PSICOTERAPEUTA

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PSICOTERAPEUTA

Si definisce tale colui che esercita la​​ ​​ psicoterapia. Il termine è entrato nell’uso comune solo da qualche decennio e il suo significato rimanda al complesso dibattito che negli ultimi cinquanta anni si è svolto attorno al concetto stesso di psicoterapia.

1. La figura dello p., dotata di ruolo e formazione professionale propri, inizia a delinearsi alla fine dell’800, parallelamente allo sviluppo della psicoterapia. Già agli inizi del ’900, accanto ad una figura di p. che segue il tradizionale approccio medicalistico – secondo cui il paziente è visto come portatore passivo della malattia, mentre il dottore è l’autorità che esamina «scientificamente» il disturbo e interviene per «controllarlo» – troviamo una figura di p. che, grazie al cambiamento di prospettiva operato dalla​​ ​​ psicoanalisi, orienta la propria attenzione sulla vita interiore del paziente, sulle fantasie e sulle resistenze da lui prodotte, ne interpreta il transfert e le libere associazioni. Dagli studi sull’apprendimento, inoltre, emerge una figura di p. che «addestra» il paziente a usare comportamenti socialmente adeguati. Comunque, in ambedue questi modelli non ci si accosta più alla malattia col rigido distacco della tradizione psichiatrica, ma si cerca di evidenziare nella personalità del paziente le formazioni nevrotiche, allo scopo di convogliarle in attività socialmente più adeguate, con la funzionale collaborazione dell’Io maturo del paziente. In epoca successiva, sotto l’influsso dei fermenti culturali e dell’intenso dibattito filosofico propri della prima metà di questo secolo, lo p. si ispira ai principali assunti dell’esistenzialismo. Considerando la psicoanalisi troppo neutra e passiva, troppo focalizzata sulle fantasie e sugli elementi sessuali, poco attenta alla realtà, ai valori e ai rapporti sociali, lo p. degli anni Cinquanta è interessato più al significato dell’esistenza del paziente, che alla canalizzazione in attività adeguate degli impulsi che producono conflitti sociali. Libero da preconcetti diagnostici o da mirate aspettative terapeutiche, egli partecipa con profonda intensità ai sentimenti del paziente, al suo «esserci», non avendo altro obiettivo se non quello di stargli accanto come un compagno di viaggio. Negli anni Sessanta, poi, gli studi sulla comunicazione umana e sui sistemi relazionali fanno sì che l’interesse dello p. si allarghi dal disagio del singolo paziente al disagio dell’intero contesto relazionale in cui egli è inserito. Accanto all’obiettivo di guardare alla vita interiore del paziente e di aiutarlo a trovare un significato soddisfacente per la sua esistenza, lo p. si pone anche l’obiettivo di migliorarne la qualità delle relazioni.

2. Al di là dell’evoluzione del ruolo dello p. rimangono a tutt’oggi numerose questioni aperte attorno al significato stesso di questa attività professionale. Qual è il compito dello p. nella società del terzo millennio? È quello di proteggere la società dalla presenza inquietante del diverso? O, al contrario, di difendere il singolo individuo di fronte all’azione «normalizzante» prodotta dalla società? In altre parole, il ponte che lega la funzione dello p. come operatore di cambiamento nel microsistema (individuo, famiglia, gruppo, ecc.) alla funzione dello p. come operatore del cambiamento sociale (nel macrosistema) non sempre viene esplicitato nei vari modelli di psicoterapia, col rischio di banalizzare o considerare meccanico il compito di questo professionista, rendendolo così funzionale al sistema sociale e non alla salute del singolo e della comunità. A questi interrogativi lo p. non può fare a meno di rispondere, pena il rischio di manipolare inconsapevolmente, sul piano sociale e politico, l’irriducibile diversità del singolo. La definizione del ruolo e delle qualità proprie dello p., è pertanto inevitabilmente legata al modello teorico di riferimento, e quindi alle relative teorie della personalità e dello sviluppo. Questo problema aperto porta ad un altro aspetto cruciale del compito dello p., che è la diagnosi (e quindi la definizione) di normalità / patologia. È diventata sempre più accreditata, dagli anni ’50 del sec. scorso in poi, la convinzione che non esiste un unico modello di salute / maturità psichica, dato che tale definizione è in effetti influenzata da fattori socio-culturali del peculiare periodo storico a cui ci si riferisce e dai tentativi individuali del paziente di far fronte alle difficoltà. Ciò che invece è unanimemente accettato oggi (anche in seguito alle normative in merito che vanno delineandosi nei vari Paesi europei) è la necessità di un iter di formazione personale e professionale dello p., che da una parte lo renda consapevole delle dinamiche proprie e altrui, connesse ai vari temi della vita e al proprio potere, e dall’altra gli assicuri quelle abilità indispensabili per svolgere adeguatamente la propria professione.

Bibliografia

Giorda R.,​​ Come dovrebbe essere lo p.?,​​ Roma, Città Nuova, 1981; Lewis J. M.,​​ Fare il terapista. Come si insegna,​​ come si impara,​​ Firenze, Martinelli, 1981; Batacchi M. W., «Problemi di identità e di formazione in psicologia clinica», in P. C. Kendall - J. D. Norton-Ford,​​ Psicologia clinica,​​ Bologna, Il Mulino, 1986; De Silvestri C.,​​ Il mestiere dello p., Roma, Astrolabio, 1999.

P. Cavaleri