assai più che un maestro, è nativamente profeta carismatico, la cui autorità di docenza (Mc 1,22) è totalmente legata all’avvenimento del Regno, e dunque va compresa in chiave soteriologica, soprannaturale. Sicché è inutile, oltreché impossibile, ricavare una sorta di metodologia pedagogica rivelata, una didattica sacra. È stato infatti notato che in tale caso Cristo sarebbe stato un maestro piuttosto fallito, se badiamo alla conclusione della sua vita terrena.

–​​ La paideia del Signore.​​ Ma il testo più autorevole a riguardo dell’educazione appare in Ef 6,1-4. Rientra in una «tavola domestica», ossia in un codice etico che riguarda i rapporti familiari: tra sposi, tra padrone e schiavi e – nel caso nostro – tra genitori e figli. Vi si legge un rapporto di reciprocità: «Figli, obbedite ai vostri genitori», «e voi padri non inasprite i vostri figli». Cui si aggiungono le parole conclusive: «ma allevateli nell’educazione (paideia)​​ e nella disciplina del Signore (tou Kyriou)».​​ Colpiscono due aspetti: 1) l’estrema laconicità di direttive, quando anche per i primi cristiani si imponeva la rilettura del fatto educativo in chiave cristiana di fronte ad un attrezzatissimo e seducente mondo pagano; 2) la connessione tra due densissime parole,​​ paideia​​ che nel mondo greco del tempo, significa l’educazione compiuta come contenuto e come metodo, e​​ Kyrios,​​ Signore, che nel linguaggio paolino indica il Cristo risorto dai morti nel massimo della sua potenza ed attualità salvifica. Connettendo i due aspetti, si viene ad affermare che laddove (nelle famiglie cristiane) il​​ Kyrios​​ è accolto nella fede che si fa carità, allora la paideia si può realizzare, avvalendosi di quelle risorse che l’umana ricerca ed esperienza possono via via indicare. Questo pensiero, che è coerente con l’universo mentale paolino (Fil 4,8), indica germinalmente un fondamentale approdo della visione cristiana di educazione: il riferimento al​​ Kyrios​​ vale come ispirazione, animazione, verifica del compito educativo, ma non come concreta soluzione, che è da inventare volta per volta; né per sé esprime antitesi allo sforzo umano di educazione, ma anzi franca attenzione, pur trattandosi di ordinamenti naturali imperfetti e bisognosi di redenzione.

2.​​ La valorizzazione della B. nell’educazione.​​ È eminentemente di ordine religioso-cristiano, ma non manca un interesse culturale per la storia degli effetti che il libro ha prodotto lungo i secoli. a)​​ In relazione all’educazione della fede,​​ la B. si propone come documento della religione cristiana, necessaria memoria storica nel processo della fede, suo linguaggio normativo, esperienza della «Parola di Dio». A livello strettamente culturale, la B. aiuta a decifrare e riconoscere tanta parte del mondo di valori umani e dell’immaginario collettivo che sorreggono fino ad oggi la cultura occidentale. Studiosi di letteratura, di storia ed ermeneutica delle culture e di psicologia sociale e del profondo stanno esplorando progressivamente la vasta sedimentazione della tradizione biblica. b) Fra le tante​​ vie dell’incontro con la B.,​​ ricordiamo la catechesi biblica, segnatamente la pratica della storia sacra, l’insegnamento religioso nella scuola, le scuole della Parola con l’esercizio della​​ Lectio Divina​​ (​​ Gruppi di ascolto).​​ Oggi inizia ad affermarsi il grande cambio apportato dal Vaticano II: l’incontro personale con la B. in se stessa (Dei Verbum​​ 22) da parte, idealmente, di ogni cristiano e della comunità dei semplici fedeli. c) La​​ didattica della B.,​​ in quanto testo letterario fatto oggetto di studio, ha la sua legittimità e specificità. Importa incontrare un testo, lasciarsi interrogare da esso, lavorare sul testo, reagire ad esso. Di fronte al rischio del​​ ​​ fondamentalismo viene rivendicata la necessità del metodo storico critico, cui si possono accompagnare, in modo integrativo, non sostitutivo, metodi di tipo sincronico (come lo strutturalismo). Oggi si insiste sul bisogno di una assimilazione vitale del Libro Sacro. Ciò avviene mediante una corretta correlazione tra B. ed esperienza, o, come afferma C. Mesters, importa «saper leggere la B. con la vita e la vita con la B.».

Bibliografia

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C. Bissoli