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SOFTWARE DIDATTICO

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SOFTWARE DIDATTICO

Il termine s. è stato coniato nel mondo informatico intorno agli anni ’50 / ’60 del sec. scorso per indicare tutto ciò che è legato al computer in forma poco tangibile:​​ soft​​ (soffice), non fisica, cioè l’insieme di programmi o istruzioni necessarie per rendere operativo un computer, finalizzandone il lavoro. Legato ad altre parole inglesi o italiane serve per indicare aspetti particolari di utilizzazione, produzione o vendita: come​​ s. house​​ per indicare aziende che sviluppano, o vendono programmi;​​ s. library​​ per indicare tutto l’insieme di programmi disponibili per applicazioni particolari o per un singolo computer;​​ s. di base​​ per indicare quei programmi fondamentali necessari nel funzionamento di un computer;​​ s. applicativo​​ per indicare programmi finalizzati ad applicazioni specifiche. Nel mondo formativo si utilizza il termine s.d. per indicare l’insieme di istruzioni, programmi o di materiale necessario per far funzionare, non solo un computer, ma anche altri mezzi didattici moderni in modo da renderli capaci di comunicare un messaggio, fare esercizi, calcoli o elaborazioni di diverso tipo. Potremmo chiamare s.d., quindi, tutto quell’insieme di materiale che non è componente fisica del s.d., ma che è necessario per renderlo concretamente operativo e utile in ambiente didattico, compreso il computer. In quest’ottica il significato di s.d. esce dal mondo informatico e potrebbe indicare sia videocassette, lucidi per lavagna luminosa, diapositive, films, videodischi, CD-Rom, come naturalmente programmi e istruzioni varie per rendere un computer capace di interagire con l’uomo nel trattare testi, gestire archivi, elaborare immagini, comunicare dati o anche solo simulare un gioco.

Bibliografia

Borello E. et al.,​​ Insegnare le lingue con il calcolatore,​​ Torino, Centro Scientifico Torinese, 1987; Filippazzi F. - G. Occhini,​​ II computer: capire e applicare l’informatica,​​ Milano, Seme SpA, 1990; Candilio G.,​​ Elementi di informatica generale,​​ Milano, Angeli, 2006; Console L.,​​ Introduzione all’informatica,​​ Torino, UTET, 2007.

N. Zanni




SOGGETTI DELL’EDUCAZIONE

 

SOGGETTI DELL’EDUCAZIONE

Termine di uso piuttosto recente nel discorso pedagogico. Con esso s’intende mettere in luce la parte attiva e la responsabilità personale degli interventi volti alla promozione e alla qualificazione umana individuale e comunitaria.

1.​​ La referenza filosofica e storico-culturale.​​ Il termine s. (dal lat.​​ subiéctum,​​ che traduce il gr.​​ hypokéimenon​​ = «ciò che sta sotto») in ambito filosofico sta per «ciò che è sotteso alle determinazioni che lo specificano». In tal senso largo è sinonimo di ogni realtà, in quanto «sostanza» con i propri «accidenti» ed in quanto tale predicabile e pensabile. Ma il vocabolo ha un’accezione «forte» nelle realtà personali; significa, infatti, il termine di riferimento dell’imputabilità etica e della responsabilità di quanto è messo in atto, così come degli effetti di esso. Da Kant in poi s. è sinonimo di​​ io,​​ di​​ autocoscienza attiva e creativa,​​ condizione di possibilità del pensare, dell’agire e del giudicare, anche se ne afferma la pura «noumenicità» teorica: infatti è solo pensabile, non conoscibile. È, cioè, tale che non si riesce razionalmente ad affermarlo come esistente nella sua realtà profonda. Se ne «postula» tuttavia l’esistenza in sede di giustificazione dell’agire pratico. È nota la radicalizzazione idealistica del s., visto come assoluta attività creatrice, che pone se stesso e il mondo, come atto puro, principio immanente di tutto il reale e del divenire storico. Ma è pure nota la sua progressiva dissoluzione nel pensiero contemporaneo, in cui il s. è ridotto a funzione (Husserl), a principio di trascendenza rispetto al mondo (Heidegger), ad attività che «nullifica» l’essere (Sartre), a maschera di impulsi vitali (Nietzsche), a effetto di superficie dominato da leggi e strutture che lo superano da ogni parte (strutturalismo), a destrutturato gioco pirotecnico di pulsioni e di desideri (post-strutturalismo e neo-nichilismo). Simile è l’immagine del s. anche nella letteratura contemporanea e nel cinema. La tendenza neo-umanistica degli ultimi tempi cerca, in vario modo ed in maniera interdisciplinare, di riaffermare la consistenza del s., contro ogni sua dispersione nell’anonimato irresponsabile e nel gioco alienante dei processi storici produttivi e politici. Il marxismo ha riletto il termine s. in chiave storico-materialistica e collettivistica. Sicché si è parlato di s. sociali che fanno la storia: dal proletariato, al partito, alle donne, ai giovani, ai popoli diseredati del terzo mondo, ecc. Oggi emerge decisamente un tipo di soggettività individual-liberale ai limiti del soggettivismo e dell’individualismo.

2. In alternativa a «destinatari» ed «utenti».​​ Nel discorso pedagogico contemporaneo s. è usato in alternativa a​​ destinatario.​​ L’educando è visto come il termine dell’intenzionalità formativa e degli interventi degli educatori e del sistema sociale di formazione; ma con ciò si rischia di ridurlo ad oggetto e a «campo» della preoccupazione e dell’azione educativa. Parlare di s. significa, invece, dar risalto alla dimensione attiva dell’​​ ​​ educando nel processo formativo e riconoscerne il protagonismo, vale a dire l’essere causa prima efficiente – per dirla in termini tradizionali – della propria educazione; rispetto a cui ogni altro intervento sarà sempre nell’ordine delle cause efficienti cooperative e / o strumentali. Similmente è con il termine​​ utente / i,​​ utilizzato in sede sociologica o di politica economica, ad indicare gli educandi in quanto hanno diritto di usufruire e fanno uso dei «servizi» sociali di formazione. Questa prospettiva rischia di equiparare gli educandi e le loro famiglie a «clienti». Ora, invece, con il termine s. si allude ad una loro qualificazione di «cittadini» a pieno diritto, che collaborano corresponsabilmente e partecipano all’impegno sociale di formazione, visto come processo di qualificazione umana del corpo sociale in genere e di ciascun membro di esso, come produzione della cultura comunitaria e come costruzione di una convivenza giusta e democratica.

3. S.d.e. come agenti del sistema dell’educazione.​​ Il plurale fa riferimento ad una coscienza pedagogica – qual è quella contemporanea – resa vigile e critica dal vasto​​ ​​ pluralismo che caratterizza la vicenda storica contemporanea. In tal senso 1’​​ ​​ educazione, come risultato e come processo, è vista come opera sinergica di intenzionalità ed azioni molteplici ed interagenti (e, purtroppo, spesso tra loro contrastanti e contraddittorie). Sotto questo profilo, l’espressione s.d.e. è avvicinabile a quella di​​ agenti educativi,​​ che tuttavia sembra porre l’accento sul solo agire e non anche – come la terminologia s.d.e. – sull’autoresponsabilità personale. L’​​ ​​ azione educativa fa riferimento per lo più a forme partecipate di responsabilità. Ciascuno ne deve rispondere per quanto e nella misura che gli compete, ma non è mai del tutto vanificata nell’anonimato sociale. In tal senso parlare di s.d.e. è un modo anche per riferirsi alle molte figure di​​ ​​ educatore e alle diverse​​ ​​ istituzioni educative.

Bibliografia

Thomae H.,​​ Conflitto,​​ decisione,​​ responsabilità,​​ Roma, Città Nuova, 1978; Ducci E.,​​ L’uomo umano,​​ Brescia, La Scuola, 1979; Bertin G. M. - M. Contini,​​ Costruire l’esistenza,​​ Roma, Armando, 1981; Chistolini S. (Ed.),​​ Cittadinanza e convivenza civile nella scuola europea, Ibid., 2006.

C. Nanni




SOGNO

 

SOGNO

Il s. è un’attività del cervello di molti mammiferi, ma soprattutto dell’uomo, mediante la quale il sognatore si rappresenta, di solito in termini visivi, aspetti della vita quotidiana del passato, del presente e del probabile futuro. Oggi molti sostengono che il s. debba essere interpretato, perché è enigmatico; altri lo considerano trasparente e direttamente conoscibile; altri ancora sono del parere che esso sia un prodotto casuale del cervello.

1.​​ I s. nella storia.​​ Nei tempi antichi l’attività onirica occupava un posto importante nella conduzione della vita quotidiana privata e pubblica. I s. erano viaggi importanti dell’anima durante i quali era possibile sapere dagli dei cosa era importante decidere e fare. Nelle diverse culture è rimasta costante una concezione spaziale dei s.: erano viaggi dello spirito. È cambiata tuttavia l’importanza data al contenuto. Nell’antichità i s. erano viaggi notturni dell’anima: i più importanti erano quelli nei quali gli dei e gli spiriti viaggiano verso il sognatore; subito dopo in importanza venivano i viaggi lunghi dell’anima verso il regno degli dei e degli inferi (oggi i s. di​​ ​​ Jung); in terzo luogo c’erano i viaggi più brevi, quelli che riguardavano il futuro personale e sociale (vedi oggi​​ ​​ Adler e i s. telepatici); viaggi ancora più brevi riguardavano preoccupazioni relative al presente e al passato recente (oggi i s. di​​ ​​ Freud); infine c’erano i viaggi brevi, i s. meno importanti di tutti, che riguardavano le condizioni del corpo (oggi i s. medici). Nel mondo moderno l’importanza dei contenuti è esattamente rovesciata: vengono per primi i s. medici.

2.​​ La scienza e i s.​​ In ambito scientifico i s. di gran lunga più conosciuti sono quelli che si rifanno alle concezioni psicoanalitiche, grazie anche al fatto che Freud per primo ha avuto il coraggio di elevare il s. alla dignità di un comportamento da analizzare scientificamente. Per gli psicoanalisti in generale il s. va interpretato perché rappresenta significati divenuti reconditi attraverso un processo a quattro stadi:​​ condensazione​​ (sovrapposizione e semplificazione di memorie),​​ spostamento​​ (trasposizione di significati),​​ traduzione visiva​​ (rappresentazione del verbale profondo in forma visiva),​​ revisione secondaria​​ (creazione di una trama a livello cosciente che sembra verosimile). Per lo psicoanalista l’analisi del s. consiste nel fare il cammino a ritroso dal significato manifesto al significato nascosto attraverso la libera associazione. Alcuni studiosi in ambito cognitivista hanno cercato di vedere il s. come un’attività mnemonica e linguistica tradotta in rappresentazioni visive, secondo una lettura fedele alla​​ ​​ psicoanalisi e vicina alle concezioni di Chomsky (Edelson, 1972). Foulkes (1985) in contrapposizione agli psicoanalisti vede il s. come traduzione del dialogo interno in rappresentazioni visive imponendo regole di sintassi sulle memorie semantiche. Antrobus (1977) vede l’attività onirica come un processo combinatoriale di aspetti e attributi astratti che si sovrappongono e derivano dalla memoria semantica a lungo termine. Per questi studiosi di orientamento cognitivista, il s. non ha significato semantico, ma sintattico. Per Jung, per i gestaltisti e per altri studiosi di orientamento esistenziale, non esiste il processo di trasformazione dei significati profondi come proposto dagli psicoanalisti; il s. è un’espressione creativa di sé e spesso amplifica e completa processi sospesi della vita di veglia.

3.​​ Posizione postmoderna.​​ Di fatto è proponibile che il s. venga visto talora come un processo causale vicino alle concezioni dei cognitivisti e degli psicoanalisti; il più delle volte è quasi impossibile accettare le concezioni dei fisiologi se si tiene conto della natura logica e metaforica dei contenuti dei s.; una frangia ampia di studiosi analizza e lavora sui s. con la convinzione di fondo che essi rappresentino processi numinosi carichi di significato. Tendono ad avere questa concezione Jung e tutta la psicologia umanista, profondamente interessata al significato dell’attività umana (Hunt, 1989; Scilligo, 1993).

Bibliografia

Edelson M.,​​ Language and dreams: the interpretation of dreams rivisited,​​ in «Psychoanalytic Study of the Child» 27 (1972) 203-272; Antrobus J.,​​ The dream as metaphor,​​ in «Journal of Mental Imagery» 2 (1977) 327-338; Foulkes D.,​​ Dreaming: a cognitive psychological analysis,​​ Hillsdale, Erlbaum, 1985; Hobson A.,​​ The dreaming brain,​​ New York, Basic Books, 1988; Hunt H. T.,​​ Multiplicity of dreams,​​ New Haven, Yale University Press, 1989; Scilligo P.,​​ I s.: una guida al futuro,​​ Roma.​​ IFREP, 1993.

P. Scilligo




SOLIDARIETÀ

 

SOLIDARIETÀ

Può essere definita come «la determinazione ferma e perseverante​​ di impegnarsi per il​​ bene comune:​​ ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti​​ siamo​​ veramente responsabili​​ di tutti»​​ (Giov. Paolo II, 1988, n. 38).

1.​​ S. e solidarismo sociale.​​ Il termine è abbastanza recente, ma il concetto risale alle prime riflessioni teoriche sulla società. La sociologia distingue​​ due tipi​​ di s. sulla scorta di Tönnies e di​​ ​​ Durkheim: «la prima è originata da una profonda omogeneità fra i soggetti e porta ciascuno ad agire primariamente in funzione delle esigenze altrui; la seconda, invece, trova la propria ragione nella differenziazione e complementarità esistente tra le persone e spinge il singolo a realizzare il proprio obiettivo contribuendo al raggiungimento dell’obiettivo comune» (Sarpellon, 1993, 849). Venendo più vicino a noi, va sottolineato che nel concetto di s. rimane l’aspirazione alla giustizia sociale e al superamento delle diseguaglianze tradizionali. Però la nuova s. dovrà coniugare contemporaneamente i bisogni della soggettività, dare soddisfazione alle esigenze individuali, valorizzare il diritto di ciascuno alla​​ differenza.​​ Essa significa assicurare a ciascuno la possibilità di attuare le proprie opportunità in collaborazione con gli altri. È centrale il concetto di corresponsabilità: la s. non va confusa con l’assistenzialismo, ma richiede che ogni persona, anche l’emarginato, diventi attore dell’avvenire proprio e collettivo. La s. costituisce la base di quella concezione delle politiche sociali che si chiama​​ solidarismo.​​ A tale sviluppo hanno contribuito sia 1’​​ ​​ insegnamento sociale della Chiesa sia i movimenti, i partiti e le correnti di pensiero che si sono occupati della costruzione dello​​ ​​ Stato sociale. Una strategia del solidarismo consiste anzitutto nel diffondere una cultura della s. che realizzi un salto di qualità da una s. passiva, deresponsabilizzante, assistenziale, ad una s. attiva, promozionale, responsabilizzante: può essere senz’altro un campo privilegiato di azione del sistema formativo. In secondo luogo, andrà potenziato il privato sociale (cioè il complesso delle attività di produzione di beni e servizi, condotte da privati senza scopo di lucro, ma con finalità di servizio sociale) per arrivare a una dinamica sociale a tre dimensioni che abbandoni le dicotomie Stato / mercato, pubblico / privato. Pertanto, la realizzazione del benessere non dovrà essere affidata tanto alla erogazione di pacchetti di beni e servizi, quanto alla garanzia della possibilità di produrli attraverso forme di auto-organizzazione e di autogestione. Di conseguenza ci sarà bisogno di una riqualificazione dello Stato sociale nel senso del passaggio alla società solidale: in altri termini la funzione dello Stato va ripensata nelle forme del garante-promotore più che del garante-organizzatore. Un’altra strategia consiste nella s. fra le generazioni che nel passato era un atteggiamento naturale della famiglia, mentre nella società odierna ha assunto il carattere di un dovere della comunità. Questo principio va applicato soprattutto nel campo della salvaguardia del creato, evitando di scaricare i costi attuali sulle future generazioni. Da ultimo si dovrà realizzare una globalizzazione della s., puntando a ridistribuire le ricchezze tra le diverse aree del mondo a vantaggio di quelle più sfavorite.

2.​​ S. ed educazione.​​ L’educazione alla s. è operazione complessa perché si tratta di formare a uno stile globale di vita che definisce l’identità del soggetto, l’insieme delle sue interazioni con gli altri e la partecipazione alla vita sociale e politica. Essa comporta l’attivazione di diverse istanze, implica un’azione convergente su differenti livelli e richiede tempi lunghi. Un primo itinerario punta in direzione del mondo dell’interiorità personale. Si tratta in altre parole di formare nei giovani una coscienza riflessa, critica e aperta che consenta la maturazione di un corretto concetto di sé e di un atteggiamento di accoglienza disponibile dell’altro, del nuovo e del diverso. Una seconda meta può essere identificata nella maturazione delle relazioni interpersonali. La considerazione dell’altro deve cambiare profondamente: bisogna passare dalla sua concezione come nemico, come oggetto ostile, a quella di fratello che si accoglie e da cui si è accolti. Una terza via porta in direzione del mondo dell’organizzazione sociale. Bisogna formare a una partecipazione personale e corresponsabile nella società civile e politica per contribuire alla crescita di una convivenza dal volto umano. Una quarta pista punta al mondo della cultura e della civiltà. Bisognerà aiutare i soggetti a superare ogni precoce fissazione mentale, ad essere flessibili e aperti nel pensare e a impegnarsi nell’elaborazione di una cultura dell’umano. Passando dagli obiettivi alle metodologie, una prima strategia consiste nel fornire un’informazione precisa, oggettiva, completa, critica e stimolante. Inoltre, è necessario che l’educatore curi la recezione delle informazioni da parte dei giovani, formando in questi ultimi corrette capacità di accoglienza. In rapporto con l’informazione si richiede la coscientizzazione e la responsabilizzazione del soggetto che deve maturare alla criticità, all’assunzione di impegni, alla capacità di cambiamento e di innovazione. Tutto questo rinvia ad un apprendistato per saper prendere decisioni e sapersi assumere la responsabilità, per quanto compete, delle decisioni assunte. Infine, bisogna educare a fare comunità, ad aiutarsi. Possono servire a questo scopo varie strategie: saper cogliere la trama della convivenza; sostenere la fatica dell’accettazione di se stessi e del comunicare; far acquisire le regole e le dinamiche della comunicazione interpersonale; far fare pratica di comunità; e, in un contesto religioso, vivere la condivisione, partecipare alla liturgia o a forme di preghiera comunitaria e praticare la contemplazione e la meditazione. Per educare alla s., l’importante è anche valorizzare le diverse occasioni che il vissuto offre e le molte strutture formative esistenti, dalla scuola, alla famiglia, ai gruppi, alle associazioni, alla Chiesa, ai mass media.

Bibliografia

Giovanni Paolo II,​​ La sollecitudine sociale della Chiesa,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1988; Nanni C. (Ed.),​​ Intolleranza,​​ pregiudizio e educazione alla s.,​​ Roma, LAS, 1991; Sarpellon G., «S.», in E. Berti - G. Campanini (Edd.),​​ Dizionario delle idee politiche,​​ Roma, AVE, 1993, 845-851; Cacciari M. - C. M. Martini,​​ Dialogo sulla s., Roma, Edizioni Lavoro, 1995; Ammaturo N.,​​ Educazione e società comunicazionale, Milano, Angeli, 2000; Id.,​​ La dimensione della s. nella società globale, Ibid., 2003; Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace,​​ Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Città del Vaticano, LEV, 2004.

G. Malizia




SOLITUDINE

 

SOLITUDINE

La s. è un dato permanente, ma ambiguo, della condizione umana: da una parte può presentarsi come un aspetto d’integrazione personale, di capacità personale di autonomia di vita (e quindi positivo), dall’altra può anche essere espressione dell’incapacità d’intessere relazioni sociali.​​ 

1. In questo senso viene subito ad evidenza la necessità di un impegno formativo al riguardo. È particolarmente importante chiedersi come condurre l’uomo all’ascolto del suo essere originale e profondo, come aiutarlo a sentirsi in rapporto e non in situazione di simbiosi parassitaria con gli altri, con le istituzioni comunitarie, con Dio. Infatti la s. non è in primo luogo la situazione di chi è solo e senza rapporti, diremmo senza dimensione spaziale, ma è l’espressione di un essere spirituale, che, essendo unico al mondo, è perciò irriducibile al gruppo sociale. Da questo punto di vista la s. è la condizione assoluta della vita dello spirito, l’espressione della maturità personale dell’uomo. Senza la capacità di vera s., lontani dal frastuono della massa, non c’è profondità d’esistenza. Senza di essa, infatti, non si può essere se stessi, non c’è stabilità nel proprio essere, né vera libertà dai legami terrestri in un orizzonte di fede e neppure comunione intima con Dio e con i fratelli.

2. Compito essenziale dell’educazione è accompagnare personalmente l’individuo a scoprire il valore della s., come identità personale e forza di sviluppo di ciò che vuole ed è chiamato ad essere con il suo progetto di vita. Senza quest’apprendimento, non solo l’uomo non giungerebbe ad avere un pensiero personale vero ed un’autentica reciprocità affettiva, dato che questa implica sempre un desiderio profondo di comunione, oltre che d’accettazione, rispetto e promozione della reciproca​​ ​​ alterità. Se non fosse così si correrebbe il rischio, non meno grave, di cadere nel solipsismo o nell’egoismo più sfrenato, assumendo se stesso come misura unica della propria coscienza e delle proprie e altrui azioni. Per tale motivo l’educazione deve evitare che si instauri una cattiva soggettività e deve favorire invece la relazionalità libera e l’oggettività che riporta al reale ed apre agli altri e alla trascendenza. Altrimenti può accadere che l’uomo viva la s. come fuga dal reale con il pretesto di aver acquisito la coscienza della propria autonomia. La sfida è, invece, quella di salvare l’uomo da questo rischio, educandolo a saper alternare i momenti della vita collettiva, culturale, sociale e intersoggettiva o gruppale con momenti preziosi di concentrazione dello spirito, di raccoglimento e di ascolto della verità interiore. La convinzione, in ogni epoca, dal mondo biblico all’antichità, fino al​​ ​​ Medioevo, ai mistici renani e alla mistica salesiana del XVI e XVII sec., è sempre la stessa: bisogna formare la persona ad essere capace di concentrazione e di s. perché possa​​ ritornare in sé,​​ più in là di tutte le parole, fino all’io profondo e religiosamente all’immagine di Dio in noi. In questo modo la persona può cogliere il senso profondo delle azioni che compie e possedere interiormente la propria identità personale, per esprimerla con piena libertà e originalità nelle relazioni intersoggettive, gruppali, comunitarie e nelle situazioni concrete. L’educazione è efficace solo se pone attenzione alla formazione dell’identità personale di ciascuno, ossia se aiuta la persona a staccarsi dalla semplice coesistenza sociale indistinta perché possa leggere la propria vocazione unica e insostituibile. Questo significa accompagnare la persona facendola passare dalla s., vissuta come condizione d’isolamento spaziale, alla s. della propria vocazione originale, come risultato della concentrazione dello spirito.

3. È urgente riscoprire il valore fondante del​​ «redire ad cor»​​ (san Benedetto) che non è qualcosa di supererogatorio, ma una disposizione essenziale della condizione umana. Ma per questo occorre un metodo di ricerca esistenziale che faccia passare dalla conoscenza convenzionale e acritica, alla piena e libera coscienza e possesso di sé. Questo è particolarmente importante, oggi, per non rimanere sommersi dalla marea della pressione sociale o per non essere frastornati dal bombardamento dei​​ media. Da sempre il mondo della «chiacchiera»​​ ​​ quella «antica» dei piccoli gruppi e quella «moderna» basata sull’informazione tramite i mass-media​​ ​​ è un segno patente di superficialità di vita e di inautenticità di esistenza. Allo stesso modo l’uomo, imbrigliato dal mondo della produzione e mitizzato come misura unica delle proprie azioni, rischia l’alienazione completa da sé se non sa vivere «dentro» di sé, se non sa «habitare secum», collocandosi nel cuore profondo di ogni comunione. Si tratta di condurre l’uomo attraverso le strade del​​ ​​ silenzio, a pause feconde di s. contemplativa. O, meglio, di aiutarlo ad analizzare e confrontare la Parola originale, che porta nel proprio cuore, con la totalità delle parole di tutte le culture e contesti sociali. Tutto questo favorisce una profonda integrazione ed unificazione della persona per una buona relazionalità e reciprocità costruttiva del tessuto sociale.

Bibliografia

Lubienska de Lenval H.,​​ Le silence à l’ombre de la Parole,​​ Tournai, Casterman, 1965; Baldini M.,​​ Le parole del silenzio,​​ Cinisello Balsamo (MI), Paoline, 1986; Martini C. M.,​​ Qualche anno dopo. Riflessioni sul ministero presbiterale, Casale Monferrato (AL), Piemme, 1987; Castellazzi V. L.,​​ Dentro la s.: da soli felici o infelici, Roma, Città Nuova, 1998; Bianchi E.,​​ Le parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 1999; Louf A.,​​ La vita spirituale, Magnano (BI), Qiqajon, 2001;​​ Beauchamp​​ P. et al.,​​ La s.: grazia o maledizione?, Ibid., 2001.​​ 

V. Gambino




SOSTEGNO EDUCATIVO

 

SOSTEGNO EDUCATIVO

Per s.e. si può intendere, in generale, qualunque apporto dato da una​​ ​​ persona o una​​ ​​ istituzione allo scopo di favorire il processo educativo di un determinato soggetto o gruppo di soggetti. Preso in questo senso, il discorso da fare sarebbe amplissimo e difficilmente delimitabile. Qui viene inteso in senso molto specifico, riferito alle azioni da mettere in atto per favorire l’integrazione scolastica e sociale dei soggetti portatori di​​ ​​ handicap e tenendo conto della principale normativa nazionale italiana al riguardo.

1. Le linee fondamentali di questo processo di integrazione sono state tracciate nella L. n. 104 del 5 febbraio 1992: «L. quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate», pubblicata nella «Gazzetta Ufficiale» n. 39 del 17.2.92, supplemento ordinario. L’art. 12 di questa L., al comma 5, delinea le fasi dell’intervento di s.: «all’individuazione dell’alunno come persona handicappata e all’acquisizione della documentazione risultante della diagnosi funzionale, fa seguito un profilo dinamico-funzionale ai fini della formulazione di un piano educativo individualizzato, alla cui definizione provvedono congiuntamente, con la collaborazione dei genitori della persona handicappata, gli operatori delle USL e, per ciascun grado di scuola, personale insegnante specializzato della scuola, con la partecipazione dell’insegnante operatore psico-pedagogico individuato secondo criteri stabiliti dal Ministro della Pubblica Istruzione. Il profilo indica le caratteristiche fisiche, psichiche e sociali ed affettive dell’alunno e pone in rilievo sia le difficoltà di apprendimento conseguenti alla situazione di handicap e le possibilità di recupero, sia le caratteristiche possedute che devono essere sostenute, sollecitate, progressivamente rafforzate e sviluppate nel rispetto delle scelte culturali della persona handicappata». Altri commi dello stesso articolo impongono verifiche periodiche degli interventi realizzati e l’aggiornamento del profilo dinamico-funzionale ai vari passaggi della vita scolastica: dalla scuola materna alle elementari, alle medie e alla scuola secondaria superiore. Ulteriori specificazioni, relative in particolare ai compiti delle USL (oggi trasformate in ASL), sono contenute nell’«Atto di indirizzo e coordinamento», emanato con Decreto del Presidente della Repubblica in data 24 / 2 / 1994 («Atto di indirizzo e coordinamento relativo ai compiti delle Unità Sanitarie Locali in materia di alunni portatori di handicap», Gazzetta Ufficiale n. 87 del 15 / 4 / 94).

2. Di queste disposizioni vanno segnalati alcuni punti qualificanti l’intervento proposto. È importante cogliere il senso processuale dell’intervento, che non va fissato una volta per tutte, ma che va periodicamente sottoposto a verifiche ed aggiornamenti. Il lavoro in équipe con la partecipazione della scuola e delle ASL e con il coinvolgimento dei genitori è altro elemento qualificante. C’è un processo che parte dalla raccolta di elementi, dalla elaborazione di una diagnosi funzionale per arrivare, attraverso il profilo dinamico-funzionale, alla definizione del piano educativo individualizzato. Ultimo elemento da sottolineare è l’attenzione prestata, non solo agli aspetti patologici o limitativi legati all’handicap, ma anche alle possibilità di recupero e alle capacità possedute.

3. Alla luce di queste annotazioni va visto il ruolo del cosiddetto «insegnante di s.», che non è né in sottordine all’insegnante di classe, né unico responsabile dell’intervento a favore dell’integrazione. Ciò è chiaramente affermato nella «Premessa» ai programmi dei corsi di Specializzazione approvati con Decreto ministeriale del 24 / 4 / 1986: «Il processo d’integrazione dell’alunno riguarda tutti i docenti e l’insegnante specializzato ha il compito precipuo di far sperimentare al contesto educativo la dinamica delle esigenze degli alunni portatori di handicap».

Bibliografia

Cornoldi C. - R. Vianello,​​ Stili di insegnamento,​​ stili di apprendimento e handicap,​​ Bergamo, Juvenilia, 1991; Brotini M.,​​ Le difficoltà di apprendimento,​​ Tirrenia, Del Cerro, 1993; Ianes D. - F. Celi,​​ Nuova guida al Piano educativo individualizzato,​​ Trento, Erickson, 1995; Moro F.,​​ Handicap e scuola. 25 anni di integrazione dei soggetti disabili,​​ Milano, Angeli, 2001; Canevaro A. - J. Gaudreau,​​ L’educazione degli handicappati,​​ Roma, Carocci, 2002; Crispiani P.,​​ Handicap e attività di s. nella normativa, Roma, Armando, 2002; Sbarbati L.,​​ Handicap e integrazione scolastica,​​ Ibid., 2002; Fedozzi A.,​​ Handicap a scuola e dopo la scuola,​​ Bari, Laterza, 2004.​​ 

M. Gutiérrez