PSICOTERAPIA
PSICOTERAPIA
I vari tentativi di definizione unanime della p. (Bazzi, 1970; Cancrini, 1982) sono andati da un estremo che tende a comprendere in modo ampio qualsiasi processo d’induzione intenzionale di cambiamento del vissuto e del comportamento della persona (dal consiglio dell’amico all’esperienza di estasi) a definizioni più restrittive, limitate alla reale esistenza di un setting terapeutico.
1. Riferendoci a questa seconda impostazione, possiamo dire che occorrono almeno tre condizioni perché un intervento di modificazione del vissuto e del comportamento possa essere definito p.: innanzitutto la domanda da parte del soggetto di modificare qualcosa di sé; secondo, la scelta da parte del soggetto di raggiungere tale scopo con l’aiuto professionale di uno → psicoterapeuta; terzo, il consenso del terapeuta designato ad aiutare il soggetto in quest’impresa, consenso che in genere si accorda all’interno di un quadro normativo di riferimento, specificato nel contratto terapeutico (tempi, luogo, periodicità degli incontri, gestione delle assenze, ecc.). Quando esistono queste condizioni, esiste anche una relazione terapeutica e quindi esiste la p. Potremmo dire pertanto che la p. è una crescita della persona all’interno di una relazione, a prescindere dal modello di riferimento usato per gestire terapeuticamente questa relazione. In tutti quei casi in cui, per qualsiasi motivo, non può esistere questa particolare relazione così definita (anche implicitamente) non ci si può riferire a un intervento psicoterapeutico. Nei casi di invalidazione grave delle capacità relazionali del soggetto non si può impostare un intervento psicoterapeutico su di lui, perché la p. ha bisogno di basarsi su un contratto tra due o più persone, da cui si evinca la volontà condivisa di perseguire gli obiettivi terapeutici.
2. Il concetto di p. si è evoluto dalla fine dell’800, periodo in cui si cominciò a concepire l’idea della psiche, a oggi. A cavallo del secolo, infatti, abbiamo due grandi prospettive sulla cura psicologica, complementari tra loro ma rispondenti allo stesso paradigma culturale: la psicoanalisi e il comportamentismo. Il paradigma culturale era quello di un insanabile conflitto tra spontaneità dello sviluppo individuale ed esigenze del vivere sociale. Mentre per la psicoanalisi la cura del disagio consisteva in una presa d’atto della sua irrisolvibilità, con il conseguente passaggio, necessario allo sviluppo della civiltà, dal principio di piacere al principio di realtà, per il comportamentismo la p. era una forma di apprendimento più o meno attivo delle regole sociali. Tali modi di pensare il rapporto individuo / società, e quindi la cura del disagio psicologico, videro la propria crisi nei primi decenni del ’900. Ciò che accadde fu l’inizio di un pensiero nuovo, il dubbio lancinante che la realtà non fosse una norma da rispettare ma una costruzione percettiva e quindi, come tale, potesse anche essere destrutturata e ricomposta. Il senso stesso della prassi psicoterapica veniva profondamente toccato da problemi di questo tipo. Era infatti il concetto di normalità in sé a essere messo in discussione, insieme con la plausibilità di ogni pretesa definizione oggettiva del reale. La crisi di prescrittività della norma conduceva ad un modo nuovo di guardare il vissuto e la storia personale del paziente. Quest’ultimo reclamava ora dignità di significato e di valore indipendentemente dalla capacità di adeguarsi a parametri precostituiti, mentre diveniva a mano a mano inaccettabile l’idea che la cura dovesse consistere nell’adeguarsi acriticamente a un modello univoco di salute. La p. non poteva più proporsi come strumento di normalizzazione del disagio psichico, ma al contrario diventava il mezzo di una sua valorizzazione, di attribuzione ad esso di un significato quasi salvifico per l’essere umano che, rifiutando di appiattirsi nella routine dell’adattamento sociale, crea un disturbo. La p. diventa ricerca di un’espressione socializzata del disturbo (si pensi al movimento dell’anti-psichiatria e alla chiusura dei manicomi); il vivere sociale non può essere impostato soltanto su criteri di adattamento alle norme prestabilite. ma deve anche basarsi su di un tentativo di comprendere ciò che appare incomprensibile, ciò che non è socializzato. La p., in particolare l’insieme delle p. umanistiche, negli anni Sessanta assunse questo compito quasi «sacerdotale» di innalzamento, traduzione e collocazione sociale della diversità.
3. Passato il fervore di quegli anni, vediamo oggi i frutti, sia positivi che negativi, di una prospettiva sulla cura psicologica che dava estrema centralità ai valori dell’autonomia, al fare esperienza in sé e per sé, alle infinite possibilità dell’essere (non a caso si è parlato di società narcisistica: Larsch, 1981), a scapito dei valori dell’appartenenza, del limite, dell’esserci, dello stare fino in fondo nei ruoli sociali, della rinuncia insita in ogni scelta. È nata così l’esigenza di ricollocare il vissuto psicologico all’interno dei suoi confini spazio-temporali, in prospettiva sincronica (la relazione a cui appartiene) e in prospettiva diacronica (la storia in cui è inserito). La p. è vista allora come un modo di ripristinare una spontaneità di crescita interrotta, come un sostegno specifico da dare alla persona che attraversa una crisi di passaggio da una fase evolutiva all’altra, e che affronta questa crisi con modalità disfunzionali. L’idea è che la p. debba inserirsi nella vita della persona in un momento in cui questa ha bisogno di un sostegno ambientale per ritrovare la propria capacità, momentaneamente perduta, di orientarsi nel mondo e prendere da esso ciò che le serve per vivere, dando al contempo il proprio contributo originale e creativo. Questa concezione della p. non toglie dignità alla vita (siamo ben lontani dal pessimismo freudiano circa il dualismo insanabile tra esigenze individuali ed esigenze sociali), né al significato esistenziale insito in ogni sintomo, come sottolineato negli anni Sessanta, e inoltre attribuisce al disagio psichico una intenzionalità di contatto con il mondo che va appunto ripristinata attraverso una relazione, la relazione terapeutica. Potremmo dire che la p., alla fine del suo percorso, sostituisce la funzione che i riti avevano nelle società tribali: concludere una fase evolutiva ormai passata, sancire l’inizio di nuove competenze relazionali, accogliere nel gruppo sociale la persona che ha saputo assimilare la novità di una crescita (in questo senso la p. è anche momento socializzante per chi vi ricorre).
Bibliografia
Bazzi T., Le p., Milano, Rizzoli, 1970; Larsch C., La cultura del narcisismo, Milano, Bompiani, 1981; Cancrini L., Guida alla p., Roma, Editori Riuniti, 1982; Temerari Bari A., Storia, teorie e tecniche della p. cognitiva, Bari, Laterza, 2004.
M. Spagnuolo Lobb