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SERVIZI SOCIALI

 

SERVIZI SOCIALI

I s.s. costituiscono il complesso degli interventi di promozione, di assistenza e di riabilitazione organizzati allo scopo di rispondere ai bisogni delle persone, differenziati secondo le condizioni specifiche e variabili in base alle diverse fasi del ciclo della vita. In senso lato sono tutti quelli che forniscono prestazioni assistenziali, previdenziali, sanitarie, educative, formative (​​ scuola e​​ ​​ formazione professionale), culturali e ludico-ricreative che rientrano nelle competenze di politica sociale degli Enti Pubblici.

1. Restringendo l’osservazione all’ambito della sicurezza sociale vengono presi in considerazione quei s. volti ad «assicurare al cittadino il diritto alla promozione, al mantenimento e al recupero del benessere psico-fisico, al pieno sviluppo della personalità nell’ambito dei rapporti familiari e sociali, al soddisfacimento delle esigenze essenziali per la dignità della persona e la qualità della vita» (Comit / Sinsa, 1994). Il concetto di s.s. e quindi il sistema dei s.s. si afferma nel nostro Paese negli anni ’70 del sec. XX, caratterizzati da una fitta legislazione in questo ambito: dalla legge sul consultorio familiare al riordino della materia delle competenze socio-assistenziali, fino alla istituzione del sistema sanitario. Tale produzione normativa fa inoltre seguito al principio del decentramento delle responsabilità (passaggio delle politiche sociali dal governo centrale al livello regionale per il coordinamento e a quello locale per la gestione) e della territorializzazione degli interventi. Più recenti sono le legislazioni nazionali sull’​​ ​​ handicap (1990) e sugli​​ ​​ anziani (1992) per altro largamente precedute da una densa normativa regionale e di nuove figure di utenti (donne maltrattate, immigrati extracomunitari, senza fissa dimora…). Altri principi e metodiche operative informano i s.s. a partire dagli anni ’80 come quelli della centralità dell’utente (massima accessibilità al s. e personalizzazione delle prestazioni), della pianificazione delle risorse e della programmazione delle risposte (si lavora per progetti e su obiettivi), della qualità di queste, dell’integrazione tra s.s. e sanitari e del lavoro in rete e su base dipartimentale. Più recentemente una legge nazionale importante (L. 328 / 00) ha riformato la ultrasecolare L. Crispi del 1890 definendo il sistema dei s.s. e riconoscendo ai soggetti in stato di bisogno l’esigibilità del diritto ai s. e agli interventi sociali, alcuni dei quali devono essere garantiti a tutti i cittadini su tutto il territorio nazionale (livelli minimi di assistenza). Per offrire risposte efficaci ai bisogni dell’utenza i s.s. devono essere promozionali della persona – che mettono al centro dell’attenzione –, di qualità e integrati, riconoscendo a tutte le organizzazioni dei cittadini (​​ volontariato e terzo settore) la possibilità di partecipare non solo alla loro gestione, ma anche alla programmazione e valutazione. Inoltre la legge di riforma promuove la stessa partecipazione degli utenti al fine di determinare il miglior utilizzo e la valutazione dell’efficacia dei s. a partire da una conoscenza diffusa della loro presenza e modalità di erogazione attraverso un’apposita «carta dei s.» che ciascun soggetto erogatore deve garantire. Analoga riforma era già stata fatta in ambito sanitario con due decreti legislativi, il 512 del 1992 e il 229 del 1997 che hanno ulteriormente modernizzato il sistema dei s. previsto dalla legge istitutiva del s. sanitario nazionale.

2. Le strategie principali per assicurare l’efficacia delle risposte del s.s. sono la formazione e l’aggiornamento continuo degli operatori, gli strumenti informativi per la rilevazione dei bisogni, l’autovalutazione e verifica dei risultati, l’aggregazione delle forze di volontariato. A livello di responsabilità di governo dei s.s. è oggi ritenuto rilevante agire nell’ottica della programmazione mirata, locale e partecipata nel modello del​​ welfare mix​​ municipale o zonale facendo delle scelte di priorità sulla base della conoscenza sistematica dei bisogni, della verifica delle priorità e della disponibilità e compatibilità delle risorse.

3. Sul piano operativo il s.s. è una unità organizzativa preposta all’esercizio di una o più funzioni aventi carattere di continuità. Può articolarsi in più unità operative. Gli elementi costitutivi di un s. sono: un bacino di utenza o ambito territoriale di riferimento, una sede fisica dotata di adeguate attrezzature e accessibile all’utenza in determinati orari, delle risorse umane (personale) atte a sostenere le specifiche funzioni e una utenza definita. I s.s. si distinguono in specifiche tipologie che attengono le diverse funzioni: attività di base e di prevenzione-promozione; attività di assistenza (sostegno al nucleo familiare e / o al singolo) o di cura; attività di tipo specialistico e di riabilitazione, reinserimento, recupero o integrazione sociale. Le attività di base (o di primo livello) si articolano in un’ampia tipologia da realizzare a livello del distretto socio-sanitario. Sono quindi le più capillarmente diffuse e strategiche per prevenire bisogni e patologie da affrontare altrimenti con s. di secondo livello, più complessi e costosi.

4. Sul versante più socio-assistenziale comprendono questi interventi principali: assistenza economica, domiciliare, educativa territoriale, socio-giudiziaria adulti / minori,​​ ​​ affidamento familiare e attività amministrativa. A queste azioni competono prestazioni di base quali: il segretariato sociale, l’analisi della domanda, la diagnosi sociale, il ruolo di filtro per cui è questo livello dei s. che costituisce il canale di invio a quelli specificatamente assistenziali-curativi. Sul piano sanitario si provvede all’educazione sociale e sanitaria, alla prevenzione individuale e collettiva delle malattie fisiche e psichiche, all’igiene dell’ambiente. Tra le attività di primo livello vengono annoverate anche quelle di prevenzione del disagio e del deterioramento del benessere dei cittadini, che spesso necessitano di un collegamento tra i diversi settori della Pubblica Amministrazione (sanità, assistenza sociale, scuola, lavoro, previdenza, ecc.). La loro attività si esplica per progetti di cui i più significativi paiono essere quelli mirati al soddisfacimento di esigenze socio-relazionali (nuove povertà), educative (es. in famiglie monoparentali), abitative, di inserimento lavorativo, all’abolizione delle barriere architettoniche ecc. Le attività di assistenza, di cura e di riabilitazione si esplicano in appositi s. ambulatoriali, a domicilio dell’utente, in strutture diurne (Day hospital),​​ degenziali o di ricovero, tutelari o residenziali. Tra queste ultime prevale oggi il modello di assistenza socio-sanitaria integrata come le Residenze Sanitarie Assistenziali per disabili e anziani non autosufficienti e le strutture protette. Oltre a queste svolgono specifiche attività di riabilitazione o recupero di autonomia strutture come la casa-albergo, la comunità-alloggio, la comunità terapeutica e appositi centri di riabilitazione per soggetti disabili.

5. L’organizzazione dei s.s. è sempre più caratterizzata dal lavoro in rete, sia in termini di collegamento interistituzionale (tra i diversi comparti dell’intervento pubblico) che concordato (protocolli di intesa) tra unità di offerta di diverso livello e tipo (soprattutto tra settori o s. «di confine», ma anche tra l’ospedale e il territorio) che di integrazione tra unità impegnate per la stessa utenza e il cui esempio più maturo è oggi il Dipartimento di salute mentale. Tale lavoro consente per altro di ottimizzare le risorse, rese «mobili» e «flessibili» nelle varie direzioni di intervento e al tempo stesso garantisce continuità di attenzione all’utente che viene, di volta in volta, destinato al s. più adatto a rispondere ai suoi bisogni o a realizzare un progetto individualizzato.

6. I problemi che ancora oggi i s.s. devono affrontare sono anzitutto legati alla entità e alla diversa competenza di spesa che rende difficile in molti casi distinguere quella sociale da quella sanitaria. Risulta anche inadeguata l’attivazione di tutte le risorse della comunità per assicurare risposte assistenziali più adeguate; l’adozione della programmazione di zona fatica ad essere un processo partecipato per accrescere la progressiva rispondenza dei s. ai bisogni dell’utenza e raggiungere standards operativi rispettosi della dignità dell’individuo. Non è neppure soddisfacente il riconoscimento del diritto del cittadino ad essere informato sulle possibilità offerte dal sistema dei s. per operare la scelta del s., nell’ambito di quelli disponibili che offrono lo stesso tipo di intervento. Si registra infine lo sbilanciamento di risorse, forze e strutture a vantaggio di s. assistenziali e curativi rispetto a quelli preventivi e riabilitativi. Sembra invece accettato, almeno concettualmente, il principio dell’attenzione per le esigenze essenziali dell’individuo e della famiglia, globalmente considerate, che permette di superare un approccio riduttivo per categoria di bisogno.

Bibliografia

Carbognin M. (Ed.),​​ Organizzazione e qualità nei s. socio-sanitari,​​ Milano, Angeli, 1991; Comit / Sinsa,​​ Dizionario sinottico comparativo dei s. socio-assistenziali,​​ Roma, Ministero dell’Interno, 1994; Zenarolla A.,​​ Costruire qualità sociale. Indicazioni teoriche e operative per lo sviluppo della qualità nei s., Milano, Angeli, 2007.

R. Frisanco




SERVIZIO CIVILE VOLONTARIO

 

SERVIZIO CIVILE VOLONTARIO

Il s.c.v., recentemente disciplinato con la L. n. 64 / 2001, è figlio dell’obiezione di coscienza (= o.d.c.) al s. militare. L’o.d.c. è il rifiuto di assolvere a un obbligo di legge i cui effetti sono ritenuti contrari alle proprie convinzioni ideologiche, morali o religiose. Si tratta di un comportamento che manifesta una determinazione soggettiva tesa ad affermare valori in contrasto o in opposizione ad un obbligo stabilito da una norma o da un comando dell’autorità e non riducibili ad un personale interesse bensì a quello generale, dell’intera società. Nella sua più consapevole espressione si tratta di una manifestazione di devianza positiva orientata al cambiamento sociale.

1.​​ Chiarimenti.​​ Questo rifiuto d’obbedienza può riguardare varie disposizioni – pensiamo, ad esempio, ai medici obiettori rispetto alle prescrizioni della L. 194 / ’78 sull’interruzione della gravidanza – ma l’attuazione più macroscopica ha riguardato nel nostro Paese la concezione del s. militare obbligatorio come unica modalità di «difesa della Patria». La storia dell’o.d.c. al s. militare, dalle sue prime manifestazioni isolate e di senso profetico degli anni ’50, alle lotte collettive e alla politicizzazione del problema degli anni ’60, fino al riconoscimento giuridico parziale dell’o.d.c. sancito dalla L. 772 / 1972 e alla legittimazione definitiva come diritto soggettivo dal 1998 (L. 230, Nuove norme in materia di obiezione di coscienza), è emblematica del difficile rapporto tra cittadino e istituzioni che ha accompagnato il processo di democratizzazione della nostra società. Il s.c. ha anche segnato gli orientamenti di valore e ha rafforzato la vocazione a lavorare nel sociale di migliaia di giovani nei trenta anni di applicazione della L. del ’72. Sembra passato un secolo anche rispetto al cambiamento intervenuto nel concetto di difesa della Patria: dalla protezione del territorio da aggressioni armate e attuabile con l’uso di armi sempre più micidiali a quello di difesa della società civile da tutto ciò che ne insidia l’unità, la democraticità, la solidarietà, l’uguaglianza dei cittadini, la legalità, la promozione sociale, l’educazione alla tolleranza e altro ancora.

2.​​ Dall’o.d.c. al s.c. aperto a tutti i giovani.​​ Il passaggio dal s.c. sostitutivo della L. del 1972 al s.c.v. della L. del 2001 è stato naturale proprio per la fiducia maturata in questo istituto negli oltre 30 anni di esperienza degli obiettori di coscienza, così come nell’esperienza dell’Anno di volontariato sociale praticato dalle ragazze e dai giovani non obbligati alla leva. Nella storia del s.c. in Italia si possono considerare tre frasi successive: a) s.c. come​​ fenomeno di élite​​ nella fase di primo riconoscimento di questo istituto, in quanto l’obiezione di coscienza era una scelta morale, culturale, politica dichiaratamente antitetica e sostitutiva al servizio militare, oltre che mal sopportata dall’apparato militare che la gestiva; b) s.c. come​​ fenomeno di massa​​ dalla seconda metà degli anni ’80: l’o.d.c. diviene una opzione tra alternative possibili e quindi di pari dignità rispetto a quella per il servizio militare; c) s.c. previsto oggi come​​ esperienza​​ volontaria proposta alla generalità dei giovani, e per la prima volta di ambo i sessi, dai 18 ai 28 anni, e gestito da un’istituzione completamente autonoma rispetto all’apparato militare. Esso richiama il concetto di progetto (come è nella sua attuazione operativa) che significa una esperienza guidata da una scelta valoriale e finalizzata a raggiungere dei risultati più consoni alle potenzialità e aspettative dei giovani che vi sono impegnati. Quindi anche formativa e di primo contatto con il mondo del lavoro nel sociale. Il s.c. si è reso necessario con la sospensione della leva obbligatoria e con la sostituzione dell’esercito a base popolare con uno di tipo professionale su base volontaria, in quanto si era determinato un vuoto nella formazione civile dei giovani. L’istituto della leva aveva infatti un significato pedagogico non irrilevante richiamando i giovani ai doveri costituzionali della difesa, della solidarietà e della responsabilità. Dal dibattito tra chi era favorevole ad un s.c. obbligatorio e chi invece lo voleva facoltativo si affermò l’ipotesi dell’istituzione di un s.c. nazionale parallelo e complementare al servizio militare volontario che avrebbe consentito ai giovani, desiderosi di fare un’esperienza costruttiva per la loro vita, l’opportunità di realizzare attività utili unendo così l’aspetto formativo con quello etico in senso civico.

3. S.c. e volontariato: distinzione nell’integrazione.​​ Vi è una possibile ambiguità sul s.c. nazionale che viene rimarcato come volontario. È «volontario» in quanto è una scelta libera della persona, non più sostitutiva o alternativa al servizio militare di leva. Se il volontariato si basa su tre requisiti identitari: la spontaneità, la solidarietà e la gratuità assoluta, il s.c. nazionale mutua i primi due distinguendosi invece per la mancanza del principio della gratuità. Tuttavia vi è una forte vicinanza tra s.c. e volontariato; entrambe le scelte convergono nel promuovere la partecipazione dei giovani e la loro formazione come cittadini. I progetti di s.c. nel volontariato andrebbero privilegiati proprio in considerazione del compito primo del volontariato, quello di favorire l’impegno sociale e la partecipazione consapevole dei cittadini. È evidente che se il s.c. – per ora limitato a poche migliaia di giovani – diventerà un’esperienza generalizzata potrà garantire al volontariato più risorse umane motivate, anche dopo l’espletamento dello stesso, come è dimostrato dai molti giovani che terminato il s.c. passano a fare volontariato. È altresì vero che un giovane che ha fatto un’esperienza di cittadinanza attiva presso una organizzazione di volontariato considererà normale in altre fasi della vita offrire gratuitamente una parte del proprio tempo ed energie per una causa solidaristica o, almeno, interpretare con spirito di volontariato i ruoli di cittadino.

Bibliografia

Coletti A.,​​ L’o.d.c,​​ Milano, Feltrinelli, 1973; Montanari B.,​​ O.d.c. Un’analisi dei suoi fondamenti etici e politici,​​ Milano, Giuffré, 1976; Albesano S.,​​ Storia dell’o.d.c. in Italia,​​ Treviso, Santi Quaranta, 1993; CNESC (Ed.),​​ Quarto rapporto sul s.c. in Italia, Roma, Icone, 2003; Righi L.,​​ Giovani e s.c. Uno strumento di cittadinanza sociale, Milano, Angeli, 2004.

R. Frisanco