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STADI DI SVILUPPO

 

STADI DI SVILUPPO

Uno s.d.s. (fase, tappa) è un momento evolutivo della storia della persona in cui si manifesta un insieme organico di comportamenti che presentano caratteristiche comuni a livello cognitivo, affettivo e relazionale.

1. Lo studio degli s.d.s. consente di descrivere e sistematizzare l’evoluzione del comportamento umano; di conseguenza, una concezione stadiale è utile per avvicinarsi alla comprensione della normalità, o anormalità, sia del comportamento che dello sviluppo. L’approccio descrittivo-interpretativo, caratterizzante la psicologia evolutiva, consente di considerare il processo evolutivo come un succedersi di s. qualitativamente o quantitativamente diversi.

2. Sebbene la concezione stadiale dello sviluppo abbia sempre accompagnato la storia della psicologia evolutiva, la problematica attuale è particolarmente collegata alla teoria di Piaget e da questa prende origine. La teoria piagetiana attribuisce agli s. le seguenti caratteristiche:​​ sequenzialità,​​ universalità,​​ integrazione,​​ struttura d’insieme.​​ Nel corso dello sviluppo, sono rintracciabili episodi di​​ décalages​​ («sfasamenti»), cioè è possibile che si verifichino delle non corrispondenze tra il livello evolutivo raggiunto e le risposte comportamentali. Nonostante le critiche e i numerosi tentativi di definire nuove proposte (es., Flavell, Welman e Gelman, Case e Pascual-Leone), la teoria di Piaget non ha ancora trovato un’alternativa adeguata e conserva grande valore euristico e teorico nello studio dello sviluppo umano.

3. Dal punto di vista educativo appare utile, inoltre, sottolineare che ogni s. coincide con un «periodo critico» o «momento sensitivo» in cui l’educando è particolarmente predisposto alla comprensione, all’apprendimento e al superamento del compito di sviluppo che corrisponde allo s. che sta attraversando; la conoscenza dei diversi s. e dei relativi compiti di sviluppo, costituisce un quadro di orientamento per l’educatore che si voglia impegnare nell’adeguamento delle proprie proposte alle reali capacità e possibilità di ogni educando.

Bibliografia

Flavell J. H.,​​ La mente dalla nascita all’adolescenza nel pensiero di Jean Piaget,​​ Roma, Astrolabio, 1971; Sugarman L.,​​ Psicologia del ciclo della vita. Modelli teorici e strategie d’intervento, Milano, Cortina, 2003.

A. Arto




STANDARD

 

STANDARD

Punto di riferimento, criterio.

1. Il termine inglese s. e i suoi derivati sono molto usati in​​ ​​ statistica e in​​ ​​ psicometria. Designano in genere un livello qualitativo desiderabile, distinto sia dal livello «ideale», raramente raggiunto, sia dal livello «normale», che si riferisce alla media delle prestazioni osservate e quindi può essere di qualità anche modesta. In ambito statistico, vengono chiamate s. unità fisse di misura utilizzate per confronti o per costruire scale. Per es. la​​ deviazione s.​​ è un indice di variabilità espresso nelle unità di misura originali ed è la misura di variabilità più usata;​​ errore s.​​ è la deviazione s. che descrive la variabilità di una statistica (per es. di una media aritmetica, di un coefficiente di correlazione) quando la misurazione viene compiuta numerose volte; la​​ differenza s.,​​ per es. fra due medie, è la differenza tra due medie diviso l’errore s. della differenza.

2. Con riferimento ai​​ ​​ test,​​ standardizzare​​ significa «allineare a s. prefissati», cioè da un lato a procedure fisse di somministrazione (descritte nel manuale del test) e dall’altro a unità di misura che consentano confronti, generalizzazioni. Il​​ campione di standardizzazione​​ è il campione (presumibilmente estratto a caso dalla popolazione, e quindi rappresentativo di essa) su cui sono state calcolate le norme s. necessarie per standardizzare i punteggi del test, cioè per passare dai punteggi grezzi a punti s. utilizzabili nei confronti. Per​​ punteggio s.​​ s’intende un qualsiasi tipo di punteggio, ottenuto mediante trasformazione matematica dai punteggi grezzi, che assuma come unità la deviazione s. della popolazione considerata criterio di riferimento.

3. Gli​​ Standards​​ pubblicati dall’American Psychological Association​​ e da altre associazioni statunitensi sono guide pratiche per valutare la validità e l’attendibilità di strumenti di misura usati in campo educativo e psicologico. Sono elaborati da esperti di chiara fama e contengono criteri molto particolareggiati, in gran parte applicabili anche in Italia.

Bibliografia

Boncori L.,​​ Teoria e tecniche dei test,​​ Torino, Bollati Boringhieri, 1993; Hays W. L.,​​ Statistics for the social sciences,​​ New York, Holt,​​ 51994; Aera, Apa, Ncme,​​ The Standards for educational and psychological testing,​​ Washington DC, APA, 1999; Boncori L.,​​ I test in psicologia,​​ Bologna, Il Mulino, 2006.

L. Boncori




STATISTICA

 

STATISTICA

Studio quantitativo dei fenomeni di massa o collettivi che, per essere adeguatamente conosciuti, richiedono l’osservazione di fenomeni più semplici (singoli) che li costituiscono. Tali sono, per es., la natalità, la mortalità, le migrazioni, la scolarità, l’occupazione. Di tali fenomeni la s. studia l’aspetto quantitativo e fornisce metodi e strumenti per una loro descrizione sintetica ed uno studio più approfondito da diversi punti di vista (confronti, generalizzazioni, previsioni).

1.​​ Finalità della conoscenza s.​​ Un primo tentativo di precisazione dei compiti della s. può esser compiuto accennando ad una duplice esigenza che sta a fondamento del suo sorgere: la prima, di ordine pratico, volta a soddisfare concrete necessità dei gruppi sociali; la seconda di ordine «conoscitivo», collegata al desiderio che l’uomo ha sempre avvertito di conoscere a fondo la realtà che lo circonda. Questa seconda esigenza, in particolare, mira all’individuazione di connessioni e regolarità nei fenomeni naturali, in vista di comportamenti da adottare ma anche per la soddisfazione che tale conoscenza procura.

2.​​ Cenni storici.​​ Della s. come attività pratica si hanno tracce antichissime, per es. presso i Sumeri e altri popoli della Mesopotamia. Ma gli esempi più interessanti provengono dalle rilevazioni (censimenti) praticate nell’antico Egitto, in Cina (censimento della popolazione e delle terre nel 2238 a.C.), presso il popolo d’Israele e a Roma. Tracce della s. come disciplina possono essere individuate presso scrittori greci, latini e medioevali, mentre come metodologia autonoma essa ha origini più recenti. Per il suo aspetto descrittivo si fa riferimento alla «s. universitaria» tedesca, che si proponeva di descrivere le cose notevoli dello Stato. Iniziatore ne è considerato E. Conring (1606-1681), ma il merito di avere riorganizzato e diffuso la nuova disciplina spetta a G. Achenwall (1719-1772) che propose anche di chiamarla s. (termine già noto e utilizzato). Si trattava di una descrizione prevalentemente qualitativa, messa successivamente in crisi dalla proposta del danese I. P. Anchersen di utilizzare tavole statistiche. La proposta, nonostante vivaci resistenze da parte degli statistici universitari, si affermò ponendo le premesse per​​ la complessa e ricca documentazione s. odierna. Dal punto di vista della metodologia, tuttavia, i riferimenti obbligati sono i lavori di J. Graunt e successori (​​ demografia), e il contributo del calcolo delle​​ ​​ probabilità.

3.​​ L’indagine s.​​ Un’indagine s. è analiticamente suddivisibile in fasi (raccolta, classificazione, elaborazione, interpretazione). La prima di esse è la raccolta delle informazioni. Essa ha importanza fondamentale, in quanto è chiamata a fornire il materiale su cui si svolgeranno tutte le successive elaborazioni. È in questa fase che, avendo presenti le esigenze cui intende far fronte la rilevazione, deve essere individuato il collettivo (popolazione) oggetto di studio, precisando se verranno considerate tutte le unità (censimento) o solo una parte di esse (​​ campione). Occorre inoltre delimitare i caratteri da rilevare, gli strumenti per farlo e altri aspetti che caratterizzano il piano di rilevazione. In particolare va chiarito il livello di misura che verrà adottato, condizionato sia dal tipo di carattere (qualitativo o quantitativo) che dal modo seguito per misurarlo. La distinzione è rilevante agli effetti della informazione che si ottiene, ma anche per il tipo di operazioni ammissibili ai diversi livelli. I dati raccolti, dopo un’attenta verifica per individuare ed eliminare, nei limiti del possibile, eventuali errori, possono essere organizzati in tabelle (matrici) dove le righe rappresentano le singole unità e le colonne i caratteri (variabili), come nel seguente ipotetico esempio riferito ad allievi di una Scuola Secondaria Superiore:

Unità

 

Sesso

 

Età

 

Classe

 

Ital. or.

 

Ital. scr.

 

Storia

 

Mat.

 

1

 

M

 

16

 

3

 

7

 

6

 

8

 

7

 

2

 

F

 

15

 

2

 

7

 

8

 

6

 

7

 

3

 

F

 

17

 

3

 

6

 

5

 

7

 

6

 

4

 

M

 

15

 

2

 

5

 

5

 

6

 

5

 

 

Partendo da queste informazioni ha inizio la fase di descrizione, che comporta la loro sintesi mediante classificazione (naturalmente se il numero delle unità lo richiede), il calcolo di indici significativi, le rappresentazioni grafiche, ecc.

4.​​ L’analisi unidimensionale.​​ Considerando un carattere alla volta (una colonna della matrice) viene realizzata la prima fondamentale sintesi, la classificazione, che porta a sostituire la molteplicità ed eterogeneità dei dati individuali con gruppi omogenei in base alle modalità del carattere oggetto di studio. Il risultato della classificazione porta al concetto di frequenza (assoluta: numero di unità che appartengono a una modalità o classe) e a quello di distribuzione semplice (cioè secondo un solo carattere), uno dei concetti cardine della metodologia s. Così, per es., considerando un voto (una colonna della matrice) si perverrebbe ad una distribuzione di frequenza come la seguente (N = 70):

 

Voto

 

4

 

5

 

6

 

7

 

8

 

9

 

Tot.

 

F. assol.

 

5

 

7

 

11

 

21

 

16

 

10

 

70

 

F. percent.

 

7.1

 

10.0

 

15.7

 

30.0

 

22.9

 

14.3

 

100

 

 

L’esame di tabelle del genere permette di ottenere informazioni sul modo di distribuirsi delle unità rispetto alle modalità (o classi di modalità) dei caratteri considerati, favorendo l’emergere di particolari rilevanti: modalità (o classe) più frequente, andamento globale delle frequenze, ecc. Diverse forme di rappresentazione grafica, che si fondano prevalentemente sui risultati della classificazione, facilitano questo esame, proponendone una visione d’insieme dove emergono con immediatezza gli elementi più significativi. Alcune di esse (poligoni, istogrammi...) possono offrire spunti significativi in vista di un esame approfondito e del ricorso a modelli interpretativi teorici.

5.​​ La sintesi e la variabilità.​​ Partendo da un altro punto di vista si perviene a una sintesi dei dati che sostituiscono alla loro molteplicità un solo indice (valore medio) che serve a rappresentarli. Tra i numerosi valori medi ricordiamo: la moda o risultato più frequente, individuabile a tutti i livelli di misura (nominale e successivi); la mediana, che divide a metà la distribuzione dei dati una volta che questi siano stati ordinati; la media aritmetica (o media per antonomasia) calcolabile su dati quantitativi. Quest’ultima si ottiene, per definizione, facendo la somma di tutti i risultati e dividendola per il loro numero. In simboli:

I tre valori medi considerano i dati da diversi punti di vista e abitualmente non coincidono (e sono possibili distribuzioni senza o con più mode). La sintesi operata dai valori medi avviene però a scapito di quella fondamentale caratteristica dei risultati che stimola e giustifica il loro trattamento con metodi statistici: la variabilità. Gli indici di variabilità si propongono di ricuperare questo dato. Essi hanno in genere valore zero quando tutti i dati sono uguali tra di loro, superiore a zero e crescente all’aumentare della variabilità stessa. Il più importante, sia teoricamente che in pratica, è lo scostamento quadratico medio:

(e il suo quadrato, s2, detto varianza). Lo scostamento q.m. viene spesso assunto come riferimento (unità di misura) per mettere a confronto deviazioni dalla media aritmetica, prescindendo dall’unità di misura in cui sono espressi i risultati (standardizzandoli, come anche si dice). La formula di calcolo è la seguente:

La standardizzazione sostituisce alla distribuzione delle X (con media X e scostamento q.m.​​ s),​​ quella dei punti z, con media uguale a zero e scostamento q.m. (e quindi varianza) uguale a 1, mantenendo però invariato l’andamento della distribuzione di partenza.

6.​​ L’analisi bidimensionale.​​ Un passo decisivo nella descrizione dei fenomeni collettivi si compie considerando contemporaneamente due caratteri (due colonne della matrice dei dati). Lo studio dei dati da questo punto di vista risponde all’esigenza sempre avvertita dall’uomo di rendersi conto dell’andamento congiunto di due (o più) fenomeni per coglierne eventuali regolarità (si pensi ad alcune generalizzazioni contenute nei proverbi popolari relativi a fenomeni meteorologici, come «Rosso di sera bel tempo si spera»), per scoprire le «cause» e per servirsi delle conoscenze acquisite a fini pratici. A livello descrittivo la metodologia s. per l’analisi bidimensionale segue lo schema illustrato sopra per i caratteri (variabili) semplici. Si parte dalla classificazione dei dati che, nel caso di due variabili, porta a costruire tabelle a doppia entrata (specie di stanze o celle con diversa entrata per le due variabili). Si possono calcolare valori medi e indici di variabilità per le diverse distribuzioni, percentuali, ecc. e anche ricorrere a rappresentazioni grafiche. Ma la considerazione congiunta di due variabili permette soprattutto di avviare il discorso relativo ad eventuali connessioni tra di loro, di misurarne la consistenza, di costruire e utilizzare modelli interpretativi della realtà studiata. Un primo passo è costituito dall’esame della «indipendenza» tra due variabili. Si parla di indipendenza se, al variare di un carattere (per es. il sesso), le distribuzioni parziali dell’altro presentano lo stesso andamento (la stessa composizione percentuale). In caso contrario si parla, specie per caratteri qualitativi, di connessione e vengono utilizzati svariati indici per misurarla. A livello almeno ordinale di misura è possibile stabilire se due caratteri variano rappresentazione grafica) si cerca di stabilire come un carattere (Y) varia in media al variare di un altro (X). Si parla, in genere, di analisi di regressione e della relativa equazione. L’analisi dell’interdipendenza pone invece, per così dire, le due variabili X e Y sullo stesso piano per studiarne il reciproco comportamento (come variano assieme) e giungere a calcolare indici che rendono ragione sia del verso (col segno + o -), sia della consistenza (numericamente espressa) del vicendevole legame. Il più noto e utilizzato di questi indici (specie nelle applicazioni psicologiche e didattiche) è il coefficiente di correlazione​​ r​​ (detto anche di Bravais-Pearson, dal nome degli studiosi che per primi se ne sono occupati). Il coefficiente​​ r​​ varia tra -1 (relazione lineare negativa perfetta) e +1 (relazione lineare positiva perfetta). I risultati intermedi indicano gradi più o meno stretti in riferimento a questo tipo di legame. Il valore​​ r​​ = 0 sta a significare che non è possibile descrivere, anche se approssimativamente, il legame tra X e Y con una equazione lineare come quella vista sopra. Si può infatti ottenere​​ r =​​ 0 in presenza di altri tipi di legame (per es. quadratico). Occorre poi precisare che​​ r​​ non è in grado di «spiegare» il perché dell’eventuale legame, e non può quindi, da solo, autorizzare affermazioni del tipo causa-effetto. Accanto ad​​ r​​ esiste inoltre tutta una serie di altri coefficienti, utilizzati per adattarsi al tipo di dati a disposizione. A conclusione di queste considerazioni sull’analisi bidimensionale va aggiunto che il discorso può essere ampliato considerando contemporaneamente tre o più variabili. La letteratura in proposito è molto vasta: qui ci si limita a ricordarne l’esistenza.

7.​​ L’inferenza s. (classica).​​ Le descrizioni dei dati di cui si è finora parlato, trattano sostanzialmente allo stesso modo informazioni provenienti dall’intera popolazione (censimenti) o da una sua parte (rilevazioni campionarie). L’inferenza s. si occupa invece del secondo tipo di dati, la cui raccolta non rimane fine a se stessa, ma deve servire a produrre informazioni su uno o più aspetti della popolazione da cui il campione proviene. Il discorso al riguardo richiede però una duplice precisazione. La prima concerne la terminologia usata: quando la chiarezza del discorso lo esige, le sintesi numeriche riferite alla popolazione vengono chiamate​​ parametri​​ (e di solito indicate con lettere dell’alfabeto greco); sono invece dette​​ costanti statistiche​​ (o semplicemente costanti, o statistiche) quelle ottenute sui campioni (ordinariamente rappresentate con lettere dell’alfabeto latino). La seconda precisazione riguarda il campione: gli strumenti per l’inferenza vengono forniti dal calcolo delle​​ ​​ probabilità, assumendo sue distribuzioni a rappresentare il comportamento dei fenomeni naturali oggetto di studio. Ciò suppone che i campioni su cui si opera non siano scelti in modo qualsiasi, ma rispettando norme atte ad assicurare alle singole unità una data probabilità di entrare a farne parte (nel caso dello schema di campionamento casuale semplice, la stessa probabilità). In tal modo viene garantita la possibilità di costruire distribuzioni campionarie teoriche come quella delle medie campionarie, della differenza tra medie, ecc., che costituiscono il fondamento dell’inferenza s. Fatte queste precisazioni, si può affermare, almeno in prima approssimazione, che l’inferenza s., partendo dalle informazioni ottenute attraverso le rilevazioni campionarie, giunge ad affermazioni sui parametri della popolazione relativa e anche sulla forma della distribuzione dei dati nella stessa. I problemi che l’inferenza s. è chiamata a risolvere, possono essere classificati in due grandi categorie (collegate, peraltro, tra di loro): stima di parametri e verifica di ipotesi. Nel caso della​​ stima​​ si tratta di individuare strumenti (stimatori)​​ in grado di fornire informazioni sulla popolazione da cui proviene il campione. Qui verranno considerati procedimenti per stime relative a parametri, che si presentano sotto una duplice forma: a)​​ Stime puntuali:​​ si assume il valore (stima) fornito dallo stimatore a rappresentare il relativo parametro incognito della popolazione (es.: media, percentuale). È il metodo abitualmente utilizzato, per es. in TV e sui giornali, per presentare risultati di rilevazioni campionarie. b)​​ Intervalli di confidenza.​​ Le stime puntuali possono non apparire soddisfacenti, in quanto abitualmente non si è in grado di valutare la consistenza dell’errore di stima (differenza tra stima e parametro) e la probabilità di incorrervi. Gli intervalli di confidenza intendono proprio offrire la possibilità di misurare, in termini di probabilità, l’attendibilità di una stima, costruendo attorno ad essa intervalli in grado di contenere, con assegnata probabilità (es. 95%), l’incognito parametro della popolazione.

8.​​ Verifica di ipotesi.​​ Un’ipotesi s., in questa prospettiva, può essere considerata come un’affermazione relativa a qualche parametro della popolazione (es.: media, percentuale, coefficiente di correlazione...). Tale ipotesi va sottoposta a verifica, nel senso che si cerca di valutarne i limiti di sostenibilità (in termini di probabilità) alla luce dei dati raccolti su di un campione proveniente dalla popolazione a cui il parametro è riferito. In pratica, si procede abitualmente in questo modo: 1) si enuncia un’ipotesi di base o nulla (H0) e una sua alternativa (H1) nel caso in cui H0​​ non risulti sostenibile; 2) si ricorre ad una procedura (un​​ ​​ test) per suddividere la totalità dei possibili risultati campionari in due regioni: una contenente quelli compatibili con H0, l’altra (regione «critica») quelli che sembrano far preferire H1; 3) le due regioni vengono individuate tenendo presente un prefissato rischio di errore (α) se si dovesse arrivare a respingere H0​​ e la formulazione dell’alternativa H1​​ (unidirezionale o bidirezionale); 4) si raccolgono i dati sul campione, si applica il test e si decide (abitualmente) pro o contro la sostenibilità di H0. Questo modo di procedere trova applicazione in una grande varietà di situazioni, ma, come si è detto, si fonda sul ricorso a distribuzioni campionarie teoriche. Quando ciò fosse impossibile, o sconsigliabile data la natura dei dati, esiste tutta una serie di procedure (test) non vincolate alla forma della distribuzione della variabile nella popolazione, spesso denominate test non parametrici. Il modo di impostare e risolvere i problemi ricalca tuttavia, nei suoi momenti essenziali, quello visto sopra. Tale procedimento è stato ed è sottoposto a vivaci critiche, particolarmente dai sostenitori della interpretazione soggettiva della probabilità, che ritengono essenziale, nel procedimento, anche una valutazione previa (probabilità iniziale) relativa alla situazione in esame e fanno esplicito riferimento all’utilizzazione del teorema di Bayes (inferenza Bayesiana). Anche a proposito dell’inferenza, come (e più che) per la descrizione, occorre ricordare che esiste una imponente serie di strumenti che affrontano una grande varietà e complessità di verifica di ipotesi statistiche su uno o più campioni, su una o più variabili in situazioni sperimentali o di semplice osservazione, ecc.

9.​​ L’uso scientifico della s.​​ L’importanza della metodologia s. è tale che si è arrivato a considerarla come «il metodo esclusivo per investigare i fatti naturali, qualunque sia la loro specie» (Boldrini, 1968, 29). Infatti essa trova applicazioni in campo economico, demografico, medico, fisico, oltre che in quasi tutte le rilevazioni (sondaggi) su diversi aspetti della situazione sociale (tra cui quelli educativi). Ciò esige, da parte degli utilizzatori dei suoi risultati, una conoscenza (almeno essenziale) delle modalità di trattazione dei dati e del loro significato. Essa infatti è in grado di proporre descrizioni (e interpretazioni) quantitative delle principali caratteristiche relative ai molteplici aspetti della vita sociale, alla cui conoscenza sono interessati da diversi punti di vista sociologi, psicologi, educatori, pedagogisti. D’altra parte il continuo ricorso a indagini campionarie esige un atteggiamento critico nella valutazione dei risultati ottenuti, sia dal punto di vista della loro origine (caratteristiche del campione) che del loro significato (descrizione «approssimata» dell’essere, non del dover essere). Una conoscenza dei procedimenti proposti dalla s. – anche solo a livello elementare – può risultare utile nella fase di documentazione di determinate situazioni (es.: andamento di iscrizioni, promozioni, ripetenze a livello di una istituzione scolastica) e / o di esperienze innovative che vanno adeguatamente illustrate e valutate. Ciò suppone, in definitiva, da una parte il «non rifiuto» di una seria documentazione anche quantitativa e, dall’altra, un attento procedimento di utilizzazione e valutazione critica della stessa: due atteggiamenti che la metodologia s. è in grado di suggerire e affinare.

10.​​ S. e informatica.​​ Una delle remore all’uso della metodologia s.​​ è stata rappresentata, in passato, dal timore suscitato dal continuo ricorso a grandi quantitativi di dati e al loro trattamento. Il successo degli elaboratori elettronici ha ridimensionato questo timore. Essi permettono di utilizzare agevolmente «pacchetti» di programmi dedicati esplicitamente alle elaborazioni statistiche dei dati, continuamente aggiornati e ampliati, come S., SPSS, SYSTAT, ecc. Essi propongono (anche se con accentuazioni diverse) soluzioni standardizzate per la costruzione delle matrici dei dati (immissione dei dati), la loro descrizione e rappresentazione grafica (anche in riferimento a recenti proposte di «analisi esplorativa dei dati»), la costruzione di modelli interpretativi (analisi di regressione, correlazione canonica...), la verifica di ipotesi dal livello elementare (test su due campioni) a quello più approfondito (analisi della varianza), al trattamento delle classificazioni a livello qualitativo, all’analisi delle serie storiche, ecc. Il problema posto dall’utilizzazione delle enormi possibilità offerte da questi «pacchetti» è quello di sapere, almeno a grandi linee, ciò che si vuole, ma soprattutto ciò che si può ottenere dai dati. Si richiede cioè una sostanziale conoscenza delle possibilità e dei limiti insiti nelle diverse procedure proposte al fine di utilizzare le stesse (o farle utilizzare da altri) per ottenere risposte coerenti con gli obiettivi che stanno alla base del ricorso allo studio quantitativo di una determinata realtà.​​ 

11.​​ Una cultura s.​​ Il continuo ricorso a dati statistici, che riguardano i più diversi aspetti della vita di un Paese, e la disinvolta pubblicizzazione che ne viene fatta da parte dei mezzi di comunicazione sociale, pone il problema di una «alfabetizzazione» dei destinatari di questi messaggi, che li ponga in condizione di comprendere, valutare e anche, seppure a livello elementare, usare dati quantitativi presentati sotto forma di grafici, tabelle e / o sintetizzati con opportuni indici e misure. La scuola si è posta da tempo questo problema, introducendo nei programmi, già a livello di scuola di base, una iniziazione alla s. e alla probabilità. Esiste, al riguardo, una ricca documentazione reperibile in Internet, sia di testi specifici, sia di esempi sviluppati sfruttando strumenti informatici. Sono sorte anche, e continuano la loro attività, organiche iniziative tese a stimolare e sostenere questo impegno. Si segnalano, a titolo di esempio: la Rivista «Induzioni.​​ Demografia,​​ probabilità,​​ s. a scuola» (fondata nel 1990, http: / / www.libraweb.net / riviste.php?chiave=09) che si propone di diffondere idee statistiche nella scuola e sottolineare l’utilità della s. nella vita pratica; il CIRDIS (Centro Interuniversitario di Ricerca per la Didattica delle Discipline Statistiche) (http: / / cirdis.stat.unipg.it / ), al quale aderiscono diverse Università. Anche l’ISTAT (Istituto Centrale di S.) è impegnato a «promuovere, fin dai​​ primi cicli scolastici,​​ la cultura dei numeri», dedicando alla scuola un apposito spazio,​​ BINARIODIECI, «percorso guidato nell’officina dei dati ufficiali» (ww.istat.it / servizi / studenti / binariodie / ..) e avvertendo che in questa direzione si stanno muovendo in tutto il mondo i principali istituti di s., anche utilizzando le nuove opportunità offerte da Internet. Il riferimento a Internet sottolinea altre possibilità di «produrre» informazioni statistiche a livello elementare: il ricorso all’uso dei cosiddetti​​ Fogli Elettronici​​ che permettono di sostituire, almeno all’inizio, i Programmi dedicati di cui si è detto sopra, per es. EXCEL, sulla cui utilizzazione in questo contesto sono rintracciabili in Internet moltissimi riferimenti.

Bibliografia

Castellano V.,​​ Istituzioni di s.,​​ Roma, Ilardi, 1962; Boldrini M.,​​ S.:​​ teoria e metodi,​​ Milano, Giuffré, 1968; Giusti F.,​​ Introduzione alla s.,​​ Torino, Loescher, 1983; Leti G.,​​ S. descrittiva,​​ Bologna, Il Mulino, 1983; Girone G. - T. Salvemini,​​ Lezioni di S., 2 voll., Bari, Cacucci, 1992; Lombardo E.,​​ I dati statistici in pedagogia: esplorazione e analisi,​​ Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1993; Piccolo D.,​​ S., Bologna, Il Mulino, 2000; Bolasco S.,​​ Analisi multidimensionale dei​​ dati, Roma, Carocci, 2004; Frayre M. - A. Rizzi,​​ S.,​​ Ibid., 2005; Levine D. M. et al.,​​ S., Milano, Apogeo, 2006; Middleton M. R.,​​ Analisi S. con EXCEL,​​ Ibid., 2006; Belissima F. - F. Montagna,​​ Matematica per l’informatica,​​ Roma, Carocci, 2006.

S. Sarti




STATO SOCIALE

 

STATO SOCIALE

All’origine dello S.s. stanno il proposito e il progetto di attuare una democrazia integrale, non solo politica ma anche sociale ed economica. Con esso si voleva dare un contenuto pieno e reale ai diritti politici col realizzare anche i diritti sociali, quali ad es. il diritto al lavoro, il diritto di tutela dei bambini, dei giovani e delle operaie, il diritto di orientamento e di formazione professionale, il diritto di associazione, di tutela della salute, il diritto alla casa, alla sufficienza, alla sicurezza sociale. E ciò, non prescindendo dallo S., bensì mediante esso, facendolo​​ sussidiariamente​​ coordinatore delle iniziative dei singoli e dei gruppi, gestore di forme universalizzate di assistenza, programmatore dell’economia nella sua globalità (non nella sua totalità!) e, talora, quando necessario al bene comune, imprenditore in settori chiave.

1. Lo S.s., così come codificato in parecchie Carte costituzionali contemporanee, è stato immaginato culturalmente ed ideologicamente sostanziato da un’impostazione personalista comunitaria e solidarista.​​ In altre parole, è stato concepito come un​​ posterius​​ rispetto alla persona e ai suoi diritti e doveri, alle società minori, ovvero come espressione ed istituzione delle persone e delle società che lo precedono, come essenzialmente funzionale ad esse. E, inoltre, come​​ comunione solidale,​​ come​​ vita democratica​​ organica ed articolata a livello nazionale, regionale e locale. È, per conseguenza, intrinseco all’idealità dello S.s. l’intento di superare le forme statuali autoritarie, assolutistiche ed etiche in senso hegeliano.

2. Per ottenere una democrazia completa, quale espressione coessenziale di una società che vuole essere autenticamente umana ed umanizzatrice, si prevedono allora, tra lo S. e la società, tra le istituzioni pubbliche e i cittadini, corpi intermedi di rappresentanza e di partecipazione, quali ad es. i sindacati e i partiti. Il​​ decentramento​​ alle regioni è architettato non per favorire logiche regionalistiche o municipalistiche, ma per incentivare una responsabile e matura autopromozione democratica della base sociale, sempre però all’interno di una politica generale nazionale. Lo stesso​​ pluralismo sociale​​ è voluto e giustificato quale insieme di energie necessarie ad un più adeguato autosviluppo umano, sociale, civile, sanamente autonomo, oltre che, ovviamente, per una più ricca e consistente promozione del bene comune.

3. Col tempo, però, l’idealità dello S.s., viene offuscata e deformata da alcune sue realizzazioni concrete, specie da quella rappresentata dallo S.​​ assistenziale,​​ che ha finito per prevalere nel mondo occidentale. Lo S. assistenziale, se da una parte è riuscito, con un più allargato intervento statale, a porre rimedio a tante forme di povertà e di privazioni indegne della persona umana, dall’altra ha mostrato sempre più evidenti eccessi ed abusi, disfunzioni e difetti. In particolare: a) l’eccesso di intervento, che più di una volta giunge, contrariamente al principio di sussidiarietà, a sostituirsi ai vari soggetti sociali e alle loro reti di solidarietà primaria o gratuita, assistenzializzandoli, deresponsabilizzandoli, emarginandoli; b) l’accentramento esagerato di molti servizi sociali con conseguente aumento degli apparati pubblici, con enorme crescita delle spese, con erogazione di prestazioni dominata da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti; c) la perdita di molte energie umane, che vengono misconosciute o anche scoraggiate; d) l’instaurazione nelle prestazioni di​​ welfare​​ di un sistema​​ particolaristico-clientelare,​​ ad uso dei partiti, per ottenere consenso elettorale; e) la politica sociale praticata quale semplice predicato dello sviluppo economico; f) l’etica di solidarietà mutata in etica neocorporativistica, individualistica; g) i corpi intermedi di rappresentanza e di partecipazione trasformati in sistemi autoreferenziali, lontani dal loro ruolo di canali collettori di una domanda sociale da armonizzare con le esigenze del bene comune; h) politiche economiche assistenzialistiche; i) presenza sproporzionata di imprese pubbliche, che anziché favorire il capitale privato gli lasciano spazi sempre più ristretti.

4. Quale via di uscita? La ristrutturazione dello S.s. sembra non possa avvenire – a meno che non si voglia regredire – solo lungo la linea della​​ riorganizzazione​​ o del rafforzamento del polo dello S. e del pubblico, tramite riforme istituzionali, politiche e sociali che garantiscono prestazioni più mirate, migliori condizioni materiali e, nello stesso tempo, adeguata produzione di risorse economiche. In tal modo si accrescerebbero i difetti delle burocrazie pletoriche, dell’accentramento gestionale della solidarietà, si userebbe ancora un codice simbolico, politico, istituzionale, non valorizzando la famiglia, i vari gruppi primari, secondari e di​​ privato sociale.​​ Ma nemmeno lungo la linea della destrutturazione totale degli apparati del​​ welfare​​ o della liberalizzazione del mercato, perché si darebbe sfogo a modelli di relazioni mercantili che, come è risaputo, non vengono spontaneamente incontro ai bisogni spirituali e culturali delle persone, tantomeno ai bisogni di una società assetata di una migliore​​ qualità della vita.

5. Sembra che la soluzione più pertinente alla crisi strutturale e culturale dello S. assistenzialistico vada trovata lungo la via dell’istituzionalizzazione di un nuovo​​ complesso della cittadinanza,​​ diversificata secondo forme molteplici (politica, economica, sociale, di​​ privato sociale),​​ basata su una​​ ​​ solidarietà anch’essa concepita in un modo più differenziato, quale valore universale e particolare, valido per tutte le​​ sfere​​ sociali. La solidarietà​​ pubblica​​ è​​ una​​ forma della solidarietà. Essa può sussistere, se è mantenuta in vita ed è accresciuta, suo mediante, la solidarietà di base, primaria, secondaria, di​​ terzo settore,​​ rispetto alla quale ha funzione di integrazione e di aiuto. Secondo queste prospettive, la soluzione alla crisi dello S. assistenziale non si dovrebbe allora realizzare tramite un processo di pura inclusione o statalizzazione della solidarietà primaria, secondaria e di terzo settore, oppure tramite l’emarginazione o il depotenziamento di questa, ma riconoscendone l’autonomia, sostenendola, raccordandosi con essa, anche con sistemi di​​ mix,​​ per meglio rispondere a tutti i bisogni fondamentali della persona umana.

Bibliografia

Rosanvallon P.,​​ La nouvelle question sociale. Repenser l’État,​​ Paris, Seuil,​​ 1995; Donati P.,​​ Teoria relazionale della società,​​ Milano, Angeli, 1994; Id. (Ed.),​​ Lo S.s. in Italia. Bilanci e prospettive, Milano, Mondadori, 1999; Toso M.,​​ Welfare society. La riforma del welfare: l’apporto dei pontefici,​​ Roma, LAS, ²2003.

M. Toso




STATUS

 

STATUS

Comunemente il significato di s. viene spiegato facendo riferimento alla posizione riconosciuta a un individuo in una determinata struttura sociale.​​ 

1. In una​​ ​​ società stratificata i gruppi sociali sono in rapporto gerarchico tra di loro e a ciascuno viene attribuito un particolare livello a seconda della funzione e del ruolo esercitato. Si tratta, in verità, di un costrutto mentale, che esprime quello che gli altri pensano circa il valore di una persona. Questa collocazione, che può anche non confermare quello che uno pensa di sé, viene realizzata a partire dai criteri di valutazione utilizzati nella società in cui si vive; essa individua un insieme di diritti e di doveri e i comportamenti corrispondenti, ai quali corrisponde un particolare grado di stima e di prestigio che la collettività è pronta a riconoscere. La strutturazione di s. ha una fondamentale importanza nell’organizzazione della società perché ci dice la diversità delle funzioni che la costituiscono e il valore che ad esse viene attribuito.

2. I fattori che determinano l’attribuzione di s. dipendono dal tipo di società. In genere sono riconosciuti come fattori importanti la nascita, la ricchezza, l’istruzione, l’attività professionale e la funzione specifica che essa svolge in situazioni particolari della stessa società; hanno anche una notevole incidenza, in alcuni sistemi sociali, la razza, il sesso, l’età. Una distinzione ormai classica circa l’attribuzione di s. è quella che risale a R. Linton (1936). Egli parla di s. attribuito (ascritto) che dipende da fattori non legati alle scelte individuali (nascita, razza, sesso, età, ecc.) e di s. acquisiti, raggiunti cioè tramite l’intraprendenza individuale. Possiamo ancora sottolineare che ogni individuo ha numerosi s. a seconda dei gruppi di appartenenza e delle funzioni che svolge nella società; fra essi ve ne è comunque sempre uno che esercita l’influenza maggiore nel determinare la sua collocazione nella scala sociale e viene indicato come «s.-chiave». A volte può anche capitare che si verifichi un «conflitto di s.» (tra lo s. familiare e quello professionale, tra quello politico e quello religioso, ecc.), perché la persona non riesce ad armonizzare bene i diversi ruoli-s. che esercita.

3. Lo s. di un individuo non dipende soltanto dalla posizione personale nei gruppi sociali o nelle istituzioni, ma anche dalla collocazione dei gruppi e istituzioni nella gerarchia sociale e dalla loro capacità di far prevalere nel sistema sociale alcuni fattori di s. piuttosto che altri. Nel XVIII sec., ad es., la borghesia riuscì a far prevalere lo s. economico su quello della nascita e a far riconoscere l’importanza della sua funzione sociale, poiché seppe sfruttare il prestigio e l’autorità che determinate professioni avevano assunto all’interno del sistema economico.

Bibliografia

Linton R.,​​ The study of man,​​ New York, Appleton-Century-Crofts, 1936; Parsons T.,​​ Il sistema sociale,​​ Bologna, Il Mulino, 1965; Fichter J. H.,​​ Sociologia,​​ strutture e funzioni sociali,​​ Roma, Onarmo, 1969; Pavan P.,​​ Introduzione alla sociologia,​​ Roma, Studium, 1973.

V. Orlando




STEFANINI Luigi

 

STEFANINI Luigi

n. a Treviso nel 1891 - m. a Padova nel 1956, filosofo e pedagogista italiano.

1.​​ Cenni biografici.​​ Libero docente in pedagogia nel 1925, nel ’31 ebbe l’incarico di questa disciplina presso l’università di Padova, dove si era laureato in filosofia e in lettere. A Messina, nel 1936-37 tenne la cattedra di filosofia teoretica. L’anno successivo fu chiamato a Padova per ricoprire l’insegnamento di pedagogia. Dal 1940 passò a quello di storia della filosofia. Insegnò per diversi anni anche estetica. Nel secondo dopoguerra, S. contribuì alla nascita del Centro di Studi Filosofici di Gallarate (1945), alla ripresa dell’Associazione Pedagogica Italiana (1950) e della Società Filosofica Italiana (1952), nonché all’avvio di​​ Scholé​​ (1954). Fu membro della Consulta Didattica Nazionale e, nel 1951, presidente del Centro Didattico Nazionale per la Scuola Secondaria.

2.​​ Da «Idealismo cristiano» a «Spiritualismo cristiano».​​ Tra gli anni venti e trenta del sec. XX, S., in serrato confronto con il pensiero gentiliano, dal quale prese sempre le distanze pur avvertendone il «fascino», giungeva a denominare​​ Idealismo cristiano​​ la sua prima sintesi teoretica. Un quadro sistematico della sua pedagogia si aveva nel trattato del 1932,​​ Il​​ rapporto educativo.​​ La forte connotazione «spiritualistica» del discorso si saldava però con un’equilibrata e «realistica» attenzione per il complesso dei fattori bio-psichici e socio-culturali interferenti con l’educazione. Tra i primi in Italia ad approfondire l’esperienza dell’attivismo, S. apprezzava l’anima didatticamente innovatrice del movimento, ma criticava la riduttiva visione antropologico-pedagogica di parecchi suoi esponenti, che tendeva a limitare gli interessi personali dell’alunno alla sfera bio-psichica, a ravvisare nell’attività del discente l’aspetto prevalentemente utilitaristico, a reputare la libertà dell’educando quasi in contrapposizione con l’autorità dell’educatore. Non minore tempestività egli mostrò nell’analizzare l’esistenzialismo filosofico e pedagogico tedesco, giungendo, fra l’altro, a una decisa opposizione verso i pedagogisti della cosiddetta «Sinistra diltheyana», fautori di un’educazione razzistica e statolatrica. La seconda fase della sua riflessione, compresa fra l’inizio degli anni trenta e i primi anni quaranta, ebbe il punto di arrivo teoretico con​​ Spiritualismo cristiano​​ (1944).

3.​​ L’approdo al personalismo.​​ Il nucleo centrale della teoresi dello S., nella terza e conclusiva fase di sviluppo, era così indicato: «L’essere è personale e tutto ciò che non è personale nell’essere rientra nella produttività della persona, come mezzo di manifestazione della persona e di comunicazione tra le persone». Da qui la definizione della persona come «parola». Con ciò egli riconosceva al soggetto intrinseca virtù comunicativa, espressiva e «allusiva», che gli consente di «dirsi», stabilendo relazioni con l’intera realtà e attribuendo ad essa significato. La «metafisica della persona» costituì presupposto fondante dell’abbozzo di​​ «summa​​ personalistica», con sviluppi in direzione della filosofia morale e sociale, dell’estetica e della pedagogia. Questa, in particolare, la «formula» del​​ ​​ personalismo pedagogico: «il fine immediato dell’educazione è la maieutica della persona e ogni altra finalità, essa stessa personalisticamente intesa, è da conseguirsi attraverso la mediazione della persona del singolo». Nella pedagogia di S. balzano in evidenza quali motivi caratteristici: il «primato educativo» dell’infanzia; la ricerca di un equilibrio realistico fra il «pelagianesimo pedagogico» di​​ ​​ Rousseau e il «giansenismo pedagogico» di​​ ​​ Freud; la visione dell’educazione come​​ metanoia;​​ la preminenza dell’intimità della coscienza contro i rischi della dissipazione; l’accento sui valori morali, sociali, estetici e religiosi; la «sinergia» tra maestro e alunno; l’apprezzamento per la «didattica degli esemplari»; l’attenzione al «concreto» esistenziale e storico; la prospettiva della «scuola del dialogo». Dal 1996 la Fondazione L.S. di Treviso si propone di onorare la memoria dell’autore e diffonderne il pensiero, riprendendolo e attualizzandolo.

Bibliografia

a)​​ Fonti​​ (opere di S. più significative dal punto di vista pedagogico):​​ La pedagogia dell’idealismo giudicata da un cattolico,​​ Torino, SEI, 1927;​​ Il​​ rapporto educativo. Proemio alla scienza dell’educazione,​​ Padova, CEDAM, 1932;​​ Mens cordis. Giudizio sull’attivismo moderno,​​ Ibid., 1933;​​ Il momento dell’educazione. Giudizio sull’esistenzialismo,​​ Ibid., 1938;​​ Pedagogia e didattica,​​ Torino, SEI, 1947;​​ Educazione estetica e artistica,​​ Brescia, La Scuola, 1954;​​ Personalismo educativo,​​ Roma, Bocca, 1955. b)​​ Studi:​​ Rigobello A., «L’itinerario speculativo di L.S.», Introduzione a L.S.,​​ Personalismo sociale,​​ Roma, Studium,​​ 21979; Caimi L.,​​ Educazione e persona in L.S.,​​ Brescia, La Scuola, 1985; Calaprice S.,​​ L’esigenza di un progetto in pedagogia. La proposta di L.S.,​​ Bari, Adriatica, 1990; Prellezo J. M.,​​ L.S. (1891-1956). Approccio al «personalismo educativo»,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 38 (1991) 1309-1337; Corrieri L.,​​ L.S.: un pensiero attuale, Milano, Prometheus, 2002; Cappello G.,​​ L.S. Dalle opere e dal carteggio del suo archivio, Quinto di Treviso, Europrint Edizioni, 2006.​​ 

L. Caimi




STEINER Rudolf

 

STEINER Rudolf

n. a Kraljevec nel 1861 - m. a Dornach (Svizzera) nel 1925, pensatore tedesco di ispirazione romantica.

1.​​ Vita ed opere.​​ Già membro della Società Teosofica (1875), fondatore della Società Antroposofica (1913), fu ideatore del modello educativo (Libera Scuola Waldorf, Stoccarda, 1919, in ted.​​ Freie Waldorfschule)​​ seguito dalle scuole omonime aderenti al «movimento pedagogico steineriano». Nato da genitori originari dell’Austria, momentaneamente trasferitisi a Kraljevec, il piccolo S. frequenta la scuola tecnica a Vienna. Sin dall’età di dieci anni, è attratto dalle conversazioni di un amico medico che gli parla di Lessing, Goethe, Schiller. A ventitré anni vive una profonda esperienza educativa, insegnando ad un bambino con difficoltà intellettuali. Nel 1884 cura le introduzioni alle opere scientifico-naturali di Goethe e riflette sui concetti di uomo, mondo e natura, nonché sul metodo delle scienze naturali (La filosofia della libertà,​​ 1894). L’humanitas​​ di Goethe in cui si fondono antico e moderno, istinto e saggezza così da costituire l’unità inscindibile dell’essere e della sua storia che procede per metamorfosi eterne ed infinite costituisce il suo riferimento costante (La concezione goethiana del mondo,​​ 1897). S. scopre tuttavia qualcosa d’altro, rimasto, a suo giudizio, sconosciuto al poeta tedesco e ne fa l’obiettivo di tutta la sua vita (cfr.​​ Teosofia. Introduzione alla conoscenza soprasensibile del mondo e del destino umano,​​ 1904). Attraverso conferenze e scritti (si contano oltre 6000 conferenze e 354 voll.) destinati ad un pubblico variegato, egli invita a percorrere la «via della conoscenza», l’antroposofia o scienza dello spirito, intesa a guidare dallo spirituale individuale allo spirituale universale.

2.​​ La pedagogia steineriana.​​ Il primo saggio pedagogico dell’A. è intitolato​​ L’educazione del bambino dal punto di vista della scienza dello spirito​​ (Educazione del bambino e preparazione degli educatori,​​ Milano, Antroposofica, 1965). Tale pedagogia scaturisce dal metodo steineriano del risveglio interiore ed ha carattere scientifico-spirituale. Essa è antroposofica, cerca di coniugare l’uomo con il divenire cosmico in cui acquistano significato e direzione il presente, il passato ed il futuro e vede nel bambino in crescita un essere nel quale le parti costitutive di corpo, anima, spirito devono essere nobilitate e purificate dall’io. L’educatore dallo «sguardo psicologico» impara a pensare l’unità dell’essenza umana, segue lo sviluppo del bambino e sa influire su di esso perché sia armonico ed equilibrato. La Libera Scuola Waldorf ha un suo piano di studi in cui ampio spazio viene dato alle attività intellettuali, manuali, spirituali, all’euritmia intesa come «parola visibile». Nel 1993 si contano 52 istituti dove si svolgono corsi di formazione all’insegnamento (Lehrerseminare)​​ e 619 scuole R.S. diffuse in tutti i continenti. In ogni Paese il piano di studio è adattato alle esigenze locali anche al fine di permettere i riconoscimenti istituzionali necessari. Considerazione particolare meritano le comunità terapeutiche steineriane (Camphill)​​ che seguono i principi antroposofici nella diagnosi e nella cura dei soggetti con​​ ​​ handicap. Il consenso pedagogico che in genere le iniziative steineriane ricevono tende ad essere direttamente proporzionale alla capacità di apertura e di comunicazione del movimento in cui gli adepti si riconoscono e con cui i seguaci si confrontano, nonché alla disponibilità di ascolto di coloro i quali ne avvertono la presenza.

Bibliografia

Chistolini S.,​​ Scuola R.S. Teoria prassi sviluppo,​​ Roma, La Goliardica,​​ 21998; Id.,​​ Il Camphill in Scozia,​​ in «I Problemi della Pedagogia» 38 (1992) 249-268; Id.,​​ Nella libertà educare alla libertà,​​ Lecce, Pensa MultiMedia, 2001; Id.,​​ Oltre​​ la Scuola S. e il metodo Montessori. Si chiama Homeschooling la risposta della famiglia alla crisi sociale della scuola, in «Il Nodo. Scuole in rete» 9 (2006) 30, 19-26.

S. Chistolini




STILE DI VITA

 

STILE DI VITA

Lo s.d.v. esteriorizza l’immagine di sé privata e pubblica, consapevole e intenzionale, intima e comunicativa, che ogni persona assume ed esprime.

1. Come ogni forma esistenziale, lo s.d.v. si costruisce, matura, cambia relativamente. È legato a età, sesso, costituzione, carattere emotivo e reattivo, personalità olistica e soprattutto spirituale, nonché influssi d’ambiente. È unificato o tende a uniformità, tra rigidità bloccata dentro e dura all’esterno, labilità imprevedibile e sconcertante, fluidità capace di molti volti e adattamenti. Esso si costruisce e si educa insieme all’individualizzazione della persona, non solo tollerata, ma privilegiata nella cultura moderna. Lo s.d.v. oggi risente dell’inserimento dell’individuo nell’uguaglianza planetaria con tutti. Esprime l’appartenenza a minoranze qualificate di età, sesso, cultura e sottocultura, professione, stato di vita. Si colloca nello spazio prezioso dove ognuno è uguale solo a sé e ha su tutto sempre qualcosa di suo da dire agli altri, determinando accettazioni e rapporti.

2. In genere lo s.d.v. è un sottosistema della persona legato a condizioni e scelte sostanziali che obbligano o consigliano lo s.d.v. come modo d’uso del tempo, come forme del fare, dire, rapportarsi, scegliere, avere, essere, dare. Lo s.d.v. è collegabile ai tipi ideali. Questi sono costruzioni teoriche semplificanti. In rapporto ad essi lo s.d.v. può essere libero e personalizzato, imposto, conformista, tradizionale, inespressivo, forzato; o anche estroso, provocante, controcorrente, esotico. I costumi e le mode lo sostengono, ma anche lo banalizzano nella ripetizione, lo privano di creatività, di originalità e di quella varietà che arricchisce ambienti e gruppi quando è produzione interna e linguaggio comunicativo esterno capace di concretizzare valori in forme e messaggi. Lo s. conformista può venire premiato, imposto, controllato, rifiutato. L’anticonformismo molte volte si traduce in banale mancanza di gusto, in ostentazione di diversità provocanti prive di contenuti e messaggi, in trasgressione più immaginata che reale.

3. Dal punto di vista pedagogico, lo s.d.v. può essere inteso come parte dei contenuti dell’educazione, nasce dai suoi metodi, qualifica i risultati possessivi. Considerato in se stesso è un «oggetto» particolare dell’educazione. Infatti lo s.d.v. è educabile; esso attraversa fasi di imitazione ripetitiva, di critica o rifiuto, di ricerca e prova, di creatività originale e personale. Gruppi o ambienti possono crearne uno e offrirlo o tendere a imporlo a tutti. Lo s. personale dell’educatore ha molte conseguenze, non solo sul piano dell’esemplarità ripetitiva. Se valido, è testimonianza da interpretare per andare oltre verso il proprio s.d.v. È via di educazione indiretta, offerta privilegiando concezioni di vita, idee di sé, orizzonti di valori, con coscienza e modalità di comunicazione e coinvolgimento significative.

Bibliografia

Henz H.,​​ Lehrbuch der systematischen Pädagogik,​​ Freiburg, Herder,​​ 1964; Battistella G.,​​ Nuovi s.d.v.: intuizioni ed esperienze,​​ Bologna, EMI, 1995.

P. Gianola​​ 




STILI DI APPRENDIMENTO

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STILI DI APPRENDIMENTO

Gli s.d.a. vengono collocati in​​ ​​ psicologia differenziale come strutture individuali per mezzo delle quali le persone si distinguono una dall’altra. Essi traggono la loro origine dagli s. cognitivi che nel passato venivano distinti dagli s.d.a., mentre attualmente sono loro assimilati. Tutti e due gli s. hanno la loro radice nelle abilità mentali generali e specifiche. Le abilità mentali differenziate portano il soggetto a percepire la realtà e organizzarla in strutture personali.

1.​​ S. cognitivi.​​ Il processo individualizzato inizia con la raccolta delle informazioni che si svolge in due differenti modi: visivo o sensibile. I dati percepiti possono essere organizzati in modo seriale oppure olistico e nello stesso tempo possono essere giustapposti formando una struttura analitica oppure messi in rapporto significativo formando una struttura relazionale. Oltre al modo in cui vengono raccolte e elaborate le informazioni, è importante il modo con cui avviene il controllo cognitivo sullo stimolo. Da tale modo derivano vari s. cognitivi tra i quali i più ricorrenti sono: dipendenza o indipendenza dal campo, rigidità o flessibilità, impulsività o riflessività, complessità o semplicità cognitiva, livellamento o rilevamento (minimizzare o potenziare le differenze), verbalizzazione o visualizzazione. Gli s. cognitivi sono formati dalla componente razionale e da quella affettiva. La prima è rappresentata dalla elaborazione delle informazioni e dei concetti, la seconda dall’attenzione, motivazione e persistenza. Lo s. cognitivo, secondo Kogan (1982), può essere inteso come una «variazione individuale nel modo di percepire, ricordare e pensare, come anche ad apprendere, immagazzinare, trasformare e utilizzare le informazioni» (p. 586). Lo s. cognitivo, quindi, è una elaborazione personale degli stimoli ambientali in strutture significative e più o meno consistenti (Poláček, 1987). Gli s. cognitivi sono numerosi e in molti casi si sovrappongono. Spesso uno s. viene usato per definirne un altro (Jonassen e Grabowski, 1993); per es., il soggetto riflessivo (opposto all’impulsivo) viene descritto analitico, verbale e focalizzante. Il soggetto olistico è introverso, impulsivo, emotivo e flessibile. Alcuni autori pensano che tutti gli s. cognitivi possono essere ricondotti a due dimensioni bipolari, disposte in rapporto ortogonale: globale - analitica e verbale - immaginativa.

2.​​ Singoli s.d.a.​​ Quando i soggetti devono apprendere i contenuti delle singole materie, tendono a farlo in base alle loro strutture cognitive. Allo s. cognitivo si associa il contenuto specifico e in tal modo ha origine lo s.d.a. La combinazione di queste componenti è molto chiara nello s.d.a. di J. E. Hill in cui l’approccio teorico, canale percettivo (visivo - uditivo) e contenuto (linguistico - quantitativo) sono combinati in quattro tipi di apprendimento ed alcuni sottotipi. Le percezioni sensoriali (uditive, visive, tattili e motorie), insieme con le modalità ambientali (illuminazione, rumori, temperatura), stanno alla base degli s.d.a. di R. Dunn e K. Dunn. La stessa conduzione dell’apprendimento può essere impostata sui vari s. A. F. Grasha e S. W. Riechmann hanno focalizzato l’attenzione sulla modalità con cui l’alunno partecipa alla conduzione dell’insegnamento: coinvolto - evitante, collaborativo - competitivo, indipendente - dipendente (Jonassen e Grabowski, 1993). A. F. Gregorc ha impostato l’apprendimento sullo s. cognitivo (concreto - astratto) e sul modo con cui l’alunno procede nel suo lavoro: sequenziale (o ordinato) e casuale. Dalla combinazione delle due variabili contrapposte sorgono quattro tipi di apprendimento: concreto - sequenziale, concreto - casuale (Jonassen e Grabowski, 1993). Infine D. A. Kolb ha dedotto gli s.d.a. dal modo in cui procede una corretta schematizzazione del reale dall’esperienza concreta alla sperimentazione attiva. Si tratta di due coordinate in netta opposizione logica e disposte in rapporto ortogonale: esperienza concreta - concettualizzazione astratta e osservazione riflessiva - sperimentazione attiva. Nei quadranti delle due variabili si situano quattro tipi di apprendimento: convergente, divergente, assimilativo e accomodante (Poláček, 1987). I quattro tipi sono associati logicamente con quattro tipi di ambienti di apprendimento: ambiente orientato affettivamente, percettivamente, cognitivamente e comportamentalmente. La conoscenza dell’associazione offre al docente utili spunti per la conduzione individualizzata dell’apprendimento dei soggetti a tutti i livelli di scolarità (Poláček, 2001). Molti s.d.a. possono essere accertati con strumenti sufficientemente oggettivi, come riportato da Jonassen e Grabowski e adatti a rilevare tanto i tipi cognitivi quanto quelli di apprendimento.​​ 

3.​​ Strategie di apprendimento.​​ Agli s.d.a. sono subordinate le strategie di apprendimento; esse sono impostate sul procedimento o sul metodo più efficace per apprendere molti contenuti, apprenderli fedelmente e assimilarli nelle strutture mentali in modo duraturo. L’attuale ricerca non si scosta in realtà dall’approccio ai contenuti usato negli anni settanta e noto sotto la formula SQ3R (Survey,​​ Question,​​ Read,​​ Recite,​​ Review).​​ La formula propone al soggetto i seguenti cinque passi dà compiere per apprendere un testo complesso: a) sguardo d’insieme; b) porsi degli interrogativi; c) lettura: rilevare argomenti principali e parole chiavi; d) esprimere con le proprie parole il contenuto e verificare la completezza dell’apprendimento; e) rivedere il testo dopo un certo tempo (​​ studio). La qualità dell’apprendimento dipende dalle abilità del soggetto e dall’impegno usato nei singoli passi. Vi è un accordo quasi unanime tra gli autori circa il fatto che in base a tali variabili l’apprendimento può essere​​ profondo​​ oppure​​ superficiale.​​ L’apprendimento profondo avviene quando il soggetto è coinvolto nell’argomento in modo personale e creativo. L’apprendimento superficiale al contrario si verifica quando il soggetto dedica un’eccessiva attenzione ai dettagli, riproduce fedelmente il testo ed è distaccato affettivamente dai contenuti. Vari autori hanno identificato un terzo approccio, detto​​ strategico.​​ In questo caso il soggetto ottimizza le sue risorse in modo tale da ottenere buoni risultati e secondo i casi adotta l’approccio profondo o quello superficiale. Esistono vari questionari adatti a rilevare i tre tipi di approcci insieme ad altri aspetti dell’apprendimento elaborati da De Beni et al. (2003), Pellerey (1996) e Poláček (2005). I processi rilevati sono poi associati con alcune componenti della personalità (​​ concetto di sé,​​ ​​ stima di sé,​​ ​​ autoefficacia).

4.​​ Utilizzazione pedagogica.​​ Per lungo tempo gli s. cognitivi non hanno trovato un’applicazione pratica. Quando è stata intravista la possibilità di fondare su di essi l’apprendimento, l’utilizzazione ha assunto vaste proporzioni in campo educativo. Gli s.d.a. richiamano l’attenzione sul metodo di insegnamento come anche sul metodo di apprendimento, mettendo in un rapporto le due realtà (docente - alunno). Essi pongono in risalto i bisogni individuali dell’alunno nell’apprendimento prendendo in considerazione il suo s. come anche la necessità di usare vari metodi e adottare differenti sussidi in modo tale da andare incontro alle esigenze dell’intera classe. Alcuni ricercatori suppongono che l’apprendimento possa essere facilitato nel caso in cui vi sia una corrispondenza o almeno una affinità tra lo s. di insegnamento del docente e lo s. dello studente (Poláček, 2005). L’insegnante dovrà non soltanto potenziare alcuni s.d.a. ma correggere tutti quelli che non conducono ad un apprendimento completo. Recentemente è stato constatato che lo s. olistico e lo s. verbale sono complementari, come lo sono anche quello analitico e immaginativo. Da alcune ricerche emerge che l’uso del materiale didattico opposto allo s. cognitivo dell’alunno (olistico o seriale) portava ad un apprendimento più lento e meno fedele, mentre quello consono allo s. produceva un apprendimento rapido e fedele. I processi di apprendimento possono essere migliorati con opportuni interventi sulla motivazione, sulla metacognizione e sul consolidamento riducendo in tal modo la motivazione intrinseca degli alunni (Poláček, 2006). Infine le coordinate di Kolb si prestano alla valutazione della qualità e della specificità dell’apprendimento in rapporto alle differenti istituzioni formative (indirizzi della secondaria di secondo grado e facoltà universitarie). Kolb (1981) ha pure constatato che tanto le singole discipline quanto i metodi usati in una determinata istituzione creano un clima differenziato e di conseguenza formano dei processi cognitivi corrispondenti. Tra le varie conferme che tali processi siano stabili e presenti anche nell’esercizio della professione può essere ricordata quella di Curry (1991), che ha riscontrato la presenza delle due variabili di Kolb in modo differente tra chirurghi, pediatri e medici generici.

Bibliografia

Kolb D. A., «Learning styles and disciplinary differences», in A. W. Chickering (Ed.),​​ The modern American college,​​ San Francisco, Jossey-Bass, 1981; Kogan N., «Cognitive styles in older adults», in T. M. Field et al. (Edd.),​​ Review of human development,​​ New York, J. Wiley, 1982; Poláček K.,​​ S.​​ cognitivi nell’orientamento,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 34 (1987) 841-860; Curry L.,​​ Patterns of learning style across selected medical specialities,​​ in «Educational Psychology» 11 (1991) 247-277; Jonassen D. H. - B. L. Grabowski,​​ Handbook of individual differences,​​ learning,​​ and instruction,​​ Hillsdale, Erlbaum, 1993; Pellerey M.,​​ Questionario sulle strategie di apprendimento,​​ Roma, LAS, 1996; De Beni R. et al.,​​ Psicologia cognitiva dell’apprendimento, Trento, Erickson, 2003; Poláček K.,​​ S. cognitivi e s.d.a.: Rapporto e utilizzazione, in «Orientamenti Pedagogici» 52 (2005) 639-653; Id.,​​ QPA - Questionario sui Processi di Apprendimento.​​ Superiori e università, Firenze, O.S., 2005; Id.,​​ Questionario sui processi di apprendimento: Un’integrazione al manuale, in «Orientamenti Pedagogici» 53 (2006) 249-269.

K. Poláček​​ 




STILI EDUCATIVI

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STILI EDUCATIVI

Quando parliamo di s.e. facciamo riferimento ad una modalità stabile di comportamento e di relazione con gli educandi che definisce il clima all’interno del​​ setting​​ educativo stesso. Secondo Weber (1973) gli s.e. «sono possibilità interdipendenti del comportamento educativo, caratterizzati da tipici complessi di pratiche educative».

1. Uno dei maggiori contributi concernenti gli s.e. è offerto dal lavoro di Lewin, Lippit e White (1939) i quali, in riferimento alla guida dei gruppi, hanno individuato tre categorie di stili: autoritario,​​ laissez faire, democratico. La​​ leadership​​ autoritaria​​ si caratterizza essenzialmente per l’alto grado di controllo esercitato dal leader sui membri del gruppo, per l’unidirezionalità verticistica delle comunicazioni e per l’esclusione dei collaboratori dalle diverse fasi del processo decisionale. Al contrario, la​​ leadership​​ laissez-faire​​ rinuncia al controllo nei confronti dei subordinati, lascia loro ampi spazi di autodeterminazione anche a scapito dell’efficienza del gruppo, non favorisce una chiara definizione dei ruoli. La​​ leadership​​ democratica​​ evita i rischi presenti nelle due precedenti modalità gestionali, attraverso una conduzione del gruppo partecipativa e responsabilizzante. Le forme comunicative sono di tipo circolare, il leader non rinuncia al proprio ruolo di guida, ma al contempo permette ai subordinati di prendere parte attiva al processo decisionale.

2. Le reazioni registrate nei soggetti in rapporto alle differenti modalità di gestione del gruppo consistono in: un senso di maggior efficienza e produttività, anche se a scapito del clima interpersonale, in coincidenza con lo s. autoritario; marcate sensazioni di confusione e di disorientamento in presenza di uno s.​​ laissez-faire; un incremento della motivazione, del senso di responsabilità e della partecipazione, una maggiore cura delle dinamiche socio-relazionali (sebbene ciò possa inizialmente mortificare l’efficienza del gruppo), in concomitanza di uno s. democratico.

3. In ambito più strettamente pedagogico per riferirsi agli s. suddetti si utilizzano prevalentemente i termini autoritario-direttivo, permissivo, autorevole-responsabilizzante. Lo s. autoritario-direttivo si caratterizza per un’alta direttività da parte dell’educatore che lascia scarsa autonomia decisionale agli educandi assumendosi ogni responsabilità; prevalgono ordini, lodi, biasimi, critiche ed un certo distacco. Lo s. permissivo si contraddistingue per una mancanza di autorevolezza da parte dell’educatore che non offre agli educandi alcun supporto, rinunciando a porre regole e astenendosi dal lodare e dal criticare. Lo s. autorevole-responsabilizzante è proprio dell’educatore che mostra comprensione e interesse per gli educandi, ne incoraggia l’autodirezionalità, il libero impegno, pur svolgendo funzioni orientative e normative. L’educatore con queste caratteristiche si pone come guida che indica il cammino, ma lascia agli educandi la possibilità di sperimentare, di agire, di crescere nell’autodirezionalità.

4. Circa gli effetti psichici sugli educandi dei suddetti s.e., alcuni ricercatori (Tausch-Tausch, 1979) hanno evidenziato interessanti correlazioni. Allo s. direttivo autoritario tendono a correlarsi: diminuzione della individualità e della varietà espressiva, maggiore tensione, eccitabilità, aggressività, modesta attività comune, comportamenti più egocentrici che comunitari, sottomissione o reattività. Allo s. permissivo tendono invece a correlarsi:​​ disorientamento, confusione, demotivazione, percezione di trascuratezza e abbandono. Allo s. autorevole-responsabilizzante tendono, infine a correlarsi:​​ maggiore molteplicità di modalità comportamentali, atmosfera più lieta e rilassata, rapporti più spontanei ed amichevoli, corresponsabilizzazione e autosupporto. Sempre in riferimento agli effetti psichici che possono correlarsi all’assunzione di determinati s. da parte dell’educatore, Kendall e Di Pietro (1995) caratterizzano alcuni s. genitoriali che spesso sono il frutto di convinzioni irrazionali, e che possono predisporre i figli a forme di pensiero e di comportamento disfunzionale: lo s. iperansioso, lo s. iperprotettivo, lo s. ipercritico, lo s. perfezionistico, lo s. incoerente. Lo​​ s. iperansioso​​ si riscontra in quei genitori che si preoccupano eccessivamente per la sicurezza fisica del proprio figlio e che tendono ad inviare messaggi nei quali è inclusa frequentemente l’idea del pericolo. È probabile che la ripetuta esposizione a questo genere di messaggi favorisca nei figli una rappresentazione del mondo come potenzialmente minaccioso e comportamenti ansiosi e di ricerca ossessiva di sicurezza. Lo​​ s. iperprotettivo, è per alcuni aspetti simile al precedente, ma in questo caso anziché preoccuparsi per l’incolumità fisica del proprio figlio i genitori si preoccupano eccessivamente per la sua incolumità emotiva, evitandogli ogni minima frustrazione. Animati dalla convinzione che ogni esperienza spiacevole può diventare un trauma, tali genitori tendono ad eliminare tutte le possibili fonti di disagio nella vita dei propri figli, incoraggiando una bassa tolleranza alla frustrazione, un eccesso di egocentrismo e impoverendo, al contempo, lo strutturarsi di una personalità resiliente. Lo​​ s. ipercritico​​ è caratterizzato dalla tendenza a notare ed ingigantire gli errori e le manchevolezze del proprio figlio e a dare per scontati i comportamenti positivi; pertanto l’interazione educativa si caratterizza per un’elevata frequenza di critiche e rimproveri che possono essere manifestati apertamente oppure in modo sottile. Questo s. facilmente può favorire paura di sbagliare, paura di essere disapprovato, isolamento sociale, basso livello di autostima, comportamenti di evitamento. Lo​​ s. perfezionistico,​​ è proprio di quei genitori che sono portati a ritenere sbagliato ciò che non è perfetto al cento per cento, e pertanto esigono dai propri figli livelli di prestazione molto elevata, indipendentemente dalle oggettive difficoltà del compito. Sostenuti dalla convinzione che bisogna riuscire bene in tutte le cose e avere successo, tali genitori possono trasmettere al proprio figlio l’idea che egli vale qualcosa e merita di essere amato nella misura in cui riesce in tutto quello che fa. Il figlio può così far proprio un atteggiamento perfezionistico, impara a temere la disapprovazione ed il rifiuto qualora non dovesse riuscire pienamente, a considerare la possibilità di sbagliare come una catastrofe, a vivere la prestazione con un carico di ansia eccessivo. Lo​​ s. incoerente,​​ è proprio di quei genitori che tendono ad utilizzare rinforzi in modo non contingente, gratificando o punendo il figlio a seconda del loro umore anziché in base all’adeguatezza o meno del suo comportamento. L’incoerenza, che talvolta può risiedere nello stesso genitore, altre volte tra i genitori, è fonte di disorientamento per il figlio in quanto non permette a quest’ultimo di prevedere gli effetti del proprio comportamento; inoltre a lungo andare può contribuire alla costruzione di un’immagine negativa e scarsamente autorevole degli stessi genitori.​​ 

5. L’analisi delle correlazioni esistenti tra s.e. ed effetti psichici sugli educandi, non deve farci cadere in facili determinismi; in ambito psicosociale, infatti, il nesso di causalità tra fattore di rischio ed esito disfunzionale, non è di tipo lineare, ma processuale; tuttavia possiamo senz’altro affermare che l’assunzione consistente, da parte degli educatori, di uno s. autorevole-responsabilizzante, costituisce una variabile ambientale significativa per una buona crescita intrapersonale e interpersonale.

Bibliografia

Lewin K. - R. Lippit - R. K. White,​​ Patterns of aggressive behavior in experimentally created «social climates», in «Journal Social Psychology» 10 (1939) 271-299;​​ Weber E.,​​ Erziehungsstile, Donauworth, Auer,​​ 1973; Taush R.- A. M. Tausch,​​ Psicologia dell’educazione, Roma, Città Nuova 1979; Franta H.,​​ Atteggiamenti dell’educatore. Teoria e training per la prassi educativa, Roma, LAS, 1988; Kendall P. C. - M. Di Pietro,​​ Terapia scolastica dell’ansia, Trento, Erickson, [1995]; Giorgetti M. et al.,​​ Rappresentazioni e comportamenti degli insegnanti come dimensioni dello s.e.,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 42 (1995) 245-260; Gonfalonieri E. - C. Giuliani,​​ S.e. genitoriali e benessere psicologico in età prescolare e scolare, in «Età Evolutiva» 82 (2005) 67-73; Steinberg L. et al.,​​ Patterns of competence and adjustment among adolescents from authoritative,​​ authoritarian,​​ indulgent,​​ and neglectful homes: a replication in a sample of serious juvenile offenders, in «Journal of Research on Adolescence» 16 (2006) 47-58.

H. Franta - A. R. Colasanti