SPORT: educazione allo
In relazione al termine s. sono possibili due definizioni in senso descrittivo: una di largo respiro, l’altra di stretta interpretazione. Circa la prima si può affermare che lo s. è l’insieme delle situazioni ludiche e motorie di confronto competitivo (con se stessi, le leggi della natura, gli altri) in vario modo regolamentate; in questa accezione, quattro sono gli elementi caratterizzanti: il → gioco, il movimento, la competizione, la regola (che, a ben vedere, è già insita nel gioco non essendo concepibile gioco – nel senso di «game» – senza regole). Relativamente alla seconda definizione, lo s. riduce invece il suo campo interpretativo a quelle situazioni ludiche e motorie di confronto competitivo, le cui regole sono codificate e controllate da istituzioni che la storia mostra essere un tratto specifico e caratteristico delle società occidentali contemporanee.
1. S. come fatto culturale. Al di là delle interpretazioni scientifiche che contrappongono una cultura del play ed una cultura del game e le rispettive «filosofie» sull’uomo a cui tali approcci si ispirano, oggi, al di là del necessario dibattito teorico, su un fatto tutti sembrano concordare: lo s. è diventato un fenomeno culturale dalle notevoli proporzioni e incidenze. È passato il tempo in cui lo s. apparteneva alla fantasia dell’evasione individuale. Lo si trova ormai strettamente legato – ora causa ora effetto – ai dati dei grandi problemi la cui soluzione condiziona l’avvenire della nostra civiltà. In questa ottica lo s. è un indubbio fatto culturale, sia perché è prodotto umano e pratica presente nei singoli individui e nei gruppi umani organizzati, sia perché esprime modelli di comportamento e valori, collegati per l’appunto ad una imprescindibile attività umana: quella motoria, caratterizzata, come si è detto, dalle variabili del «gioco», della «competizione», delle «regole». In più, partendo dal fatto che l’uomo è unitario e inscindibile nelle sue componenti psico-fisiche, la stessa «corporeità» viene rivalutata, perché lo s. è sì strumento, tra l’altro, di salute fisica e igiene mentale, ma è soprattutto salute e igiene mentale per l’uomo, visto nella sua completezza e unitarietà: nell’esercizio del → corpo, infatti, è tutta la persona che si visibilizza. Fare cultura sportiva umanizzante significa, allora, proporre e realizzare sempre più «modelli culturali sportivi» in cui l’essere umano, a fatti e non con retoriche parole, è veramente la «variabile indipendente», per cui l’attività sportiva con le sue dimensioni di movimento, di → ludicità, di competizione e di regole, contribuisce – accanto ad altri fattori e valori – alla crescita umana.
2. S. come valore socializzante. Che lo s., analizzato nella sua concezione originaria, abbia in sé elementi valoriali nei confronti del sé, degli altri e della natura umana, è realtà assodata. Ma come tutte le realtà umane, anche lo s. è valore con caratteristiche ambivalenti: può essere eticamente autenticato o svilito, a seconda del come è attualizzato al servizio dell’uomo. In una prospettiva umanizzante lo s. può essere vera scuola di salute, di igiene mentale, di autodominio, di socialità, di disciplina, di libertà, di creatività, di soddisfazione, di divertimento, di gioia, di catarsi, di emulazione, di festa; esso può essere, in una parola, uno stile di vita che ha innanzitutto valore in sé e per sé. Certo, fare s., soprattutto per alcuni strati giovanili, può significare anche arricchirsi di «anticorpi» per evitare comportamenti di tipo distruttivo di carattere «esogeno», come le varie forme di violenza, e di tipo «endogeno» come i casi che si riferiscono all’uso dell’alcool e della droga, e tutto ciò è sacrosanto per una società civile; ma la dimensione valoriale dello s. deve essere vista innanzitutto per quello che «è» e rispettata come valore umano in sé e solo dopo per quello che «serve». La socializzazione sportiva è dunque uno dei fattori più rilevanti e di notevole spessore umano della realtà sportiva, ma «socializzare» non è ancora educare in modo compiuto.
3. S. come valore educante. Pensando comunque soprattutto all’età giovanile (fanciulli, adolescenti, giovani) occorre avere il fermo obiettivo di innestare nella pratica sportiva l’elemento della ludicità come «unica variabile indipendente» attorno a cui trasformare ogni attività sportiva in dimensione umana e perciò in esperienza autenticamente educativa contrassegnata dai seguenti fattori: spontaneità, gratuità, creatività, libertà, soddisfazione e divertimento, liberazione del corpo, festività. Realisticamente occorre dire che innumerevoli oggi sono gli ostacoli per vivere questo modello ludico-sportivo; infatti la «logica» culturale olimpica (degenerata), a cui si rifà sostanzialmente il modello culturale di s. corrente, è quella di puntare non tanto sulla «qualità» gestuale che vale, ma sulla «quantità» di richieste che si desiderano dal proprio fisico; è quella di costruire il «campione» più che di pensare a realizzare un «uomo-atleta» e uno «sportivo-umanizzato». La ludicità deve diventare per ogni formatore o allenatore l’obiettivo fondante di ogni attività sportiva, a cui le stesse categorie della «vittoria» e della «sconfitta», della «tecnica» e della «regola» devono essere subalterne. Non importa, cioè, se si è vinto o si è perso, vale invece come si è giocato, come si è agito durante la gara. L’educazione ludica nello s. si concentra maggiormente più sul piacere del «fare» che sulla voglia incontrollata del «vincere» o sulla paura del «perdere». Ciò non significa abolire un certo «agonismo», ma accentuare la cosiddetta competizione indiretta che dà più ampie possibilità di apprendere educativamente l’alfabeto della vera cooperazione sociale, anche attraverso l’attività sportiva, che è un fatto di tutti e per tutti e a tutte le età.
Bibliografia
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C. Bucciarelli