CONSUMISMO
Il c. è generalmente inteso come quel comportamento sociale, assai spesso compulsivo, irrazionale ed eccessivo, che include l’acquisto, l’uso, il godimento, la fruizione di beni e servizi in cambio di denaro o di altre prestazioni personali. I consumi diventano oggetto di studio quando se ne analizzano i tipi e la quantità in relazione alla → classe sociale di appartenenza, alla stratificazione sociale, al sistema socio-economico, allo stile di vita, al tipo di → famiglia, alla disponibilità o scarsità delle risorse, nonché alla qualità dei → bisogni.
1. L’approccio allo studio dei consumi può essere articolato secondo tre direttrici: la prima di carattere socioeconomico, dove l’attenzione è posta sul consumatore, le sue motivazioni e gli altri fattori che, secondo la teoria della domanda, influenzano le sue decisioni di acquisto; la seconda di ispirazione sociopolitica, che, orientata all’analisi critica dei consumi e del c., pone al centro il problema dei rapporti tra produzione e consumo, e in particolare la questione del condizionamento dei bisogni da parte della produzione; la terza, di tipo socioculturale, studia le funzioni simboliche del l’attività di consumo e il ruolo qualitativo dei beni nei rituali di comunicazione e di integrazione sociale. Il concetto di consumi e di c. è quindi una nozione al crocevia tra economia, politica, sociologia, psicologia e antropologia.
2. Nella prospettiva socioeconomica, lo studio dei consumi, partito dall’analisi dei bilanci familiari e dai fattori che li condizionano, secondo le leggi di Engel e poi di Halbwachs, ha evidenziato che i modelli dei consumi degli operai e degli impiegati differiscono notevolmente anche a parità di reddito, suggerendo così l’ipotesi che lo status individuale giochi un ruolo fondamentale nella formazione dei gusti e delle preferenze dei soggetti. Ciò è stato approfondito da Veblen nella sua teoria del «consumo vistoso», secondo il quale il fine del consumatore è più quello di ottenere dai consumi una maggior stima e apprezzamento che non una vera e propria utilità pratica (1949). I beni sono anzitutto onorifici, danno immagine, creano un alone di rispetto e di esaltazione. Lo sviluppo poi della teoria di Duesenberry mette in campo la funzione della «privazione relativa», secondo cui l’insoddisfazione derivante dai continui confronti con la classe superiore provocherebbe l’impulso a migliorare sempre il proprio tenore di vita e a desiderare beni di qualità superiore (1969). A parere di Hirsch, infine, il c. diventa un vero e proprio linguaggio, o «status symbol» (1981).
3. Si apre così la strada alla prospettiva socioculturale, dove la tesi vebleniana dei beni come strumento di esibizione competitiva viene portata da Baudrillard alle sue estreme conseguenze. In altre parole il c. non è altro che uno scambio socializzato di segni, un modo per ostentare nella «società affluente» la capacità di spesa dell’individuo («l’ostentazione del lusso») rispetto ai beni anche non fondamentali, in una logica di progressiva autodifferenziazione, vissuta come uno dei bisogni principali. Queste categorie costituiscono infatti la struttura portante del c. e degli stili di vita da esso introdotti, dove i beni di consumo diventano gli strumenti per dare → identità alla persona stessa.
Bibliografia
Baudrillard J., La società dei consumi, Bologna, Il Mulino, 1976; Paltrinieri R., Il consumo come linguaggio, Milano, Angeli, 1998; Dell’aquila P., «Il consumo dalla società industriale alla società comunicazionale», in C. Cipolla, Principi di sociologia, Ibid., 2000, 510-546; Ritzer G., La religione dei consumi. Cattedrali, riti e pellegrinaggi dell’iperconsumismo, Bologna, Il Mulino, 2005; Bauman Z., Homo consumens, Trento, Erickson, 2007.
R. Mion