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SENECA Lucio Anneo

 

SENECA Lucio Anneo

n. a Cordova nel 4 a.C. - m. a Roma nel 65, filosofo romano di origine ispana.

1.​​ Vita.​​ Compì gli studi a Roma con retori e filosofi stoici. Fu introdotto ancora giovane alla corte di Caligola sotto il quale cominciò la carriera forense ed il​​ cursus honorum,​​ ma nel 39 un suo discorso lo fece cadere in disgrazia presso l’imperatore, che lo avrebbe condannato se una sua cortigiana non gli avesse consigliato di risparmiarlo perché la natura lo avrebbe presto ucciso per consunzione. Fu esiliato in Corsica da Claudio per uno scandalo di corte suscitato da Messalina, ma venne poi richiamato da Agrippina minore che lo nominò maestro di suo figlio Domizio, il futuro Nerone. Quando il nuovo imperatore uccise il fratello Britannico e la stessa madre, S. si ritirò dalla vita pubblica ma nel 65 fu coinvolto nella congiura di Pisone, a cui partecipava anche suo nipote Lucano; fu costretto ad uccidersi per ordine di Nerone nel 65. Con Epitteto e Marco Aurelio, S. appartiene al gruppo dei filosofi della​​ stoà​​ imperiale, definiti «maestri di morale». In ogni epoca il valore pedagogico della sua opera è stato riconosciuto per la penetrante esperienza umana, per la fine intuizione delle relazioni umane e per il nuovo senso di intimità di cui è permeata.​​ 

2.​​ L’antropologia pedagogica.​​ L’ideale del saggio formulato da S. in stretta aderenza alla​​ stoà​​ non deve indurre in errore. Anche nel​​ De constantia sapientis,​​ il suo umanesimo si applica all’uomo corrente: «Anche se vi circondano nemici da ogni parte, mantenete il posto che vi è stato assegnato dalla natura. Qual è questo posto? quello di uomo». Non si tratta però di un uomo astratto. Il realismo dell’antropologia pedagogica di S. riflette le difficoltà dei suoi contemporanei, che devono vivere in un’epoca in degrado, caratterizzata dai disordini della tirannia, in piena crisi della società, della politica e dei costumi. Sullo sfondo della Roma imperiale, S. vuole ridare all’uomo la propria coscienza di uomo –​​ la sua libertà​​ – di fronte al suo​​ destino,​​ alla sua​​ vita​​ e alla sua​​ morte.

3.​​ La pedagogia di S.​​ Le due correnti della​​ paideia​​ greca, quella retorica e quella filosofica, persistono nella​​ humanitas​​ romana, che aveva avuto in Cicerone il suo massimo rappresentante. S. si pone nella corrente filosofica quando proclama l’autonomia della​​ ragione​​ come condizione imprescindibile dell’umanesimo. A questa corrente molto eteroclita, seguita soprattutto dagli stoici, S. dà un apporto personale; le caratteristiche principali sono: lo scarso valore formativo che attribuisce alle​​ ​​ arti liberali​​ in sé; l’esercizio della filosofia​​ inteso come ascesi verso la perfezione umana e l’assoggettamento definitivo della filosofia alla​​ saggezza.​​ a)​​ Le arti liberali.​​ Nell’humanitas​​ romana contemporanea a S., sono prevalenti i contenuti che l’epoca ellenistica aveva indicato come​​ encyclios paideia​​ e che Roma aveva denominato​​ artes liberales.​​ S. si occupa di esse soprattutto nel documento emblematico del carattere filosofico della sua pedagogia, l’epistola 88 delle​​ Epistulae morales ad Lucilium.​​ Le arti liberali non meritano grande considerazione perché, né per il contenuto né per gli scopi di coloro che le professano, hanno relazione con la perfezione umana; non spianano il cammino verso la virtù. «A cosa mi serve saper dividere un campicello, se non lo so dividere con mio fratello?» (Ep.,​​ 88). Le arti liberali non si integrano con la filosofia e con la saggezza in un’unità simile a quelle delle parti del corpo umano, unità che S. auspica per ogni sapere. Semplicemente strumentali, orientate all’utilità immediata, si perdono in futilità nonostante si chiamino liberali, e sono solo degne dell’uomo libero, per il loro valore propedeutico. In sintesi, «Non dobbiamo apprenderle, bensì averle apprese» (Ep.,​​ 88). b)​​ L’esercizio della filosofia e i gradi di perfezione.​​ «Che cosa è il meglio nell’uomo? La ragione, per la quale supera gli animali ed imita gli dei: la ragione perfetta è, quindi, il bene proprio dell’uomo» (Ep.,​​ 86). La meta del sapere è insostituibile, ma l’esercizio della filosofia, dal punto di vista pedagogico, è centrato nel sapere in se stesso. Cercare di condurre la propria vita d’accordo con il bene morale: la filosofia di S. trascende lo spazio della teoria ed insegna a vivere. «La filosofia insegna a praticare, non a parlare, ed esige che tutti vivano conformemente alle sue leggi, che la vita non dissenta dall’insegnamento, né si contraddica» (Ep.,​​ 20). c)​​ La saggezza.​​ La filosofia, vera morale in atto, è subordinata alla saggezza: questa «è il massimo della perfezione dell’essere umano; la filosofia si avvia al punto in cui essa è già arrivata» (Ep.,​​ 84). La saggezza è il bene proprio del saggio. Come la filosofia, si riferisce ad un contenuto di carattere teoretico, però quella di S. non è una filosofia intellettualistica, dato che «una sola cosa completa la perfezione dell’animo: l’immutabile scienza del bene e del male» (Ep.,​​ 88). La saggezza senechiana implica la perfezione suprema dell’essere umano, cioè la morale. «La saggezza è l’abito dell’anima perfetta» (Ep.,​​ 117), perché saggezza e virtù sono per lui strettamente unite tra loro, tanto da costituire due aspetti della stessa pienezza umana.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ L.A.S.,​​ Diálogos sobre la providencia. Sobre la firmeza del sabio. Sobre la ira. Sobre la vida feliz. Sobre el ocio. Sobre la tranquilidad del Espíritu. Sobre la brevedad de la vida,​​ trad. di V. García Yebra, Madrid, Gredos,​​ 2001. b)​​ Studi: Cid Luna P.,​​ L.A.S.,​​ Madrid,​​ Clásicos, 2003;​​ Padilla M. A. (Ed.),​​ S.,​​ la práctica de la filosofía: fragmentos escogidos, Madrid, Nueva Acrópolis, 2004; Pociña Pérez A.,​​ Bibliografía española sobre Séneca (s. XX),​​ in «Estudios de la Antigüedad Clásica» 17 (2006) 359-410.​​ 

Á. Galino - Á. del Valle




SENSAZIONE

 

SENSAZIONE

Termine filosofico riferito alle rappresentazioni prodotte dai cinque sensi, o più in generale al conoscere sensibile distinto da quello intellettivo-razionale. Il concetto di s. (che è variamente interpretato dalle diverse scuole filosofiche) è talora distinto da quello di​​ ​​ percezione: tale distinzione si fonda sul concetto che le s. costituiscono le condizioni elementari del funzionamento mentale e cioè rappresentano il dato elementare avvertito in connessione con lo stimolo corporeo, mentre le percezioni sono complesse e derivano il loro significato dall’apprendimento e cioè si formano nell’associazione di nuove s. con le immagini di esperienze precedenti, dando inoltre inizio ad una attività conoscitiva vera e propria.

1. Senza entrare in merito alle discussioni filosofiche sul significato, il valore e il ruolo della s. nella costruzione della conoscenza del mondo e dei processi di pensiero, è possibile identificare nella s. il problema centrale da cui prenderà le mosse tutta la psicologia scientifica. La psicofisica di Fechner riconduceva il fenomeno della s., considerata una delle componenti fondamentali della percezione e un’esperienza elementare dovuta unicamente alle variazioni dello stato di un recettore opportunamente stimolato, a un rapporto calcolabile fra l’entità dello stimolo fisico e quella della risposta soggettiva. Da allora, fino alle ultime ricerche della psicologia cognitiva, il concetto di s. non ha mai ricevuto una definizione chiara ed univoca. Le svariate interpretazioni della s., e le teorie della percezione che da esse derivano, possono essere viste come un tentativo di colmare il vuoto tra la modificazione indotta dagli stimoli sugli organi di senso e l’esperienza soggettiva di tali modificazioni.

2. Un primo tentativo di conciliare i due ordini di fattori portò ad ammettere l’esistenza di entità elementari, le cosiddette s. (relative ai diversi sensi) che entrano in connessione tra loro e con le rappresentazioni, e cioè con i dati di coscienza acquisiti mediante precedenti esperienze percettive. La percezione, in ultima analisi, non sarebbe che il risultato di un processo di tipo associativo. Questo schema, originariamente proposto da Th. Reid (1764) venne adottato da autori quali Weber, Fechner,​​ ​​ Wundt e da altri rappresentanti della psicofisiologia classica. Diversi autori criticarono queste posizioni mostrando il carattere originariamente intenzionale e relazionale della s. In particolare E. Mach pone la s. a fondamento delle asserzioni scientifiche considerandola «strumento per liberare la scienza dalla metafisica». Sostenendo che «non sono i corpi che generano le s., ma sono i complessi di s. che generano i corpi» e che dunque il «mondo è una mia s.», E. Mach mette in crisi la rigida divisione tra fisico e psichico. Tesi simili ricorrono nel primo periodo del circolo di Vienna sia nella concezione dei «fatti atomici» di L. Wittgenstein sia nel concetto, proposto da Carnap, di «unità empirica elementare», intesa alla stregua di «un elemento neutro, anteriore alla distinzione tra l’oggettivo e il soggettivo», su cui viene basata la tesi della totale riducibilità di ogni enunciato della scienza ad un enunciato circa le s.

3. Tali posizioni, rivendicando il concetto di esperienza «pura» si presentano dunque come alternative alle diverse interpretazioni di stampo associazionistico, a cui si rivolgeranno peraltro le critiche dei sostenitori della psicologia della forma. Autori quali Wertheimer e Koffka, superando la contrapposizione tradizionalmente stabilita tra s. e percezione, sosterranno quindi che le discriminazioni sensoriali non corrispondono simmetricamente alle dimensioni dello stimolo fisico, ma ne costituiscono piuttosto un’elaborazione che ne modifica profondamente il profilo.

Bibliografia

Mecacci L.,​​ Storia della psicologia del Novecento,​​ Roma / Bari, Laterza, 1992; Mastandrea S.,​​ La psicologia della percezione: dalla s. alla comunicazione, Napoli, Idelson-Gnocchi, 2004; Hirtz P. - A. Hotz,​​ Competenza motoria: s. percettivo-motoria, Bologna, CLUEB, 2005.

F. Ortu - N. Dazzi




SENSO

 

SENSO

Nel linguaggio comune, il termine, specie al plurale, fa riferimento all’organo e agli organi recettori delle stimolazioni provenienti dall’ambiente esterno («s. esterni») o dal vissuto interno («s. interni»). Spesso è usato come sinonimo di percezione, di sensibilità, di sensualità, di sentimento, di sensazione psichica, di coscienza o di consapevolezza di sé e delle proprie azioni; o anche per indicare la capacità soggettiva, intellettuale, morale e spirituale di percepire valori e di assumere atteggiamenti particolari (come nelle espressioni «s. della verità», «s. della giustizia», «s. dell’onore», «s. dell’amicizia», «s. del bello»); o ancora come modo soggettivo di affrontare e risolvere questioni di vita pratica (come nelle espressioni: «s. pratico», «buon s.»,​​ ​​ «s. comune», «s. della misura»). A livello linguistico sta ad indicare il contenuto semantico, cioè il significato di una frase o di un discorso. Ma a livello di linguaggio sociale va sempre più prendendo piede un’accezione esistenziale del termine, per cui sta a dire la ragion d’essere, la spiegazione e la motivazione profonda di azioni e modi di essere in generale. Qui si baderà soprattutto a queste due ultime accezioni del termine. Ma è subito da dire che a questo livello – come viene sottolineato dalla riflessione fenomenologico-esistenzialista e dalla pratica terapeutica – il termine s. e il suo sinonimo «significato» veicolano una forte carica ideale ed emozionale (specie nelle espressioni «s. della vita», «s. dell’agire» e «sistema / i o quadri di significato»).

1.​​ Significato e s.​​ In logica si discute se il significato si debba restringere alla denotazione od estensione di un termine (cioè ai referenti reali o immaginari a cui si applica) o se includa anche la connotazione (o intenzione o comprensione) del termine, cioè le informazioni proprie alla realtà fisica o immaginaria indicata. Chi distingue significato e s. lo fa equiparando il significato con la denotazione e il s. con la connotazione. Il significato assolverebbe infatti ad una funzione d’interpretante nei confronti della realtà indicata dal termine (dice cosa è in sé o nei suoi possibili rapporti con altre realtà). Oppure si parla di significatività ad indicare la corrispondenza positiva tra soggetto parlante, termine e ciò a cui si riferisce (referente); mentre si parla di s. ad indicare la coerenza logica del termine all’interno di una proposizione o di un discorso. In ogni caso è abbastanza comune vedere il significato ed il s. all’interno dell’interrelazione dinamica di soggetto, oggetto e simbolo; tra mondo della soggettività, mondo degli oggetti (reali o pensati) e mondo dei concetti. Qualcosa di simile vale per il significato ed il s. dell’azione. Qui la significatività starebbe ad indicare una correlazione positiva tra il soggetto agente, l’azione posta in atto e la realtà verso cui si produce; mentre si parlerebbe di s. ad indicare il quadro o l’orizzonte concettuale, ideale e valoriale (in ted.​​ Sinn),​​ entro cui è possibile fissare determinati significati (in ted.​​ Bedeutungen)​​ espressi dall’azione individuale e comunitaria. Il s., come il valore, più che un dato in sé e per sé, implica una presa di coscienza che coglie o conferisce significato umano a quanto accade o a ciò, a colui o a coloro, con cui si entra in rapporto. Per tal motivo la fenomenologia parla dell’uomo come «donatore di s.». Nella stessa linea si può assumere la stimolazione biblica dell’uomo che «dà il nome» ad animali e cose. Peraltro l’esperienza comune ci mostra che spesso più che inventare, si tratta di accogliere, di acconsentire o di assumere significati provenienti dall’alterità presente o dal patrimonio tradizionale della cultura sociale.

2.​​ La ricerca del s. come istanza educativa.​​ Quando si parla di ricerca di s. a livello esistenziale, si vuol indicare in generale il bisogno di un quadro globale di valori, cui far riferimento e su cui basarsi nell’agire individuale e collettivo. La terapia psicoanalitica, come quella esistenziale e logoterapeutica, hanno messo in luce che le malattie mentali o le​​ ​​ nevrosi spesso sono riferibili a situazioni di vita in cui non si riesce a cogliere o conferire un s. alla propria esistenza o a vedere un futuro umano per il mondo in cui si vive. A livello di vita quotidiana e di pratica educativa la ricerca di s. diventa in concreto: a) aspirazione di una professionalità che non solo superi l’alienazione del lavoro, ma permetta un sicuro e flessibile inserimento nell’esistenza sociale adulta; b) ricerca di una cultura che dia quadro e risorse conoscitive per l’azione personale e per l’esperienza di partecipazione sociale; c) ricerca di una valida piattaforma relazionale che permetta di vincere la chiusura individualistica e di gruppo, e dia la sensazione positiva di poter avere buone relazioni con gli altri, di essere capace di amare ed essere amato, di sentirsi inserito e partecipare attivamente alla vita comunitaria sociale; d) infine, ad un livello più generale, essa sta ad esprimere la profonda aspirazione a vedere che la vita vale la pena di essere vissuta, che c’è almeno una qualche corrispondenza tra quanto si crede o si vuole e il volume di impegno e di azione che si mette in atto; o che non tutto muore o si perde di quanto si è e ci si apre ad essere. Sentire che il bisogno di s. è esaudito, dipende anzitutto dalla constatazione vissuta di farne esperienza concreta. Per questo, anche dal punto di vista educativo, rimane indubbiamente prioritaria e insostituibile la ricerca di luoghi, spazi e momenti in cui sia effettivamente attualizzabile un minimo di autorealizzazione, di riconoscimento personale, di efficacia storica, di comunanza di intenti, di concretizzazioni partecipate di valore: pena la fuga nella devianza, nella trasgressività distruttiva, nella malattia psicosomatica, nella sfiducia verso qualsiasi indicazione progettuale.

3. Ricerca di s.: le condizioni teoriche.​​ Nell’attuale clima di crisi, di innovazione, di​​ ​​ pluralismo culturale e ideologico, di globalizzazione della vita e della produzione, è pur vero che la ricerca di s. richiede anche un impegno di tipo teorico-pedagogico che aiuti la comprensione dei concetti-chiave che sono alla base della decisione e dell’agire umano: i concetti di razionalità, di libertà, di valore e d’impegno etico.

3.1.​​ La razionalità.​​ Le ideologie del recente passato sono entrate in crisi. È facile correre il rischio di essere presi nelle maglie della logica tecnologico-informatica o di abbandonarsi all’istinto, agli impulsi personali, alle opinioni soggettive o di gruppo, a fughe nell’irrazionalismo, nel fondamentalismo, nell’integralismo intollerante e dominativo. Per uscire da queste polarizzazioni estremizzate, forse occorrerà riguadagnare un tipo di razionalità – e parallelamente di scientificità e di tecnologia – che siano «a misura d’uomo»; occorrerà aiutare a saper integrare i molteplici modi con cui si conosce (impulsi, sensi, intelligenza, intuizione, operatività tecnica); a saper coniugare ragionevolmente i contributi della cultura, dell’arte, della fede con quelli della scienza e della tecnica; a non fissarsi sui dati di fatto, ma a cogliere il possibile, l’ulteriore, il futuribile; a dar spazio a ciò che è proprio, ma insieme anche a ciò che è diverso, facendosi capaci di tolleranza, di pluralismo, di flessibilità storica; a pensare «glocalmemte», vale a dire tenendo sempre presente, pur distinguendoli, il locale, il nazionale, l’internazionale, il monidale, l’umano.

3.2.​​ La libertà.​​ Necessità di varia natura (soggettive, istituzionali, burocratiche, culturali, ecc.) e contingenze le più disparate ed imprevedibili, sembrano costringere da ogni parte la soggettiva voglia di​​ ​​ libertà, che nonostante ciò rimane insopprimibile. Di fronte a ciò sarà da aiutare a formarsi un concetto realistico e comprensivo di libertà. Come affermava​​ ​​ E. Mounier la libertà umana non è assoluta, ma sempre «sotto condizione». È simultaneamente un dato di fatto e un compito per cui impegnarsi individualmente e socialmente, affinché possa esprimersi in forme storiche almeno un po’ adeguate alle aspirazioni. È sempre e simultaneamente libertà e liberazione, libertà da, libertà di, libertà per, libertà incarnata, con-libertà, intrinsecamente riferita alla persona individuale, ma pure alla comunità e alla realtà del corpo sociale nella sua globalità ed entità popolare.

3.3.​​ La qualificazione etica.​​ L’agire umano sembra costretto entro il dovere, norme, regole di condotta, conformismo sociale; o all’opposto si vuole agire solo per il piacere, secondo quanto si sente e si vuole in un dato momento, senza costrizione alcuna, nell’assoluta spontaneità. Anche a questo livello occorrerà guadagnare un modo corretto di intendere l’agire buono e valido, che aiuti a capire che è bene, che è umanamente dignitoso, che è bello fare o non fare qualcosa, comportarsi o non comportarsi in un certo modo: per la vita personale e per quella di tutti, per l’esistenza presente e per quella che dal passato si protende verso un futuro «di più di umanità» per tutti e ciascuno. In tal modo, tra un’etica del dovere e un’etica del piacere, diventa possibile pensare ad un’etica del valore: presente nella vita propria ed altrui, intravisto con la propria ragione (illuminata dalla cultura e magari dalle indicazioni di fede), voluto in libertà e per cui vale la pena impegnarsi e dedicarsi. Ovviamente un tal modo di vedere pone l’agire umano in un processo dinamico – non privo di incertezze e errori – che, a partire dalla situazione esistenziale in cui ci si trova, cerca di evitare il male, ricerca fattivamente l’umanamente possibile a sé e agli altri, e di lì si protende verso «l’umanamente degno» per tutti.

3.4.​​ Verità e valore.​​ In tale impegno e modo dinamico di essere, diventano fondamentali per la crescita dell’intelligenza e della libertà la ricerca conoscitiva e l’apertura valoriale. Infatti la​​ ​​ verità non si scopre in un momento e non si possiede come un monopolio privato ed esclusivo. È più grande delle possibilità di ognuno e si scopre mano a mano. Sotto questo profilo si viene a cogliere la dignità dell’opera sociale di alfabetizzazione, di istruzione, di orientamento, di educazione. Altrettanto è da dire per il concetto di valore (​​ valori), comprensibile sinteticamente come ulteriorità e come più d’umanità verso cui ci si apre e si protende nella vicenda storica, spesso su indicazioni dei bisogni e delle aspirazioni profonde, oppure ascoltando oltre le ragioni della mente quelle del «cuore» (Pascal) e arrivando ad attuazioni storiche che rispettino i diritti di tutti e di ognuno.

4.​​ Il​​ s. e i s.​​ L’orizzonte di valore è precisato nella sua faccia sociale e storica dai principi della Costituzione del proprio Paese e dalle Dichiarazioni internazionali dei diritti dell’uomo e dei diritti del fanciullo, ed è aperto a pluralistiche giustificazioni ed approfondimenti. Ciò è tanto più evidente oggi in un clima culturale e storico segnato dal mutamento, dalla trasformazione, dalla multicultura, da tendenze internazionalistiche ed altre all’opposto localistiche, etniche, confessionali. L’ammissione della legittimità del pluralismo valoriale mostra la necessità del dialogo e del confronto. Con ciò non si toglie la condivisione ideale e il convergere, pur nella diversità dei singoli, dei gruppi e delle istituzioni sociali, su progetti sociali comuni, ricercando appunto la dignità della persona, i diritti dell’uomo, l’uguaglianza, la libertà, la giustizia, il rispetto e la promozione del bene comune, o – come oggi si prova a fare – lavorando per l’ecologia, la moralità sociale, la pace, nell’ambito di una convivenza nazionale, internazionale e mondiale effettivamente democratica.

5.​​ Il​​ s. dell’educazione.​​ Un concetto di libertà come dato e come compito, una concezione della vita come sviluppo solidale, una visione sociale in cui far rientrare il diritto / dovere di crescita e di qualificazione umana individuale e comunitaria, possono essere utili a dare sbocco positivo alla questione: «ha s. educare?», «ha s. educarsi, formarsi?». Infatti non è subito evidente che l’educazione e la formazione siano senz’altro un valore. Più specificamente si richiede che si risolvano questioni quali il rapporto tra soggettività e oggettività, tra individualità e socialità, tra spontaneità e istituzionalità, tra naturalezza e civilizzazione, tra fattualità e possibilità, tra datità e progettualità, tra privato e pubblico. Resta comunque, a livello di pratiche educative, che aiutare la ricerca di s. è parte integrante del lavoro formativo per il consolidamento della personalità individuale e della buona qualità della vita comunitaria; e, specie per gli adolescenti e i giovani, è fattore di sostegno nella strutturazione dell’identità personale, culturale sociale e professionale.

Bibliografia

De Mauro T.,​​ S. e significato,​​ Bari, Laterza, 1971; Fromm E.,​​ Avere o essere,​​ Milano, Mondadori, 1977; Frankl V. E.,​​ La sofferenza di una vita senza s.,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1982; Gadamer H. G.,​​ La ragione nell’età della scienza,​​ Genova, Il Melangolo, 1982; Nanni C.,​​ L’educazione tra crisi e ricerca di s.,​​ Roma, LAS, 1990; Adler A.,​​ Il s. della vita,​​ Novara, De Agostini, 1990; Laeng M.,​​ Educazione alla libertà,​​ Teramo, Giunti e Lisciani,​​ 31992; Mari G.,​​ Oltre il frammento. L’educazione della coscienza e le sfide del postmoderno,​​ Brescia, La Scuola, 1995; Malavasi P.,​​ Etica e interpretazione pedagogica,​​ Ibid., 1995; Sallis Z.,​​ Il s. della vita, Roma, Edicart, 2006.

C. Nanni




SENSO COMUNE

 

SENSO COMUNE

Termine dai molti significati, dal campo gnoseologico a quello morale, estetico, pratico, accompagnati da diverse e spesso contrastanti valutazioni.

1. La filosofia aristotelica parla di s.c. per indicare la facoltà e l’organo sensitivo fondamentale che permette la coscienza delle sensazioni stesse, cioè di «sentire di sentire» (Arist.,​​ De somn. et vig.,​​ 2, 455 a 13); l’unificazione dei dati dei sensi esterni in un unico atto percettivo (Arist.,​​ De anima,​​ III, 1, 425 a 14); e il loro confronto (Ivi,​​ 427 a). Grazie ad esso si avrebbe la percezione dei contenuti che appartengono ad ogni sensazione (i «sensibili comuni»: la figura, il numero, la grandezza, la posizione, il movimento, ecc.). Più largamente, il s.c. è visto come capacità di giudicare in generale.

2. In​​ ​​ Cicerone (De orat.,​​ I, 3, 12) e in​​ ​​ Seneca (Epistole,​​ 5, 4) il s.c. viene a designare il modo di sentire generale di un popolo, di una nazione, del genere umano, come dirà anche G. B. Vico (Scienza Nuova,​​ 1744, Degnità 12). Tramite esso si può parlare di «consenso universale», perché rimanda a quelle verità su cui acconsente la maggior parte degli uomini, frutto più di tradizione che di riflessione sistematica. Questa posizione nel sec. XVIII è stata teorizzata dalla Scuola Scozzese, soprattutto ad opera di T. Reid (1710-1796), arrivando a quella che fu denominata «filosofia del s.c.». In polemica diretta con il fenomenismo scetticheggiante di D. Hume (1711-1776), ci si rifà al s.c., inteso come «istinto originario», che permette l’intuizione di quelle «credenze» (come l’esistenza del mondo esterno o il principio di causalità), che costituiscono il fondamento di verità di ogni conoscenza riflessa. La percezione, infatti, non è solo apprensione dell’oggetto, ma anche constatazione della presenza diretta e immediata dell’oggetto stesso alla coscienza. Negli ambienti anglosassoni il s.c. era del resto già stato concepito come capacità «istintiva» di valutazione morale (A. A. C. Shaftesbury, 1671-1713) o come disposizione naturale a percepire ed apprezzare immediatamente l’ordine e la regolarità che costituiscono il s. del bello e il «s. della virtù», vale a dire il s. morale originario (F. Hutcheson, 1694-1746). Il s.c. fu criticato da I. Kant, in quanto basato su «concetti oscuramente rappresentati», ma ripreso come principio del gusto, cioè come capacità di giudicare gli oggetti secondo il sentimento (Crit. del Giud.,​​ 20).

3. Nel corso della storia il s.c. è preso in considerazione anche a livello di giudizio pratico. Descartes, all’inizio del​​ Discorso sul metodo,​​ lo accosta al «buon s.». Con tono ironico afferma che «è la cosa del mondo meglio dipartita». Ma egli lo pensa come «facoltà di giudicare rettamente, e di distinguere il vero dal falso» e perciò lo dice sinonimo di «ragione». L’inganno sarebbe frutto di un cattivo uso di esso, in quanto «non basta essere ben forniti di ingegno, quel che più conta è indirizzarlo bene». Così inteso il s.c. è la stessa ragione nel suo uso spontaneo. E può essere vista come «sana ragione», vale a dire come disposizione mentale all’equilibrio e alla misura, specie in funzione pratica, quando c’è da agire o da esprimere giudizi sui problemi della vita in situazione di non immediata evidenza logica. Questa «assennatezza» pratica, che aiuta il discernimento e la presa di decisione in circostanze problematiche, accosta il s.c. alla​​ ​​ prudenza e alla saggezza aristotelica (frónesis),​​ soprattutto per ciò che riguarda la ponderazione dei mezzi rispetto al fine dell’azione.

4. Il s.c., spesso visto negativamente come fonte di pregiudizi e di fissazioni concettuali, come pure di convenzionalismi sociali, è stato rivalutato nel nostro sec. da​​ ​​ Dewey e da G. E. Moore. Il primo mette in luce che il s.c. con le sue tradizioni, indicazioni valoriali, tecniche ed operative, culturalmente codificate, sostanzia le interazioni sociali e quelle con l’ambiente. Il secondo ribadisce che una seria analisi delle convinzioni del s.c. sarebbe molto importante come antidoto alle astruserie filosofiche. Per conto suo K. Popper afferma che «scienza, filosofia, pensiero razionale» devono «cominciare dal s.c.», il quale ovviamente è da assoggettare a critica per farlo assurgere a dignità di conoscenza rigorosa (Objective knowledge,​​ cap. 2). Per altri invece, come G. Bachelard, la ricerca scientifica ha da lottare contro la superficialità, la dogmaticità, l’ingannevolezza del s.c. Oggi, nel contesto del pluralismo e multi-culturalismo contemporaneo, c’è una rivalutazione del s.c. in funzione del fondamento comune alle diverse formulazioni di verità. Si pensi in questa linea alle dichiarazioni sui diritti umani.

5. Dal punto di vista pedagogico il s.c. diventa un luogo classico delle tensioni che attraversano l’apprendimento dei contenuti culturali. L’insegnamento e l’educazione hanno infatti da muoversi sempre tra trasmissione e innovazione, tra assunzione del patrimonio sociale di cultura e personalizzazione critica di esso, tra sostegno all’identità e apertura al nuovo e al diverso, tra stimolazione all’appartenenza di gruppo e sviluppo dell’originalità individuale. A livello metodologico sono inoltre chiamati a favorire la correlazione tra esperienza di cui i soggetti in formazione sono portatori e qualità scientifica della cultura scolastica. Certamente acquista qui il suo giusto peso una solida formazione scientifica, storica, culturale.

Bibliografia

Moore G. E., «In difesa del s.c.», in​​ Saggi filosofici,​​ Milano, Lampugnani Nigri, 1970; Siciliani De Cumis N.,​​ Filologia,​​ politica e didattica del buon s., Torino, Loescher, 1980; Livi A.,​​ Filosofia del s.c.,​​ Milano, Ares, 1990; Cavallini G.,​​ La formazione dei concetti scientifici. S.c.,​​ scienza,​​ apprendimento,​​ Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1995; Di Ceglie R. (Ed.),​​ S.c. e verità. Verso un fondamento comune alle diverse formulazioni di verità, Segni, Editrice EDIVI, 2004.

C. Nanni




senso di COLPA

 

COLPA: senso di

La c. è una deviazione volontaria da ciò che è bene; tale «bene» può essere definito dalla valutazione soggettiva, oppure da un’autorità esterna, come il costume sociale, o leggi scritte di origine umana o superiore. La percezione del bene, comunque giunga alla persona, crea in essa un senso del dovere o coscienza morale. La coscienza morale potrà essere così «autentica», se basata su un quadro personale di valori, e «non autentica» se fondata sull’accettazione cieca di norme imposte dall’esterno, sotto la spinta di minacce di vario genere, interiori o esteriori. In questa linea si potrebbe dire che il «Superego» della tradizione freudiana è un caso tipico di coscienza non autentica o nevrotica.

1. Il senso di c. deriva dalla percezione della deviazione dal bene o dal non-adempimento del dovere, e cioè da una condotta contro coscienza, e consiste in una ferita alla stima di sé; la gravità di questa ferita dipende dalla misura in cui il bene trascurato è vissuto come importante. Contemporaneamente, se si tratta di una trasgressione che può essere rilevata dagli altri, la persona si sente meno degna della stima altrui e prova un sentimento di vergogna. Il senso di c. si sviluppa come conseguenza della coscienza morale, e ne condivide i fattori. Come la coscienza morale, di cui ne segnala la trasgressione, può essere autentico o non autentico e patologico. Nel senso di c. autentico o normale la persona è centrata sui valori interiorizzati con cui si confronta; l’intensità del disagio provato è commisurata all’importanza del bene trascurato; e la persona è portata ad abbandonare la condotta trasgressiva e a perseguire con maggior forza i valori.

2. Il senso di c. non autentico o nevrotico pone la persona di fronte al suo disagio interiore, da cui vuole liberarsi; essa è così centrata su se stessa; spesso la ferita alla propria dignità diventa generale, tanto che è difficile distinguere senso di c. e vergogna. Il più delle volte a questo senso di c. manca la tensione alla correzione e al miglioramento. L’osservanza delle norme diventa fine a se stessa, e la persona, per liberarsi dal disagio interiore (​​ Freud lo chiama «ansietà di coscienza»), cade facilmente in una osservanza puramente materiale o nel perfezionismo. Il fenomeno degli scrupoli è una manifestazione di questi dinamismi perversi.

3. Appare evidente che il senso di c. che abbiamo detto non autentico appartiene all’area delle nevrosi e può essere trattato opportunamente in tale contesto.

Bibliografia

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A. Ronco