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STORIA DELL’INFANZIA E DELLA GIOVENTÙ

 

STORIA DELL’INFANZIA​​ E DELLA GIOVENTÙ

La s.d.i. e d.g., come la s. della vecchiaia e altre s. di genere, può essere considerata dal punto di vista storico e storiografico.

1. Da un punto di vista storico non esiste una s.d.i. e d.g., o dei minori e simili, se non come s. dei vari ceti (nobili, borghesi, popolari, professionali) entro comunità più o meno larghe (da quella di villaggio a quella nazionale) e dislocata nel tempo e nello spazio (urbano, rurale, montano); insomma la s. si modella sulla s. delle varie classi sociali con le loro condizioni materiali di vita decisamente influenti, a seconda delle aree e degli ambiti, sugli adulti come sui minori. Si pensi all’ambito familiare, all’importanza ivi assunta dal bambino nel tempo, nel quadro sociale, nella stessa tipologia familiare, che presenta volti antichi e moderni; si pensi ad una istituzione sociale volta ad assicurare la comunità del patrimonio incentrata sull’autorità paterna, alla presenza (o assenza) di legami familiari come «lo spirito di famiglia», agli aspetti della vita domestica e privata e così via; si pensi alla grande rivoluzione demografica ed all’urbanizzazione connesse alla rivoluzione industriale, che cambiano gli stessi quadri di riferimento dell’infanzia e della gioventù. La s. del genere presenta indubbi caratteri comuni a larga parte di quello specifico strato di popolazione sia che si tratti di abbandono, che di violenza, di sfruttamento agricolo e industriale, come di istruzione primaria e secondaria; vi pesano indubbie variabili sociali, economiche e giuridiche; vi influiscono, in misura diversificata, congiunture dovute a carestie ed epidemie e simili. Esiste, sul piano dell’immaginario, il complesso di idee costruite e fatte proprie dal mondo adulto sull’infanzia e sulla gioventù, e anche sulla sua s., in una lenta secolare presa di coscienza dell’individualità umana nel suo farsi. Naturalmente l’elaborazione delle idee assume toni diversi a seconda della condizione sociale, passandovi fattori come la cultura, i livelli di alfabetizzazione, il tipo di fede religiosa (si pensi al mondo protestante), persistenze ataviche e così via.

2. Nella società medievale il «sentimento» dell’infanzia, vale a dire la consapevolezza della peculiarità dell’infanzia, è diverso dalla società moderna, dove tutto cambia con la separazione del bambino dalla famiglia, con un lento processo di scolarizzazione del bambino e l’intervento di sempre più plurime agenzie di socializzazione nella società contemporanea. Nell’Ottocento e nel Novecento lentamente, in vari Paesi europei dapprima, quindi in Italia, si afferma un modello borghese, non senza incontrare resistenze quanto a sentimenti, pratiche di vita consolidate e abitudini. Veicoli ne sono la letteratura per l’infanzia, la scuola primaria, le istituzioni educative in senso lato, ma anche l’extrascolastico come forme di socializzazione, di integrazione, di formazione di identità sia pure in contesti i più vari. Anche per l’età contemporanea sono importanti le suggestioni di un libro che può essere considerato emblematico:​​ Padri e figli nell’Europa medievale e moderna,​​ di Ph. Ariès (con tutte le riserve avanzate dai recenti studi sul​​ ​​ Medioevo). Dal punto di vista storiografico non se ne può prescindere; per contrasto risulta chiarificatore anche l’apporto di L. De Mause che espone invece, come hanno sottolineato Becchi e Julia «una teoria lineare della s.»; questa «produce un miglioramento generale della sorte dei bambini», e la periodizzazione dei modi di relazione più diffusi tra genitori e figli «nella parte più evoluta della popolazione e nei paesi socialmente più avanzati» si risolve in uno schema, tutto sommato bizzarro, di sei «modi» che sarebbero apparsi successivamente: da quello «infanticida», nato nell’Antichità, fino a quello «cooperativo», che ha inizio nel sec. scorso, attraverso quello del «rifiuto», proprio del Medioevo, quello «ambivalente» dei sec. XIV-XVII, quello «intrusivo» del Settecento (nel quale comincia ad affermarsi una reazione «empatica» dei genitori nei confronti dei loro figli), quello «socializzante» che esordisce nell’Ottocento. La s.d.i. prevista da De Mause finisce con l’essere un lungo «catalogo di atrocità» con «un gusto spiccato per il macabro».

3. D’altra parte accentuando in chiave antropologica il marcato carattere di​​ liminalità​​ della giovinezza, colta «all’interno dei margini mobili tra la dipendenza infantile e l’autonomia dell’età adulta, in quel periodo di puro cambiamento e di inquietudine in cui si realizzano le promesse dell’adolescenza, tra l’immaturità sessuale e la maturità, tra la formazione e il pieno dispiego delle facoltà mentali, tra la mancanza e l’acquisizione di autorità e di potere», le società nel tempo hanno sempre «costruito» la giovinezza come un fatto intrinsecamente instabile, irriducibile alla fissità dei fatti demografici o giuridici, come una realtà culturale in cui gli individui sembrano non appartenere alle classi di età, ma le attraversano; allora si tende non ad una s., ma a s. plurime di giovani, scollocati ogni volta «nel groviglio di rapporti sociali specifici, legati a contesti e momenti storici differenti», indagati in una molteplicità di prospettive, in cui vengono valorizzati i riti di passaggio o della liminalità giovanile. La storiografia italiana offre contributi di G. Levi, O. Niccoli, E. Becchi, D. Bertoni Jovine, J.-C. Schmitt, E. Trisciuzzi, per non considerare altri apporti. Ancor prima che dal punto di vista storico e storiografico occorre però chiedersi che senso abbia una s. di generi: se si pone al centro dell’interesse una categoria astratta e avulsa dal resto e dal contesto, si compie una falsificazione storica ponendo in essere una produzione affatto ideologica; come è stato giustamente notato «il bambino del benessere, il bambino-re, il bambino oggetto libero e felice della pubblicità, il bambino cui si destinano Disneyland, Eurodisney, parco di Astérix, non è il modello più diffuso; i bambini che lavorano sono ancora oggi centinaia di milioni»; diversamente, connessa con il quadro più generale entro il quale va compresa, calata, letta la s. di genere può contribuire a fare emergere caratteri e aspetti insondati, arricchire con nuove acquisizioni, porre ulteriori problemi.

4. Ben diverso, naturalmente, è affrontare il tema della educazione dell’infanzia che è insieme s. di modelli, ma anche di interventi educativi, nonché di istituzioni formative, dove si fanno i conti con il contributo offerto da​​ ​​ Aporti,​​ ​​ Montessori,​​ ​​ Agazzi,​​ ​​ Fröbel. L’educazione dell’infanzia implica l’esame della politica scolastica dall’asilo alla scuola infantile sia sul piano scolastico che su quello dell’orientamento dei programmi didattici come su quello del recupero con educazione specifica (convitti per orfani, ad es.). Ma se si esula dalla s. dell’educazione dell’infanzia e della gioventù, molto facilmente si scivola nella s. di genere, autoreferente, isolata, al limite inutile.

Bibliografia

Ariès Ph.,​​ Padri e figli nell’Europa medievale e moderna,​​ Bari, Laterza, 1976; Levi G. (Ed.),​​ S. dei giovani,​​ Roma / Bari, Laterza, 1994; Becchi E. - D. Julia (Edd.),​​ S.d.i.,​​ 2​​ voll., Ibid., 1996; Dogliani P.,​​ S. dei giovani, Milano, Mondadori, 2003;​​ Gutiérrez A. - P. Pernil,​​ Historia de la infancia. Itinerarios educativos, Madrid, UNED, 2004.​​ 

A. Turchini




STORIA DELLA PEDAGOGIA

 

STORIA DELLA PEDAGOGIA

Come s. di un settore particolare (più che di una disciplina specifica), rientra nel discorso storico ed è nata ancora prima di un riconoscimento ufficiale della «pedagogia come scienza», almeno con riferimento alle istituzioni e, in certo senso, alla stessa educazione, come, per es., in A. H. Niemeyer (1754-1828). Si userà qui il lemma in senso molto comprensivo, per quanto suscettibile di distinzioni.

1.​​ Il​​ cammino storico:​​ le pubblicazioni di s.d.p. si sono moltiplicate in parallelo al consolidarsi della concezione classica della s. e del suo metodo, attorno alla metà del sec. XIX. In Italia, invece, con un po’ di ritardo. Gli inizi ne hanno denunciato un carattere pratico, mirato all’uso, più che critico-scientifico, donde lo sviluppo della manualistica. La riflessione successiva, che considerò la s.d.p., come la s. in genere, inserita tra le​​ Geisteswissenschaften​​ («scienze dello spirito»), secondo W. Dilthey, ne ha favorito un’elaborazione connessa, se non strettamente dipendente, a criteri e orientamenti teoretici, per non dire «ideologici». Infatti non solo si operava in modo spiccatamente selettivo, tra i materiali a disposizione, ma si procedeva in forma descrittiva, suppostamente asettica e, magari anche, edificante, con una lettura moralistica, allora assai diffusa, della s. in genere. Tale approccio intendeva evidenziare una continuità nelle linee di sviluppo in sintonia (o anche in contrasto) con principi e visioni del reale, per lo più di «scuola» o di corrente. Solo più tardi, gradualmente e lentamente​​ la critica,​​ nelle sue diverse espressioni, passò dalla s. anche alla s.d.p., inizialmente con un ruolo marginale, quando ancora le impostazioni e letture «ideologiche» prevalevano, e, in seguito, più rilevante, soprattutto al rendersi conto che le​​ traduzioni​​ erano, generalmente,​​ infedeli,​​ con conseguenze più e meno evidenti e pesanti. Tale preoccupazione filologica, fondamentalmente, contribuì anche al superamento e, anzi, all’integrazione di punti di vista ideologicamente contrastanti su un terreno meno soggettivo e più gratificante. Una forte spinta a questa​​ deideologizzazione​​ della s. in generale, e, di riflesso, di quella della pedagogia è venuta dal movimento promosso dalle «Annales d’Histoire Économique et Sociale», a partire dal 1929, in quanto si sono messi in evidenza altri interessi, altre fonti (anche orali), l’esigenza di problematicizzazione, di recupero di silenzi storici, di contrasti e differenze che spezzano quella continuità ideale, prima ricercata, e infine l’opportunità di collegare i tempi brevi con quelli lunghi in modo da ricavarne una diversa prospettiva (sia in senso verticale, diacronico e di livelli applicativi, che orizzontale, geografico-comparativo). Di qui derivava, con un’angolazione diversa, una più fondata possibilità di valutazione. Si è così venuta imponendo, a poco a poco, una rilevazione​​ di discontinuità​​ nel divenire storico-pedagogico, con una più attenta​​ valorizzazione del diverso​​ e del sotterraneo (se non sotterrato), ma, al tempo stesso​​ del comune,​​ del plurale di fronte all’antecedente prevalere del singolare. Si è dunque passati, con la mediazione della filologia, da un momento di subordinazione della s.d.p. a concezioni prevalentemente filosofiche, alla ricerca di una sua autonomia, da fondare su una miglior definizione di metodi e strumenti, su una più differenziata individuazione di fonti e sui parametri di riferimento delle scienze dell’educazione, nella scia di orientamenti già affermatisi all’estero (Francia e Inghilterra, specialmente). A questo indirizzo ha fatto riscontro il proliferare di studi più specialistici, con una suddivisione dei campi di indagine in settori e sotto-settori, con una loro identità (per es.,​​ ​​ s. dell’infanzia, dell’istruzione femminile e così via), pur inseriti in più ampi e complessi sistemi, che intervengono comunque con pesanti condizionamenti, soprattutto sociali. Donde, all’interno di una periodizzazione a lungo termine, l’importanza di curare la​​ contestualizzazione,​​ anche quando si intenda occuparsi di un personaggio singolo o di un’istituzione particolare, con espliciti riferimenti alla situazione politica, sociale, economica e culturale, nonché alle mentalità operanti.

2.​​ I​​ contenuti della s.d.p.:​​ da quanto sopra emerge che, in un primo tempo, la s.d.p. si è interessata ed occupata anzitutto di quanto le consentiva una lettura ideologica, con garanzia di continuità: le istituzioni, in primo luogo (famiglia, scuola, extrascuola); le idee e dunque le teorie educative, nonché i loro promotori, in subordine. Anzi, con l’affermarsi dell’idealismo, si è capovolta la priorità e si sono progressivamente trascurate le istituzioni, a vantaggio delle idee e dei sistemi. Oggi, come conseguenza degli sviluppi della ricerca storica generale, si può ipotizzare, non senza divergenze, che una​​ s. dell’accaduto in educazione​​ o, più semplicemente,​​ s. dell’educazione,​​ come concetto più generale e comprensivo, si articoli su​​ tre livelli: culturale,​​ istituzionale e prassico,​​ con uno sforzo però di​​ coglierne le interconnessioni e interdipendenze e di interpretarle.​​ a)​​ Il​​ livello culturale​​ è da intendersi in senso ampio, quasi antropologico, in cui le idee (sistematizzate o meno), in modo più e meno consapevole, hanno un ruolo direttivo dell’agire, tanto sulla base di collaudate esperienze, che sono state trasmesse e recepite, quanto in virtù di una revisione, personale o di gruppo, di quelle stesse tradizioni in vista di comportamenti diversi o anche come frutto di un’elaborazione teorica, suggerita da una propria analisi dell’esperienza oppure da tesi precedentemente formulate e sostenute. Questa «cultura», sia locale che a più vasto raggio, è decisiva nella formazione della​​ mentalità,​​ che si caratterizza per le sue aspettative, per gli interessi e per le valutazioni che dà, nella stimolazione e direzione dell’agire del soggetto. Come non si può parlare di educazione in senso astratto, se non come esercizio retorico, così non esistono idee o sistemi astratti, a sé stanti. L’una e le altre si ritrovano nel vissuto, nel concreto storico o di un personaggio o di gruppi o di esperienze, da cui finalmente si possono ricavare «rappresentazioni», come risultato di un’elaborazione intellettuale personale o comune, che dà origine appunto a idee e, se organicamente collegate, a «ideologie», in senso positivo, o, filosoficamente, a sistemi. Questi come tali non sono un «dato» storico, neppure entro i limiti consentiti per parlare di dato, ma il frutto di un’operazione astrattiva sul medesimo, che risulta invece di comportamenti, di azioni, di relazioni, che costituiscono effettivamente l’oggetto di studio e di valutazione dello storico. b)​​ Il​​ livello istituzionale,​​ che si occupa della famiglia, della scuola, dello Stato, della chiesa e altro ancora, in quanto agiscono o interferiscono sull’educazione, è portatore di una «cultura» e se ne fa promotore. In senso tuttavia più rigido, cristallizzato e conservatore, perché senza vita propria e con una tendenza all’omologazione di tutti coloro che vi fanno capo, di cui individua le espressioni negli usi e costumi, nelle tradizioni, nelle norme e leggi, che, scavalcando appunto il singolo, tendono a subordinarlo e a mantenerlo dipendente, anziché a favorirne la libertà e l’autonomia. Donde la ripetitività e il rischio, cui troppo spesso si cede all’interno delle istituzioni, dell’automatismo e dell’irresponsabilità, dell’incoscienza e incomprensione. Il cambiamento e l’innovazione sono assai più difficili in questo ambito, a causa della più resistente vischiosità delle istituzioni stesse, degli ostacoli che si frappongono, ritenendosi consolidate e dunque pressoché immutabili, del loro minor dinamismo, frenato dalla pluralità dei membri, non tutti e non sempre docili, e infine della preoccupazione vincente per la propria sopravvivenza, che ritengono minacciata da ogni variazione del consueto. In esse, conseguentemente, si è mirato (oggi, si spera, meno) per lo più all’istruzione per non dire all’indottrinamento, anziché a un’educazione responsabile, che privilegi il singolo soggetto con i suoi diritti, con tutte le sue esigenze e possibilità. c)​​ Il​​ livello prassico​​ dovrebbe, nei limiti del possibile, cogliere e tener conto dello sviluppo e della crescita umana del singolo, come dei gruppi, più e meno ampi, in rapporto all’ambiente in cui si vive, agli orientamenti dominanti e ai condizionamenti cui si è subordinati, definendone eventuali scarti e peculiarità e cercando di individuarne i fattori di promozione, nonché gli ostacoli. A questo livello si gioca il futuro dell’individuo, secondo l’esito, a breve, medio e lungo termine, dell’incontro-scontro tra le tendenze e possibilità del singolo soggetto o del gruppo e le richieste e norme della società più ampia o istituzione. Spesso non si indaga in questa linea o non si è in grado di venirne a capo, poiché indubbiamente la «memoria storica» è limitata, ma, se non se ne ricercano e individuano le fonti opportune, si finisce per amputarla ulteriormente. Infatti è assai più facile ritrovare e riconoscere le tradizioni più estese, le norme e le leggi, che le deviazioni dalle medesime, salvo casi di particolare incidenza storica. Un solo esempio. I dati internazionalmente divulgati sono espressione non della realtà di un Paese, ma delle sue leggi e decisioni ufficiali, che tuttavia, spesso, non trovano alcuna rispondenza nei fatti. Eppure la s. «effettuale» è esclusivamente​​ res gestae​​ (sia pure in senso ampio) e, in ogni caso, da quelle dovrebbe derivare la​​ historia rerum gestarum,​​ per riferirsi a una distinzione classica, benché un po’ riduttiva. In questo ambito rientrano, in quanto considerati nel loro esercizio, gli usi e costumi, che, a livello individuale, si traducono in​​ abitudini,​​ ed anche i​​ metodi​​ educativi. Il che non toglie che, in seconda istanza, si possa tentare di confrontarli e valutarli​​ in astratto,​​ teoricamente. Concludendo, è ancora da sottolineare l’interconnessione​​ e​​ interdipendenza​​ tra questi tre livelli: esse sono tanto strette da impedire, da un lato, una chiara spartizione del territorio pedagogico e, dall’altro, da richiedere indispensabilmente il ricorso all’interdisciplinarità,​​ vale a dire all’aiuto e alla collaborazione di altre competenze, che lo storico, per quanto preparato e aperto, non può, per lo più, avere in proprio. Sotto questo profilo si può correttamente parlare di un’aspirazione, anche della s.d.p., alla​​ totalità,​​ all’aver presenti tutti gli elementi e fattori che giocano nella vita umana. A questo punto si può pure guardare a una possibile articolazione dei contenuti in funzione di una distinzione di storie diverse. Più comunemente si parla di​​ s.d.p.,​​ se riferita alla sola​​ s. delle idee e dei «sistemi» educativi​​ (espressione, a mio avviso, da preferire); di​​ s. dell’educazione,​​ se si guarda alle​​ istituzioni​​ (​​ s. della scuola e delle istituzioni educative), o al​​ costume​​ e​​ metodi​​ educativi e così via, riconoscendo a quest’ultima quasi una​​ onnicomprensività.​​ 

3.​​ La metodologia della ricerca e altre considerazioni:​​ nell’entusiasmo dell’affermarsi di una «scienza» storica, nel sec. XIX, si è frequentemente parlato di «metodo storico», volendo rispondere a una delle caratteristiche di ogni scienza, nell’opinione di allora. D’altronde, all’epoca, esaurendosi la s. nella s. politica o quasi, il discorso di​​ un metodo​​ storico poteva apparire accettabile. Tuttavia con l’ampliarsi dei suoi ambiti, oggetti e strumenti, oggi, parlare di metodo storico non ha più senso, se non in quanto insieme di metodi e, perciò, è forse più opportuno far uso, con tale significato, del termine​​ metodologia.​​ Infatti, dato l’indispensabile ricorso all’interdisciplinarità diventa evidente l’utilizzazione di metodi molteplici e differenti, secondo il lavoro che si sta facendo. Ciò non toglie che anche per la s. dell’educazione si passi per i tre classici momenti, costitutivi di ogni ricerca: il​​ momento euristico,​​ quello​​ ermeneutico​​ e quello​​ critico​​ o valutativo. Il primo, teso al reperimento delle fonti e alla raccolta del materiale (bibliografico, testimoniale, filologico...), si colloca su un​​ piano​​ prevalentemente​​ descrittivo;​​ il secondo, che gioca anzitutto sulla contestualizzazione, per una più concreta e adeguata lettura del fenomeno che si studia, tenta un’elaborazione dei dati raccolti, confrontandoli, organizzandoli e collegandoli tra loro, e si propone una comprensione del fenomeno stesso, in​​ chiave​​ anche​​ esplicativa.​​ Indubbiamente il termine «ermeneutico» può suggerire altre aperture, che non è qui il caso di considerare, sebbene si riscontrino, solitamente, su questo livello le più usuali deficienze delle ricerche storico-pedagogiche. Infine il momento​​ critico​​ o valutativo si suddivide in due prospettive: quella​​ sincronica,​​ che punta a definire una valutazione del dato tra i suoi contemporanei, e quella​​ diacronica,​​ che invece, guardando il dato in proiezione sul presente e, nei limiti del possibile, persino sul futuro, ne tenta una valutazione per i contemporanei dello storico. Sotto questo profilo, ci si può aprire ad altre considerazioni valide per la s. in genere, che tuttavia conviene richiamare. In primo luogo, sono da denunciare alcuni​​ errori​​ ricorrenti, specie a livello di divulgazione storica. L’incidenza anzitutto di​​ pregiudizi​​ di ogni genere o di​​ generalizzazioni​​ indebite, che danno luogo agli stereotipi, solitamente duri a morire. Inoltre il facile uso di​​ illusioni retrospettive,​​ per cui addirittura si trasferisce nel passato la cultura o altre tipicità del presente (come quando si creano i​​ precursori​​ di idee o movimenti posteriori, di cui, all’epoca, non si aveva alcun sentore). Infine, limitandosi a cenni esemplificativi, l’etnocentrismo​​ e il​​ mito dell’origine,​​ in virtù dei quali si giudica tutto dalla situazione in cui ci si trova​​ considerata come ideale​​ oppure si ritiene che,​​ trovata l’origine​​ di un fatto, sia​​ tutto spiegato​​ o ci si illude che un​​ ritorno all’origine risolva tutti i problemi.​​ Un ultimo rilievo riguarda​​ lo storico,​​ da cui nasce appunto la​​ historia rerum gestarum,​​ non senza il peso di condizionamenti dovuti a lui stesso. Infatti se la s. è continuamente​​ in fieri,​​ si può riscrivere in continuazione, non è soltanto perché si possono trovare nuove fonti o dati oppure perché, in base a interessi e interrogativi comuni, la si legge e usa in una determinata prospettiva, ma anche perché il singolo ricercatore ha interessi propri, delle domande personali, cui cerca una risposta, e, si voglia o no (nonostante la dichiarata «morte delle ideologie»), qualche idea o suggestione che intende far passare, utilizzando dati storici. Non ci si riferisce, ovviamente, a palesi falsificazioni, come in altri tempi si è fatto, bensì a scelte, angolature da cui porsi, obiettivi da perseguire, che danno dei fenomeni ed eventi una lettura personalizzata, che, d’altro canto, è inevitabile, visto che lo storico è l’autore della s. scritta. L’importante, per il lettore critico, sarà arrivare, sulla base di tutte le informazioni che riesce ad avere, a discernere quegli elementi di soggettività, che se non inquinano (vista la loro ineluttabilità), tipicizzano un apporto storico.

Bibliografia

Clausse A.,​​ Introduzione storica ai problemi dell’educazione,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1974; Fornaca R.,​​ La ricerca storico-pedagogica,​​ Ibid., 1975; Semeraro A.,​​ Dina Bertoni Jovine e la storiografia pedagogica nel dopoguerra,​​ Manduria, Lacaita, 1979; Santelli Beccegato L.,​​ L’insegnamento della s.d.p.,​​ Brescia, La Scuola, 1981; CIRSE,​​ Problemi e momenti di s. della scuola e dell’educazione,​​ Pisa, ETS, 1982; Trebisacce G.,​​ L’educazione tra ideologia e s.,​​ Cosenza, Pellegrini, 1983; Santoni Rugiu A. - G. Trebisacce (Edd.),​​ I problemi epistemologici e metodologici della ricerca storico-educativa,​​ Cosenza, Pellegrini, 1983; Serpe B.,​​ La ricerca storico-educativa oggi. Fondamenti,​​ metodi,​​ insegnamento,​​ Cassano all’Jonio, Jonica Editrice, 1990; Cambi F.,​​ La ricerca storico-educativa in Italia 1945-1990,​​ Milano, Mursia, 1992; Genovesi G., «Cento anni di s. dell’educazione in Italia. Linee di tendenza e problemi», in B. Vertecchi (Ed.),​​ Il secolo della scuola - L’educazione nel Novecento,​​ Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1995, 139-186.

B. A. Bellerate




STORIA DELLA SCUOLA

 

STORIA DELLA SCUOLA

Settore particolare della ricerca storica sull’educazione. Allo scopo di offrire un quadro d’insieme, si restringe in questo ambito la scelta dei temi e dei problemi, e ci si limita a ripercorrere le tappe più significative dello sviluppo della scuola occidentale, le cui radici affondano nelle esperienze del vicino Oriente. Per le questioni storiografiche si rimanda a s. della pedagogia Per i contenuti si vedano, in modo particolare, le seguenti voci: Grecia, Roma, Medioevo, Umanesimo rinascimentale, Filantropismo, Risorgimento, Scuole Nuove.

1.​​ Cenno alle origini.​​ Le liste lessicali e grammaticali trovate a Shuruppak, risalienti al 2600 a.C., testimoniano l’esistenza di scuole. Le liste di parole trovate a Uruk (l’attuale Warka), attestano che già agli albori della scrittura (verso il 3200 a.C.) esisteva nella Mesopotamia un certo tipo d’insegnamento. Finché il numero di scribi necessari per le registrazioni economiche non fu elevato, si provvedeva alla loro formazione con l’apprendistato: uno scriba anziano iniziava qualche giovane all’arte dello scrivere. Quando la vita sociale diventò più complessa e le esigenze amministrative del tempio e del palazzo reale aumentarono, si dovette disporre di un maggior numero di scribi con un’ istruzione più accurata, rendendosi necessaria a tale scopo un’istituzione permanente. Questa istituzione chiamata in sumerico​​ edubba​​ («casa della tavolette») era un locale annesso al tempio. I membri dell’edubba​​ venivano denominati «figli della casa delle tavolette». Il maestro principale era assistito da uno studente anziano («fratello maggiore»). Nelle scuole più numerose, oltre l’insegnante di accadico e di disegno, esistevano i responsabili della sorveglianza e della disciplina (molto rigorosa). Il programma scolastico offerto al futuro scriba (dubsar)​​ era ampio: scrittura, grammatica, matematica e geometria, rudimenti di filosofia, teologia, diritto, geografia, amministrazione civile. Non solo gli scribi (notai, archivisti, consiglieri), ma anche gran parte della classe dirigente (nobili, sacerdoti) frequentavano la scuola. Sulle tavolette dei contratti babilonesi appare pure qualche nome di donna; tuttavia, la cultura degli scribi mesopotamici rimase limitata a un gruppo elitario. Nell’Egitto faraonico pare che l’alfabetizzazione sia stata un fatto più diffuso. L’espressione equivalente a scuola («casa dell’istruzione») appare verso il 2000 a.C. Accanto alla scrittura, l’aritmetica e la geometria, la scuola (gravitante attorno al tempio) dava spazio alle attività fisiche: tiro con l’arco, cura e uso dei cavalli, nuoto (particolarmente necessario in un paese fluviale). Le ragazze erano educate alla danza, al canto, a suonare strumenti musicali. Per ciò che riguarda la didattica, sembra probabile, «alla maggior parte degli studiosi che si sono occupati della questione, che in Egitto si insegnasse a scrivere col metodo globale senza nessun preliminare insegnamento dei singoli segni» (Moscati, 1976, 61). Vengono privilegiati, come nella Mesopotamia, i metodi mnemonici. Negli​​ Insegnamenti​​ (scritti sapienziali), letti e copiati dai ragazzi egiziani, si fustiga l’ozio e si addita come ideale «la pratica di una buona condotta verso gli altri e verso la divinità».

2.​​ La scuola in Grecia e a Roma.​​ La scuola greca raggiunse nell’epoca ellenistica la sua espressione più compiuta. La diffusione della cultura nel Mediterraneo e in parte dell’Asia non significò svuotamento della medesima, anzi favorì la consapevolezza di una tradizione e l’impegno di approfondimento dei testi «classici». Contemporaneamente, con il contatto con altri popoli, la Grecia assorbì usi e idee religiose e culturali del mondo orientale (Egitto, Siria), con ripercussioni nell’ambito scolastico, in un’epoca in cui si hanno ormai scuole pubbliche e l’istruzione non è più lasciata alla sola iniziativa privata. Le iscrizioni trovate in Asia Minore attestano la presenza di questo tipo di istituzioni nel sec. III a.C., anche se continuano a esistere quelle private sostenute dai contributi degli alunni. L’impostazione delle scuole ellenistiche nei tre livelli fondamentali e con i programmi di studi umanistici rimane un punto di riferimento fino all’età moderna: 1° La scuola primaria del​​ didáskalos​​ è frequentata dal bambino dopo i sette anni. 2° La scuola secondaria del​​ grammatikós​​ si propone di dare una cultura generale (enkyklios paideia).​​ 3° Le modalità e caratteristiche delle scuole superiori non rispondono a un modello unico. Ci sono forme «minori» come le lezioni o conferenze che si danno nel ginnasio e nell’efebía,​​ accanto alla formazione atletica. Per i giovani greci, fare gli studi superiori comportava la frequenza della scuola del retore. La filosofia era patrimonio di una​​ élite​​ ridotta. Nell’antica Roma, lo Stato non si interessa dell’organizzazione e del finanziamento della scuola finché Vespasiano (dal 69 al 79) non prende provvedimenti a favore dei maestri di retorica. Dal II sec. a.C. la scuola romana adotta sostanzialmente il modello greco in tre livelli (scuola elementare o​​ ludus;​​ scuola del​​ grammaticus;​​ scuola del​​ rethor).​​ Speciale attenzione viene dedicata allo studio del diritto e alla professione forense. Un’istituzione privata, il​​ paedagogium,​​ cura la formazione degli schiavi e liberti destinati a professioni paraliberali. Nel corso dei primi secoli, i cristiani non creano proprie scuole. Essi considerano normale che i ragazzi acquisiscano la cultura profana frequentando le comuni scuole del tempo. Gli scrittori più intransigenti nei confronti dei pericoli del paganesimo accettano la cultura tradizionale, considerata come un insegnamento di base necessario per la comprensione della Bibbia. I cristiani vissuti nel mondo classico accettano una categoria dell’umanesimo ellenistico: l’esigenza dello sviluppo di tutte le potenzialità dell’uomo in quanto tale, prima di qualsiasi altra determinazione.

3.​​ La scuola nel Medioevo.​​ Quando il Vangelo si diffonde nei popoli «barbari», la Chiesa dà vita alla scuola, in cui l’insegnamento ha però un carattere religioso. Le prime «scuole monastiche», sorte nel sec. IV, mirano all’istruzione elementare dei «giovani oblati» accolti nel monastero ancora ragazzi; la timida apertura ai giovani laici trova forti opposizioni, soprattutto in Oriente (​​ monachesimo). Nel sec. VI sorgono le «scuole cattedrali» nelle città e, nelle campagne, le «scuole presbiterali» per assicurare la formazione dei futuri preti. Con le invasioni barbariche non scompaiono del tutto le scuole romane. Le scuole ecclesiastiche vengono organizzate «per reazione contro l’insegnamento dato dai maestri tradizionali», indirizzato ai giovani desiderosi di acquisire una erudizione profana e di ottenere un posto nell’amministrazione; i chierici, che risentono l’influenza monastica, volevano che «la Bibbia fosse nota al più grande numero di persone» (Riché, 1991, 25). In un secondo momento frequentano le scuole ecclesiastiche anche alunni chiamati alla vita laica. Il programma è modesto: leggere, scrivere, imparare alcuni salmi, canto religioso, nozioni dottrinali, canoniche e liturgiche. Sembra che le​​ ​​ arti liberali siano state insegnate in scuole episcopali spagnole promosse da​​ ​​ Isidoro di Siviglia. Lo sviluppo di alcuni centri monastici e l’impulso dato dalla legislazione scolastica di Carlo Magno produce un’offerta culturale più ricca. Nel sec. XII alcune scuole cattedrali, sorte nelle città con maggior afflusso di studenti, si trasformano gradualmente in​​ ​​ Università. L’esplosione dei mestieri lungo il sec. XIII e l’organizzazione delle corporazioni di artigiani fanno maturare l’esigenza di un periodo di apprendistato. L’apprendista non riceve solo una preparazione tecnica, ma viene anche iniziato agli usi e segreti del mestiere attraverso un prolungato contatto con il maestro nell’officina e nella casa. Finito l’apprendistato, il candidato diventa​​ ufficiale,​​ e dopo due anni di pratica,​​ ​​ maestro.

4.​​ Dal Rinascimento all’Illuminismo.​​ La centralità dell’uomo e la riscoperta dei classici greci e latini spiegano la rinnovata attenzione dell’​​ ​​ Umanesimo ai problemi della scuola. Contemporaneamente a un percettibile decadimento delle scuole ecclesiastiche nel sec. XIV, le autorità comunali dedicano maggiori cure all’organizzazione dell’istruzione e la nobiltà si mostra più sensibile alla cultura, chiamando in famiglia, come precettori dei figli, preti o laici. Tra l’istruzione elementare e le università si fa strada un tipo di istituzione scolastica il cui programma di studi umanistici è all’origine del moderno insegnamento secondario classico. Le esperienze italiane più rinomate sono la scuola di​​ ​​ Guarino e la «Ca’ giocosa» di​​ ​​ Vittorino da Feltre. Gli umanisti elaborano le prime trattazioni su temi didattici (De tradendis disciplinis​​ di​​ ​​ Vives). Ebbero notevole risonanza e influsso i primi internati fondati in Olanda dai Fratelli della Vita Comune (sec. XIV-XV). La frattura verificatasi all’interno del Cristianesimo nel sec. XVI lascia una profonda traccia nell’impostazione della scuola. Nell’ambito del​​ ​​ Protestantesimo spicca l’opera di Melantone, organizzatore dell’insegnamento secondario e superiore in Germania, e, in campo cattolico, quella dei​​ ​​ Gesuiti. Il loro regolamento o metodo di studi per i collegi (​​ Ratio studiorum)​​ rimane un punto di riferimento fino a tempi recenti; inoltre, tra i ragazzi dei quartieri poveri romani, inizia il suo lavoro, nell’ultimo scorcio del ’500, il​​ ​​ Calasanzio, creatore della scuola popolare e gratuita in Europa. Nel clima riformatore del concilio di Trento, emerge l’impegno del​​ ​​ Borromeo nella fondazione di seminari e nella diffusione di scuole domenicali. Vengono create inoltre nuove congregazioni religiose dedite all’insegnamento:​​ ​​ Barnabiti, Somaschi, Orsoline di Brescia. La svolta scientifica e filosofica del sec. XVII si riflette sul pensiero di pedagogisti interessati al rinnovamento della scuola. Tra le istituzioni sorte nel periodo: le​​ ​​ Petites écoles​​ de Port-Royal, le fondazioni di​​ ​​ Francke, la congregazione dei​​ ​​ Fratelli delle Scuole cristiane. L’affermazione dell’«onnipotenza» della ragione da parte dell’Illuminismo è all’origine dell’interesse che, nel ’700 («secolo dei lumi»), destano le questioni riguardanti la scuola. Il trinomio «istruzione, progresso, felicità» sintetizza le istanze fondamentali. In misura e a livelli diversi si fa più attiva la presenza dello Stato: vengono elaborati progetti di organizzazione dell’insegnamento pubblico (​​ Condorcet). Speciale importanza presentano le esperienze scolastiche del​​ ​​ Filantropinismo tedesco sotto l’influsso delle idee di​​ ​​ Rousseau.

5.​​ La scuola nell’Ottocento.​​ Nel clima favorito dal​​ ​​ Romanticismo (in reazione al movimento illuminista) si sviluppano la scuola popolare di​​ ​​ Pestalozzi e il giardino d’infanzia (Kindergarten)​​ di​​ ​​ Fröbel. I fatti connessi con la rivoluzione industriale (uso di nuove tecniche, presenza delle donne e dei bambini nelle fabbriche, nuove aspettative e attese nei confronti dell’istruzione) favoriscono lo sviluppo delle «scuole della domenica» e «scuole notturne» o serali per adulti e ragazzi impegnati di giorno nel lavoro. Speciale risonanza hanno le Scuole di​​ ​​ Mutuo insegnamento, sorte in Inghilterra (1797) e diffuse in Europa e America nei primi decenni dell’Ottocento. Anche le​​ Infant Schools​​ iniziate da​​ ​​ Owen in Scozia hanno vasta eco fuori della Gran Bretagna. La prima scuola infantile italiana (chiamata anche asilo) viene fondata nel 1828 da​​ ​​ Aporti. In Francia sono note le​​ Salles d’Asile​​ organizzate da​​ ​​ Oberlin. Le iniziative private sono accompagnate dagli interventi statali nell’ambito delle istituzioni scolastiche. Nel Regno Sardo, va ricordata la L. organica Casati (1859), estesa alle altre regioni italiane dopo l’unità nazionale, restando sostanzialmente in vigore fino alla riforma Gentile (1923). In Spagna, è nota la L. Moyano d’istruzione Pubblica (1857); in Francia, le leggi Guizot (1833) e Falloux (1850) instaurano la libertà d’insegnamento. Pur con lentezza e ambiguità, lo Stato si occupa della formazione tecnica e professionale. Ma va messa in risalto l’opera dei privati (La Rochefoucauld, Ridolfi,​​ ​​ Giner,​​ ​​ Manjón) e dei fondatori di istituti religiosi. Attraverso le numerose​​ ​​ Congregazioni insegnanti, maschili e femminili, fondate nel sec. XIX, la Chiesa ricupera una forte presenza nella scuola popolare e secondaria, non senza contrasti: il tema della libertà d’insegnamento occupa ampio spazio nella pubblicistica dell’Ottocento.

6.​​ La scuola alle soglie del 2000.​​ Nell’ultimo scorcio dell’Ottocento, si sviluppa un forte movimento di riforma educativa. Schematizzando, si può dire che da un periodo di centralità della scuola, nella prima metà del sec. XX, si è passati alla proposta di descolarizzazione degli anni ’60, alla neo-scolarizzazione e al ricupero della funzione educativa della scuola negli anni ’80, in un quadro di policentricità formativa che comprende tutta la società educante e non solo la scuola. Nelle strategie adottate nei Paesi occidentali per rispondere alla domanda d’ istruzione che emerge nell’attuale​​ ​​ società della conoscenza, sono individuabili queste linee di tendenza: centralità dell’educando, apprendimento lungo tutto l’arco di vita della persona, alternanza di studio e lavoro, autonomia della scuola, qualità dell’educazione, eguaglianza delle opportunità (quest’ultima proposta comporta una pedagogia individualizzata e l’offerta di pari possibilità ai due sessi), educazione interculturale e integrazione dei portatori di​​ ​​ handicap nell’istituzione scolastica ordinaria. In «prospettiva di futuro» si profila un modello di scuola neo-umanistica e solidaristica capace di accogliere anche le istanze valide di altri modelli: scuola che istruisce, che seleziona, aperta alle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione.

Bibliografia

Moscati S.,​​ L’alba della civiltà,​​ vol.3:​​ Il pensiero, a cura di P. Fronzaroli et al., Torino, UTET, 1976;​​ De Fort E.,​​ S.d.s. elementare in Italia,​​ Milano, Feltrinelli, 1979;​​ Riché P.,​​ Réflexions sur l’histoire de l’éducation dans le Haut Moyen Age,​​ in «Histoire de l’Éducation»​​ 50 (1991) 17-38; Arch. Cent. dello Stato,​​ Fonti per la s.d.s.,​​ IV:​​ L’inchiesta Scialoja sulla istruzione secondaria maschile e femminile (1872-1875),​​ a cura di L. Montevecchi e M. Raicich, Roma, Minist. per i Beni Culturali, 1995; Gennari M.,​​ S. della Bildung: formazione dell’uomo e s. della cultura in Germania e nella Mitteleuropa,​​ Brescia, La Scuola, 1995; Chiosso G. (Ed.),​​ La stampa pedagogica e scolastica italiana, Ibid., 1997; Pazzaglia L. - R. Sani (Edd.),​​ Scuola e società nell’Italia unita. Dalla legge Casati al Centro-sinistra,​​ Ibid., 2001; Prellezo J. M. - R. Lanfranchi,​​ Educazione e pedagogia nei solchi della s., 3 voll.,​​ Torino, SEI, 2004; Chiosso G. (Ed.),​​ L’educazione nell’Europa moderna. Teorie e istituzioni dall’Umanesimo al primo Ottocento, Milano, Mondadori, 2007; Prellezo J. M., «Le scuole professionali salesiane (1880-1922). Istanze e attuazioni viste da Valdocco», in​​ L’educazione salesiana dal 1880 al 1922, vol. 1, a cura di J. G. González et al., vol. 1, Roma, LAS, 2007, 53-94.

J. M. Prellezo




STORICISMO PEDAGOGICO

 

STORICISMO PEDAGOGICO

Concezione dell’educazione e della pedagogia che si rifà ad una visione del mondo e della vita in cui la storicità umana assume un ruolo fondamentale (che presso alcuni diventa totalizzante).

1. Il termine s. (in ted.​​ Historismus)​​ come tale è piuttosto recente. Appare in ambienti tedeschi della fine del sec. XVIII, ma assume tutta la sua forza semantica a seguito dello scritto dello storico e teologo tedesco E.​​ Troeltsch​​ (1865-1923),​​ Lo s. e i suoi problemi,​​ del 1922, in cui lo s. è visto come espressione della tendenza alla relativizzazione storica della realtà e del pensiero, propria della modernità occidentale. A sua volta, lo storico F. Meinecke (1862-1954), in​​ Le origini dello s.​​ del 1936, mise in luce che lo s. tedesco esaltava la singolarità e l’irrepetibilità degli eventi storici, segnati, in opposizione agli eventi naturali, dalla dinamica della libertà e dalla apertura dello spirito alla trascendenza, in una fondamentale continuità processuale e temporale. In tal senso diventava basilare il concetto di sviluppo e la necessità di metodi idiografici che permettessero la conoscenza del singolare e dell’individuale, rispetto all’inadeguatezza dei metodi nomotetici delle scienze naturali, capaci di cogliere solo il generale e il tipico. Da questo punto di vista lo s. tedesco continuava, ma cercava anche di distinguersi dalla «critica della ragion storica» e dall’ermeneutica storico-culturale di W. Dilthey e dalla sua proposta delle scienze dello spirito, più decisamente portata avanti dal neo-kantismo di W. Windelband e di H. Rickert (in cui la storicità è collegata al mondo dei​​ ​​ valori). Ma non poté evitare di venir collegato al​​ ​​ relativismo storico e vitalistico di G. Simmel o a quello culturale di O. Spengler. L’autonomia metodologica delle scienze storiche sociali trovò in​​ ​​ Weber (1864-1920) un organico contributo.

2. Rispetto al fondamentale carattere metodologico e epistemologico dello s. tedesco, quello italiano, specie nella versione di B. Croce (1866-1952), assume un più largo senso di filosofia della storia. Esso si collega per un verso all’idealismo hegeliano, per quanto cerchi di distanziarsene, e per altro verso alla riflessione sulla «scienza nuova» di​​ ​​ Vico. Resta fondamentale la libertà dello spirito, ma è anche viva la ricerca di una razionalità del divenire storico. La storia è storia dello spirito e progressiva ascesa della libertà. In particolare si viene a dire che il mondo e la storia costituiscono la totalità e l’orizzonte di senso in cui si circoscrive la vicenda umana. Eliminato ogni residuo di trascendenza, al limite si afferma che tutto è storico e niente è oltre la storia (immanentismo). Questa vena di immanentismo storico è presente in altre versioni di s., magari in polemica con le ascendenze idealistiche crociane o con gli esiti attualistici gentiliani, come avviene nel prassismo materialistico di​​ ​​ Gramsci, in alcune forme di​​ ​​ problematicismo, o in posizioni variamente riferibili all’esistenzialismo.

3. È comune nello s. una fondamentale secolarizzazione e laicizzazione della visione del mondo e della vita, come anche il rifiuto di forme di sacralizzazione o di provvidenzialismo storico. È in particolare da notare come nelle versioni più radicali dello s. si ha una concezione del sapere secondo cui non solo «la verità è figlia del suo tempo», vale a dire che è relativa al momento e al contesto storico-culturale, ma anche che non si danno termini assoluti di riferimento veritativi e valoriali (s. relativistico); che è impensabile un trascendimento di un modo storico-culturale di pensare (s. culturalistico); o che ciò è possibile solo nel gioco dialettico, ma immanentistico, di reale ed ideale, di essere e pensiero, di finito ed infinito, di empirico e di metempirico, di relativo e di assoluto (s. idealistico).

4. Conclusosi come indirizzo specifico a cavallo della seconda guerra mondiale, un certo s. rimane a livello di mentalità generale e comunque resta come eredità problematica sia per ciò che riguarda la conoscenza e la scienza storica sia più largamente per il senso stesso di una filosofia della storia. K. Popper, già negli anni quaranta del sec. scorso, bollò la «miseria dello s.» (in cui egli inseriva ogni forma di neo-idealismo, ma pure il marxismo e la stessa psicoanalisi), a motivo dell’indimostrata e infondata nozione di prevedibilità del futuro. Negli anni settanta è stata molto forte la critica epistemologica ed antropologica dello strutturalismo: al metodo idiografico, genetico, causale e diacronico dello s. viene contrapposto il metodo nomotetico, analitico, strutturale e sincronico dell’interazione sistemica dei fattori. Alla prassi umana libera viene contrapposta la ferrea logica delle strutture in cui, secondo alcune forme di strutturalismo, come ad es. quella di M. Foucault, si fa manifesta la «morte dell’uomo» e di ogni ideologia umanistica oppure la riduzione dell’uomo a «fattore umano», come si vuole nello strutturalismo marxista di L. Althusser. Ma lo s. come visione totalizzante e finalistica della storia è pure stato attaccato negli ultimi tempi dalle posizioni «post-moderne» che parlano di «fine della storia» (F. Fukuyama).

5. Riverberi storicistici si hanno nella pedagogia marxista, specie in quella più vicina a Gramsci; in quella laica neo-illuministica, ad es. nel naturalismo evoluzionistico di​​ ​​ Dewey o nel​​ ​​ problematicismo pedagogico. Ma si hanno anche in quegli indirizzi pedagogici che si rifanno all’​​ ​​ esistenzialismo di M. Heidegger, K. Jaspers e J. P. Sartre. Peraltro lo spirito dello s. ha trovato le espressioni più congruenti e più cospicue nella pedagogia dello spirito tedesca, nel periodo tra le due guerre mondiali e nella ricostruzione post-bellica. Si pensi in particolare all’opera educativa e alle indicazioni pedagogico-didattiche di G. M. Kerschensteiner, E. Spranger, T. Litt, E. Nohl, E. Weniger, W. Flitner, come pure al pensiero di S. Hessen e di O. Willmann. Educazione e didattica sono chiamate a promuovere l’autonomia vitale e la formazione integrale dell’uomo nel suo rapporto con la cultura, secondo le diverse forme di vita storica ed in vista di una adeguata partecipazione storico-sociale. Ciò richiede una conoscenza comprensiva, ermeneutico-pragmatica, del soggetto educando e della relazione educativa nelle sue dinamiche (​​ ermeneutica pedagogica). Nella linea dello s. crociano si può porre in particolare la pedagogia di A. Attisani (1898-1978), che rivaluta la concretezza della vita spirituale dell’individuo, soggetto e produttore di storia e di civiltà, non mai del tutto assorbibile nello Spirito Assoluto. Eticità, realizzazione dei valori spirituali culturali sociali, esteticità della vita, libertà dai condizionamenti, dialogicità dell’esistenza, impegno sociale sono alcune piste fondamentali in cui, secondo Attisani, avrà da realizzarsi ed essere portata avanti l’autoformazione e l’educazione dell’uomo e della sua coscienza storica.

6. Lo s., in quanto aspetto diffuso della cultura occidentale moderna e contemporanea, ha inciso e continua ad incidere sia nell’educazione generale sia nell’istruzione scolastica. L’attenzione alla dimensione della storicità e dell’inserzione della formazione nei processi storico-culturali, porta a curare in modo specifico lo sviluppo personale nel suo rapporto con la cultura e con la vicenda storico-sociale. Ma stimola ad avere una chiara coscienza storica nella determinazione dei fini e degli obiettivi che il sistema sociale di formazione ha da portare avanti. A livello di istruzione, oltre ad essere attenti al senso della storicità della scienza e della cultura nei curricoli scolastici, porta a dare risalto all’educazione al senso critico e al valore formativo del patrimonio sociale di sapere. Queste attenzioni sembrano particolarmente urgenti, oggi, a fronte del rischio della momentaneizzazione dell’esistenza e della perdita di memoria storica provocate dalla globalizzazione e dal sistema mondiale della comunicazione sociale.​​ 

Bibliografia

Croce B.,​​ La storia come pensiero e come azione,​​ Bari, Laterza, 1954; Attisani A.,​​ Introduzione alla pedagogia,​​ Roma, Armando, 1967; Laeng M., «La pedagogia del neocriticismo e dello s. in Germania», in​​ Nuove questioni di storia della pedagogia,​​ vol. III, Brescia, La Scuola, 1977, 125-172; Bianco F. (Ed.),​​ Dibattito sullo s.,​​ Bologna, Il Mulino, 1978; Scuderi G.,​​ S. e pedagogia,​​ Roma, Armando, 1995; Ferri P.,​​ S. tedesco, Milano, Editrice Bibliografica, 1997; Tessitore F.,​​ Introduzione a lo s., Roma / Bari, Laterza, 2003; Cacciatore G. - A. Giugliano (Edd.),​​ S. e storicismi, Milano, Mondadori, 2007.

C. Nanni