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TOMMASO D’AQUINO

 

TOMMASO D’AQUINO

n. a Roccasecca (Frosinone) nel 1224 / 25 ca. - m. a Fossanova (Latina) nel 1274, teologo domenicano.

1. Ultimo dei quattro maschi dei nove figli accertati di Landolfo,​​ miles​​ a Roccasecca, e di Teodora Rossi-Caracciolo, è oblato,​​ quinquennis, a Montecassino, ove resta tra il 1230 e il 1239 [1]. Allorché Federico II decide di appropriarsi dell’abbazia, in rappresaglia alla sua seconda scomunica ad opera di Gregorio IX, su consiglio del desautorato abate Stefano di Corbario e​​ de utriusque parentis consilio, passa adolescente a Napoli, presso la dipendenza cassinense di s. Domenico, per proseguire lo studio delle​​ Sette arti liberali, presso lo​​ Studium​​ locale. Nel 1244 chiede di essere accolto tra i Domenicani, da poco insediati in città. Non lo fermano renitenze familiari, e nell’autunno del 1245, al seguito del Maestro generale Giovanni il Teutonico, passa a Parigi. Fino al 1248 vi completa gli studi iniziati a Napoli. Tra il 1248 e il 1252 soggiorna a Colonia, a disposizione di Alberto Magno. Lascia l’uno e l’altra per Parigi ove, tra il 1252 e il 1256, compie gli studi di Teologia. La corporazione universitaria stenta ad assimilare la concorrenza feconda degli Ordini mendicanti; e però superate le opposizioni per l’intervento di papa Alessandro IV, nel febbraio del 1256, ottiene la​​ Licentia docendi.​​ La esercita fino allo scadere del triennio canonico, e nell’autunno del 1259 rientra a Napoli, ove resta fino al settembre del 1261, allorché nel capitolo provinciale di Orvieto è nominato predicatore generale, con l’incarico di seguire i capitoli della provincia. A tanto impegno si sovrappone l’incarico, da parte del capitolo anagnino di curare l’apertura di uno Studium:​​ quia videmus quod in ista provincia studium negligitur​​ [2]. Di siffatte ingiunzioni la Provincia romana ne registra reiterate e frustrate più d’una. Più che provvida misura, tale coinvolgimento del predicatore generale prende l’aria d’una condiscendente replica a pregresse rimostranze. Tra il settembre 1268 e il giugno 1272, T. torna a reggere, a Parigi, la cattedra di Teologia. I motivi di tale anomalo rientro non sono del tutto perspicui, anche se è noto che l’Università attraversa un periodo di contrastata effervescenza. Nel giugno 1272 è a Firenze ove l’annuale capitolo provinciale gli affida l’ennesima fondazione di uno​​ Studium, ove e come T. voglia. Di fatto egli sceglie Napoli. Nel dicembre 1273, la sua salute si fa precaria. Chiamato da Gregorio X all’imminente Concilio generale di Lione, T. si avvia, deferente, ma per cessare di vivere a Fossanova il 7 marzo 1274. Il 18 luglio 1323, a preferenza di Raimondo di Peñafort, proposto dal capitolo generale di Pamplona, viene canonizzato ad Avignone da Giovanni XXII; il 15 aprile del 1567, da Pio V, è proclamato​​ Doctor Ecclesiae.

2. Una costituzione robusta protegge un’indole introversa, affatto corriva. In una sua lettera del giugno del 1285, il francescano Giovanni Peckham († 1292), collega del Domenicano a Parigi tra il 1268 e il 1272, finito poi arcivescovo di Canterbury, ne descrive con singolare approssimazione il patetico isolamento. C’è accreditatissima la sistematizzazione che in tutto e per tutto si rifà, tramite Alessandro di Hales, Bonaventura di Bagnoregio, e tutti gli altri illustri maestri francescani e non, alla veneranda tradizione cui​​ ​​ Agostino dà vita; e c’è di contro​​ illa​​ novella quasi tota contraria,​​ quae quidquid docet Augustinus​​ –​​ destruit pro viribus et enervat,​​ pugnas verborum inferens toti mundo​​ – (Chartularium Universitatis Parisiensis, I, p. 634s.). Sì, T. non ama Agostino,​​ platonicorum doctrinis imbutus​​ (Summa th., IIa IIae, q. XXIII, a. 2, ad 1m ) e da lui si discosta, non senza tentare, sulle prime, di riconsiderare deferentemente le coordinate strutturali delle sue opzioni. Tuttavia siffatta diversione non lo consegna mai ad Aristotele. Del filosofo si libera già sugli inizi del proprio avvio, allorché, a ridosso del suo​​ De essentia et entibus​​ (Metaph.​​ VII), assesta, non ancora autorizzato, un proprio​​ De ente et essentia.​​ E nel seguito ne controllerà nei​​ Commenti​​ e ovunque altrove, il sempre più invadente contributo [3]. Solitario, non può non procedere sperimentando. Lo​​ Scriptum super libros Sententiarum​​ (1252-56), registra più d’una variazione, in seguito alle quali consegna alle​​ Q.D. de veritate​​ (1256-59) una elaborata metafisica della rettitudine, sottesa dall’inflessibilità di Dio. Tuttavia, pur se volenterosa, essa risulta tosto abusiva intraprendenza. Una autocritica del ragionare umano sostanzia, prevaricando, l’Expositio in l. Boethii de Trinitate​​ (1258-59); e giusto sulla misura dell’uomo è distesa la riflessione cristiana nella​​ Summa c. gentiles​​ (1259-65). Il​​ Compendium theologiae, organizzato sul trittico delle virtù teologali, non può non richiamare la tripartizione abelardiana, quasi un ricupero sperimentale. Tosto la gratuita abrupta imponenza delle​​ Q.D. de potentia Dei​​ (1265-66) inaugura sontuosamente, contro le angustie dell’Avicennismo, una metafisica della fecondità. Ed ecco la​​ Summa theologiae​​ (1267-73) tesa a realizzarne i termini in Dio (Ia), nell’uomo (IIa), nell’ambivalenza del Verbo incarnato (IIIa).

3. Il fatto che quest’ultima composizione sia dedicata ad​​ incipientes, così come quel tanto di attività pastorale che gli impegni accademici gli consentono [4], denotano inequivoca la volontà di aprire, ormai quarantenne, agli esordienti il suo residuo interesse. Nel settembre del 1272, del resto, nominato suo malgrado esecutore testamentario dal cognato Ruggero d’Aquila, sottrae senza ambagi all’Amministratore dei beni della Corona, cui re Carlo I li ha affidati, i quattro orfani, per riconsegnarli, memore dello strazio della propria oblatura, alla tenerezza della mamma [1]. Non è perciò fuor di proposito estrapolare dalle sue contesture teologiche inesplicitate indicazioni di interesse pedagogico. L’uomo, di cui nella seconda parte della​​ Summa theologiae​​ studia la fecondità, è soggetto strutturalmente individuale, estenuato per di più tra generazione e corruzione. Una sorta di scarto duttile della specie, o, come lo si designa tecnicamente, una parte soggettiva che, mentre evolve tra nascita e morte, non può esprimerne le virtualità, né tutte né al meglio (Ia IIae, q. LXIII, a. 1). Onde sopravvivere, esso si associa d’istinto in solidarietà e concorrenze più o meno impegnative, che leniscono, senza tuttavia saturarle, le strutturali menomazioni che l’individuano. Seguito nel suo operare, dacché​​ agere sequitur esse, un soggetto siffatto, non solo non sa esprimere le complessive virtuosità della specie, ma dispiegherà di massima dinamicità non sempre congrue, né sempre congruamente espresse. A meno che i suoi apparati non siano suscettibili di abituali adattamenti. Di fatto, a parere di T., i principii operativi dell’uomo lo sono. Egli è dotato di razionalità e per ciò stesso è capace di ponderazione. Anche la razionalità in parola è partecipata, ma può essere disciplinata e può come tale immettere a sua volta misura e disciplina nelle propensioni che sostanziano ogni produttività. Spetta alla ponderazione disporre ed imporre caso per caso la discrezione opportuna alle tendenze eccedenti, la stimolazione necessaria alle tendenze retrive, e la commisurazione debita ai contesti. Naturalmente il fluttuare tra nascita e morte rende sempre ardua l’intrapresa di esprimere continuatamente al meglio l’uomo che si è: per tale ragione la partita è esaltante, e in definitiva ineludibile. Questo è comunque l’uomo. Solo soggetti non individualizzati e perciò immateriali sono in grado di esprimere, senza previe calettature, la naturale espansività della specie che verificano (Ia IIae, q. LI, a. 1:​​ Utrum in angelis sit aliquis habitus). La seconda parte della​​ Summa theologiae​​ può prospettare al meglio, ai suoi destinatari esordienti, questo intricato organico. E però, come fare singolarmente al dettaglio, nella farragine della storicità, il mestiere dell’uomo, da​​ puer​​ se​​ puer, da​​ adolescens​​ se​​ adolescens, da​​ iuvenis​​ se​​ iuvenis, da​​ gravis​​ se​​ gravis, da​​ senex​​ se​​ senex, non è disciplina scolare; è fatica strenua dell’educazione [5].

Bibliografia

[1]​​ Torrell J.-P.,​​ Initiation à saint Thomas d’Aquin. Sa personne et son oeuvre, Fribourg-Paris,​​ 1993; [2]​​ Monumenta O.P. Historica, 20, 29; [3] Weisheipl J.,​​ Thomas’ evaluation of Plato and Aristotle, in «New Scholasticism» XLVIII, 1974, 100-124; [4]​​ Torrell J.-P.,​​ La pratique pastorale d’un théologien du XIIIe siècle: Thomas d’Aquin,​​ prédicateur, in «Revue Thomiste» LXXXII,​​ 1982, 213-245; [5] Buehler W. J.,​​ The role of prudence in education, Washington, D.C., 1950; Westberger D.,​​ Right practical reason. Aristotle,​​ action,​​ and prudence in Aquinas, Oxford, 1994;​​ Schrör Ch.,​​ Praktische Vernunft bei Thomas von Aquin, Stuttgart, 1994.

P. T. Stella