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VALORI

 

VALORI

Il discorso dei v. è tra quelli più comunemente assegnati ad una​​ ​​ filosofia dell’educazione o ad una meta-teoria di essa (​​ pedagogia), nel loro riflettere sul quadro di riferimento ideale dell’agire educativo in genere e sul senso dell’istruzione pubblica in particolare. Nel contesto attuale, segnato dal pluralismo, dall’innovazione, dalla secolarizzazione, dalla crisi, dal​​ ​​ relativismo, dalla perdita di​​ ​​ senso e di oscuramento dei sistemi di significato, dalla ripresa di posizioni fondamentalistiche, c’è una rinnovata attenzione al discorso dei v. e dell’educazione ad essi.

1.​​ Il v. e i v.​​ Il termine v. proviene dal mondo economico, dove sta ad indicare il prezzo dovuto all’uso, al potere di scambio, al lavoro, alle materie prime, ecc. (cfr. il termine gr.​​ axía​​ = prezzo, costo). In senso derivato viene riferito all’ambito della morale (l’etica, il bene, il fine ultimo dell’azione). Ma il termine è diventato di uso comune, nel corso del XX sec., con la cosiddetta «filosofia dei v.» ad opera di autori come H. Rickert, F. Nietzsche,​​ ​​ Weber, M. Scheler, N. Hartmann. Con esso si viene per solito ad intendere: a) la qualità di una persona o cosa in quanto oggetto di apprezzamento («aver v.»); b) persona o cosa o categoria astratta che è degna di apprezzamento («essere un v.»); c) una dignità ed eccellenza che si pone come una sorta di ideale assoluto. In quest’ultimo significato, v. viene ad essere non solo principio di giudizio, ma anche fonte di emozione e principio di azione. Allo stesso tempo richiama un’idea, suscita un impegno, spinge ad agire (cfr. l’aggettivo gr.​​ áxios, degno, stimabile: da cui il termine «assiologia», e «assiologico» detto per tutto ciò che concerne lo studio relativo al mondo dei v.). Al plurale sta per ideali, per idee-forza, che si propongono come umanamente degni in sé ed umanizzanti nella loro attuazione.

2.​​ Per una concezione pedagogica del v.​​ Il v. può essere considerato da quattro versanti (o polarità): a) in sé e per sé, come eccellenza astratta (ad es., amicizia, amore, bellezza, utilità, verità, giustizia); b) come realtà valida (i cosiddetti «beni», ad es. un’opera d’arte, un atto di giustizia, un’affermazione vera); c) come preferenza soggettiva (aspirazioni, bisogni, desideri soggettivi per qualcosa che si considera buono, bello, grande, vero); d) come determinazione storico-culturale di v. (i cosiddetti sistemi di significato o quadri di v. propri di un gruppo, di un popolo o di una determinata epoca storica). Le diverse classificazioni dei v. costituiscono un tentativo di chiarire il panorama vasto e non facilmente generalizzabile del mondo dei v., proprio perché si accentua o l’uno o l’altro versante o polarità o perché nel momento dell’attuazione vengono a conflitto l’uno con l’altro. In rapporto all’educazione può essere interessante considerare la questione in una prospettiva relazionale-dinamica. Secondo questo modo di vedere, il luogo del v. è il rapporto interattivo e storico tra un soggetto ed altri soggetti; tra persone e cose; tra individualità ed ambiente; tra passato, presente e futuro; tra mondo soggettivo e mondo oggettivo; tra naturale e culturale; tra fattuale e possibile; tra attuale e futuribile; tra immanente e trascendente. Si viene a parlare propriamente di v. quando questa relazione innanzitutto è avvertita e più o meno coscientemente è accolta e giudicata «significativa», cioè denotativa di qualcosa che si fa apprezzare perché corrisponde alle esigenze ed alle possibilità di «un di più di umanità» per tutte le parti che entrano nella relazione. All’alba del v. ci sarebbe, infatti, la sensazione, vissuta o cosciente, che nell’apertura agli altri, nel mondo e nella storia, e magari all’Altro (presente e trascendente il mondo e la storia) sia dato intravedere la possibilità di realizzare un di più di umanità, per sé e per tutti, e una riqualificazione del mondo e della storia stessa. Dal punto di vista dei soggetti il v. indicherebbe la possibilità di qualificare umanamente e dare un​​ ​​ senso alla propria esistenza. Parimenti, nella luce del v., si mostrerebbe il ruolo attivo, ricostruttivo e creativo che il soggetto ha nella vita dell’universo, e d’altra parte il ruolo che il mondo storico, fisico e sociale, ha nei confronti del soggetto in ordine al realizzarsi di qualcosa che va oltre il loro attuale incontrarsi e stimolarsi. In tal modo c’è nell’affermazione del v. un aspetto che è sia trans-soggettivo sia trans-oggettivo, pur qualificando l’uno e l’altro e la relazione storica stessa. Con ciò si spiega lo scarto tra fatto e v.; ma anche il fatto che l’esperienza di v. si pone più nell’ordine della scoperta che dell’invenzione. Di per sé, nel giudizio di v. non c’è iscritta l’attuazione concreta. C’è però un appello di realizzazione, sotto il segno della reciprocità e responsabilità relazionale. Così è in particolare in ambito educativo. Perché si realizzi la crescita personale e comunitaria, e la buona qualità della vita personale, che sono i v. supremi dell’educazione, si richiede una «decisione per» ed un impegno da parte di tutti coloro che sono all’interno del processo formativo. Ma prima ancora occorre darsi da fare perché si diano la «piattaforma della comunicazione educativa», i supporti e le strategie medianti e facilitanti il gioco dinamico del​​ ​​ rapporto educativo, lavorando sui mezzi in vista di ciò che si pone come fine.

3.​​ Il v. della formazione. Secondo alcuni la​​ ​​ formazione, l’​​ educazione, l’​​ ​​ insegnamento, l’​​ ​​ addestramento sarebbero intrinsecamente un v., in quanto volti a sviluppare e promuovere uno stato desiderabile in coloro che sono in formazione. L’​​ ​​ apprendimento non è un fatto meccanico. La​​ ​​ comunicazione per essere efficace richiede che sia colta come significativa, vale a dire rispondente ad esigenze di sviluppo intellettuale, culturale e globalmente personale. Nell’insegnamento l’informazione è sorretta dalla motivazione e fa appello alla libertà dell’alunno perché, cogliendo la validità dell’informazione, comprenda che vale la pena d’impegnarsi ad interiorizzarla e a farla propria. La formazione culturale e professionale acquista il suo significato nel contesto di un’integrale umanizzazione personale e non si riduce ad un apprendimento specialistico o ad un addestramento puramente tecnico ed abilitativo. Infatti l’esperienza della formazione mostra in sé non solo la richiesta d’informazioni utili o l’acquisizione di abilità consolidate o di competenze di ruolo, ma anche l’istanza di sostegno alla crescita personale in libertà, responsabilità e solidarietà, l’attesa di relazioni significative, l’aspettativa di un vivace inserimento nel mondo sociale e professionale, nella prospettiva di una cura permanente di sé e del mondo in cui si vive. In tal senso l’educazione nella sua globalità si esprime come un’iniziazione a conoscenze, abilità, atteggiamenti, forme di vita che si considerano intrinsecamente valide e protese verso livelli superiori di completezza umana. Ma non tutti sono d’accordo su tale intrinseca validità dell’educazione. Non solo essa può essere strumentalizzata, ma può anche mortificare irrimediabilmente la spontaneità e la creatività personale. Inoltre la trasmissione di contenuti di v. potrebbe non sottrarsi a forme di ideologizzazione sottomissiva ed alienante. Per tal motivo nella tradizione pedagogica ad un’educazione «materiale» (vale a dire un’educazione focalizzata su quelli che erano considerati i contenuti di verità e di v. del patrimonio sociale di cultura) si contrapponeva un’educazione «formale» (vale a dire un’educazione focalizzata sulla formazione delle capacità, degli atteggiamenti, delle abilità, del senso critico). Ma forse, queste contrapposizioni manifestano più che altro le difficoltà concrete ed intrinseche all’educazione, e mettono in luce le diverse concezioni di​​ ​​ uomo e di​​ ​​ libertà, che si hanno di fronte nell’educare. In tutti i casi resta il v. promozionale e umanizzante della formazione.

4.​​ La scuola e i v.​​ Una tale problematica valoriale si riflette in modo specifico in ambito scolastico. Le questioni sono fondamentalmente di due tipi: la prima, se la scuola debba educare ai v.; la seconda, quali ne debbano essere le forme curricolari, le strategie di insegnamento e di apprendimento. C’è chi considera l’introduzione dei v. nella scuola una turbativa dell’apprendimento ed una forma di indottrinamento e perciò chiede che siano tenuti lontani da essa in nome della libertà degli alunni, della laicità della scuola, della rigorosità ed efficacia dell’apprendimento, del pluralismo sociale. La scuola dovrebbe limitarsi ad una solida istruzione, vale a dire ad una formazione intellettuale basata sulla trasmissione e l’acquisizione competente degli aspetti più universali del conoscere e della cultura. Per converso altri evidenziano il fatto che la neutralità educativa della scuola è illusoria. I v. sono presenti almeno a livello di «curricolo nascosto». La cultura scolastica è già di per sé una selezione del patrimonio sociale di cultura secondo criteri di validità, pertinenza, adeguatezza e significatività formativa. Le compromissioni che si riscontrano nei programmi e nelle iniziative legislative sulla scuola sono, a loro modo, conseguenze delle diverse immagini d’uomo, dei progetti-società e delle concezioni di umanità e di civiltà che i legislatori hanno in mente. In tal senso si può dire che sullo sfondo delle discussioni e delle decisioni di politica scolastica c’è sempre, almeno implicitamente, una referenza valoriale, seppure diversificata. Allo stesso modo si afferma che non si può schivare la responsabilità educativa della docenza e della scuola come istituzione sociale: nel bene e nel male. L’​​ ​​ indottrinamento sarà evitato se l’insegnamento sarà realmente tale, cioè offerta chiara, motivata e critica di quel tanto di informazioni e strategie d’apprendimento che permettano non solo di apprendere, ma anche di continuare a ricercare e ad istruirsi da sé in libertà. Inoltre si ribadisce che i pericoli non vengono solo dalla «dottrina», ma anche dall’assenza d’insegnamento, che lascia la gente in balia dei propri pregiudizi o di un falso sapere; oppure viene da un insegnamento troppo rapido o troppo specializzato, che abbandona la formazione dello spirito per limitarsi a selezionare e a fabbricare degli «attrezzi» umani, abili in prestazioni meccaniche e tecniche, ma poveri di quella competenza umana che permette di partecipare a pieno diritto e con tutti i titoli alla vita comunitaria. Più specificamente in questi ultimi anni alla scuola si è chiesto di fare opera di iniziazione soprattutto a quelli che sono detti «i nuovi v.»: lo sviluppo, l’ecologia, i diritti umani, la mondialità, l’internazionalità, la cooperazione, la solidarietà, la pace, la salute, ecc. In particolare si è posta come finalità peculiare della scuola l’educazione alla convivenza civile democratica, al fine di porre le basi conoscitive, emotive e comportamentali di una «morale pubblica» in un quadro di pluralismo, di complessità e di cambio socio-culturale. Anche in molte altre nazioni occidentali a regime liberale democratico, in alternativa o indipendentemente dall’insegnamento scolastico della religione, sono proposte forme di educazione morale e / o di educazione ai v., sotto forma di disciplina autonoma o di moduli didattici disciplinari e interdisciplinari, magari sostenute da attività formative extra-curricolari. In ambienti anglosassoni si sono pure sviluppate metodologie che hanno avuto un certo seguito. Tra esse giova ricordare la metodologia del​​ Set-of-Values, corrispondente ad un’educazione sociale attraverso l’insegnamento, lo stile dell’insegnamento, l’organizzazione e il clima scolastico di quei v. comunitariamente condivisi e considerati essenziali alla vita sociale (come il primato e la protezione della vita umana, la difesa della sopravvivenza umana, il rispetto della diversità culturale, la tutela dell’ambiente, la giustizia, la libertà, l’uguaglianza). Una seconda è quella denominata​​ Value analysis, che si serve del ragionamento, della riflessione e della discussione di gruppo per evidenziare le implicazioni possibili di differenti scelte pratiche. Entrambe diventano problematiche quando si voglia arrivare a consensi generalizzati e ad indicazioni di v. o di norme in qualche modo universali. In questa linea qualche decennio fa ebbe una certa diffusione, negli ambienti di lingua inglese, la cosiddetta​​ Value clarification, che non pretende questo orientamento normativo, ma solo abituare gli alunni ad esplicitare i criteri personali di giudizio che stanno alla base delle scelte personali. Ma il​​ ​​ relativismo valoriale e morale non viene superato; per tal motivo altri si sono rifatti alla teoria dello sviluppo morale di​​ ​​ Kohlberg per aiutare gli alunni a passare da giudizi morali eteronomi e particolaristici ad altri autonomi ed universalistici. Ma anch’essa non sembra essere esente da questioni più generali che vengono a riflettersi in questa sede: la concezione della libertà e della vita associata, il relativismo culturale e l’universalismo morale, l’ipoteticità e la normatività del conoscere in genere e di quello scientifico in particolare. A livello operativo può essere interessante il riferimento ai principi e ai v. che si ispirano e / o sono espressi nelle Costituzioni nazionali, nelle Dichiarazioni internazionali sui diritti dell’uomo e del fanciullo, in quanto permettono la condivisone ideale e la convergenza pratica nel pluralismo delle giustificazioni teoriche, delle concezioni filosofiche, dei credo ideologici o religiosi particolari o di gruppo (e conseguentemente nel dialogo / dibattito attorno ad essi).

Bibliografia

Peters R. S.,​​ Etica e educazione, Roma, Silva e Ciarrapico, 1973; Sloan D. (Ed.),​​ Education and values, New York, Teachers Coll.​​ Press, 1980; Morin L. - A. Adan (Edd.),​​ L’école et les valeurs, Quebec, Fleury, 1981; Massa R.,​​ Educare o istruire?, Milano, Unicopli, 1987; Cummings W. - Y. Tomod (Edd.),​​ Values education, London, Pergamon Press, 1988; Galli N. (Ed.),​​ Quali v. nella scuola di Stato, Brescia, La Scuola, 1989; Santelli Beccegato L. (Ed.),​​ Bisogno di v., Ibid., 1991; Dalle Fratte G. (Ed.),​​ Fine e v., Roma, Armando, 1992;​​ Houssaye J.,​​ Les valeurs à l’école. L’éducation aux temps de la sécularisation, Paris,​​ PUF, 1992; Reboul O.,​​ I v. dell’educazione, Milano, Ancora, 1995; Boudon R.,​​ Declino della morale? Declino dei v.?, Bologna, Il Mulino, 2003; Mapelli B.,​​ Nuove virtù, Milano, Guerini, 2004; Andreoli V.,​​ Principia. La caduta delle certezze, Milano, Rizzoli, 2007.

C. Nanni




VALORI PROFESSIONALI

 

VALORI PROFESSIONALI

I v.p. sono un’applicazione dei​​ ​​ v. generali alla professione.

1. Ogni persona sente la necessità di dare un senso alla propria esistenza e raggiunge tale finalità realizzando alcuni v. Anche l’attività lavorativa impegna le persone in un lungo periodo della vita e offre loro la possibilità di realizzare alcuni v., che sono propriamente i v.p. I v. sono motivanti per definizione e si manifestano nella realizzazione di un bene. Il v. quindi è un elevato obiettivo che il soggetto si prefigge e che diventa per lui un ideale. Il numero e la denominazione dei v.p. sono fluttuanti; a titolo esemplificativo possono essere raggruppati nelle seguenti categorie: a) affermazione sociale (appartenenza, prestigio e soddisfazione personale); b) modalità (retribuzione, sicurezza e qualifica); c) espressione di sé (creatività, rischio, perfezionamento e autorealizzazione).

2. I v. sono​​ intrinseci​​ ed​​ estrinseci​​ in rapporto ad un’area professionale o ad una specifica attività lavorativa; tale è la creatività per l’area artistica e la retribuzione per tutte le occupazioni. Il v. intrinseco indica l’autentica motivazione e contribuisce alla stabilità occupazionale. Anche la distinzione tra v.​​ finali​​ (creatività e perfezionamento) e v.​​ strumentali​​ (sicurezza e qualificazione) può essere utile per comprendere le vere motivazioni del soggetto. I v. maturano nella giovinezza e possono essere rilevati con alcuni questionari tra i quali uno bene elaborato va sotto il titolo «Scala dei v. p.» di Trentini, Bellotto e Bolla (1999). La scala è formata da 63 item dai quali si ottengono 21 v. tra i quali Avanzamento, Altruismo, Autonomia, Prestigio, Rischio ed altri. Questi danno origine a 5 orientamenti (materialistico, al sé, agli altri, all’indipendenza, alla sfida) e a 6 tipi (creativo, tranquillo, rampante, duro, autonomo, sociale). I tre tipi di informazioni complementari si prestano ad un articolato e proficuo colloquio tra l’operatore e l’utente dell’orientamento. Come gli​​ ​​ interessi professionali anche i v. contribuiscono alla scelta scolastica e professionale, alla soddisfazione nel lavoro e alla stabilità della scelta occupazionale (Dawis, 1991).

Bibliografia

Dawis R. V., «Vocational interests, values, and preferences», in M. D. Dunnette - L. M. Eough (Edd.),​​ Handbook of industrial and organizational psychology, vol. 2, Palo Alto, Consulting Psychologists Press,​​ 21991; Trentini G. - M. Bellotto - M. C. Bolla,​​ Scala dei v.p., Firenze, OS, 1999.

K. Poláček




VALUTAZIONE

 

VALUTAZIONE

La v. è un processo attraverso il quale si attribuisce un valore ad un prodotto, a un’azione, ad una competenza, ad una prestazione, ad un sistema complesso… Consta di più fasi: inizia con la definizione dell’oggetto da valutare, prosegue con l’identificazione di un modello di riferimento, per passare poi alla rilevazione delle caratteristiche del prodotto in esame, che vengono confrontate con quelle attese, per poter esprimere un giudizio sul grado di adeguatezza delle stesse ed assumere quindi delle decisioni. La v. può avere una funzione​​ formativa,​​ diagnostica,​​ predittiva,​​ sommativa,​​ certificativa​​ o​​ selettiva. In ambito scolastico la v. può riguardare il profitto o altre caratteristiche degli allievi (attitudini, condotte, capacità relazionali…).

1.​​ Storia degli studi sulla v. A partire dalla fine dell’Ottocento è emersa la presenza di incongruenze di vario genere nelle v. scolastiche (​​ docimologia). Studi sistematici, ricerche internazionali di ampio respiro, hanno messo rispettivamente in luce la scarsa attendibilità dei correttori, tra loro e con se stessi. Il rimedio a cui si è ricorsi è stata la standardizzazione degli strumenti valutativi, cioè la creazione di test di profitto, di​​ ​​ scale per la v. dei prodotti scolastici, di prove diagnostiche. Tale risposta è stata elaborata dagli studiosi del​​ Measurement​​ assumendo come modello le prove per misurare l’intelligenza e le attitudini. R. Tyler ha sostenuto in seguito la necessità di introdurre un approccio più articolato alla v. dei prodotti scolastici (Evaluation) che si propone di chiarire anzitutto gli obiettivi che s’intendono raggiungere, di estendere la rilevazione ad aspetti importanti della personalità e dell’ambiente di appartenenza, di variare i criteri di confronto. Se anche prima si ricorreva a prove diagnostiche e, sull’esito di queste, a un’opera di recupero (remedial teaching), con Tyler la v. diventa sempre più un mezzo ordinario per il monitoraggio delle strategie didattiche ed educative adottate e per il loro miglioramento. Si parla dunque progressivamente con più insistenza di​​ v. formativa, nel senso di regolativa dei processi di insegnamento-apprendimento. Con questa accezione viene proposta nel​​ mastery learning, che utilizza la verifica sistematica per regolare il progredire degli studenti in unità didattiche successive. In seguito, con gli apporti della psicoanalisi (Sandler), della psicologia sociale e della personalità (​​ Franta) si comincia a parlare di v. formativa, in riferimento all’azione che la stessa esercita su caratteristiche emotivo-affettive degli studenti. I docenti esprimono infatti in continuazione v. sui loro alunni durante il rapporto scolastico, non solo con atti formali, ma anche con cenni, richiami, con incoraggiamenti, con segni di disinteresse, mostrando di apprezzare o meno i loro sforzi, ecc. Questa sequenza quotidiana incide non solo sulla motivazione, ma anche sul concetto di sé che si sta formando in ognuno di loro, sulla fiducia in sé, sul progetto di sé. Vari autori (Bandura per es.) hanno cercato di studiare i meccanismi e gli esiti di questi processi che hanno un peso rilevante nella strutturazione della​​ ​​ personalità degli alunni. In questa linea si è constatato inoltre che la v. non è solo regolazione dell’​​ ​​ apprendimento, inteso come crescita culturale e sviluppo delle abilità cognitive, ma deve estendersi a tutti gli aspetti essenziali del processo educativo, al quadro di valori che si dovrebbe andar formando e alle strutture che assicurano solidità e equilibrio alla personalità. Le attuali istanze degli studi sulla v., specie di ispirazione americana, vanno nella direzione della​​ v. autentica, introdotta a metà degli anni ’80 del ’900 da studiosi come Wiggins. Si tratta di una v. che ricorre in ambienti di apprendimento significativi e si riferisce ad esperienze di apprendimento reale. È stata proposta in USA in contrapposizione all’uso massificante e indiscriminato dei test standardizzati di profitto che avevano impoverito le abilità, specie verbali, degli studenti. Si serve di strumenti di v. complessi, come il​​ ​​ portfolio, in grado di evidenziare i processi e l’acquisizione di vere e proprie​​ ​​ competenze, che possono essere descritte analiticamente (rubriche di v.).

2.​​ Problemi fondamentali. Negli studi sulla v., a volte, ci si è preoccupati di seguire mode piuttosto che affrontare problemi di sostanza. Le ricerche sulla v. possono essere invece feconde per le riflessioni di carattere etico, politico, pedagogico e didattico che ne susseguono. Richiameremo alcune questioni senza preoccupazioni di tipo cronologico. a) A proposito dei traguardi da raggiungere con l’apprendimento, si ritiene oggi che questi non vadano descritti come cumulo di nozioni, ma piuttosto in termini di modifiche delle condotte e dei significati delle stesse, in coerenza con la concezione d’una scuola che educa, che fa progredire culturalmente, che non si preoccupa solo delle informazioni ma anche dell’acquisizione di atteggiamenti, di interessi, di abitudini, di metodo. b) Alcuni studiosi seguendo più o meno letteralmente le istanze del comportamentismo, altri le richieste per una scienza formalmente corretta, si sono sforzati di precisare gli​​ ​​ obiettivi attraverso definizioni operative, cercando cioè di enumerare quello che l’alunno sa fare in relazione alla programmazione predisposta. Altri più recentemente hanno tradotto i traguardi da raggiungere in termini di competenze. L’esplicitazione di tali mete aiuta ad uscire dal vago, migliora l’affidabilità delle rilevazioni e delle comunicazioni. c) Lo studio degli svantaggiati e dell’emarginazione ha attirato l’attenzione sul curricolo implicito nelle v. di molti insegnanti e sul disaccordo tra gli obiettivi dichiarati e quelli effettivi. Ci può essere incoerenza tra le intenzioni e le prassi adottate anche a proposito della v. d) A seguito delle preoccupazioni di equità si è molto studiato l’eventuale peso negativo esercitato dalla v. nella​​ ​​ selezione e nell’emarginazione che può aver luogo in una scuola che privilegia il verbale, che può essere discriminante nelle scelte programmatiche e metodologiche. e) Nella v. si può adottare come termine di confronto sia il punto di partenza di ciascun soggetto (e constatare così i progressi compiuti), sia il profitto medio degli altri componenti di un gruppo con caratteristiche omogenee e confrontabili, sia gli​​ ​​ standard d’un livello scolastico, d’una professione, d’un settore culturale. La scelta d’un criterio, a preferenza di altri, poggia su ragioni teoriche ed ha conseguenze pratiche ben diverse. Usando prove tipificate si fa sovente ricorso a «norme», cioè a risultati paradigmatici raccolti sul gruppo a cui il soggetto appartiene o con cui è confrontabile; questo viene attuato anche prescindendo dall’utilità che una tale v. può avere ai fini delle scelte d’orientamento o per giudicare il grado di sviluppo delle attitudini. La v. fatta assumendo come riferimento il grado di padronanza di un’area culturale o un profilo di abilità comporta vari problemi per la costruzione di prove idonee e la scelta di metodi soddisfacenti per definire i criteri. Il problema s’è allargato quando si sono voluti definire gli standard minimi anche per un livello scolastico. La v. delle competenze pone inoltre il problema della validazione delle acquisizioni derivanti da contesti non formali.

3.​​ V. dell’apprendimento degli studenti e i suoi strumenti. Per non pochi, tra docenti e famiglie, i risultati scolastici sono da considerare in relazione prevalente, se non quasi esclusiva, con le attitudini (disposizioni naturali) e l’impegno dell’alunno. Oggi però, grazie anche agli stimoli provenienti da vari ambiti di studio (sociologia dell’educazione, pedagogia speciale, psicologia cognitiva) si è andato esplicitando il nesso tra programmazione, azione didattica e v. Quest’ultima ha ampliato così gli oggetti di rilevazione, cioè si è impegnata nella raccolta attendibile dei fatti concernenti l’apprendimento e in genere lo​​ ​​ sviluppo dell’alunno, per dar modo a chi è impegnato nella guida della crescita di avere elementi per intervenire opportunamente. Si è cercato così di valutare il peso dei vari fattori intervenienti e concomitanti e non solo degli esiti dell’alunno (v. sistemica). Sono cambiati i ritmi della v.: si parte da una rilevazione iniziale o conoscenza dell’alunno,​​ in ingresso, per censire lacune e risorse e individualizzare il piano di studio; si insiste su una​​ v. continua, per riaggiustare la programmazione e gli interventi lungo l’anno scolastico; ad essa segue una​​ v. complessiva​​ staticamente costatativa, cioè fatta per rendersi conto degli esiti. Questa concezione regolativa della v. propone, in modo molto diverso, il problema del recupero o del sostegno. Chi si preoccupa della misura del​​ ​​ profitto cerca d’individuare i punti essenziali dell’apprendimento ed effettua confronti tra studenti, tra classi, tra scuole e sistemi scolastici. I confronti esigono molta attenzione sul piano metodologico per essere corretti e possono dare origine a pseudomotivazioni, cioè alla ricerca del successo per se stesso. Non vanno però esclusi in modo preconcetto, perché possono servire per evitare illusioni nei docenti come negli alunni. Il confronto può esser fatto a scopo di cooperazione e usato come stimolo per la creatività e l’arricchimento. Può servire a scopi migliorativi, se valorizza le buone pratiche nell’autovalutazione d’istituto o gli esiti di eccellenza, se offre risultati medi come avviene nelle indagini promosse dagli Istituti Nazionali per la V. dei risultati scolastici. L’uso degli strumenti tecnici per la v., anche quando è legittimo, può richiedere una preparazione adeguata. È però alla portata della professionalità del docente, oltre che proficuo, riprendere una serie d’indicazioni della​​ ​​ psicometria per migliorare le proprie v. Per es., il concetto di validità, cioè la coerenza che ci dev’essere tra obiettivi da valutare e i relativi strumenti, deve diventare preoccupazione abituale di chi valuta. Così pure i diversi modi operativi per verificarla. Lo stesso dicasi per l’«affidabilità», che deve essere garantita dalla stabilità con cui un docente apprezza la prestazione di un medesimo studente in tempi diversi o dall’accordo con cui più docenti giudicano lo stesso compito. Andranno a tal fine controllati gli effetti distorcenti indicati in letteratura, come l’ordine con cui si correggono i compiti, gli aspetti formali delle prestazioni, gli effetti di ancoraggio, di alone (ovvero la pervasività di un unico aspetto che condiziona l’intero giudizio), le proiezioni… Questi originano interferenze nella v., per l’intrusione delle interazioni emotive nei giudizi, per il peso di circostanze esteriori negli esiti delle prove ecc. Per garantire validità e affidabilità sono state messe a punto procedure per standardizzare i processi valutativi ed evitare gli effetti distorcenti. Sono stati regolati i diversi passaggi di costruzione degli strumenti: a partire dalla selezione degli scopi degli stessi; fino al campionamento della materia da indagare; alle norme per la redazione dei quesiti e la loro disposizione nella prova; alle forme di controllo della corrispondenza tra obiettivi e item; alla scelta dei criteri di correzione e di attribuzione dei punteggi; alle norme di somministrazione; al controllo delle caratteristiche metriche che consentono di verificare se la difficoltà è adeguata e se la capacità selettiva è tale da evidenziare chi è preparato (capacità di discriminazione); ai procedimenti di formulazione dei giudizi e alla costituzione di profili. Gli studi evidenziano, infatti, la necessità di un’adeguata revisione degli strumenti tradizionali della v. (interrogazione, saggi, problemi) e di un uso attento e rigoroso di quelli nuovi (mappe concettuali, scale, discussione in gruppo). Uno strumento che aiuta gli insegnanti a utilizzare il tipo d’indicazioni prima citate sono le «guide per la v.». Possono esser preparate da esperti per l’uso quotidiano dei docenti o costruite da questi ultimi in base a opportune indicazioni e a un congruo esercizio. La «guida di v.» enuclea le dimensioni d’un costrutto attitudinale (per es., della​​ ​​ creatività, del pensiero critico) o culturale; determina gli indicatori o descrittori reperibili nelle prestazioni scolastiche; dà indicazioni sul modo d’arrivare a una sintesi; si correda dei consigli per l’uso didattico delle conclusioni raggiunte. Esiste anche una letteratura considerevole sulla conduzione rigorosa del​​ ​​ colloquio, le cui tecniche sono state affinate prevalentemente dalla ricerca psicologica e sociale. Le acquisizioni della ricerca dovrebbero rappresentare utili stimoli per il miglioramento degli strumenti di v. abituale dei docenti, elevando la consapevolezza metacognitiva che deve accompagnare sempre più consciamente la prassi corrente. L’attenzione ai mezzi non deve far dimenticare però che essa sarebbe insufficiente se i docenti e quanti guidano il processo educativo non si sforzassero di perfezionare la loro motivazione. Una v. formativa comporta per i docenti un impegno considerevole e una sottrazione di tempo alla didattica.

4.​​ V. dell’azione didattica e della qualità d’istituto.​​ La v. può riguardare anche gli insegnanti e in particolare la loro azione didattica. Quest’ultimo tipo di v. è stata oggetto di discussioni che hanno favorito la transizione da modelli che si centravano sulla persona del docente, a modelli analitici, che si focalizzavano su microaspetti relazionali e comunicativi, fino a quelli più recenti, che spostano il focus sulle prassi didattiche, contestualizzandole all’interno della situazione concreta in cui si manifestano. Tali v. diventano un elemento per apprezzare più in generale la qualità dell’intero istituto (autovalutazione d’istituto), che va pensata inserita a sua volta in relazione alla qualità del sistema formativo.

Bibliografia

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L. Calonghi - C. Coggi




VEDISMO

 

VEDISMO

Secondo la dottrina comune dell’​​ ​​ Induismo, i Veda sono libri sacri che contengono delle verità eterne rivelate da Dio e percepite nelle esperienze mistiche dei saggi (rishi) antichi. I Veda sono quattro:​​ Rigveda,​​ Yajurveda,​​ Samaveda​​ e​​ Atharvaveda​​ ed erano trasmessi prima oralmente e poi trascritti tra il 1500 e il 300 a.C. La religione e cultura fondate sui Veda vengono chiamate V.

1. Quando si parla dell’educazione nel V., ci si riferisce soprattutto all’ultima tappa dei Veda, alle​​ Upanishad​​ (upa​​ = vicino,​​ ni​​ = devotamente, e​​ sad​​ = seduto: devotamente seduto vicino al maestro o​​ Vedanta, che significa la fine e il fine dei Veda). Il fine dei Veda, quindi, consiste nell’ascoltare, comprendere, realizzare la dottrina insegnata da un​​ guru. L’Upanishad​​ si riferisce invece al contenuto della dottrina insegnata in tali sedute. La dottrina vedantica consiste nel​​ Brahman​​ (la causa e il principio ultimo o il fondamento dell’universo) che è​​ l’Atman​​ (il «Sé» o «anima», la realtà più profonda dell’uomo): il​​ Brahman​​ e​​ Atman​​ sono la stessa realtà. Questa dottrina non consiste solo nella presa di coscienza teorica che​​ Brahman​​ è​​ Atman​​ o​​ Atman​​ è​​ Brahman, ma nella realizzazione di questa verità:​​ tat tvam asi​​ (quello sei tu) (Chand.​​ Up., III, xiv, 1-4).

2. Lo scopo dell’educazione vedica è lo stesso di quello della​​ Vedanta:​​ l’autorealizzazione o unione dell’Atman​​ con​​ Brahman​​ (Dio). Lo studio delle altre materie o scienze, come​​ Yotisha​​ (astrologia),​​ Vyakarna​​ (grammatica),​​ Chandas​​ (prosodia),​​ Ajurveda​​ (medicina),​​ Gandharvaveda​​ (musica),​​ Dhanurveda​​ (arte della guerra), tutte contenute sia nei​​ Vedanga​​ (studi post-vedici considerati scienze ausiliarie dei Veda) o negli​​ Upaveda​​ (trattati supplementari dei Veda), è secondario e ha lo stesso scopo religioso. Secondo i Veda, le diverse fasi della vita indù sono accompagnate dai vari riti sacri, chiamati​​ Samskara​​ (sacramenti). Gli autori di Veda parlano di almeno sedici​​ Samskara, tra cui alcuni appartengono allo stadio dell’educazione.

3. L’iniziazione dello studio comincia con il rito sacro,​​ Vidyarambha​​ (l’inizio dello studio), chiamato anche​​ Akshararambha​​ (l’inizio dello studio dell’alfabeto), quando il fanciullo ha circa cinque anni. Il periodo di studio vedico o​​ brahmacarya​​ comincia con il rito di​​ Vedarambha​​ (inizio dello studio dei Veda) a cui sono ammessi solo coloro che hanno ricevuto l’upanayana​​ (il sacramento dell’iniziazione), condizione necessaria per iniziare lo studio vedico. Nell’antichità sia i ragazzi che le ragazze di tutte le caste furono ammessi all’upanayana​​ e allo studio dei Veda; più tardi però solo ragazzi appartenenti alle tre caste superiori furono ammessi a questo rito e allo studio dei Veda. Il periodo di​​ brahmacarya​​ (che è anche il primo stadio della vita o​​ asrama) comincia quando il​​ brahmacarin​​ (lo studente) lascia la sua casa e vive nella casa del​​ guru, sottomettendosi completamente al suo maestro durante tutto il periodo della sua formazione umana e religiosa che dura più o meno dodici anni. Il​​ Manava​​ Dharma​​ Sastra​​ (libro sacro delle leggi) contiene precise e dettagliate regole di condotta e vita per il​​ brahmacarin​​ (cfr.​​ Manu, II, 36-249; XI, 122-123); ad es. il modo di vestirsi, radersi i capelli, praticare quattro voti religiosi di castità, povertà, austerità e studi sacri, compiere i lavori domestici, mendicare il proprio cibo, pregare due volte al giorno, obbedire al maestro in ogni cosa e praticare varie discipline corporali. Gli studi sacri consistono principalmente nell’imparare a memoria i Veda in lingua sanscrita. Questa però è solo la prima tappa; la seconda consiste nel comprendere il significato, perché lo scopo ultimo è conoscere per realizzare la Verità suprema che salva. Tutte le altre discipline (​​ yoga​​ o​​ tapas) sono mezzi per arrivare a questa realizzazione.

4. Le caratteristiche principali del sistema educativo (chiamato​​ guru-sishya​​ o​​ gurukula) sono le seguenti: a) la casa del guru diventa la scuola domiciliare degli studenti; b) il​​ guru​​ è un individuo realizzato ed è riconosciuto come tale dagli altri; c) egli non ha solo il ruolo di insegnante ma anche di padre; d) è sempre presente e dà attenzione individuale agli studenti; e) il numero degli studenti per questa ragione è limitato; f) l’ammissione di uno studente dipende dal suo sviluppo morale, a parte il sacramento dell’upanayana; g) la disciplina del​​ brahmacarya​​ è imposta agli studenti; h) è obbligo morale degli studenti rispettare e onorare sempre il maestro, come se fosse loro padre. Il periodo di studio si conclude con il sacramento del​​ Samavartana​​ (rito di addio al​​ guru​​ e ritorno alla casa propria).

Bibliografia

Cultural heritage of India, 4 voll., Calcutta, The Ramakrishna Mission, 1953; Max Müller F.,​​ The Upanishads, 2 voll., Delhi, SBE I, 1965; Mookerji K. R.,​​ Ancient Indian education, Delhi, Motilal Banarsidass, 1989.

S. Thuruthiyil




VERIFICA

 

VERIFICA

Operazione di controllo per mezzo della quale si procede all’accertamento di determinati fatti, situazioni o risultati nelle loro modalità e nel loro valore in relazione a un obiettivo o ad una ipotesi (etim. lat.:​​ verum​​ = vero,​​ facere​​ = fare).

1.​​ Il significato.​​ Si procede alla v. (ingl.​​ verification, fr.​​ vérification, ted.​​ verifikation, sp.​​ verificación) ogni volta che si effettua una ricerca o si svolge un’attività educativa: si verifica un’ipotesi sperimentale o il conseguimento di determinati obiettivi educativi. In entrambi i casi si procede a una v. iniziale per poter descrivere la situazione di partenza del gruppo sperimentale o dei soggetti in formazione, relativamente agli obiettivi della ricerca o dell’attività educativa; poi ad una serie di verifiche intermedie per tenere sotto controllo l’andamento del processo raccogliendo man mano i risultati dei singoli interventi che rientrano nel piano di ricerca o nella progettazione educativa; infine ad una v. complessiva di tutte le attività svolte.

2.​​ V. e valutazione. In ambito scolastico il termine v. viene usato spesso come sinonimo di valutazione. Partendo dal presupposto che ogni atto valutativo comprende, in ordine cronologico: 1) una stimolazione valida e costante del soggetto per l’aspetto da valutare, 2) una rilevazione la più precisa possibile delle risposte fornite dal soggetto, 3) un confronto delle risposte rilevate con dei criteri prestabiliti al fine di pervenire a un giudizio sulla loro positività o meno (è la valutazione in senso stretto), 4) una espressione e comunicazione del giudizio, all’interno di questo quadro di riferimento il termine v. assume un significato più ristretto del termine valutazione in quanto non implica necessariamente la comunicazione del giudizio sui risultati. Inoltre si usa più facilmente il termine v. per riferirsi al controllo dell’effetto di un singolo atto di un intervento formativo mentre si preferisce usare il termine valutazione quando si prende in considerazione l’effetto globale di un intero processo formativo, che è composto da un insieme di interventi. Una serie di prove di v. consentono di effettuare una valutazione globalmente valida.

3.​​ V. della progettazione educativa. Si parla di v. anche a proposito della progettazione educativo-didattica, nel senso che periodicamente gli insegnanti dovrebbero controllare non solo i risultati conseguiti dagli alunni ma anche la congruità degli obiettivi formulati rispetto alle potenzialità degli alunni, la propria capacità di svolgere le attività didattiche programmate e l’utilità dei sussidi didattici impiegati.

4.​​ V. delle ipotesi. L’uso più frequente del termine si ha a proposito delle indagini sperimentali in cui si verificano le ipotesi di ricerca mediante l’osservazione sistematica o l’ esperimento. Esiste una stretta connessione tra la valutazione dei risultati di una ricerca e la v. delle ipotesi sperimentali perché un’ipotesi risulta verificata quando i risultati ottenuti al termine dell’attività educativa corrispondono a quelli attesi. Ciò comporta che le ipotesi vengano formulate operativamente. Formulare operativamente un’ipotesi significa esplicitare, prima dell’inizio dell’azione del fattore da mettere sotto controllo, sia nel caso che esso già esista nella situazione educativa sia nel caso in cui vi venga introdotto intenzionalmente, quali conseguenze si prevede di rilevare nei soggetti coinvolti nella ricerca al termine dell’azione del fattore sperimentale, se l’ipotesi è vera. Affinché un’ipotesi si possa verificare per via sperimentale essa deve essere formulata in modo tale che sia concepibile almeno un fatto che al termine dell’osservazione sistematica o dell’esperimento sia in grado di smentire ovvero dimostrare falsa l’asserzione ipotetica. Quando si vuole risolvere per via sperimentale un problema educativo si formulano delle ipotesi, che si mettono alla prova: da ogni ipotesi si traggono delle conseguenze, rilevanti per il problema studiato, che ci si attende di osservare empiricamente al termine della ricerca; si esplicita il modo attraverso cui è possibile controllare la presenza o meno dei fatti previsti; si fa poi agire il fattore sperimentale. Se le conseguenze previste nel momento della formulazione della singola ipotesi si danno poi effettivamente nei fatti, si dice che quella ipotesi è stata verificata; se invece i fatti alla fine negano anche una sola delle conseguenze previste si dice che l’ipotesi non è stata verificata. I passaggi logici che si compiono per la v. di un’ipotesi sono tre: se l’ipotesi x è vera al termine dell’attività educativa si osserveranno i fatti y in misura abbastanza rilevante da raggiungere il limite di significatività previamente stabilito; il piano di osservazione o di esperimento scelto consente di rilevare la presenza o l’assenza finale dei fatti y; a seconda della presenza o dell’assenza dei fatti y al termine dell’attività educativa l’ipotesi x risulta verificata o non verificata.

5. Gli strumenti di v.​​ La scelta degli strumenti per effettuare le v. apre un dibattito che riguarda sia l’attività educativa sia la ricerca sull’educazione; esso gira principalmente intorno al rapporto tra il «qualitativo» e il «quantitativo» nell’educazione. I primi strumenti costruiti per la v. scientifica dei risultati educativi tendevano a misurare gli aspetti quantitativi dei fenomeni, esploravano prevalentemente l’area cognitiva, coglievano i risultati piuttosto che i processi mediante i quali si giunge ad essi: che cosa sa l’alunno, quanto sa, quanti errori commette, quante risposte esatte fornisce e in quanto tempo. Progressivamente l’attenzione dei ricercatori si è spostata sui processi mentali che portano a determinati risultati (perché l’alunno risponde in un certo modo) e sugli aspetti non cognitivi della personalità: motivazioni, interessi atteggiamenti, emozioni; inoltre non si pretende più di misurare ma ci si accontenta di descrivere le situazioni. Da tempo ci si interroga sulle interazioni tra gli osservatori e gli osservati, tra i misuratori e i misurati; si sono evidenziati i significati diversi che il ricercatore, l’educatore e l’educando attribuiscono allo stesso fatto educativo osservato. In ultima analisi, pur continuando ad effettuare delle v. sui fatti educativi (né d’altro lato vi si potrebbe rinunciare per la natura stessa di tali fatti), se ne sono colti meglio i limiti e si è messa da parte la pretesa di ridurre l’uomo a ciò che lo strumento di v. è in grado di misurare. Insieme agli strumenti tradizionali per la v. dell’apprendimento, come l’interrogazione orale, la composizione scritta, i questionari, le prove oggettive e le prove diagnostiche, oggi vengono utilizzati dei nuovi strumenti di v.: quali, la riflessione parlata, per esplorare il procedimento attraverso cui un alunno giunge a un certo risultato, o le guide per l’osservazione sistematica di abilità intellettuali come la capacità critica, la creatività o la capacità di risolvere i problemi. Altri classici strumenti di v. sia degli aspetti cognitivi che di quelli non cognitivi del processo educativo sono i reattivi psicologici; si può definire un reattivo come una situazione (insieme di stimoli) rappresentativa di una certa area di comportamento, standardizzata (stessi stimoli-stesse risposte), dove dei soggetti sono chiamati a rispondere; in base alle diverse risposte dei soggetti alla situazione-stimolo è possibile misurare le differenze tra i soggetti in relazione all’area di comportamento esaminata. All’inizio degli anni settanta del ventesimo secolo si sono diffusi tra coloro che fanno ricerca educativa sul campo altre modalità di v. mutuate dall’ambito psico-sociologico e socio-antropologico, quali l’osservazione partecipante, il colloquio non direttivo, i racconti di storie di vita, il gioco dei ruoli, la tecnica degli incidenti critici, l’analisi di contenuto. Si tratta di strumenti descrittivi che non hanno la pretesa di misurare la portata e l’intensità dei fenomeni educativi bensì di descriverli nella loro complessità cogliendone le diverse sfaccettature. Chi fa ricerca educativa, per la v. delle ipotesi, deve saper utilizzare sia gli strumenti quantitativi che quelli qualitativi, se intende valutare adeguatamente i risultati ottenuti. Infatti, mentre le v. quantitative consentono di cogliere la dimensione dei fenomeni educativi, quelle qualitative danno loro vita e concretezza perché rivestono il corpo dei dati quantitativi rilevati con i dettagli e le sfumature che caratterizzano le persone e le situazioni. Le differenti informazioni che i due tipi di strumenti consentono di raccogliere sullo stesso fenomeno studiato costituiscono un arricchimento dei risultati della ricerca.

Bibliografia

Calonghi L.,​​ Valutare, Novara, De Agostini, 1983; Di Nuovo S.,​​ La sperimentazione in psicologia applicata.​​ Problemi di metodologia e analisi dei dati, Milano, Angeli, 1991; Boncori L.,​​ Teoria e tecnica dei test, Roma, Boringhieri, 2000; Coggi C. - A. Notti (Edd.),​​ Docimologia, Lecce, Pensa, 2002; La Marca A.,​​ Autovalutazione e e-learning all’università, Palermo, Palombo, 2004; Trinchero R.,​​ I metodi della ricerca educativa, Bari, Laterza, 2004.

G. Zanniello




VICO Giambattista

 

VICO Giambattista

n. a Napoli il 23 giugno 1668 - m. ivi il 23 gennaio 1744, filosofo italiano.

1.​​ Vita. V. ricevette dal padre, un modesto libraio, la prima educazione; proseguì, poi, gli studi presso i​​ ​​ Gesuiti, coltivando con particolare interesse la storia e la filosofia e leggendo con passione le opere di​​ ​​ Platone, Aristotele, Agostino, Cartesio, Grozio e Malebranche. Per alcuni anni fu precettore dei figli del marchese Rocca nel castello di Valtolla, dove poté utilizzare la ricca biblioteca. Nel 1699 vinse il concorso per la cattedra di eloquenza presso l’Università di Napoli e inutilmente, in seguito, aspirò alla cattedra di giurisprudenza, che sarebbe stata più consona ai suoi studi e che avrebbe migliorato la sua condizione economica. Condusse una vita oscura, fra le ristrettezze finanziarie e l’ambiente familiare poco adatto allo studio. Nel 1725 pubblicò l’opera fondamentale:​​ Principi d’una scienza nuova d’intorno alla natura delle nazioni, che continuò a rivedere fino alla morte.

2.​​ Il pensiero. «Con G. V. si entra veramente anche nel campo dell’educazione e della pedagogia in un ordine nuovo di idee per l’attenzione prestata al problema della storia, della storicità; una riflessione che non riguarda soltanto la filosofia della storia, ma che entra nel merito delle modalità, dei tempi, della dinamica dei processi formativi del bambino, della persona, dei gruppi sociali, della cultura, dell’umanità. Il confronto avviene in modo diretto, esplicito con il razionalismo, con l’illuminismo, con le scienze naturali e sperimentali, con l’insieme della rivoluzione scientifica da Bacone a Galilei a Cartesio […]. E se per i razionalisti, gli illuministi la ragione, la razionalità, l’intelligenza erano gli strumenti e i garanti del progresso, V. era molto più disincantato, individuava i limiti della ragione, della razionalità e insisteva sul ruolo civilizzante della fantasia, dell’immaginazione, della creatività, considerate da Cartesio le pazze di casa» (Fornaca, 1996, 120-121). Mentre​​ ​​ Cartesio aveva identificato il vero con il certo (verum est certum), l’intuizione fondamentale del V. in campo filosofico è espressa nella formula:​​ verum est factum, per cui riduceva enormemente l’orizzonte entro cui la ragione può avanzare pretese veritative. Sulla base di questo criterio V. opera la sua classificazione delle scienze, dividendole in​​ teologia, in cui la verità è rivelata e non fatta da noi, ma è cosa certa grazie alla rivelazione;​​ matematica, la quale realizza l’unità del vero e del fatto, perché si tratta di una costruzione della nostra mente; infine​​ fisica, in cui il vero si scinde nuovamente dal fatto, perché l’uomo non è creatore della natura. Un altro campo di ricerca in cui si può dare l’unità del vero col fatto è la storia, la quale, però, ha a che fare con fatti particolari e non universali e pertanto diviene problematica la dimostrazione della sua scientificità. Stabilire la scientificità della storia, secondo il principio​​ verum est factum, è quanto ha cercato di fare V. nella sua​​ Scienza nuova. Egli credette di conseguire questo obiettivo applicando alla storia la teoria platonica di un mondo ideale. Platone se ne era servito per elaborare una scienza della fisica, cioè del mondo materiale. V. la adopera per elaborare una scienza del mondo umano: il mondo delle vicende umane diviene pertanto l’attuazione di un piano ideale eterno. Gli elementi fondamentali della ricostruzione vichiana della storia sono: Dio con la sua provvidenza e l’uomo con la sua intraprendenza; l’unità storica, che è il «corso»; e la legge storica del «ricorso». Ogni corso storico è costituito da tre età o epoche: degli dei, degli eroi e degli uomini o, più semplicemente, dal percorso che conduce dall’infanzia, attraverso l’adolescenza, all’età adulta. Ogni epoca va interpretata secondo la mentalità che le è propria. La legge universale che regola la storia è quella della ritmica ripetizione delle tre epoche, una ripetizione, tuttavia, che non sopprime la libertà, non è ostacolo al progresso della civiltà, ma che è voluta da Dio, il quale accompagna costantemente con la sua provvidenza ogni vicenda umana.

3.​​ La pedagogia vichiana. V., precettore in casa Rocca, non dedicò alla riflessione pedagogica alcuno scritto particolare, ma la sua posizione filosofica appare fortemente caratterizzata in senso educativo, sia per i richiami antropologici che essa implica sia per il corso di studi e la riforma culturale che essa più o meno apertamente sostiene. Inoltre, abbastanza costanti sono i riferimenti a problemi pedagogici contenuti nelle varie opere del filosofo napoletano e in particolare nell’Autobiografia, nella dissertazione​​ Sul metodo degli studi del nostro tempo​​ e nella​​ Scienza nuova. Il pensiero di V. acquista un preciso significato pedagogico considerandolo almeno in questi aspetti: nella sua opposizione al razionalismo cartesiano; nella rivalutazione del senso e della fantasia; nella valorizzazione dell’azione, connessa al​​ verum ipsum factum; nella centralità della storia; nel valore dell’insegnamento umanistico-letterario. Tra le celebri «Orazioni inaugurali» del suo corso accademico si colloca l’orazione​​ De nostri temporis studiorum ratione​​ (Il metodo degli studi del nostro tempo, 1709). In questa dissertazione V. critica l’applicazione della metodologia cartesiana nel metodo degli studi. Il suo pensiero ha un preciso intento pedagogico: mettere in evidenza il limite di una educazione guidata unicamente dal rigore della astratta ragione. Contro la metodologia cartesiana, V., con intento psico-pedagogico, si preoccupa di riportare il metodo degli studi alla natura, cioè alle caratteristiche della fanciullezza e della giovinezza: il senso comune, la fantasia (la ragione nella vecchiaia), la memoria, per cui non bisogna infiacchire gli ingegni rivolti alla poesia, all’oratoria, alla pittura o alla giurisprudenza. Con la​​ Scienza nuova, di fronte alla riduzione cartesiana della realtà a pensiero o coscienza, al​​ cogito ergo sum, V. rivendica il mondo dell’uomo e della sua storia. L’implicazione pedagogica più importante delle tre età di cui parla V., è quella connessa con l’idea che lo sviluppo individuale ripeta lo sviluppo storico, per cui ogni fanciullo, crescendo, passa attraverso le tre età «ideali ed eterne», degli dei, degli eroi e degli uomini. Infatti, la prima fase di crescita dell’umanità, la fase del senso, corrisponde all’età della prima infanzia, quando il bambino è, appunto,​​ in-fante, cioè incapace di esprimersi con un linguaggio parlato: l’apprendimento, infatti, deve essere indirizzato verso la lingua. Il parallelismo emerge ancora di più nella seconda fase, dove la​​ fantasia, «tanto più robusta quanto più debole il raziocinio», accomuna il fanciullo all’uomo primitivo, che interpretava il mondo attraverso immagini poetiche. In questa età sono raccomandabili per V. letture di poeti e di oratori che soddisfano il bisogno di conoscenza «fantastica» e, per introdurre l’uso della ragione, anche la geometria, che sviluppa la «ragione intuitiva» e la capacità di «smaterializzare la mente». La terza fase di sviluppo dell’individuo coincide con «l’età degli uomini», nella quale la ragione prevale sulla fantasia senza però soffocarla, dando nuovi strumenti per capire la realtà e per regolare la propria condotta. Gli studi di questa età, quelli superiori, dovrebbero indirizzarsi alle «discipline di natura razionale», ossia alle diverse forme di filosofia che è la forma ideale per coordinare la molteplicità dello scibile e per conoscere se stessi. Gli studi filosofici per V. comprendevano anche la «Scienza Morale, formatrice dell’uomo» e la «Scienza Civile, formatrice del cittadino».

4.​​ Valutazione. Storicamente V. si colloca nel periodo della crisi dei fondamenti della nuova scienza fisico-matematica e della messa in discussione della validità dei processi conoscitivi, mostrando con vigore, attraverso tutta la sua opera, che non si esce dalle difficoltà se non con una nuova riflessione sull’uomo e sulle sue opere, così come viene proposta nella​​ Scienza nuova​​ e in ciò risiede anche la sua importanza dal punto di vista pedagogico. Di contro, poi, all’astrattismo razionale di Cartesio, è merito del V. l’aver ricordato che l’infanzia è caratterizzata dalla fantasia e dal fare e l’aver riproposto l’importanza della storia e della poesia nei percorsi didattici.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ Opere filosofiche, Firenze, La Nuova Italia, 1971;​​ Il metodo degli studi del nostro tempo, a cura di Biagio Loré, Scandicci (FI), La Nuova Italia 1993. b)​​ Studi: Flores​​ d’arcais G., «G.B.V.», in​​ Nuove questioni di pedagogia, vol. II, Brescia, La Scuola, 1977, 77-108; Jacobelli A. M.,​​ G.B.V.: per una «scienza della storia», Roma, Armando, 1985; Garin E.,​​ Dal Rinascimento all’Illuminismo.​​ Studi e ricerche, Firenze, Le Lettere, 1993, 73-106 e 197-217; Verene M. B.,​​ V.: a bibliography of works in English from 1884 to 1994, Bowling Green (Ohio), Ph.​​ Documentation Center, 1994; Scuderi G.,​​ Storicismo e pedagogia,​​ V.,​​ Cuoco,​​ Croce,​​ Gramsci, Roma, Armando, 1995; Fornaca R.,​​ Storia della pedagogia, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1996; Badaloni N.,​​ Introduzione a G.B.V., Bari, Laterza, 2005; Bordogna A.,​​ Gli idoli del foro. Retorica e mito nel pensiero di G.V., Roma, Aracne, 2007.

F. Casella




VIGLIETTI Mario

 

VIGLIETTI Mario

n. a Torino nel 1921 - m. ivi nel 2007. Salesiano, sacerdote, fondatore del COSPES - Centro di Orientamento Scolastico, Professionale e Sociale.​​ 

1.​​ Principi ispiratori.​​ Al 1948, a Torino risale – voluto da V. – il primo Congresso Nazionale di Orientamento Professionale, già inteso come modalità educativa permanente, cammino di​​ ​​ accompagnamento, inizio del processo di rinnovamento che avrebbe portato la scuola a preparare il giovane alla responsabilità delle sue future scelte. V. per curiosità nativa e per studio ebbe una cura particolare per la formazione tecnico-professionale: perciò mise a punto batterie di test appositi, di cui dava referti minuziosi e valorizzati dai colloqui di restituzione. L’​​ ​​ orientamento e la​​ ​​ valutazione dell’alunno o delle sue abilità attitudinali, erano per lui l’«interpretazione» del rendimento attraverso la conoscenza diretta del singolo e delle sue condizioni di vita e di motivazione all’impegno scolastico e di scelta (immediata o futura), per meglio promuoverne lo sviluppo e la maturazione umana, culturale e professionale. L’orientamento per V. è il nome dell’educazione aperta alla cultura dell’innovazione e del cambiamento, alla qualità della formazione, alla significatività dell’apprendimento e pertanto dell’offerta formativa. Sua meta è il processo teso alla fase psico-dinamica centrata sulla persona nell’ottica evolutiva del cambiamento, titolare di quello che «si sente e vuole fare» (tendenze, bisogni, inclinazioni, interessi, valori e motivazioni) e sensibile ai cambiamenti del mondo del lavoro.​​ 

2.​​ A.D.V.P.​​ Ideato nel 1970 da D. Pelletier, G. Noiseux e C. Bujold, dell’Università LAVAL, di Québec (Canada), il metodo della​​ Activation et Développement Vocationel Professionnel​​ interessò subito V. che lo vide parte integrante della formazione in ogni curricolo scolastico. Domina la concezione dell’orientamento centrato sull’acquisizione delle competenze del soggetto ad orientarsi, man mano che impara a conoscersi, ad identificare i propri bisogni fondamentali e a definire scopi e valori che mobilitano tutto il suo essere. Il metodo si ispira alla​​ teoria dello sviluppo evolutivo della scelta professionale​​ di D. E. Super – secondo cui il soggetto organizza il suo​​ progetto personale​​ di vita e di lavoro in relazione all’immagine che va maturando di se stesso nei vari stadi del suo sviluppo –, e tende a far sperimentare all’allievo e a fargli vivere,​​ operativamente,​​ le esigenze di acquisire le​​ abilità,​​ gli​​ atteggiamenti​​ e gli​​ strumenti​​ necessari a valorizzare e a percorrere vantaggiosamente, ciascuna tappa (o stadi) del processo evolutivo di scelta in cui è personalmente coinvolto.

3.​​ COSPES.​​ Nato da un’intuizione di V., risorsa di cui assicurare la continuità e l’efficacia secondo i diversi contesti locali e le richieste formative in continua evoluzione, è un’Associazione Nazionale con sede a Roma. Formato da docenti universitari, psicologi, psicoterapeuti, psicopedagogisti, operatori di orientamento, il COSPES promuove studi e ricerche nell’ambito dell’orientamento e dell’età evolutiva. Esso svolge attività di orientamento e di consulenza in ambito educativo e socioculturale, a servizio di gruppi giovanili, insegnanti, educatori, famiglie, animatori, istituzioni.

Bibliografia

a)​​ Fonti: principali opere di V.:​​ Psicologia e psicotecnica, Roma, Paoline, 1969;​​ Inventario d’interessi professionali MV 70 forma verbale e forma non verbale,​​ Firenze, O. S., 1985;​​ Orientamento: una modalità educativa permanente, Torino, SEI,1989;​​ Educazione alla scelta. Una guida operativo-pratica, Ibid., 1995. b)​​ Studi:​​ Super​​ d. e.,​​ Théorie du développement professionnel: individus, situations et processus,​​ in «Binop» (1969) n. 4, 221-240; Pelletier​​ d. & C. Bujold,​​ Pour une approche éducative en orientation. La collection Education des Choix: Guide de l’animateur, Issy-les-Moulineaux, E.A.P., 1988.​​ 

P. Grillo




VIOLENZA

 

VIOLENZA

La v. è in genere descritta come un tratto costitutivo della natura umana; dal punto di vista sociologico essa è fatta derivare dai conflitti; dal punto di vista psicologico è descritta come espressione della​​ ​​ aggressività.

1. È dunque considerata come momento reattivo degli individui di fronte a minacce esterne o​​ ​​ frustrazioni interne, tanto da impegnare l’interpretazione della aggressività interpersonale e della v. sociale (le guerre) come eventi riequilibratori dei conflitti. Ambedue le letture sono deboli sul piano teorico. L’aggressività concepita come tendenza, presente nel comportamento e nella fantasia, finalizzata alla etero ed auto-distruzione (per affermazione del sé) nel percorso frustrazione-aggressività-v. è messa in discussione da​​ ​​ Lewin, R. Lippit e R. K. White (1939) che demistificano la positività dell’effetto catartico conseguente allo scarico della tensione. Le ricerche etologiche mostrano poi che l’aggressività, per come è usualmente intesa dall’uomo, nel mondo animale non esiste. Lorenz (1976) libera la tendenza all’azione antagonista dai contenuti di aggressività distruttiva (per come sono psicologicamente vissuti dall’uomo) vedendoli come finalizzati alla conservazione della vita e del territorio.

2. Il​​ ​​ conflitto sociale è analizzato come il fulcro attorno a cui gravitano gli eserciti, la v. istituzionale ed i processi di guerra come strumento di difesa. Non risolto esso genera v. espressa con distruttività in ragione della potenza delle macchine belliche. Il criterio che alimenta l’espansione degli eserciti e delle guerre è paradossalmente quello della pace: la guerra infatti viene celebrata come strumento per la realizzazione della pace giusta, negando l’evidenza delle divisioni sociali e delle tensioni internazionali che sono sempre conseguenza dei conflitti. Quasi mai un conflitto genera pace con soddisfazione: la pace che si instaura, secondo R. Aron (1970), è in genere o pace fondata sul terrore e sull’impotenza o pace fondata sulla potenza (pace d’equilibrio, pace egemonica, pace imperiale).

3. Nella discussione sulla v. acquista un significato di rilievo l’analisi della v. esercitata dalle bande giovanili. Negli stili di vita violenti si riscontra il fallimento di un processo di educazione come liberazione dalla v. per la realizzazione di personalità capaci di​​ ​​ autorealizzazione soggettiva mediante disciplina, dialogo e confronto. Ciò che accade nelle bande giovanili ricorda che il compito dell’educatore è quello di insegnare a non far crescere l’aggressività, che continua erroneamente ad essere considerata forza positiva da scaricare, quasi l’essere umano fosse paragonabile ad un accumulatore privo di coscienza di sé e di capacità di modificare ed equilibrare i propri sentimenti.

Bibliografia

Lewin K. - R. Lippit - R. K. White,​​ Patterns of aggressive behavior in experimentally created «Social Climates», in «Journal of Social Psychology» 1939, 10, 271-299; Aron R.,​​ Pace e guerra tra le nazioni, Milano, Comunità, 1970; Lorenz K.,​​ L’aggressività, Milano, Il Saggiatore, 1976; Ferrarotti F.,​​ Alle radici della v., Milano, Rizzoli, 1979; Severino E.,​​ Techne. Le radici della v.,​​ Ibid., 1979; Caprara G. V. - P. Renzi,​​ L’aggressività umana,​​ Roma, Bulzoni, 1985; Salvini A.,​​ V. negli stadi, Firenze, Giunti-Barbera, 1986; Rebughini P.,​​ La v., Roma, Carocci, 2000; D’Ors A,​​ La v. e l’ordine, Lungro di Cosenza, Marco Editore, 2003; Boyle K.,​​ Media and violence: gendering the debates, Thousand Oaks, Sage, 2005; Flores M.,​​ Tutta la v. di un secolo, Milano, Feltrinelli, 2005.

V. Masini - G. Vettorato




VIRTÙ

 

VIRTÙ

La v. è una disposizione od orientamento stabile del carattere che rende facilmente accessibile e in certo modo connaturale una qualche particolare forma di comportamento morale positivo (​​ etica).

1. Il concetto di v. è stato elaborato dalla filosofia greca e da questa è poi passato nella riflessione morale cristiana, dove ha svolto a lungo una funzione di quadro ermeneutico del fatto morale e di principio ordinativo della sua esposizione. Il pensiero morale di s.​​ ​​ Tommaso è tutto fondato sul ruolo centrale di questo concetto: la vita morale vi è concepita e descritta come un complesso ma articolato ed unitario «organismo» di v.

2. Nell’epoca moderna, la teologia e la filosofia morale hanno abbandonato questo paradigma, sostituendolo con un’impostazione di carattere prevalentemente normativo, fondata sull’idea di una libertà senza storia e senza radici, alle prese con una decisione puntuale e tra un bene e un male astratti e atemporali. Recentemente un manipolo di studiosi (facenti capo ad A. McIntyre) sta cercando di restituire nuova vita all’impostazione aretologica classica. Non mancano inoltre autori (S. Hauerwas, E. Simpson) che tentano di trasporre in campo pedagogico questo revival. Essi imperniano le loro teorie sull’importanza e l’educabilità del carattere e delle v. che lo costituiscono e sul ruolo di una «comunità del carattere» nella sua formazione.

3. L’impostazione aretologica della morale permette di superare la concezione statica e atomistica del pensiero morale «moderno» e ci aiuta a capire il carattere evolutivo ed organico dell’esperienza morale. Il concetto di v. esprime bene l’idea di una crescita progressiva, attraverso la quale, facendo il bene, il soggetto plasma la sua personalità morale, rendendo sempre più stabile e connaturato il suo orientamento al bene. Essa coinvolge tutti gli spessori del vissuto umano e presuppone un’educazione globale. La pluralità dei tratti e delle disposizioni che costituiscono una personalità morale si integra in un tutto vivente. Il paradigma delle v. richiama infine il carattere originale ed unico della fisionomia morale di ogni persona. L’educazione può trovare nell’organismo delle v. non soltanto un modello, universale ma remoto, di riferimento ideale, ma anche la consapevolezza che l’educazione agisce sempre su un concreto carattere morale, dotato di qualità o disposizioni positive, ma anche di limiti, imperfezioni e condizionamenti negativi altrettanto particolari, combinati in un equilibrio assolutamente unico.

Bibliografia

Hauerwas S.,​​ Character and the Christian life: a study in theological ethics, San Antonio, Trinity University Press, 1975; Dent N. J. H.,​​ The moral psychology of the virtues, Cambridge, Cambridge University Press, 1983; McIntyre A.,​​ Dopo la v.: saggio di teoria morale, Milano, Feltrinelli, 1988; Abbà G.,​​ Felicità,​​ vita buona e v.: saggio di filosofia morale, Roma, LAS, 1989.

G. Gatti




VITA

 

VITA

Etimologicamente il termine deriva dal lat.​​ vis​​ (forza, vigore, potenza, energia). Nell’accezione comune, allora, la v. può essere descritta come forza attiva propria degli esseri animali e vegetali. La v. umana poi non è soltanto un organismo biologico ma anche una biografia esistenziale di una​​ ​​ persona.

1.​​ La v. come valore.​​ In senso analogico il sinonimo del «vivere» è quello dell’esistere​​ e al dover nascere alla v. va sempre correlato il «poter vivere o esistere». Va subito precisato però che c’è un duplice modo di concepire e vivere l’esistenza. Questa duplicità è sottesa dall’ambivalenza etimologica del termine stesso:​​ ex-esistere.​​ Infatti il significato della v. cambia a seconda della significatività che assume il prefisso​​ ex:​​ esso se applicato al termine «esistere» può essere interpretato come essere​​ fuori​​ o essere​​ verso.​​ Nel primo caso l’esistenza è oggettivata, emarginata. Essa si confonde con le cose. Esistere significa «essere-fuori», o «essere-altrove», o «essere-gettato» (ob-jectum), per cui l’esistenza in sé perde di senso, appare senza valore, senza possibilità e prospettive. Si pensi in proposito al dibattito suscitato dall’esistenzialismo in genere e da quello di Heidegger in particolare. Nel secondo caso l’esistenza è «verso-qualcosa» o «verso-qualcuno»: esistere, perciò, è «essere-per» o «essere-con», come il pensiero contemporaneo ha messo in luce. L’esistenza acquista così il senso, il valore e la finalità della​​ relazione, della​​ ​​ alterità. La relazione con l’altro diviene così la sua possibilità di autorealizzazione e la​​ ​​ libertà è assunta come compito e impegno. In questa ottica, allora, quando si parla dell’uomo-vivente si allude non solo alla qualità della v., ma alla​​ sacralità della v., perché l’uomo è persona ed è l’unico essere in cui la v. diventa capace di «riflessione» su di sé, di autodeterminazione; egli è l’unico vivente che ha la capacità di cogliere e scoprire il senso della sua esistenza e delle cose. La v. umana si presenta così come il valore massimo nel creato e trascende ogni altro bene temporale. Essa ha valore di fine e non di mezzo e si presenta come il punto assoluto di riferimento, a cui ogni altro valore mondano e storico deve riferirsi. Non esiste perciò un «diritto» contro la v. umana, dal momento che la stessa v. è il fondamento del diritto. Questa fondamentale forza assiologica e deontologica è radicata su un principio universale, assiomatico e operativo nello stesso tempo: l’uomo quando nasce deve essere valutato come un​​ dono​​ «per» e «con» e non come un​​ prodotto​​ da manipolare o commercializzare: la v. non si fabbrica, non si brevetta.

2.​​ La cultura della v.​​ Che significa avere una cultura della v.? La risposta a questo interrogativo è costituita da tre dimensioni tra loro concentriche, il cui centro è la persona umana. La prima dimensione è costituita dalla​​ inscindibile unicità della persona.​​ L’​​ ​​ uomo è un tutto unico e non può essere interpretato a compartimenti stagno. Infatti questo tipo di concezione dell’uomo, a comparti separati, ha generato dualismi impropri e bipolarità tra loro erroneamente contrapposte: istinto-volontà, materiale-spirituale, corpo-anima ecc. Ora, tale verticalizzazione rigida delle facoltà umane è rimessa fortemente in questione: infatti, anche se distinguibili, non vanno separate; tutte sono all’insegna del richiamo reciproco e vanno viste tra loro interdipendenti e interagenti nel contesto unitario della persona umana. L’uomo è un’unità inscindibile e la sua essenza è costituita dal​​ soma​​ (il corpo, la corporeità), dalla​​ psiche​​ (le emozioni, i sentimenti), dalla​​ nous​​ (la mente, la razionalità) e dal​​ sema​​ (i valori, i sistemi di significato). Tutti questi fattori, distinti sì ma non separabili perché tra loro interagenti, costituiscono l’essenza della persona, della v. umana. Nell’esercizio del corpo, per es., è tutta la persona che si visibilizza. La seconda dimensione che caratterizza la cultura della v. si ispira al rispetto assoluto della v. durante tutto l’arco cronologico dell’esistenza, dal concepimento alla morte naturale, sottraendola all’arbitrio di qualsiasi persona e di qualsiasi autorità. Ora la questione della v., della sua promozione e difesa, non è prerogativa dei soli cristiani – anche se dalla fede evangelica questo fatto riceve luce e forza straordinarie –; essa appartiene ad ogni coscienza umana che aspiri alla verità e che sia attenta e pensosa per le sorti dell’umanità. In questa ottica va anche la «Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo» (1948). È stato giustamente detto che il diritto alla v. è la nuova «questione sociale», perciò la promozione e la difesa della v. vanno attuate in tutto l’arco dell’esistenza umana: la​​ v.​​ iniziata​​ (il problema dell’aborto, la violenza sui minori); la​​ v.​​ verificata​​ (il primato della salute, l’umanizzazione della medicina); la​​ v.​​ manipolata​​ (l’adulterazione genetica, le tecniche della fecondazione); la​​ v.​​ marginale​​ (le nuove povertà, la condizione dell’anziano); la​​ v.​​ terminale​​ (il problema dell’eutanasia, l’umanizzazione del morire e della​​ ​​ morte). La soluzione di tutte queste vicende umane attiene ad un’autentica cultura della v. e va affrontata nel segno di un inequivocabile principio: la v. di ogni uomo è sacra! (bioetica). La terza dimensione sorge da un problema di scottante attualità: la nuova coscienza ecologica che ripropone un​​ rinnovato rapporto tra l’uomo e la natura.​​ Nel creato l’uomo non è il fine dell’evoluzione biologica, ma la v. è il fine. Perciò il rispetto della natura dev’essere basato sulla centralità della v. e questo principio deve farci passare da un immotivato​​ vitalismo antropocentrico, secondo cui l’uomo veniva definito senza limiti (jus utendi atque abutendi!), il senso di tutte le cose, ad una ragionata​​ visione biocentrica​​ che reinserisce l’uomo nella contestualità della biosfera assegnandogli il compito di controllare i processi. In parole più concrete: ciò che deve stare al centro del rapporto operativo uomo-natura non è tanto l’uomo come soggetto di conoscenza e di dominio, ma è la v., nel cui contesto la vicenda umana è il punto-vertice (​​ ambiente,​​ ​​ educazione ambientale). Ai credenti in particolare, per non concorrere all’ecocidio è richiesto di mediare l’amore per il prossimo attraverso l’amore per tutte le creature. Si tratta di un nuovo atteggiamento etico, personalista e cosmocentrico nello stesso tempo: la premura per la garanzia delle condizioni della v. in tutto il creato è il primo amore che dobbiamo avere verso il prossimo.

3.​​ L’educazione alla v.​​ S. Ireneo ha detto che «la gloria di Dio è l’uomo pienamente vivente!». Ma perché la v. sia vissuta nella sua pienezza occorre che essa abbia un​​ ​​ senso. Ora, per capire che cosa significa avere o produrre «senso» nella v. lo si interpreta dagli «effetti» che il senso stesso provoca: esso, infatti, produce attese, speranze, aspirazioni; rende capaci di amore solidale; stimola impegno e capacità costruttiva; suscita fedeltà e senso del rischio; sostiene la tenacia e la perseveranza attraverso giorni e stagioni dell’esistenza umana. Quando manca un «senso» tutta la v. diventa insensata, tutte le cose perdono i loro contorni precisi, si arriva al non-senso dei rapporti umani e gli avvenimenti perdono ogni qualità, la libertà si paralizza e si traduce in pigra indifferenza, i progetti hanno la durata di un’ubriacante evasione, la v. si dissocia e si disperde in momenti sconclusionati e senza senso, si vive per delega, e più che vivere alla giornata, si «muore alla giornata». Perché la v. abbia senso occorre, allora, credere in «qualcosa» o in «qualcuno». Perciò il senso della v. nasce innanzitutto da una​​ fede​​ – non necessariamente intesa come fede religiosa –, da una fede cioè vista come atto mediante cui l’uomo si affida a «valori» e a «speranze», dei quali non è ancora in grado di mostrare il grado di realizzabilità o di attitudine a saziare la v., ma che sono in grado però di costituire «quel» qualcosa o «quel» qualcuno per cui la v. ha significato, è «sensata»; e in questa direzione ci si impegna.

Bibliografia

Frankl V.,​​ Alla ricerca di un significato della v., Milano, Mursia, 1990; Pearson C.,​​ L’eroe dentro di noi, Roma, Astrolabio, 1990; Fizzotti E. (Ed.),​​ «Chi ha un perché nella v.…», Roma, LAS, 1992; Gevaert J.,​​ Il problema dell’uomo, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1992; Fromm E.,​​ L’amore per la v., Milano, Mondadori, 1993; Mancini R.,​​ Il dono del senso,​​ Assisi, Cittadella, 1999; Sanna I. (Ed.),​​ La sfida del post-umano, Roma, Studium, 2005.

C. Bucciarelli