VITA
VITA
Etimologicamente il termine deriva dal lat. vis (forza, vigore, potenza, energia). Nell’accezione comune, allora, la v. può essere descritta come forza attiva propria degli esseri animali e vegetali. La v. umana poi non è soltanto un organismo biologico ma anche una biografia esistenziale di una → persona.
1. La v. come valore. In senso analogico il sinonimo del «vivere» è quello dell’esistere e al dover nascere alla v. va sempre correlato il «poter vivere o esistere». Va subito precisato però che c’è un duplice modo di concepire e vivere l’esistenza. Questa duplicità è sottesa dall’ambivalenza etimologica del termine stesso: ex-esistere. Infatti il significato della v. cambia a seconda della significatività che assume il prefisso ex: esso se applicato al termine «esistere» può essere interpretato come essere fuori o essere verso. Nel primo caso l’esistenza è oggettivata, emarginata. Essa si confonde con le cose. Esistere significa «essere-fuori», o «essere-altrove», o «essere-gettato» (ob-jectum), per cui l’esistenza in sé perde di senso, appare senza valore, senza possibilità e prospettive. Si pensi in proposito al dibattito suscitato dall’esistenzialismo in genere e da quello di Heidegger in particolare. Nel secondo caso l’esistenza è «verso-qualcosa» o «verso-qualcuno»: esistere, perciò, è «essere-per» o «essere-con», come il pensiero contemporaneo ha messo in luce. L’esistenza acquista così il senso, il valore e la finalità della relazione, della → alterità. La relazione con l’altro diviene così la sua possibilità di autorealizzazione e la → libertà è assunta come compito e impegno. In questa ottica, allora, quando si parla dell’uomo-vivente si allude non solo alla qualità della v., ma alla sacralità della v., perché l’uomo è persona ed è l’unico essere in cui la v. diventa capace di «riflessione» su di sé, di autodeterminazione; egli è l’unico vivente che ha la capacità di cogliere e scoprire il senso della sua esistenza e delle cose. La v. umana si presenta così come il valore massimo nel creato e trascende ogni altro bene temporale. Essa ha valore di fine e non di mezzo e si presenta come il punto assoluto di riferimento, a cui ogni altro valore mondano e storico deve riferirsi. Non esiste perciò un «diritto» contro la v. umana, dal momento che la stessa v. è il fondamento del diritto. Questa fondamentale forza assiologica e deontologica è radicata su un principio universale, assiomatico e operativo nello stesso tempo: l’uomo quando nasce deve essere valutato come un dono «per» e «con» e non come un prodotto da manipolare o commercializzare: la v. non si fabbrica, non si brevetta.
2. La cultura della v. Che significa avere una cultura della v.? La risposta a questo interrogativo è costituita da tre dimensioni tra loro concentriche, il cui centro è la persona umana. La prima dimensione è costituita dalla inscindibile unicità della persona. L’ → uomo è un tutto unico e non può essere interpretato a compartimenti stagno. Infatti questo tipo di concezione dell’uomo, a comparti separati, ha generato dualismi impropri e bipolarità tra loro erroneamente contrapposte: istinto-volontà, materiale-spirituale, corpo-anima ecc. Ora, tale verticalizzazione rigida delle facoltà umane è rimessa fortemente in questione: infatti, anche se distinguibili, non vanno separate; tutte sono all’insegna del richiamo reciproco e vanno viste tra loro interdipendenti e interagenti nel contesto unitario della persona umana. L’uomo è un’unità inscindibile e la sua essenza è costituita dal soma (il corpo, la corporeità), dalla psiche (le emozioni, i sentimenti), dalla nous (la mente, la razionalità) e dal sema (i valori, i sistemi di significato). Tutti questi fattori, distinti sì ma non separabili perché tra loro interagenti, costituiscono l’essenza della persona, della v. umana. Nell’esercizio del corpo, per es., è tutta la persona che si visibilizza. La seconda dimensione che caratterizza la cultura della v. si ispira al rispetto assoluto della v. durante tutto l’arco cronologico dell’esistenza, dal concepimento alla morte naturale, sottraendola all’arbitrio di qualsiasi persona e di qualsiasi autorità. Ora la questione della v., della sua promozione e difesa, non è prerogativa dei soli cristiani – anche se dalla fede evangelica questo fatto riceve luce e forza straordinarie –; essa appartiene ad ogni coscienza umana che aspiri alla verità e che sia attenta e pensosa per le sorti dell’umanità. In questa ottica va anche la «Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo» (1948). È stato giustamente detto che il diritto alla v. è la nuova «questione sociale», perciò la promozione e la difesa della v. vanno attuate in tutto l’arco dell’esistenza umana: la v. iniziata (il problema dell’aborto, la violenza sui minori); la v. verificata (il primato della salute, l’umanizzazione della medicina); la v. manipolata (l’adulterazione genetica, le tecniche della fecondazione); la v. marginale (le nuove povertà, la condizione dell’anziano); la v. terminale (il problema dell’eutanasia, l’umanizzazione del morire e della → morte). La soluzione di tutte queste vicende umane attiene ad un’autentica cultura della v. e va affrontata nel segno di un inequivocabile principio: la v. di ogni uomo è sacra! (bioetica). La terza dimensione sorge da un problema di scottante attualità: la nuova coscienza ecologica che ripropone un rinnovato rapporto tra l’uomo e la natura. Nel creato l’uomo non è il fine dell’evoluzione biologica, ma la v. è il fine. Perciò il rispetto della natura dev’essere basato sulla centralità della v. e questo principio deve farci passare da un immotivato vitalismo antropocentrico, secondo cui l’uomo veniva definito senza limiti (jus utendi atque abutendi!), il senso di tutte le cose, ad una ragionata visione biocentrica che reinserisce l’uomo nella contestualità della biosfera assegnandogli il compito di controllare i processi. In parole più concrete: ciò che deve stare al centro del rapporto operativo uomo-natura non è tanto l’uomo come soggetto di conoscenza e di dominio, ma è la v., nel cui contesto la vicenda umana è il punto-vertice (→ ambiente, → educazione ambientale). Ai credenti in particolare, per non concorrere all’ecocidio è richiesto di mediare l’amore per il prossimo attraverso l’amore per tutte le creature. Si tratta di un nuovo atteggiamento etico, personalista e cosmocentrico nello stesso tempo: la premura per la garanzia delle condizioni della v. in tutto il creato è il primo amore che dobbiamo avere verso il prossimo.
3. L’educazione alla v. S. Ireneo ha detto che «la gloria di Dio è l’uomo pienamente vivente!». Ma perché la v. sia vissuta nella sua pienezza occorre che essa abbia un → senso. Ora, per capire che cosa significa avere o produrre «senso» nella v. lo si interpreta dagli «effetti» che il senso stesso provoca: esso, infatti, produce attese, speranze, aspirazioni; rende capaci di amore solidale; stimola impegno e capacità costruttiva; suscita fedeltà e senso del rischio; sostiene la tenacia e la perseveranza attraverso giorni e stagioni dell’esistenza umana. Quando manca un «senso» tutta la v. diventa insensata, tutte le cose perdono i loro contorni precisi, si arriva al non-senso dei rapporti umani e gli avvenimenti perdono ogni qualità, la libertà si paralizza e si traduce in pigra indifferenza, i progetti hanno la durata di un’ubriacante evasione, la v. si dissocia e si disperde in momenti sconclusionati e senza senso, si vive per delega, e più che vivere alla giornata, si «muore alla giornata». Perché la v. abbia senso occorre, allora, credere in «qualcosa» o in «qualcuno». Perciò il senso della v. nasce innanzitutto da una fede – non necessariamente intesa come fede religiosa –, da una fede cioè vista come atto mediante cui l’uomo si affida a «valori» e a «speranze», dei quali non è ancora in grado di mostrare il grado di realizzabilità o di attitudine a saziare la v., ma che sono in grado però di costituire «quel» qualcosa o «quel» qualcuno per cui la v. ha significato, è «sensata»; e in questa direzione ci si impegna.
Bibliografia
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C. Bucciarelli