1

STIMA DI SÉ

 

STIMA DI SÉ

Il termine s.d.s. si riferisce in genere alla valutazione affettiva di se stessi come oggetto di conoscenza, cioè a come ci si sente (orgogliosi, felici oppure mortificati, in colpa), se si è soddisfatti o meno di se stessi in base sia a valori personali e sociali, che nel confronto con le altre persone.

1. Nella s.d.s. si possono infatti distinguere un processo valutativo ed uno affettivo, e i diversi studiosi tendono a privilegiare ora l’uno ora l’altro processo per descrivere l’autostima: nel primo caso, la s.d.s. viene definita come un atteggiamento di approvazione o disapprovazione verso di sé, un giudizio di valore espresso nei propri confronti a partire da una serie di parametri valutativi personali e sociali; nel secondo caso, invece, la s.d.s. viene descritta ponendo l’accento sul vissuto emozionale che accompagna la valutazione di sé, ovvero sul sentimento che si prova ad essere quel che si è.

2. È comunque difficile trovare una definizione univoca della s.d.s., sia per le sfumature diverse evidenziate dai vari studiosi, sia perché talvolta è stata prestata poca attenzione alla descrizione di tale costrutto, dando per scontato che tutti sappiano di cosa si tratti. A questo va aggiunto che spesso la s.d.s. viene confusa e usata in maniera intercambiabile con il​​ ​​ concetto di sé, sebbene, nonostante le affinità, si tratti di due costrutti diversi. Anche su tale questione ci sono posizioni diverse: per alcuni l’autostima è un costrutto separato da quello del concetto di sé, mentre per la maggior parte degli studiosi è un costrutto distinto ma subordinato al concetto di sé, intendendo l’autostima come la dimensione valutativa e affettiva del concetto di sé. La poca chiarezza dal punto di vista concettuale ha avuto delle ripercussioni metodologiche nella ricerca sulla s.d.s., per cui in molti casi i risultati emersi non sono comparabili tra loro, e spesso sono ambigui, contraddittori e poco consistenti (Wells - Marwell, 1976; Wylie, 1979). È importante segnalare però che negli ultimi decenni lo studio della s.d.s. ha mostrato progressi significativi, e questo grazie all’utilizzazione di accurati piani di ricerca in cui ci si è serviti di definizioni più chiaramente operazionalizzabili, di strumenti di rilevazione adeguatamente validati, e analizzando inoltre l’autostima non solo in termini globali ma anche rispetto a specifici ambiti (per es.: scolastico, sociale) di esperienza (Harter, 2001).

3. Dagli anni ’70 del sec. scorso in poi, la s.d.s. è stata oggetto di crescente interesse da parte di psicologi ed educatori, in quanto essa sembra rivestire un ruolo rilevante nel buon funzionamento della persona: solitamente, infatti, un buon livello di autostima, che sia solido e non fittizio, è positivamente correlato con uno stato di benessere psicologico, di integrazione sociale, e con autonomia e un minor disadattamento (Mruk, 1999). La s.d.s., inoltre, risulta essere una variabile di particolare importanza anche a scuola, poiché è correlata sia ad un buon inserimento nell’ambiente scolastico sia alla riuscita negli studi, sebbene non sia stato ancora definito se l’autostima sia una conseguenza del successo o, viceversa, se ne sia uno dei determinanti: attualmente si propende a credere che tra le due variabili esista un’influenza reciproca. Promuovere dunque la s.d.s. degli alunni, oltre ad essere un importante obiettivo formativo, può contribuire a rendere più efficace anche l’azione dell’insegnante strettamente finalizzata all’acquisizione delle conoscenze e allo sviluppo delle abilità negli studenti. Tenendo conto, infine, che lo sviluppo della s.d.s. è influenzato dall’interazione con persone significative, quali ad es. gli insegnanti, negli ultimi anni si sono moltiplicate le opere che riconoscono proprio nella scuola un luogo privilegiato, accanto alla famiglia, per promuovere l’autostima dei ragazzi (ad es.: Lawrence, 1988; Pope - McHale - Craighead, 1994).

Bibliografia

Wells L. E. - G. Marwell,​​ Self-esteem: its conceptualization and measurement,​​ Beverly Hills, Sage Publications, 1976; Wylie R. C.,​​ The self-concept,​​ vol. 2, Lincoln, University of Nebraska, 1979; Lawrence D.,​​ Enhancing self-esteem in the classroom,​​ London, Paul Chapman Publishing, 1988; Pope A. W. - S. McHale - E. Craighead,​​ Migliorare l’autostima: un approccio psicopedagogico, Trento, Erickson,​​ 1994; Mruk C.,​​ Self-esteem. Research,​​ theory and practice, New York, NY, Springer Publishing Company, Inc.,​​ 21999; Harter S., «On the importance of importance rating in understanding adolescents’ self-esteem: beyond statistical parsimony» in R. J. Riding - S. G. Rayner (Edd.),​​ Self perception, Westport, CT, Ablex Publishing, 2001, 3-24; Kernis M. W. - A. W. Paradise, «Distinguishing between secure and fragile forms of high self-esteem», in E. L. Deci - R. M. Ryan (Edd.),​​ Handbook of self-determination research, Rochester, NY, University of Rochester Press,​​ 22004, 339-360; Desbouts C. G.,​​ «La scuola non fa per me».​​ Insuccesso scolastico e autostima, Roma, LAS, 2006.

C. Messana




STORIA DELL’INFANZIA E DELLA GIOVENTÙ

 

STORIA DELL’INFANZIA​​ E DELLA GIOVENTÙ

La s.d.i. e d.g., come la s. della vecchiaia e altre s. di genere, può essere considerata dal punto di vista storico e storiografico.

1. Da un punto di vista storico non esiste una s.d.i. e d.g., o dei minori e simili, se non come s. dei vari ceti (nobili, borghesi, popolari, professionali) entro comunità più o meno larghe (da quella di villaggio a quella nazionale) e dislocata nel tempo e nello spazio (urbano, rurale, montano); insomma la s. si modella sulla s. delle varie classi sociali con le loro condizioni materiali di vita decisamente influenti, a seconda delle aree e degli ambiti, sugli adulti come sui minori. Si pensi all’ambito familiare, all’importanza ivi assunta dal bambino nel tempo, nel quadro sociale, nella stessa tipologia familiare, che presenta volti antichi e moderni; si pensi ad una istituzione sociale volta ad assicurare la comunità del patrimonio incentrata sull’autorità paterna, alla presenza (o assenza) di legami familiari come «lo spirito di famiglia», agli aspetti della vita domestica e privata e così via; si pensi alla grande rivoluzione demografica ed all’urbanizzazione connesse alla rivoluzione industriale, che cambiano gli stessi quadri di riferimento dell’infanzia e della gioventù. La s. del genere presenta indubbi caratteri comuni a larga parte di quello specifico strato di popolazione sia che si tratti di abbandono, che di violenza, di sfruttamento agricolo e industriale, come di istruzione primaria e secondaria; vi pesano indubbie variabili sociali, economiche e giuridiche; vi influiscono, in misura diversificata, congiunture dovute a carestie ed epidemie e simili. Esiste, sul piano dell’immaginario, il complesso di idee costruite e fatte proprie dal mondo adulto sull’infanzia e sulla gioventù, e anche sulla sua s., in una lenta secolare presa di coscienza dell’individualità umana nel suo farsi. Naturalmente l’elaborazione delle idee assume toni diversi a seconda della condizione sociale, passandovi fattori come la cultura, i livelli di alfabetizzazione, il tipo di fede religiosa (si pensi al mondo protestante), persistenze ataviche e così via.

2. Nella società medievale il «sentimento» dell’infanzia, vale a dire la consapevolezza della peculiarità dell’infanzia, è diverso dalla società moderna, dove tutto cambia con la separazione del bambino dalla famiglia, con un lento processo di scolarizzazione del bambino e l’intervento di sempre più plurime agenzie di socializzazione nella società contemporanea. Nell’Ottocento e nel Novecento lentamente, in vari Paesi europei dapprima, quindi in Italia, si afferma un modello borghese, non senza incontrare resistenze quanto a sentimenti, pratiche di vita consolidate e abitudini. Veicoli ne sono la letteratura per l’infanzia, la scuola primaria, le istituzioni educative in senso lato, ma anche l’extrascolastico come forme di socializzazione, di integrazione, di formazione di identità sia pure in contesti i più vari. Anche per l’età contemporanea sono importanti le suggestioni di un libro che può essere considerato emblematico:​​ Padri e figli nell’Europa medievale e moderna,​​ di Ph. Ariès (con tutte le riserve avanzate dai recenti studi sul​​ ​​ Medioevo). Dal punto di vista storiografico non se ne può prescindere; per contrasto risulta chiarificatore anche l’apporto di L. De Mause che espone invece, come hanno sottolineato Becchi e Julia «una teoria lineare della s.»; questa «produce un miglioramento generale della sorte dei bambini», e la periodizzazione dei modi di relazione più diffusi tra genitori e figli «nella parte più evoluta della popolazione e nei paesi socialmente più avanzati» si risolve in uno schema, tutto sommato bizzarro, di sei «modi» che sarebbero apparsi successivamente: da quello «infanticida», nato nell’Antichità, fino a quello «cooperativo», che ha inizio nel sec. scorso, attraverso quello del «rifiuto», proprio del Medioevo, quello «ambivalente» dei sec. XIV-XVII, quello «intrusivo» del Settecento (nel quale comincia ad affermarsi una reazione «empatica» dei genitori nei confronti dei loro figli), quello «socializzante» che esordisce nell’Ottocento. La s.d.i. prevista da De Mause finisce con l’essere un lungo «catalogo di atrocità» con «un gusto spiccato per il macabro».

3. D’altra parte accentuando in chiave antropologica il marcato carattere di​​ liminalità​​ della giovinezza, colta «all’interno dei margini mobili tra la dipendenza infantile e l’autonomia dell’età adulta, in quel periodo di puro cambiamento e di inquietudine in cui si realizzano le promesse dell’adolescenza, tra l’immaturità sessuale e la maturità, tra la formazione e il pieno dispiego delle facoltà mentali, tra la mancanza e l’acquisizione di autorità e di potere», le società nel tempo hanno sempre «costruito» la giovinezza come un fatto intrinsecamente instabile, irriducibile alla fissità dei fatti demografici o giuridici, come una realtà culturale in cui gli individui sembrano non appartenere alle classi di età, ma le attraversano; allora si tende non ad una s., ma a s. plurime di giovani, scollocati ogni volta «nel groviglio di rapporti sociali specifici, legati a contesti e momenti storici differenti», indagati in una molteplicità di prospettive, in cui vengono valorizzati i riti di passaggio o della liminalità giovanile. La storiografia italiana offre contributi di G. Levi, O. Niccoli, E. Becchi, D. Bertoni Jovine, J.-C. Schmitt, E. Trisciuzzi, per non considerare altri apporti. Ancor prima che dal punto di vista storico e storiografico occorre però chiedersi che senso abbia una s. di generi: se si pone al centro dell’interesse una categoria astratta e avulsa dal resto e dal contesto, si compie una falsificazione storica ponendo in essere una produzione affatto ideologica; come è stato giustamente notato «il bambino del benessere, il bambino-re, il bambino oggetto libero e felice della pubblicità, il bambino cui si destinano Disneyland, Eurodisney, parco di Astérix, non è il modello più diffuso; i bambini che lavorano sono ancora oggi centinaia di milioni»; diversamente, connessa con il quadro più generale entro il quale va compresa, calata, letta la s. di genere può contribuire a fare emergere caratteri e aspetti insondati, arricchire con nuove acquisizioni, porre ulteriori problemi.

4. Ben diverso, naturalmente, è affrontare il tema della educazione dell’infanzia che è insieme s. di modelli, ma anche di interventi educativi, nonché di istituzioni formative, dove si fanno i conti con il contributo offerto da​​ ​​ Aporti,​​ ​​ Montessori,​​ ​​ Agazzi,​​ ​​ Fröbel. L’educazione dell’infanzia implica l’esame della politica scolastica dall’asilo alla scuola infantile sia sul piano scolastico che su quello dell’orientamento dei programmi didattici come su quello del recupero con educazione specifica (convitti per orfani, ad es.). Ma se si esula dalla s. dell’educazione dell’infanzia e della gioventù, molto facilmente si scivola nella s. di genere, autoreferente, isolata, al limite inutile.

Bibliografia

Ariès Ph.,​​ Padri e figli nell’Europa medievale e moderna,​​ Bari, Laterza, 1976; Levi G. (Ed.),​​ S. dei giovani,​​ Roma / Bari, Laterza, 1994; Becchi E. - D. Julia (Edd.),​​ S.d.i.,​​ 2​​ voll., Ibid., 1996; Dogliani P.,​​ S. dei giovani, Milano, Mondadori, 2003;​​ Gutiérrez A. - P. Pernil,​​ Historia de la infancia. Itinerarios educativos, Madrid, UNED, 2004.​​ 

A. Turchini




STORIA DELLA PEDAGOGIA

 

STORIA DELLA PEDAGOGIA

Come s. di un settore particolare (più che di una disciplina specifica), rientra nel discorso storico ed è nata ancora prima di un riconoscimento ufficiale della «pedagogia come scienza», almeno con riferimento alle istituzioni e, in certo senso, alla stessa educazione, come, per es., in A. H. Niemeyer (1754-1828). Si userà qui il lemma in senso molto comprensivo, per quanto suscettibile di distinzioni.

1.​​ Il​​ cammino storico:​​ le pubblicazioni di s.d.p. si sono moltiplicate in parallelo al consolidarsi della concezione classica della s. e del suo metodo, attorno alla metà del sec. XIX. In Italia, invece, con un po’ di ritardo. Gli inizi ne hanno denunciato un carattere pratico, mirato all’uso, più che critico-scientifico, donde lo sviluppo della manualistica. La riflessione successiva, che considerò la s.d.p., come la s. in genere, inserita tra le​​ Geisteswissenschaften​​ («scienze dello spirito»), secondo W. Dilthey, ne ha favorito un’elaborazione connessa, se non strettamente dipendente, a criteri e orientamenti teoretici, per non dire «ideologici». Infatti non solo si operava in modo spiccatamente selettivo, tra i materiali a disposizione, ma si procedeva in forma descrittiva, suppostamente asettica e, magari anche, edificante, con una lettura moralistica, allora assai diffusa, della s. in genere. Tale approccio intendeva evidenziare una continuità nelle linee di sviluppo in sintonia (o anche in contrasto) con principi e visioni del reale, per lo più di «scuola» o di corrente. Solo più tardi, gradualmente e lentamente​​ la critica,​​ nelle sue diverse espressioni, passò dalla s. anche alla s.d.p., inizialmente con un ruolo marginale, quando ancora le impostazioni e letture «ideologiche» prevalevano, e, in seguito, più rilevante, soprattutto al rendersi conto che le​​ traduzioni​​ erano, generalmente,​​ infedeli,​​ con conseguenze più e meno evidenti e pesanti. Tale preoccupazione filologica, fondamentalmente, contribuì anche al superamento e, anzi, all’integrazione di punti di vista ideologicamente contrastanti su un terreno meno soggettivo e più gratificante. Una forte spinta a questa​​ deideologizzazione​​ della s. in generale, e, di riflesso, di quella della pedagogia è venuta dal movimento promosso dalle «Annales d’Histoire Économique et Sociale», a partire dal 1929, in quanto si sono messi in evidenza altri interessi, altre fonti (anche orali), l’esigenza di problematicizzazione, di recupero di silenzi storici, di contrasti e differenze che spezzano quella continuità ideale, prima ricercata, e infine l’opportunità di collegare i tempi brevi con quelli lunghi in modo da ricavarne una diversa prospettiva (sia in senso verticale, diacronico e di livelli applicativi, che orizzontale, geografico-comparativo). Di qui derivava, con un’angolazione diversa, una più fondata possibilità di valutazione. Si è così venuta imponendo, a poco a poco, una rilevazione​​ di discontinuità​​ nel divenire storico-pedagogico, con una più attenta​​ valorizzazione del diverso​​ e del sotterraneo (se non sotterrato), ma, al tempo stesso​​ del comune,​​ del plurale di fronte all’antecedente prevalere del singolare. Si è dunque passati, con la mediazione della filologia, da un momento di subordinazione della s.d.p. a concezioni prevalentemente filosofiche, alla ricerca di una sua autonomia, da fondare su una miglior definizione di metodi e strumenti, su una più differenziata individuazione di fonti e sui parametri di riferimento delle scienze dell’educazione, nella scia di orientamenti già affermatisi all’estero (Francia e Inghilterra, specialmente). A questo indirizzo ha fatto riscontro il proliferare di studi più specialistici, con una suddivisione dei campi di indagine in settori e sotto-settori, con una loro identità (per es.,​​ ​​ s. dell’infanzia, dell’istruzione femminile e così via), pur inseriti in più ampi e complessi sistemi, che intervengono comunque con pesanti condizionamenti, soprattutto sociali. Donde, all’interno di una periodizzazione a lungo termine, l’importanza di curare la​​ contestualizzazione,​​ anche quando si intenda occuparsi di un personaggio singolo o di un’istituzione particolare, con espliciti riferimenti alla situazione politica, sociale, economica e culturale, nonché alle mentalità operanti.

2.​​ I​​ contenuti della s.d.p.:​​ da quanto sopra emerge che, in un primo tempo, la s.d.p. si è interessata ed occupata anzitutto di quanto le consentiva una lettura ideologica, con garanzia di continuità: le istituzioni, in primo luogo (famiglia, scuola, extrascuola); le idee e dunque le teorie educative, nonché i loro promotori, in subordine. Anzi, con l’affermarsi dell’idealismo, si è capovolta la priorità e si sono progressivamente trascurate le istituzioni, a vantaggio delle idee e dei sistemi. Oggi, come conseguenza degli sviluppi della ricerca storica generale, si può ipotizzare, non senza divergenze, che una​​ s. dell’accaduto in educazione​​ o, più semplicemente,​​ s. dell’educazione,​​ come concetto più generale e comprensivo, si articoli su​​ tre livelli: culturale,​​ istituzionale e prassico,​​ con uno sforzo però di​​ coglierne le interconnessioni e interdipendenze e di interpretarle.​​ a)​​ Il​​ livello culturale​​ è da intendersi in senso ampio, quasi antropologico, in cui le idee (sistematizzate o meno), in modo più e meno consapevole, hanno un ruolo direttivo dell’agire, tanto sulla base di collaudate esperienze, che sono state trasmesse e recepite, quanto in virtù di una revisione, personale o di gruppo, di quelle stesse tradizioni in vista di comportamenti diversi o anche come frutto di un’elaborazione teorica, suggerita da una propria analisi dell’esperienza oppure da tesi precedentemente formulate e sostenute. Questa «cultura», sia locale che a più vasto raggio, è decisiva nella formazione della​​ mentalità,​​ che si caratterizza per le sue aspettative, per gli interessi e per le valutazioni che dà, nella stimolazione e direzione dell’agire del soggetto. Come non si può parlare di educazione in senso astratto, se non come esercizio retorico, così non esistono idee o sistemi astratti, a sé stanti. L’una e le altre si ritrovano nel vissuto, nel concreto storico o di un personaggio o di gruppi o di esperienze, da cui finalmente si possono ricavare «rappresentazioni», come risultato di un’elaborazione intellettuale personale o comune, che dà origine appunto a idee e, se organicamente collegate, a «ideologie», in senso positivo, o, filosoficamente, a sistemi. Questi come tali non sono un «dato» storico, neppure entro i limiti consentiti per parlare di dato, ma il frutto di un’operazione astrattiva sul medesimo, che risulta invece di comportamenti, di azioni, di relazioni, che costituiscono effettivamente l’oggetto di studio e di valutazione dello storico. b)​​ Il​​ livello istituzionale,​​ che si occupa della famiglia, della scuola, dello Stato, della chiesa e altro ancora, in quanto agiscono o interferiscono sull’educazione, è portatore di una «cultura» e se ne fa promotore. In senso tuttavia più rigido, cristallizzato e conservatore, perché senza vita propria e con una tendenza all’omologazione di tutti coloro che vi fanno capo, di cui individua le espressioni negli usi e costumi, nelle tradizioni, nelle norme e leggi, che, scavalcando appunto il singolo, tendono a subordinarlo e a mantenerlo dipendente, anziché a favorirne la libertà e l’autonomia. Donde la ripetitività e il rischio, cui troppo spesso si cede all’interno delle istituzioni, dell’automatismo e dell’irresponsabilità, dell’incoscienza e incomprensione. Il cambiamento e l’innovazione sono assai più difficili in questo ambito, a causa della più resistente vischiosità delle istituzioni stesse, degli ostacoli che si frappongono, ritenendosi consolidate e dunque pressoché immutabili, del loro minor dinamismo, frenato dalla pluralità dei membri, non tutti e non sempre docili, e infine della preoccupazione vincente per la propria sopravvivenza, che ritengono minacciata da ogni variazione del consueto. In esse, conseguentemente, si è mirato (oggi, si spera, meno) per lo più all’istruzione per non dire all’indottrinamento, anziché a un’educazione responsabile, che privilegi il singolo soggetto con i suoi diritti, con tutte le sue esigenze e possibilità. c)​​ Il​​ livello prassico​​ dovrebbe, nei limiti del possibile, cogliere e tener conto dello sviluppo e della crescita umana del singolo, come dei gruppi, più e meno ampi, in rapporto all’ambiente in cui si vive, agli orientamenti dominanti e ai condizionamenti cui si è subordinati, definendone eventuali scarti e peculiarità e cercando di individuarne i fattori di promozione, nonché gli ostacoli. A questo livello si gioca il futuro dell’individuo, secondo l’esito, a breve, medio e lungo termine, dell’incontro-scontro tra le tendenze e possibilità del singolo soggetto o del gruppo e le richieste e norme della società più ampia o istituzione. Spesso non si indaga in questa linea o non si è in grado di venirne a capo, poiché indubbiamente la «memoria storica» è limitata, ma, se non se ne ricercano e individuano le fonti opportune, si finisce per amputarla ulteriormente. Infatti è assai più facile ritrovare e riconoscere le tradizioni più estese, le norme e le leggi, che le deviazioni dalle medesime, salvo casi di particolare incidenza storica. Un solo esempio. I dati internazionalmente divulgati sono espressione non della realtà di un Paese, ma delle sue leggi e decisioni ufficiali, che tuttavia, spesso, non trovano alcuna rispondenza nei fatti. Eppure la s. «effettuale» è esclusivamente​​ res gestae​​ (sia pure in senso ampio) e, in ogni caso, da quelle dovrebbe derivare la​​ historia rerum gestarum,​​ per riferirsi a una distinzione classica, benché un po’ riduttiva. In questo ambito rientrano, in quanto considerati nel loro esercizio, gli usi e costumi, che, a livello individuale, si traducono in​​ abitudini,​​ ed anche i​​ metodi​​ educativi. Il che non toglie che, in seconda istanza, si possa tentare di confrontarli e valutarli​​ in astratto,​​ teoricamente. Concludendo, è ancora da sottolineare l’interconnessione​​ e​​ interdipendenza​​ tra questi tre livelli: esse sono tanto strette da impedire, da un lato, una chiara spartizione del territorio pedagogico e, dall’altro, da richiedere indispensabilmente il ricorso all’interdisciplinarità,​​ vale a dire all’aiuto e alla collaborazione di altre competenze, che lo storico, per quanto preparato e aperto, non può, per lo più, avere in proprio. Sotto questo profilo si può correttamente parlare di un’aspirazione, anche della s.d.p., alla​​ totalità,​​ all’aver presenti tutti gli elementi e fattori che giocano nella vita umana. A questo punto si può pure guardare a una possibile articolazione dei contenuti in funzione di una distinzione di storie diverse. Più comunemente si parla di​​ s.d.p.,​​ se riferita alla sola​​ s. delle idee e dei «sistemi» educativi​​ (espressione, a mio avviso, da preferire); di​​ s. dell’educazione,​​ se si guarda alle​​ istituzioni​​ (​​ s. della scuola e delle istituzioni educative), o al​​ costume​​ e​​ metodi​​ educativi e così via, riconoscendo a quest’ultima quasi una​​ onnicomprensività.​​ 

3.​​ La metodologia della ricerca e altre considerazioni:​​ nell’entusiasmo dell’affermarsi di una «scienza» storica, nel sec. XIX, si è frequentemente parlato di «metodo storico», volendo rispondere a una delle caratteristiche di ogni scienza, nell’opinione di allora. D’altronde, all’epoca, esaurendosi la s. nella s. politica o quasi, il discorso di​​ un metodo​​ storico poteva apparire accettabile. Tuttavia con l’ampliarsi dei suoi ambiti, oggetti e strumenti, oggi, parlare di metodo storico non ha più senso, se non in quanto insieme di metodi e, perciò, è forse più opportuno far uso, con tale significato, del termine​​ metodologia.​​ Infatti, dato l’indispensabile ricorso all’interdisciplinarità diventa evidente l’utilizzazione di metodi molteplici e differenti, secondo il lavoro che si sta facendo. Ciò non toglie che anche per la s. dell’educazione si passi per i tre classici momenti, costitutivi di ogni ricerca: il​​ momento euristico,​​ quello​​ ermeneutico​​ e quello​​ critico​​ o valutativo. Il primo, teso al reperimento delle fonti e alla raccolta del materiale (bibliografico, testimoniale, filologico...), si colloca su un​​ piano​​ prevalentemente​​ descrittivo;​​ il secondo, che gioca anzitutto sulla contestualizzazione, per una più concreta e adeguata lettura del fenomeno che si studia, tenta un’elaborazione dei dati raccolti, confrontandoli, organizzandoli e collegandoli tra loro, e si propone una comprensione del fenomeno stesso, in​​ chiave​​ anche​​ esplicativa.​​ Indubbiamente il termine «ermeneutico» può suggerire altre aperture, che non è qui il caso di considerare, sebbene si riscontrino, solitamente, su questo livello le più usuali deficienze delle ricerche storico-pedagogiche. Infine il momento​​ critico​​ o valutativo si suddivide in due prospettive: quella​​ sincronica,​​ che punta a definire una valutazione del dato tra i suoi contemporanei, e quella​​ diacronica,​​ che invece, guardando il dato in proiezione sul presente e, nei limiti del possibile, persino sul futuro, ne tenta una valutazione per i contemporanei dello storico. Sotto questo profilo, ci si può aprire ad altre considerazioni valide per la s. in genere, che tuttavia conviene richiamare. In primo luogo, sono da denunciare alcuni​​ errori​​ ricorrenti, specie a livello di divulgazione storica. L’incidenza anzitutto di​​ pregiudizi​​ di ogni genere o di​​ generalizzazioni​​ indebite, che danno luogo agli stereotipi, solitamente duri a morire. Inoltre il facile uso di​​ illusioni retrospettive,​​ per cui addirittura si trasferisce nel passato la cultura o altre tipicità del presente (come quando si creano i​​ precursori​​ di idee o movimenti posteriori, di cui, all’epoca, non si aveva alcun sentore). Infine, limitandosi a cenni esemplificativi, l’etnocentrismo​​ e il​​ mito dell’origine,​​ in virtù dei quali si giudica tutto dalla situazione in cui ci si trova​​ considerata come ideale​​ oppure si ritiene che,​​ trovata l’origine​​ di un fatto, sia​​ tutto spiegato​​ o ci si illude che un​​ ritorno all’origine risolva tutti i problemi.​​ Un ultimo rilievo riguarda​​ lo storico,​​ da cui nasce appunto la​​ historia rerum gestarum,​​ non senza il peso di condizionamenti dovuti a lui stesso. Infatti se la s. è continuamente​​ in fieri,​​ si può riscrivere in continuazione, non è soltanto perché si possono trovare nuove fonti o dati oppure perché, in base a interessi e interrogativi comuni, la si legge e usa in una determinata prospettiva, ma anche perché il singolo ricercatore ha interessi propri, delle domande personali, cui cerca una risposta, e, si voglia o no (nonostante la dichiarata «morte delle ideologie»), qualche idea o suggestione che intende far passare, utilizzando dati storici. Non ci si riferisce, ovviamente, a palesi falsificazioni, come in altri tempi si è fatto, bensì a scelte, angolature da cui porsi, obiettivi da perseguire, che danno dei fenomeni ed eventi una lettura personalizzata, che, d’altro canto, è inevitabile, visto che lo storico è l’autore della s. scritta. L’importante, per il lettore critico, sarà arrivare, sulla base di tutte le informazioni che riesce ad avere, a discernere quegli elementi di soggettività, che se non inquinano (vista la loro ineluttabilità), tipicizzano un apporto storico.

Bibliografia

Clausse A.,​​ Introduzione storica ai problemi dell’educazione,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1974; Fornaca R.,​​ La ricerca storico-pedagogica,​​ Ibid., 1975; Semeraro A.,​​ Dina Bertoni Jovine e la storiografia pedagogica nel dopoguerra,​​ Manduria, Lacaita, 1979; Santelli Beccegato L.,​​ L’insegnamento della s.d.p.,​​ Brescia, La Scuola, 1981; CIRSE,​​ Problemi e momenti di s. della scuola e dell’educazione,​​ Pisa, ETS, 1982; Trebisacce G.,​​ L’educazione tra ideologia e s.,​​ Cosenza, Pellegrini, 1983; Santoni Rugiu A. - G. Trebisacce (Edd.),​​ I problemi epistemologici e metodologici della ricerca storico-educativa,​​ Cosenza, Pellegrini, 1983; Serpe B.,​​ La ricerca storico-educativa oggi. Fondamenti,​​ metodi,​​ insegnamento,​​ Cassano all’Jonio, Jonica Editrice, 1990; Cambi F.,​​ La ricerca storico-educativa in Italia 1945-1990,​​ Milano, Mursia, 1992; Genovesi G., «Cento anni di s. dell’educazione in Italia. Linee di tendenza e problemi», in B. Vertecchi (Ed.),​​ Il secolo della scuola - L’educazione nel Novecento,​​ Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1995, 139-186.

B. A. Bellerate




STORIA DELLA SCUOLA

 

STORIA DELLA SCUOLA

Settore particolare della ricerca storica sull’educazione. Allo scopo di offrire un quadro d’insieme, si restringe in questo ambito la scelta dei temi e dei problemi, e ci si limita a ripercorrere le tappe più significative dello sviluppo della scuola occidentale, le cui radici affondano nelle esperienze del vicino Oriente. Per le questioni storiografiche si rimanda a s. della pedagogia Per i contenuti si vedano, in modo particolare, le seguenti voci: Grecia, Roma, Medioevo, Umanesimo rinascimentale, Filantropismo, Risorgimento, Scuole Nuove.

1.​​ Cenno alle origini.​​ Le liste lessicali e grammaticali trovate a Shuruppak, risalienti al 2600 a.C., testimoniano l’esistenza di scuole. Le liste di parole trovate a Uruk (l’attuale Warka), attestano che già agli albori della scrittura (verso il 3200 a.C.) esisteva nella Mesopotamia un certo tipo d’insegnamento. Finché il numero di scribi necessari per le registrazioni economiche non fu elevato, si provvedeva alla loro formazione con l’apprendistato: uno scriba anziano iniziava qualche giovane all’arte dello scrivere. Quando la vita sociale diventò più complessa e le esigenze amministrative del tempio e del palazzo reale aumentarono, si dovette disporre di un maggior numero di scribi con un’ istruzione più accurata, rendendosi necessaria a tale scopo un’istituzione permanente. Questa istituzione chiamata in sumerico​​ edubba​​ («casa della tavolette») era un locale annesso al tempio. I membri dell’edubba​​ venivano denominati «figli della casa delle tavolette». Il maestro principale era assistito da uno studente anziano («fratello maggiore»). Nelle scuole più numerose, oltre l’insegnante di accadico e di disegno, esistevano i responsabili della sorveglianza e della disciplina (molto rigorosa). Il programma scolastico offerto al futuro scriba (dubsar)​​ era ampio: scrittura, grammatica, matematica e geometria, rudimenti di filosofia, teologia, diritto, geografia, amministrazione civile. Non solo gli scribi (notai, archivisti, consiglieri), ma anche gran parte della classe dirigente (nobili, sacerdoti) frequentavano la scuola. Sulle tavolette dei contratti babilonesi appare pure qualche nome di donna; tuttavia, la cultura degli scribi mesopotamici rimase limitata a un gruppo elitario. Nell’Egitto faraonico pare che l’alfabetizzazione sia stata un fatto più diffuso. L’espressione equivalente a scuola («casa dell’istruzione») appare verso il 2000 a.C. Accanto alla scrittura, l’aritmetica e la geometria, la scuola (gravitante attorno al tempio) dava spazio alle attività fisiche: tiro con l’arco, cura e uso dei cavalli, nuoto (particolarmente necessario in un paese fluviale). Le ragazze erano educate alla danza, al canto, a suonare strumenti musicali. Per ciò che riguarda la didattica, sembra probabile, «alla maggior parte degli studiosi che si sono occupati della questione, che in Egitto si insegnasse a scrivere col metodo globale senza nessun preliminare insegnamento dei singoli segni» (Moscati, 1976, 61). Vengono privilegiati, come nella Mesopotamia, i metodi mnemonici. Negli​​ Insegnamenti​​ (scritti sapienziali), letti e copiati dai ragazzi egiziani, si fustiga l’ozio e si addita come ideale «la pratica di una buona condotta verso gli altri e verso la divinità».

2.​​ La scuola in Grecia e a Roma.​​ La scuola greca raggiunse nell’epoca ellenistica la sua espressione più compiuta. La diffusione della cultura nel Mediterraneo e in parte dell’Asia non significò svuotamento della medesima, anzi favorì la consapevolezza di una tradizione e l’impegno di approfondimento dei testi «classici». Contemporaneamente, con il contatto con altri popoli, la Grecia assorbì usi e idee religiose e culturali del mondo orientale (Egitto, Siria), con ripercussioni nell’ambito scolastico, in un’epoca in cui si hanno ormai scuole pubbliche e l’istruzione non è più lasciata alla sola iniziativa privata. Le iscrizioni trovate in Asia Minore attestano la presenza di questo tipo di istituzioni nel sec. III a.C., anche se continuano a esistere quelle private sostenute dai contributi degli alunni. L’impostazione delle scuole ellenistiche nei tre livelli fondamentali e con i programmi di studi umanistici rimane un punto di riferimento fino all’età moderna: 1° La scuola primaria del​​ didáskalos​​ è frequentata dal bambino dopo i sette anni. 2° La scuola secondaria del​​ grammatikós​​ si propone di dare una cultura generale (enkyklios paideia).​​ 3° Le modalità e caratteristiche delle scuole superiori non rispondono a un modello unico. Ci sono forme «minori» come le lezioni o conferenze che si danno nel ginnasio e nell’efebía,​​ accanto alla formazione atletica. Per i giovani greci, fare gli studi superiori comportava la frequenza della scuola del retore. La filosofia era patrimonio di una​​ élite​​ ridotta. Nell’antica Roma, lo Stato non si interessa dell’organizzazione e del finanziamento della scuola finché Vespasiano (dal 69 al 79) non prende provvedimenti a favore dei maestri di retorica. Dal II sec. a.C. la scuola romana adotta sostanzialmente il modello greco in tre livelli (scuola elementare o​​ ludus;​​ scuola del​​ grammaticus;​​ scuola del​​ rethor).​​ Speciale attenzione viene dedicata allo studio del diritto e alla professione forense. Un’istituzione privata, il​​ paedagogium,​​ cura la formazione degli schiavi e liberti destinati a professioni paraliberali. Nel corso dei primi secoli, i cristiani non creano proprie scuole. Essi considerano normale che i ragazzi acquisiscano la cultura profana frequentando le comuni scuole del tempo. Gli scrittori più intransigenti nei confronti dei pericoli del paganesimo accettano la cultura tradizionale, considerata come un insegnamento di base necessario per la comprensione della Bibbia. I cristiani vissuti nel mondo classico accettano una categoria dell’umanesimo ellenistico: l’esigenza dello sviluppo di tutte le potenzialità dell’uomo in quanto tale, prima di qualsiasi altra determinazione.

3.​​ La scuola nel Medioevo.​​ Quando il Vangelo si diffonde nei popoli «barbari», la Chiesa dà vita alla scuola, in cui l’insegnamento ha però un carattere religioso. Le prime «scuole monastiche», sorte nel sec. IV, mirano all’istruzione elementare dei «giovani oblati» accolti nel monastero ancora ragazzi; la timida apertura ai giovani laici trova forti opposizioni, soprattutto in Oriente (​​ monachesimo). Nel sec. VI sorgono le «scuole cattedrali» nelle città e, nelle campagne, le «scuole presbiterali» per assicurare la formazione dei futuri preti. Con le invasioni barbariche non scompaiono del tutto le scuole romane. Le scuole ecclesiastiche vengono organizzate «per reazione contro l’insegnamento dato dai maestri tradizionali», indirizzato ai giovani desiderosi di acquisire una erudizione profana e di ottenere un posto nell’amministrazione; i chierici, che risentono l’influenza monastica, volevano che «la Bibbia fosse nota al più grande numero di persone» (Riché, 1991, 25). In un secondo momento frequentano le scuole ecclesiastiche anche alunni chiamati alla vita laica. Il programma è modesto: leggere, scrivere, imparare alcuni salmi, canto religioso, nozioni dottrinali, canoniche e liturgiche. Sembra che le​​ ​​ arti liberali siano state insegnate in scuole episcopali spagnole promosse da​​ ​​ Isidoro di Siviglia. Lo sviluppo di alcuni centri monastici e l’impulso dato dalla legislazione scolastica di Carlo Magno produce un’offerta culturale più ricca. Nel sec. XII alcune scuole cattedrali, sorte nelle città con maggior afflusso di studenti, si trasformano gradualmente in​​ ​​ Università. L’esplosione dei mestieri lungo il sec. XIII e l’organizzazione delle corporazioni di artigiani fanno maturare l’esigenza di un periodo di apprendistato. L’apprendista non riceve solo una preparazione tecnica, ma viene anche iniziato agli usi e segreti del mestiere attraverso un prolungato contatto con il maestro nell’officina e nella casa. Finito l’apprendistato, il candidato diventa​​ ufficiale,​​ e dopo due anni di pratica,​​ ​​ maestro.

4.​​ Dal Rinascimento all’Illuminismo.​​ La centralità dell’uomo e la riscoperta dei classici greci e latini spiegano la rinnovata attenzione dell’​​ ​​ Umanesimo ai problemi della scuola. Contemporaneamente a un percettibile decadimento delle scuole ecclesiastiche nel sec. XIV, le autorità comunali dedicano maggiori cure all’organizzazione dell’istruzione e la nobiltà si mostra più sensibile alla cultura, chiamando in famiglia, come precettori dei figli, preti o laici. Tra l’istruzione elementare e le università si fa strada un tipo di istituzione scolastica il cui programma di studi umanistici è all’origine del moderno insegnamento secondario classico. Le esperienze italiane più rinomate sono la scuola di​​ ​​ Guarino e la «Ca’ giocosa» di​​ ​​ Vittorino da Feltre. Gli umanisti elaborano le prime trattazioni su temi didattici (De tradendis disciplinis​​ di​​ ​​ Vives). Ebbero notevole risonanza e influsso i primi internati fondati in Olanda dai Fratelli della Vita Comune (sec. XIV-XV). La frattura verificatasi all’interno del Cristianesimo nel sec. XVI lascia una profonda traccia nell’impostazione della scuola. Nell’ambito del​​ ​​ Protestantesimo spicca l’opera di Melantone, organizzatore dell’insegnamento secondario e superiore in Germania, e, in campo cattolico, quella dei​​ ​​ Gesuiti. Il loro regolamento o metodo di studi per i collegi (​​ Ratio studiorum)​​ rimane un punto di riferimento fino a tempi recenti; inoltre, tra i ragazzi dei quartieri poveri romani, inizia il suo lavoro, nell’ultimo scorcio del ’500, il​​ ​​ Calasanzio, creatore della scuola popolare e gratuita in Europa. Nel clima riformatore del concilio di Trento, emerge l’impegno del​​ ​​ Borromeo nella fondazione di seminari e nella diffusione di scuole domenicali. Vengono create inoltre nuove congregazioni religiose dedite all’insegnamento:​​ ​​ Barnabiti, Somaschi, Orsoline di Brescia. La svolta scientifica e filosofica del sec. XVII si riflette sul pensiero di pedagogisti interessati al rinnovamento della scuola. Tra le istituzioni sorte nel periodo: le​​ ​​ Petites écoles​​ de Port-Royal, le fondazioni di​​ ​​ Francke, la congregazione dei​​ ​​ Fratelli delle Scuole cristiane. L’affermazione dell’«onnipotenza» della ragione da parte dell’Illuminismo è all’origine dell’interesse che, nel ’700 («secolo dei lumi»), destano le questioni riguardanti la scuola. Il trinomio «istruzione, progresso, felicità» sintetizza le istanze fondamentali. In misura e a livelli diversi si fa più attiva la presenza dello Stato: vengono elaborati progetti di organizzazione dell’insegnamento pubblico (​​ Condorcet). Speciale importanza presentano le esperienze scolastiche del​​ ​​ Filantropinismo tedesco sotto l’influsso delle idee di​​ ​​ Rousseau.

5.​​ La scuola nell’Ottocento.​​ Nel clima favorito dal​​ ​​ Romanticismo (in reazione al movimento illuminista) si sviluppano la scuola popolare di​​ ​​ Pestalozzi e il giardino d’infanzia (Kindergarten)​​ di​​ ​​ Fröbel. I fatti connessi con la rivoluzione industriale (uso di nuove tecniche, presenza delle donne e dei bambini nelle fabbriche, nuove aspettative e attese nei confronti dell’istruzione) favoriscono lo sviluppo delle «scuole della domenica» e «scuole notturne» o serali per adulti e ragazzi impegnati di giorno nel lavoro. Speciale risonanza hanno le Scuole di​​ ​​ Mutuo insegnamento, sorte in Inghilterra (1797) e diffuse in Europa e America nei primi decenni dell’Ottocento. Anche le​​ Infant Schools​​ iniziate da​​ ​​ Owen in Scozia hanno vasta eco fuori della Gran Bretagna. La prima scuola infantile italiana (chiamata anche asilo) viene fondata nel 1828 da​​ ​​ Aporti. In Francia sono note le​​ Salles d’Asile​​ organizzate da​​ ​​ Oberlin. Le iniziative private sono accompagnate dagli interventi statali nell’ambito delle istituzioni scolastiche. Nel Regno Sardo, va ricordata la L. organica Casati (1859), estesa alle altre regioni italiane dopo l’unità nazionale, restando sostanzialmente in vigore fino alla riforma Gentile (1923). In Spagna, è nota la L. Moyano d’istruzione Pubblica (1857); in Francia, le leggi Guizot (1833) e Falloux (1850) instaurano la libertà d’insegnamento. Pur con lentezza e ambiguità, lo Stato si occupa della formazione tecnica e professionale. Ma va messa in risalto l’opera dei privati (La Rochefoucauld, Ridolfi,​​ ​​ Giner,​​ ​​ Manjón) e dei fondatori di istituti religiosi. Attraverso le numerose​​ ​​ Congregazioni insegnanti, maschili e femminili, fondate nel sec. XIX, la Chiesa ricupera una forte presenza nella scuola popolare e secondaria, non senza contrasti: il tema della libertà d’insegnamento occupa ampio spazio nella pubblicistica dell’Ottocento.

6.​​ La scuola alle soglie del 2000.​​ Nell’ultimo scorcio dell’Ottocento, si sviluppa un forte movimento di riforma educativa. Schematizzando, si può dire che da un periodo di centralità della scuola, nella prima metà del sec. XX, si è passati alla proposta di descolarizzazione degli anni ’60, alla neo-scolarizzazione e al ricupero della funzione educativa della scuola negli anni ’80, in un quadro di policentricità formativa che comprende tutta la società educante e non solo la scuola. Nelle strategie adottate nei Paesi occidentali per rispondere alla domanda d’ istruzione che emerge nell’attuale​​ ​​ società della conoscenza, sono individuabili queste linee di tendenza: centralità dell’educando, apprendimento lungo tutto l’arco di vita della persona, alternanza di studio e lavoro, autonomia della scuola, qualità dell’educazione, eguaglianza delle opportunità (quest’ultima proposta comporta una pedagogia individualizzata e l’offerta di pari possibilità ai due sessi), educazione interculturale e integrazione dei portatori di​​ ​​ handicap nell’istituzione scolastica ordinaria. In «prospettiva di futuro» si profila un modello di scuola neo-umanistica e solidaristica capace di accogliere anche le istanze valide di altri modelli: scuola che istruisce, che seleziona, aperta alle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione.

Bibliografia

Moscati S.,​​ L’alba della civiltà,​​ vol.3:​​ Il pensiero, a cura di P. Fronzaroli et al., Torino, UTET, 1976;​​ De Fort E.,​​ S.d.s. elementare in Italia,​​ Milano, Feltrinelli, 1979;​​ Riché P.,​​ Réflexions sur l’histoire de l’éducation dans le Haut Moyen Age,​​ in «Histoire de l’Éducation»​​ 50 (1991) 17-38; Arch. Cent. dello Stato,​​ Fonti per la s.d.s.,​​ IV:​​ L’inchiesta Scialoja sulla istruzione secondaria maschile e femminile (1872-1875),​​ a cura di L. Montevecchi e M. Raicich, Roma, Minist. per i Beni Culturali, 1995; Gennari M.,​​ S. della Bildung: formazione dell’uomo e s. della cultura in Germania e nella Mitteleuropa,​​ Brescia, La Scuola, 1995; Chiosso G. (Ed.),​​ La stampa pedagogica e scolastica italiana, Ibid., 1997; Pazzaglia L. - R. Sani (Edd.),​​ Scuola e società nell’Italia unita. Dalla legge Casati al Centro-sinistra,​​ Ibid., 2001; Prellezo J. M. - R. Lanfranchi,​​ Educazione e pedagogia nei solchi della s., 3 voll.,​​ Torino, SEI, 2004; Chiosso G. (Ed.),​​ L’educazione nell’Europa moderna. Teorie e istituzioni dall’Umanesimo al primo Ottocento, Milano, Mondadori, 2007; Prellezo J. M., «Le scuole professionali salesiane (1880-1922). Istanze e attuazioni viste da Valdocco», in​​ L’educazione salesiana dal 1880 al 1922, vol. 1, a cura di J. G. González et al., vol. 1, Roma, LAS, 2007, 53-94.

J. M. Prellezo




STORICISMO PEDAGOGICO

 

STORICISMO PEDAGOGICO

Concezione dell’educazione e della pedagogia che si rifà ad una visione del mondo e della vita in cui la storicità umana assume un ruolo fondamentale (che presso alcuni diventa totalizzante).

1. Il termine s. (in ted.​​ Historismus)​​ come tale è piuttosto recente. Appare in ambienti tedeschi della fine del sec. XVIII, ma assume tutta la sua forza semantica a seguito dello scritto dello storico e teologo tedesco E.​​ Troeltsch​​ (1865-1923),​​ Lo s. e i suoi problemi,​​ del 1922, in cui lo s. è visto come espressione della tendenza alla relativizzazione storica della realtà e del pensiero, propria della modernità occidentale. A sua volta, lo storico F. Meinecke (1862-1954), in​​ Le origini dello s.​​ del 1936, mise in luce che lo s. tedesco esaltava la singolarità e l’irrepetibilità degli eventi storici, segnati, in opposizione agli eventi naturali, dalla dinamica della libertà e dalla apertura dello spirito alla trascendenza, in una fondamentale continuità processuale e temporale. In tal senso diventava basilare il concetto di sviluppo e la necessità di metodi idiografici che permettessero la conoscenza del singolare e dell’individuale, rispetto all’inadeguatezza dei metodi nomotetici delle scienze naturali, capaci di cogliere solo il generale e il tipico. Da questo punto di vista lo s. tedesco continuava, ma cercava anche di distinguersi dalla «critica della ragion storica» e dall’ermeneutica storico-culturale di W. Dilthey e dalla sua proposta delle scienze dello spirito, più decisamente portata avanti dal neo-kantismo di W. Windelband e di H. Rickert (in cui la storicità è collegata al mondo dei​​ ​​ valori). Ma non poté evitare di venir collegato al​​ ​​ relativismo storico e vitalistico di G. Simmel o a quello culturale di O. Spengler. L’autonomia metodologica delle scienze storiche sociali trovò in​​ ​​ Weber (1864-1920) un organico contributo.

2. Rispetto al fondamentale carattere metodologico e epistemologico dello s. tedesco, quello italiano, specie nella versione di B. Croce (1866-1952), assume un più largo senso di filosofia della storia. Esso si collega per un verso all’idealismo hegeliano, per quanto cerchi di distanziarsene, e per altro verso alla riflessione sulla «scienza nuova» di​​ ​​ Vico. Resta fondamentale la libertà dello spirito, ma è anche viva la ricerca di una razionalità del divenire storico. La storia è storia dello spirito e progressiva ascesa della libertà. In particolare si viene a dire che il mondo e la storia costituiscono la totalità e l’orizzonte di senso in cui si circoscrive la vicenda umana. Eliminato ogni residuo di trascendenza, al limite si afferma che tutto è storico e niente è oltre la storia (immanentismo). Questa vena di immanentismo storico è presente in altre versioni di s., magari in polemica con le ascendenze idealistiche crociane o con gli esiti attualistici gentiliani, come avviene nel prassismo materialistico di​​ ​​ Gramsci, in alcune forme di​​ ​​ problematicismo, o in posizioni variamente riferibili all’esistenzialismo.

3. È comune nello s. una fondamentale secolarizzazione e laicizzazione della visione del mondo e della vita, come anche il rifiuto di forme di sacralizzazione o di provvidenzialismo storico. È in particolare da notare come nelle versioni più radicali dello s. si ha una concezione del sapere secondo cui non solo «la verità è figlia del suo tempo», vale a dire che è relativa al momento e al contesto storico-culturale, ma anche che non si danno termini assoluti di riferimento veritativi e valoriali (s. relativistico); che è impensabile un trascendimento di un modo storico-culturale di pensare (s. culturalistico); o che ciò è possibile solo nel gioco dialettico, ma immanentistico, di reale ed ideale, di essere e pensiero, di finito ed infinito, di empirico e di metempirico, di relativo e di assoluto (s. idealistico).

4. Conclusosi come indirizzo specifico a cavallo della seconda guerra mondiale, un certo s. rimane a livello di mentalità generale e comunque resta come eredità problematica sia per ciò che riguarda la conoscenza e la scienza storica sia più largamente per il senso stesso di una filosofia della storia. K. Popper, già negli anni quaranta del sec. scorso, bollò la «miseria dello s.» (in cui egli inseriva ogni forma di neo-idealismo, ma pure il marxismo e la stessa psicoanalisi), a motivo dell’indimostrata e infondata nozione di prevedibilità del futuro. Negli anni settanta è stata molto forte la critica epistemologica ed antropologica dello strutturalismo: al metodo idiografico, genetico, causale e diacronico dello s. viene contrapposto il metodo nomotetico, analitico, strutturale e sincronico dell’interazione sistemica dei fattori. Alla prassi umana libera viene contrapposta la ferrea logica delle strutture in cui, secondo alcune forme di strutturalismo, come ad es. quella di M. Foucault, si fa manifesta la «morte dell’uomo» e di ogni ideologia umanistica oppure la riduzione dell’uomo a «fattore umano», come si vuole nello strutturalismo marxista di L. Althusser. Ma lo s. come visione totalizzante e finalistica della storia è pure stato attaccato negli ultimi tempi dalle posizioni «post-moderne» che parlano di «fine della storia» (F. Fukuyama).

5. Riverberi storicistici si hanno nella pedagogia marxista, specie in quella più vicina a Gramsci; in quella laica neo-illuministica, ad es. nel naturalismo evoluzionistico di​​ ​​ Dewey o nel​​ ​​ problematicismo pedagogico. Ma si hanno anche in quegli indirizzi pedagogici che si rifanno all’​​ ​​ esistenzialismo di M. Heidegger, K. Jaspers e J. P. Sartre. Peraltro lo spirito dello s. ha trovato le espressioni più congruenti e più cospicue nella pedagogia dello spirito tedesca, nel periodo tra le due guerre mondiali e nella ricostruzione post-bellica. Si pensi in particolare all’opera educativa e alle indicazioni pedagogico-didattiche di G. M. Kerschensteiner, E. Spranger, T. Litt, E. Nohl, E. Weniger, W. Flitner, come pure al pensiero di S. Hessen e di O. Willmann. Educazione e didattica sono chiamate a promuovere l’autonomia vitale e la formazione integrale dell’uomo nel suo rapporto con la cultura, secondo le diverse forme di vita storica ed in vista di una adeguata partecipazione storico-sociale. Ciò richiede una conoscenza comprensiva, ermeneutico-pragmatica, del soggetto educando e della relazione educativa nelle sue dinamiche (​​ ermeneutica pedagogica). Nella linea dello s. crociano si può porre in particolare la pedagogia di A. Attisani (1898-1978), che rivaluta la concretezza della vita spirituale dell’individuo, soggetto e produttore di storia e di civiltà, non mai del tutto assorbibile nello Spirito Assoluto. Eticità, realizzazione dei valori spirituali culturali sociali, esteticità della vita, libertà dai condizionamenti, dialogicità dell’esistenza, impegno sociale sono alcune piste fondamentali in cui, secondo Attisani, avrà da realizzarsi ed essere portata avanti l’autoformazione e l’educazione dell’uomo e della sua coscienza storica.

6. Lo s., in quanto aspetto diffuso della cultura occidentale moderna e contemporanea, ha inciso e continua ad incidere sia nell’educazione generale sia nell’istruzione scolastica. L’attenzione alla dimensione della storicità e dell’inserzione della formazione nei processi storico-culturali, porta a curare in modo specifico lo sviluppo personale nel suo rapporto con la cultura e con la vicenda storico-sociale. Ma stimola ad avere una chiara coscienza storica nella determinazione dei fini e degli obiettivi che il sistema sociale di formazione ha da portare avanti. A livello di istruzione, oltre ad essere attenti al senso della storicità della scienza e della cultura nei curricoli scolastici, porta a dare risalto all’educazione al senso critico e al valore formativo del patrimonio sociale di sapere. Queste attenzioni sembrano particolarmente urgenti, oggi, a fronte del rischio della momentaneizzazione dell’esistenza e della perdita di memoria storica provocate dalla globalizzazione e dal sistema mondiale della comunicazione sociale.​​ 

Bibliografia

Croce B.,​​ La storia come pensiero e come azione,​​ Bari, Laterza, 1954; Attisani A.,​​ Introduzione alla pedagogia,​​ Roma, Armando, 1967; Laeng M., «La pedagogia del neocriticismo e dello s. in Germania», in​​ Nuove questioni di storia della pedagogia,​​ vol. III, Brescia, La Scuola, 1977, 125-172; Bianco F. (Ed.),​​ Dibattito sullo s.,​​ Bologna, Il Mulino, 1978; Scuderi G.,​​ S. e pedagogia,​​ Roma, Armando, 1995; Ferri P.,​​ S. tedesco, Milano, Editrice Bibliografica, 1997; Tessitore F.,​​ Introduzione a lo s., Roma / Bari, Laterza, 2003; Cacciatore G. - A. Giugliano (Edd.),​​ S. e storicismi, Milano, Mondadori, 2007.

C. Nanni




STRATEGIE COGNITIVE

 

STRATEGIE COGNITIVE

Le s.c. sono processi che facilitano o rendono possibile il raggiungimento di uno scopo richiesto da un determinato compito.

1. Non tutti concordano sulla definizione di s.c., sebbene di questa si evidenzi l’aspetto degli scopi da raggiungere. Per Siegler e Jenkins (1989), una s. è una serie di operazioni che è selezionata in modo flessibile tra varie possibili e che influenza la scelta e l’implementazione di successive operazioni. La procedura si distinguerebbe dalla s. per il fatto che, rispetto a questa, non è libera da costrizioni. Sebbene un «piano» sia una sequenza di processi orientati ad uno scopo e possa essere oggetto di una scelta tra tante possibili, esso non deve essere confuso con una s. La s. si distingue da un «piano» per il carattere automatico, quasi naturale e innato, mentre il «piano» ha un carattere intenzionale e conscio.​​ 

2. In sede conoscitiva si indicano diversi tipi di s. Schneider e Pressley (1989) distinguono tra​​ s. esterne​​ (ad es.: sottolineare, prendere nota, scrivere un riassunto),​​ s. interne​​ (ad es.: attivare le conoscenze previe, ripetere mentalmente, formulare ipotesi, farsi domande, ecc.) e​​ s. miste​​ (ad es.: prendere nota delle parole per ricordare un’idea, raccogliere in un acronimo una serie di concetti per ricordarli meglio, ecc.). Le s. possono distinguersi anche per l’ampiezza della loro utilizzazione. Alcune sono di tipo generale (general strategies),​​ cioè sono di aiuto a qualsiasi altro tipo di s., altre sono definite dallo scopo che possono perseguire (goal-limited memory strategies).​​ Sono di questo tipo: sapersi fermare nel corso della lettura per riassumere ciò che si è letto al fine di integrare un certo numero di informazioni; costruirsi una sequenza di scene e immagini per ricordare meglio lo sviluppo di un racconto; rileggere una parte di un testo non capito, ecc. Ci sono poi s. molto specifiche, cioè miranti ad uno scopo molto preciso (domain-limited strategies).​​ Possono considerarsi di questo tipo quelle usate per ricordare una regola di matematica o di geometria, oppure per ricordare fatti di storia, per risolvere un certo tipo di problemi di matematica o di fisica, ecc.

3. Il processo di costruzione di una s. avviene talvolta in un istante, ma per lo più dopo mesi e anni di applicazione assidua. Come descrivono Siegler e Jenkins (1989), l’acquisizione di una s. avviene in due momenti: la scoperta e la generalizzazione. La prima ha le caratteristiche di un​​ insight,​​ un passaggio improvviso dal non conosciuto al conosciuto. Nel momento in cui la scopre e l’utilizza, il soggetto ha l’impressione di comprendere in che cosa essa consista, perché e per quali tipi di problemi può essere utilizzata. Molto diversa e più problematica è la fase di generalizzazione ad altre situazioni o ad altri contesti. Il possesso effettivo ed efficace di s. richiede molte occasioni che rendano possibile il loro uso, che esse stesse diventino automatiche e abituali, inconsce e allo stesso tempo consce, controllabili ed intenzionali.

Bibliografia

Weinstein C. E. - R. E. Mayer, «The teaching of learning strategy», in M. C. Wittrock (Ed.),​​ Handbook of research on teaching,​​ New York, Macmillan, 1986, 315-327; Weinstein C. E. - E. T. Goetz - P. A. Alexander (Edd.),​​ Learning and study strategies. Issues in assessment,​​ instruction and evaluation,​​ San Diego, Academic Press, 1988; Schneider W. - M. Pressley,​​ Memory development between 2 and 20,​​ New York, Springer, 1989; Siegler R. S. - E. Jenkins,​​ How children discover new strategies,​​ Hillsdale, Erlbaum, 1989; Bjorklund D. F.,​​ Children’s strategies.​​ Contemporary views of cognitive development,​​ Ibid., 1990.

M. Comoglio




STRATEGIE DIDATTICHE

 

STRATEGIE DIDATTICHE

Modalità di organizzazione o di orchestrazione delle risorse educative disponibili al fine di raggiungere gli obiettivi formativi intesi.

Essenziali nel concetto di s. sono: a) l’obiettivo che ci si propone di raggiungere; b) le risorse diverse disponibili per poterlo raggiungere; c) la gestione valida ed efficace di queste risorse. Si distingue dal concetto di​​ ​​ metodo perché questo, nella sua accezione più generale e comune, è caratterizzato da un ordine stabile. Ad es. una lettura metodica è caratterizzata da un uso sistematico di un metodo: interessante è quello elaborato da F. P. Robinson noto come SQ3R (Survey,​​ Question,​​ Read,​​ Recite,​​ Review)​​ (​​ stili di apprendimento). Una lettura strategica è caratterizzata invece dalla gestione di una pluralità di processi cognitivi e affettivi al fine di comprendere e ricordare quanto si viene leggendo. Si distingue dal concetto di tecnica, in quanto quest’ultima è caratterizzata da un procedimento specifico e ben identificato, e da quello di tattica, che si limita a superare ostacoli e a raggiungere obiettivi locali e parziali. Analogamente di può parlare di tecniche didattiche come forme procedurali di intervento ben definite nel loro ordine e articolazione quali sono quelle proprie delle differenti tecniche di istruzione programmata.

Bibliografia

Robinson F. P.,​​ Effective study,​​ New York, Harper & Row,​​ 41970; Block J. H. (Ed.),​​ Mastery learning,​​ Torino, Loescher, 1972; Faure E.,​​ Rapporto sulle s. dell’educazione,​​ Roma, Armando, 1973; Gordon T.,​​ Insegnanti efficaci, Firenze, Giunti e Lisciani, 1991; De Bono E.,​​ S. per imparare a pensare,​​ Torino, Omega, 1992; Merrill M. D.,​​ Instructional design theory,​​ Englewood Cliffs, Educational Technology Publications, 1994; Pellerey M.,​​ Progettazione didattica,​​ Torino, SEI,​​ 21994;​​ Rieunier A.,​​ Les stratégies pédagogiques efficaces, Paris, ESF,​​ 2001; Lang H. R. - B. N. Evans,​​ Models,​​ strategies and methods for effective teaching, Boston, Allyn and Bacon, 2005;​​ Ferreiro Gravié R.,​​ Estrategias didácticas del aprendizaje cooperativo: el constructivismo social; una nueva forma de enseñar y aprender, México, Trillas, 2006.​​ 

M. Pellerey




STRATEGIE EDUCATIVE

 

STRATEGIE EDUCATIVE

Sono processi raffinati che intendono coordinare i fattori delle operazioni educative utilizzando nel modo migliore le forze soggettive e quelle di contesto, per conseguire​​ ​​ fini e​​ ​​ obiettivi complessi, per limitare i danni, per rimediare difficoltà e errori.

1. A volte pretendono il riconoscimento di scientificità. Ma la necessaria apertura alle variabili della concretezza situazionale e contestuale le fa piuttosto simili a tecniche o ad arti ben fondate. Infatti qualche volta utilizzano l’abilità e l’artificio, e persino le debolezze e le dinamiche persuasive inconsce, avvicinandosi così alle tattiche pedagogiche, vale a dire all’insieme degli accorgimenti prudenti posti in atto per adeguare i mezzi al fine e alla scaltrezza e tatto nel muoversi concretamente educando. Responsabili di sistemi complessi, di interventi particolarmente carichi di fattori, di processi a lungo svolgimento, dovrebbero utilizzare anche la teoria dei giochi e disporre di regole di decisione che, prevedendo i possibili risultati di certe scelte note, stabiliscano quali linee di direzione adottare o seguire di conseguenza. L’​​ ​​ educazione risulta sempre una s. con finalità da conseguire, fattori da mettere insieme e impegnare, operazioni da organizzare e ben condurre. Si può immaginare come una grande s. pedagogica il mettere l’educazione in stretta connessione con i più forti sovra-sistemi (persona, società, cultura, mondo etico e religioso), allo scopo di definire meglio finalità e obiettivi, trovare risorse, attuare adattamenti opportuni alle situazioni e condizioni reali.

2. Il modello strategico può farsi più urgente oggi in rapporto alla complessità globalizzata con cui si ha a che fare a tutti i livelli dell’educazione e della vita. In tal senso si fa forte l’esigenza di ampie, profonde, esperte s. e tattiche di intervento generale, sociale, ambientale, locale, situazionale. Ma anche il particolare e speciale si è fatto esso stesso difficile. Si tratta, pertanto, di dare spazio maggiore non solo al ripensamento teorico, ma anche ai momenti di previsione rigorosa e operazionale, al fine di garantire la buona correlazione tra mondi vitali personali e comunitari, fini e obiettivi educativi, metodi e mezzi dotati di alta probabilità di buon esito.

Bibliografia

Gianola P.,​​ Pedagogia tra sfide e controsfide,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 41 (1994) 173-187; Callari Galli M. - F. Cambi - M. Ceruti,​​ Formare alla complessità. Prospettive dell’educazione nelle società globali, Roma, Carocci, 2003.​​ 

P. Gianola




STRESS

 

STRESS

Con il termine s. si intende una varietà di fenomeni vegetativo-emotivi, cognitivi e comportamentali che tendono a presentarsi congiuntamente (sebbene con differenze intra ed interindividuali di prevalenza dell’una o dell’altra categoria) quando un organismo è sottoposto ad un qualunque compito di natura adattiva.

1. Esso è considerato una reazione funzionale al mantenimento dello stato di equilibrio organismo-ambiente, reazione che si mobilita quando l’organismo si trova a fronteggiare particolari condizioni o eventi esterni che implicano richieste di tipo, qualità, intensità o durata diverse dal solito. Il termine ha finito per indicare una reazione che si stabilisce in presenza di uno squilibrio tra le richieste delle condizioni ambientali da una parte e le capacità e le risorse dell’organismo a farvi fronte dall’altra. Infatti, quando la reazione è sollecitata troppo a lungo o troppo intensamente, le capacità di adattamento finiscono con l’essere sopraffatte, nel senso che le energie sembrano esaurite, le strategie di​​ ​​ comportamento risultano inadeguate e il soggetto avverte una condizione di sgradevole tensione che difficilmente viene alleviata dal riposo. Il termine, su un piano più strettamente psicologico, esprime un fenomeno pervasivo della condizione umana che insorge quando l’equilibrio adattivo tra l’ambiente fisico e psicosociale e l’uomo va in crisi a sfavore di quest’ultimo, dando origine a fenomeni psicofisiologici e comportamentali di stretta rilevanza per la salute, il benessere psicoemotivo e il livello prestazionale individuale e collettivo.​​ 

2. Quando si parla di s. è inevitabile il riferimento al lavoro di H. Selye (1936, 1976), che più di ogni altro ha contribuito alla sua chiarificazione, fornendone una definizione ormai unanimemente accettata. L’A. usò per la prima volta il termine s. nel 1936 in una lettera inviata alla rivista scientifica inglese «Nature». In essa concettualizzava lo s. come stimolo nocivo, sottolineando come esperienze dannose (iniezioni di varie sostanze, scosse elettriche, stimoli dolorosi) potessero essere determinanti nell’insorgenza di disturbi somatici o di vere e proprie malattie. Successivamente, però, modificò questa prima formulazione del concetto, affermando che non solo gli eventi dolorosi o gli agenti nocivi erano in grado di produrre stati patologici o morbosi, ma anche fattori positivi di tipo emozionale (stati di felicità particolarmente intensi, gioia, eccitazione). L’attenzione restava comunque sempre sullo stimolo. Soltanto a partire dal 1950, Selye cominciò ad usare il termine s. come risposta e precisamente come​​ risposta non specifica dell’organismo ad ogni richiesta proveniente dall’ambiente​​ (Selye, 1976).

3. Tale cambio di prospettiva lo portò ad operare una distinzione tra stimolo e risposta. Quest’ultima, comprendente tutte le alterazioni fisiche che possono insorgere nell’organismo aggredito dagli stimoli, fu chiamata dall’A. (1976) Sindrome Generale di Adattamento (G.A.S. =​​ General Adaptation Syndrome).​​ In essa sono individuabili tre fasi tipiche: reazione di allarme, resistenza con adattamento ottimale, fase di esaurimento. Secondo Selye lo s. rappresenta un fenomeno inevitabile e, quando è contenuto entro certi limiti, ha una funzione importante. La mancanza totale di s., anche per periodi brevi, è incompatibile con la vita, proprio come quando lo s. è eccessivo. A partire dalle teorizzazioni di Selye si sono sviluppati tre filoni di ricerca indirizzati ad indagare, rispettivamente, gli effetti devastanti sia psicologici che somatici prodotti da situazioni estreme, i ruoli dei processi cognitivi ed emozionali nell’insorgenza e nella gestione dello s., lo s. prodotto da particolari richieste lavorative e da specifici contesti organizzativi. Le ricerche attuali tendono comunque ad orientare l’attenzione sulla dimensione soggettiva dello s., evidenziando come il valore stressogeno di una situazione sia intrinsecamente legato, oltre che alle caratteristiche di essa anche alle valenze, alle aspettative, alla percezione che l’individuo ha dei propri bisogni e delle proprie capacità.

4. Possiamo distinguere diversi tipi di s.:​​ fisici​​ (condizioni di rumore, inquinamento, temperature estreme, sforzi eccessivi),​​ psicosociali​​ (esigenze particolari poste dal contesto sociale dei rapporti umani in cui siamo inseriti oppure da noi stessi),​​ acuti​​ (avvenimenti improvvisi della vita più o meno gravi, che ci richiedono un sforzo di adattamento),​​ cronici​​ (condizioni persistenti che per intensità e durata che travalicano le nostre possibilità di fronteggiamento),​​ negativi​​ (situazioni nei confronti delle quali il giudizio del soggetto è negativo e che sono accompagnate da sensazioni soggettivamente spiacevoli),​​ positivi​​ (situazioni che richiedono un impegno maggiore del solito, ma che costituiscono per il soggetto una sfida, piuttosto che una minaccia al benessere personale). A nuocere sul nostro stato di salute sono soprattutto gli s. cronici fortemente correlati con le malattie cronico-degenerative. Esistono tuttavia importanti fattori di moderazione dello s. quali le strategie di​​ coping​​ e il sostegno sociale.

Bibliografia

Selye H.,​​ A syndrome produced by diverse nocious agents, in «Nature» (1936) 138, 32; Id.,​​ S. senza paura, Milano, Rizzoli, 1976; Del Rio G.,​​ S. e lavoro nei servizi: sintomi,​​ cause e rimedi del burnout, Firenze, La Nuova Italia Scientifica, 1990; Farnè M.,​​ Lo s., Bologna, Il Mulino, 1999; Lazarus R. S.,​​ S. and emotion: a new synthesis, New York, Springer, 1999; Di Nuovo S. - L. Rispoli - E. Genta,​​ Misurare lo s.: il test M.S.P. e altri strumenti per una valutazione integrata, Milano, Angeli, 2000; Mostofsky D. I. - D. H. Barlow (Edd.),​​ The management of s. and anxiety in medical disorders, Boston, Allyn and Bacon, 2000; Dayhoff S. A.,​​ Come vincere l’ansia sociale: superare le difficoltà di relazione con gli altri e il senso di insicurezza, Trento, Erickson, 2000; Horowitz M. J.,​​ Sindromi di risposta allo s.: valutazione e trattamento, Milano, Cortina, 2004.​​ 

A. R. Colasanti




STRUTTURALISMO PEDAGOGICO

 

STRUTTURALISMO PEDAGOGICO

Orientamento, sviluppatosi ed affermatosi soprattutto negli anni ’60 e ’70 del sec. scorso, in cui l’idea di struttura ha notevolmente influenzato alcune posizioni pedagogiche soprattutto a proposito della teoria del​​ ​​ curricolo, della​​ ​​ didattica e dell’​​ ​​ apprendimento.

1.​​ Sfondi.​​ Non si può parlare di una corrente o di una scuola nel senso usuale del termine ma, piuttosto, di una sorta di «pulviscolo multidisciplinare» dai vasti confini, nel quale l’idea strutturalistica opera soprattutto mediante l’evidenza di tre connotati basilari, consistenti nel primato del segno sull’oggetto (il sapere non riguarda gli enti naturali ma i segni prodotti dalla capacità semiotica dell’uomo), nella dominanza dell’immutevole sull’effimero (ciò a cui mirare non è la pura descrizione degli accadimenti ma l’individuazione delle costanti e delle leggi ad essi sottese) e nella pluridimensionalità della ricerca (la costruzione della totalità pensabile si avvale di una metodologia di reperimento di serie culturali omologhe). I caratteri «intellettuali» di fondo sono quindi costituiti dall’olismo, dalla sistemicità, dall’organicità, dalla composizione continua di diffrazioni analitiche e contrazioni sintetiche e dal senso dell’ulteriore (nascosto) rispetto all’immediato (evidente).

2.​​ Contributi.​​ È usuale riferirsi, come autore paradigmatico, a J. Bruner. In realtà, è più esatto dire che la sua teoria dell’istruzione ha rappresentato un punto di riferimento per proporre una prospettiva curricolare e psicodidattica che si potrebbe definire, in generale, post-attivistica. L’impianto strutturalista consiste nello svolgimento del tema della «struttura delle discipline» come elemento cruciale dello sviluppo cognitivo. La linea argomentativa si annoda attorno ad alcuni temi centrali: la vita cognitiva dell’essere umano si distingue per la sua attività esplorativa e regolativa fin dai primi momenti del suo esplicarsi; l’uomo dispone di tre possibilità di «mediazione» trascrittiva della realtà in termini di linguaggio mentale, e cioè la «rappresentazione» pratico-operativa (mano), quella iconica (occhio) e quella simbolica (mente); la cultura, intesa come insieme di «rappresentazioni» progressivamente ordinate e coerentizzate in settori scientificamente organici, costituisce l’eredità umanizzante dell’uomo. In definitiva, l’educazione viene intesa come processo di umanizzazione attraverso l’apprendimento degli elementi descrittivi e dinamici che definiscono l’eredità culturale propria di un essere umano, il cui nucleo è rappresentato dalle scienze (o discipline o materie di insegnamento). Queste idee hanno fornito lo spunto per una profonda revisione critica sul piano curricolare e didattico. Quanto al primo aspetto, si è rivalutata la rilevanza dei contenuti rispetto alle attività; quanto al secondo, è emersa l’indicazione di una didattica a fondamento epistemico, vale a dire mirata all’acquisizione delle procedure, dei criteri direttivi, dei principi metodologici e delle sistemazioni concettuali che definiscono la competenza accertata nei vari campi del sapere. Diventa allora ineludibile l’esperienza della scuola, intesa come vero e proprio «ingresso nella via della ragione», luogo in cui la guida dell’insegnante rende più efficace e sicuro il cammino di appropriazione delle qualità e degli strumenti che hanno reso possibile la cultura umana.

3.​​ Avvertenze.​​ Nell’interpretazione di questi messaggi occorre badare a non deragliare in senso quantitativo per rispettarne invece la sostanza eminentemente qualitativa. Sul piano curricolare, infatti, l’idea fondamentale non è di perseguire l’assorbimento di «tutto» l’accumulo dell’informazione fattuale possibile ma di garantire il contatto con ciò che si qualifica come assolutamente essenziale, definitivo e necessario (in una parola: categoriale) per estendere la possibilità di comprensione autonoma ulteriore; sul piano didattico, il criterio non è l’esercizio a se stante di abilità passivamente ricevute ma l’incorporazione dei tratti più intimamente costitutivi di una disciplina come forma della mente. «Ogni disciplina – dice G. Kneller – ha il suo nucleo di idee basilari» in virtù delle quali essa «è sia un tipo di conoscenza che una maniera di conoscere; è sia un sistema di idee (fatti e teorie) sia un mezzo per acquisirle. Ogni disciplina comprende un modo di pensare o di indagare il mondo, che ha dato prova della sua fertilità nel corso del tempo». Di ogni disciplina – secondo Schwab – si riconosce uno stato «cristallizzato» (rinchiuso in prodotti ormai stabiliti) ed uno «fluido» (corrispondente alle infinite possibilità connesse alla ricerca ed all’esploratività): sarebbe sbagliato far coincidere l’idea strutturalista in didattica soltanto con il primo. L’apprendimento formativo, quindi, si ha soltanto attraverso processi di attività cognitiva in forma di ricerca euristica; in definitiva, si tratta di sostituire alla esplorazione empirica l’esplorazione tematica, orientata, più che al «che» dei fatti, al «come» delle procedure e dei criteri.

4.​​ Dibattiti.​​ Le discussioni ed i dissensi si condensano sull’accusa di iperintellettualismo e di dimenticanza della preoccupazione psicoevolutiva, da cui discendono il didatticismo esasperato (insegnabilità di ogni cosa ad ogni età), il formalismo, l’antigradualismo (assimilazione del neofita all’esperto), lo scientismo, il conservatorismo (affinità con le concezioni curricolari più tradizionali): si tratta, in effetti, di pericoli reali e, in qualche caso, di sbandamenti effettivi. D’altra parte, è opportuno ricordare la sottolineatura della funzione umanizzante della scuola e la rivendicazione della necessaria presenza di un carattere di competenza e di qualità scientifica nell’insegnamento. Il modello didattico della «regola», tipico dello s.p., restituisce alla scuola stessa la finalità di «costruire un carattere autonomo e razionale che rappresenta la base delle imprese scientifiche, morali e culturali» (Schaeffler).

Bibliografia

Schaeffler I., «Modelli filosofici dell’insegnamento», in R. S. Peters (Ed.),​​ Analisi logica dell’educazione,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1961, 149-167; Bruner J. S.,​​ Verso una teoria dell’istruzione,​​ Roma, Armando, 1967; Schwab J. J. et al.,​​ La struttura della conoscenza e il curriculum,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1971; Scurati C.,​​ S. e scuola,​​ Brescia, La Scuola, 1972; Kneller G.,​​ Logica e linguaggio nella pedagogia,​​ Ibid., 1975; Pieretti A. (Ed.),​​ Lo s. in prospettiva didattica,​​ Roma, Centro Didattico Nazionale per i Licei, 1976; Deva F.,​​ Pedagogia strutturalistica,​​ Torino, Paravia, 1982.

C. Scurati