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SCUOLA

 

SCUOLA

Il termine s. deriva dal lat.​​ schola,​​ che è prestito operato sul gr.​​ scholé​​ («tempo libero», «esercizio dello spirito»); donde la testimonianza di Festo: «scholae dictae sunt non ab otio ac vacatione omni, sed quod, ceteris rebus omissis, vacare liberalibus studiis pueri debent» (De verborum signifìcatu,​​ 470, 14). Come calco di​​ scholé​​ a​​ ​​ Roma è attestato anche​​ ludus,​​ sempre con il valore di attività concepita al di fuori di ogni fine pratico e intesa, pertanto, sia come gioco sia come esercizio scolastico, prima di carattere privato o domestico e successivamente di carattere pubblico e formalizzato.

1.​​ L’istituzione.​​ Il riferimento alla​​ ​​ Grecia e a Roma è puramente emblematico, in quanto vuole indicare un fenomeno proprio di tutte le civiltà, quello cioè di sostituire l’apprendimento spontaneo o familiare delle giovani generazioni, fondato prevalentemente sull’imitazione degli adulti, con una trasmissione del sapere e della «cultura» affidata all’insegnamento, cui non potevano essere idonei né la famiglia né il gruppo sociale di appartenenza (​​ storia della s.). I materiali culturali, che costituirono i contenuti delle prime forme di istruzione, furono finalizzati alla conservazione delle testimonianze e delle leggi, proprie di ogni comunità, per preservarle nei confronti di altri gruppi. A tale compito vennero delegati gli adulti, quali detentori della cultura del luogo, e in certo modo i garanti della sua autenticità; ad essi si richiese ben presto di calare in forme simboliche i contenuti da trasmettere ai giovani, con il ricorso in particolare ai diversi tipi di linguaggio, alle notazioni matematiche e musicali. Si venne così istituzionalizzando quell’aspetto dell’insegnamento e della s. contrassegnato dalla centralità dell’insegnante e dei contenuti (compresi sotto il termine di «cultura trasmessa»), che costituì la nota dominante della «s. strutturata», detta anche «s. della tradizione».

2.​​ Dalla «s. della tradizione» alla s. dell’allievo.​​ Solo intorno alla metà del sec. XX incominciano ad operare nella s. istanze elaborate anche nel passato, ma rimaste inattive, che porteranno al centro dell’insegnamento non più i contenuti ma il soggetto educando ed apprendente.

2.1.​​ La cultura.​​ Ad essere messa in crisi è innanzi tutto la nozione di​​ ​​ cultura, concepita come «eredità sociale», che al pari della eredità biologica richiama il patrimonio di una tradizione, dove all’uomo è lasciato un ruolo meramente passivo. L’​​ ​​ educazione e 1’​​ ​​ istruzione, in questa accezione di cultura, esercitano una funzione «depositaria», di trasmissione di contenuti già confezionati, che potrebbero valere soltanto se ad una ricezione passiva si sostituisse una ricezione critica, operata dal soggetto destinatario di questa trasmissione, che nella s. è l’allievo. Insieme con queste conoscenze culturali trasmesse da una generazione all’altra, la s. si fa anche carico di mediare il comportamento sociale accettato e di farlo assumere da parte dei giovani. La nozione alternativa di cultura, che è andata via via emergendo anche nella s., fa degli uomini, compresi quelli che si addestrano a diventarlo, non solo dei portatori e delle creature di una tradizione di nozioni e di un sistema di vita, ma dei creatori e manipolatori, capaci di esercitare un ruolo attivo tanto nell’uso di forme simboliche quanto nella costruzione di manufatti: accanto all’homo sapiens​​ è «colto» infatti anche l’homo faber,​​ l’uomo che comprende il mondo, che entra nel «cuore delle cose», per trasformarle a vantaggio dell’uomo. Se alla s. deve spettare il compito specifico di «umanizzare attraverso la cultura» (Perquin, 1967), occorre che questa per prima sia umanizzata, che si ponga cioè dalla parte dell’uomo come operatore di cultura.

2.2.​​ 1 contenuti disciplinari.​​ Quella sorta di «staticità» che ha caratterizzato la «cultura trasmessa» ha influito negativamente anche sull’insegnamento delle singole​​ ​​ discipline o dei loro contenuti; nel proporli infatti agli allievi non si ammetteva il «beneficio del dubbio», essendo i contenuti valutati sempre come certi, definiti ed assoluti. La «falsificabilità» delle teorie scientifiche per lo più non ha indotto gli insegnanti a relativizzare i dati riguardanti la materia dei loro insegnamenti, ad illustrare agli allievi, anche sotto il profilo storico, la provvisorietà che ha segnato il cammino della scienza. Oltre che un errore scientifico, ciò ha provocato uno scarso, o quasi nullo, coinvolgimento creativo degli allievi dinanzi al metodo «affermativo», con cui l’insegnante si rivolgeva ai suoi uditori, nella consolidata forma della «lezione». L’opposto, che rappresenta uno dei momenti fondamentali dell’innovazione scolastica e didattica, si ritrova nel metodo di insegnamento fondato sulla «soluzione di problemi» o, detto altrimenti, sulla ricerca. La quale, prima ancora di essere una tecnica o un espediente per occupare gli allievi, è un atteggiamento nuovo, una mentalità diversa, che accomunano docenti ed allievi, per trarre innanzi tutto un senso del limite proprio delle umane conoscenze. La prassi che deriva da questo atteggiamento consiste dunque nell’affrontare problemi aperti più che soluzioni compiute. L’aspetto problematizzante raccorda tutte le fasi della ricerca, anche nel suo inevitabile impianto tecnico. Essa muove infatti da una serie di interrogativi sull’argomento in questione, per trarne subito un’ipotesi di risposta o una soluzione provvisoria, da verificare successivamente, per formulare una teoria o una legge, se la verifica si è rivelata positiva.

2.3.​​ L’allievo dimezzato.​​ I limiti della nozione di cultura e la relatività dei contenuti disciplinari non hanno impedito alla s. di porsi come momento educativo e di sviluppo dell’allievo. Senonché si è trattato di un’azione fortemente riduttiva, in quanto ha privilegiato solo un aspetto dell’«educazione alla ragione» – che è educazione dell’uomo – cogliendone cioè esclusivamente il momento logico (la «ragione logica» direbbe Maritain) e trascurando la pluridimensionalità dell’esigenza razionale che è insieme intellettuale, affettiva, estetica, fisica, professionale, etico-sociale, creativa e intuitiva. Da una visione della ragione ridotta alla dimensione intellettuale deriva la tendenza a considerare tutte le discipline come «teoriche», aventi cioè come fine la conoscenza, a danno delle discipline per loro natura «pratiche», poiché riguardano le scelte (l’etica e la politica), e delle discipline «produttive» o del «fare» (le arti applicate, le «belle arti»). La stessa soluzione dei problemi, che potrebbe sembrare di tipo esclusivamente intellettuale, comporta nella fase della formulazione di un’ipotesi o di una risposta provvisoria, un intervento di carattere intuitivo, inventivo e creativo, che solo nei momenti successivi dovrà coinvolgere altri aspetti del razionale, come quello logico e operativo. L’innovazione dell’insegnamento dovrebbe coinvolgere insomma l’intero universo delle esperienze dell’allievo, l’intera persona nella pienezza delle sue possibilità.

2.4.​​ L’organizzazione della popolazione scolastica.​​ L’elemento che più manifestamente ha contraddistinto, e contraddistingue ancora, la s. formalizzata e strutturata, si trova nella distribuzione per classi della popolazione scolastica: elemento dell’apparato materiale ma determinante nella conservazione degli aspetti finora segnalati relativi all’insegnamento e di altri ancora. La classe infatti raccoglie gli allievi in un gruppo ritenuto per istituzione «omogeneo», sulla base del principio che ad ogni età cronologica corrisponde un’identica età mentale, distinta dagli stessi processi e ritmi di apprendimento, idonea ad affrontare programmi uguali per tutti gli allievi e tale, infine, da comportare o sopportare gli stessi criteri di valutazione. Il fatto è diventato tanto più grave quanto più la s. si è aperta formalmente a tutti i gruppi sociali, per una sorta di democratizzazione, o di «s. di massa», in cui i più «deboli» non trovano le strutture adeguate al reale sviluppo delle loro potenzialità di apprendimento. Una diversa proposta, per una più «umana» distribuzione degli alunni, è stata avanzata, da alcuni decenni, ed in parte anche realizzata in alcuni Paesi. Essa mira ad una sostituzione dei gruppi-classe con «gruppi di apprendimento» (team-learning),​​ dotati di grande flessibilità per rispondere ai livelli di partenza propri di ogni soggetto, ai ritmi personali di apprendimento, agli interessi di studio e di ricerca. L’iniziativa consente, ad es., che lo stesso allievo possa appartenere, per tempi più o meno prolungati, a gruppi differenti, in base ai criteri accennati, nonché ad esigenze di ricuperi o di interventi su lacune in ambiti particolari. Dalla parte degli insegnanti, ai gruppi di apprendimento dovrebbero corrispondere i «gruppi di insegnamento» (team-teaching),​​ condizione determinante per poter realizzare qualunque innovazione o riforma scolastica. Solo così, infatti, verrebbe meno il rapporto burocratico docente e gruppo-classe per dar luogo a una mobilità fra gli insegnanti, che favorisca da un lato un maggior accordo fra il corpo docente e dall’altro una disponibilità ad aggregazioni diversificate, funzionali alle esigenze delle aggregazioni degli allievi. Ad un’ampia riunione di studenti, per es., finalizzata al dibattito su un particolare problema potrebbe presiedere un solo insegnante, che abbia le qualità di animatore; mentre ad un gruppo, anche ridottissimo, di studio o di ricerca potrebbe essere destinato un gruppo consistente di insegnanti, competenti a rispondere alle esigenze del gruppo. I vantaggi più evidenti di questa nuova organizzazione della s. si registrano soprattutto nell’attenzione rivolta ad ogni singolo allievo, nella reale individualizzazione e nel corrispondente sviluppo delle sue attitudini e capacità, dei suoi interessi e delle sue inclinazioni; e in particolare nella valutazione dei suoi progressi non commisurati ad un profitto standard del gruppo-classe, ma agli effettivi cambiamenti di comportamento dalla fase iniziale a quella conclusiva dell’azione didattica. L’allievo è valutato non comparativamente ad «altri», ma a «se stesso», alla sua «crescita», tenendo conto delle sue capacità ed anche dei suoi limiti e condizionamenti.

3.​​ Le resistenze al cambiamento.​​ Le istanze elaborate dalle teorie sulla s. e sull’apprendimento hanno avuto accoglienze locali diverse: nell’insieme si può dire che la maggior parte dei sistemi scolastici europei ha instaurato una sorta di contaminazione fra s. tradizionale e s. progressiva. Quanto alle cause delle lentezze e talora anche delle resistenze che si riscontrano nell’attuazione del cambiamento, accenneremo a due fenomeni diffusi nei paesi dell’​​ ​​ Europa occidentale: le riforme imperfette e il «conservatorismo» attribuito al corpo docente.​​ 

3.1.​​ Le riforme imperfette.​​ In teoria, il principio vigente nel XIX sec. «ad ogni classe sociale la propria s.» è stato superato dalla istituzionalizzazione della s. come servizio sociale offerto a tutti, e tale pertanto da valorizzare i singoli soggetti in età scolare, con l’estensione dell’obbligo oltre la s. primaria. Di fatto (Farinelli, 2006, 90), il livello di scolarizzazione in Italia rimane preoccupante, se raffrontato con il resto d’Europa: i giovani italiani fra i 18 e i 24 anni che possiedono solo la licenza media e non sono più in formazione sono il 21,9% della loro fascia d’età, a fronte del 12,6% della Francia, del 14,0% della Gran Bretagna, dell’8,7% della Finlandia e del 14,9% della media europea. La ragione è che nella maggior parte dei Paesi d’Europa l’obbligo scolastico è stato elevato fino ai sedici o ai diciotto anni di età, mentre in Italia è stato portato da 14 a 15 anni soltanto nell’a.s. 1999 / 2000. Ma al di là dei dati, anche di quelli che rappresentano un progresso della scolarizzazione, esiste un fenomeno di qualità della s., che non risponde allo sviluppo quantitativo. Se è vero che le riforme, dove sono state realizzate, hanno messo in crisi il modello di «mobilità sociale cooptativa» (l’élite sceglie le proprie reclute sulla base non dei meriti ma delle credenziali derivanti dalle classi sociali di appartenenza: livello economico-culturale, reddito, prestigio), il modello alternativo messo in atto, quello cioè della «mobilità competitiva», che dovrebbe consentire di raggiungere le posizioni più elevate a tutti coloro che vi aspirano, in realtà si rivela un vero meccanismo selettivo, a danno di quanti partono svantaggiati, per le condizioni di disparità in cui si trovano a contendere. I momenti concreti in cui si opera la selezione sono rappresentati dagli aspetti caratteristici della s. tradizionale, che abbiamo già considerato: una certa nozione di cultura, un certo modo di trasmettere i contenuti disciplinari, la distribuzione degli studenti in classi, una valutazione su modelli standard. Il sistema, in tal modo, oltre a conservare il consenso delle classi privilegiate, riesce a conquistare anche quello delle classi svantaggiate, grazie ad una solo apparente promozione. Le une e le altre, pertanto, o meglio i genitori di entrambe le classi, si trovano così d’accordo nel resistere alle riforme qualitative, che la s. e la società reclamano.

3.2.​​ Gli insegnanti.​​ Gli​​ ​​ insegnanti, dalla vasta letteratura che ne affronta il problema, vengono per lo più descritti come non innovatori, deferenti, privi di coraggio, passivi, non competitivi... Ovunque, nel Belgio come nella Costa d’Avorio, nella s. elementare come nella media, gli insegnanti applicano gli stessi schemi di insegnamento e consacrano l’essenziale del loro tempo a trasmettere nozioni o a organizzare la vita in classe (Crahay, 1986, 12-13). Ad essi viene pertanto attribuita la responsabilità delle riforme fallite o mancate, del diffuso malessere della s., dovuto piuttosto agli errori o alle inadempienze delle politiche scolastiche. Posti così in apparenza in una posizione centrale nella questione s., anziché trarne vantaggi in ogni caso discutibili, si vanno sempre più rendendo conto, almeno nell’area dei Paesi dell’Ocse (​​ organizzazioni internazionali), di esercitare una professione non molto prestigiosa, una «professione debole», che non li motiva ad assumere iniziative di innovazione nella s. Contemporaneamente si avverte nei docenti anche una marcata disponibilità ad accettare le critiche, che vengono loro rivolte, sulla loro insufficiente preparazione professionale, sulla scarsa conoscenza della psicologia dell’apprendimento, della psicologia sociale, della sociologia, della metodologia dell’insegnamento. Pertanto, tra gli insegnanti è maturata la coscienza di essere essi stessi il prodotto di un sistema che va radicalmente cambiato nella sua organizzazione e nelle strutture di autorità e di potere che lo sorreggono. Altrimenti, non resta che auspicare paradossalmente il collasso dei sistemi scolastici, perché si possano aprire ai docenti prospettive professionali diverse rispetto a quelle attuali.

4.​​ La s. alternativa.​​ La limitata efficacia dell’istituzione scolastica nell’offrire reali e pari opportunità di istruzione a tutti gli aventi diritto, ha fatto sorgere proposte note sotto il termine di «s. alternativa». La sua formulazione più semplificata consiste nell’indurre le autorità responsabili a mettere a disposizione pari risorse sia per coloro che seguono corsi propedeutici all’università, sia per coloro che intendono spendere le risorse in altri tipi di s. (ad es. di formazione al lavoro), tanto più utili se si pensa come la s. secondaria superiore si riveli mal preparata ad unire i programmi scolastici con l’addestramento professionale. L’uguaglianza di opportunità non si identificherebbe pertanto con l’identità di opportunità o di trattamento, ma con l’offerta di possibilità educative, che armonizzino le attitudini e i livelli di sviluppo degli alunni con le esigenze proprie dei vari compiti di apprendimento. L’attuazione di questa «s. alternativa» comporta, al di là della sua apparente naturalezza, una vera rivoluzione, o quanto meno una grande flessibilità nel sistema formativo, tanto da far pensare ad una vera «descolarizzazione della società» (Illich, 1972). Alle strutture istituzionali Illich intendeva sostituire centri ordinati a creare per gli studenti un rapporto con le «cose» (biblioteche, laboratori, musei), con le «persone» fornite di competenze anche se prive di diplomi, con i «pari» e con gli «anziani», ricchi di esperienza e di saggezza. A questi centri dovrebbero poter accedere quanti intendono spendere le risorse, messe a disposizione dai poteri costituiti, per seguire programmi individuali di apprendimento, accanto a «maestri» scelti dagli interessati e a persone adulte con cui mettere a confronto ciò che vanno imparando. Nei centri, infatti, sono ammessi anche i non più giovani, che, usciti dal sistema scolastico, vogliano rientrare in un modello di formazione adatto ai loro ritmi e ai loro interessi. Nella proposta di Illich è tutta la comunità che viene impegnata, in forme che consentano a studenti di qualsiasi età di stabilire rapporti con una «cultura», che la s. non è in grado di promuovere. A questo coinvolgimento dell’intera comunità si sono ispirate varie iniziative di s. alternative. Si può dire che tutte, pur con modalità, forme e valore diversi, hanno contribuito a far uscire la s., come istituzione, dall’isolamento in cui si era chiusa e a coinvolgere l’intera comunità (genitori, amministratori, forze politiche, sociali e culturali, agenzie territoriali) nella gestione di essa. Rovesciando la formula di Illich «descolarizzare la società», ma rispettandone lo spirito, si può ritenere che le esperienze alternative locali, abbiano ottenuto lo scopo di «socializzare la s.».

Bibliografia

Perquin N.,​​ Algemene didactiek,​​ Uitgevers, Roermond-Maaseik, Romen​​ &​​ Zonen,​​ 1967; Richmond W. K.,​​ La rivoluzione nell’insegnamento,​​ Roma, Armando, 1969; Bertin G. M.,​​ Educazione alla ragione,​​ Ibid., 1971; Bloch J. H. (Ed.),​​ Mastery learning. Procedimenti scientifici di educazione individualizzata,​​ Torino, Loescher, 1972; Goodlad J. I. - R. H. Anderson,​​ The nongraded school. S. senza classi,​​ Ibid., 1972; Illich I.,​​ Descolarizzare la società,​​ Milano, Mondadori, 1972; Levi G. - J. C. Schmitt,​​ Storia dei giovani,​​ Bari, Laterza, 1994; Gasperoni G.,​​ Diplomati e istruiti. Rendimento scolastico e istruzione secondaria superiore, Bologna, Il Mulino, 1996; Bonetta G.,​​ Storia della s. e delle istituzioni educative, Firenze, Giunti, 1998; Brint S.,​​ S. e società, Bologna, Il Mulino, 1999; Farinelli F. (Ed.),​​ La s. in cifre 2006, Roma, Ministero della Pubblica I., Direzione Generale Studi e Programmazione, 2006.

G. Proverbio




SCUOLA AGRICOLA

 

SCUOLA AGRICOLA

Riunisce, come poche istituzioni educative, le due componenti di ogni insegnamento: quella teorica (apprendimento scolastico) e quella pratica (applicazione di tutte le scienze studiate: fisica, chimica, biologia, botanica, zoologia, mineralogia... e l’acquisizione di abilità manuali).

1. Per questo tipo di insegnamento è essenziale la disponibilità di un appezzamento di terreno ove fare sperimentazione, sia nello stesso giardino della s. (per ogni tipo di s.a.) sia, ai livelli superiori, in campi lavorati con la supervisione di esperti. Il curricolo tradizionale comprende, almeno, lo studio del suolo, delle piante, del clima e visite ad aziende modello. Oggi bisogna aggiungere anche le tecniche artificiali di coltivazione ed irrigazione, le malattie delle piante, la applicazione generalizzata della chimica, lo studio dei macchinari, del mercato agricolo, della legislazione, e la conoscenza delle fonti di informazione. Ovviamente contro questa concezione si sta aprendo la strada alla cosiddetta «agricoltura ecologica o biologica», che ricerca un insegnamento mirato alla produzione agricola tradizionale senza l’impiego della chimica, che non è però regolata ancora da nessuna legislazione. La s.a. offre un’occasione importante per l’apprendimento del lavoro in​​ équipe,​​ germe del futuro cooperativismo agricolo che è ormai un fenomeno da cui non si può prescindere.

2. Fino alla fine degli anni ’30 del XX sec. la politica della formazione professionale in agricoltura seguì l’evoluzione del​​ ​​ sistema formativo di ogni nazione. Ma già nel IV Congresso Internazionale di Insegnamento Agricolo (Roma) si chiese che la s. primaria istruisse il futuro agricoltore nella conoscenza delle cause e dei fondamenti scientifici che sono alla base della sua attività e si opponesse alle cause economiche e morali che contribuivano allo spopolamento dei campi.​​ ​​ Organizzazioni internazionali come l’Unesco, l’Ocde e l’Oit, con i loro studi e le loro Raccomandazioni, hanno portato ad una politica unificata nelle sue linee generali, secondo cui la s.a. si è andata spostando dal livello elementare o di secondaria di primo ciclo a quello della secondaria superiore professionale; inoltre la cultura generale ha assunto una rilevanza sempre più grande nel curricolo. Nell’Unione Europea, dal Trattato di Roma del 1957 fino al 1971, si può solo parlare di «principi comuni» di formazione professionale in seguito anche a «programmi di attività», benché solo a partire dal 1992 l’educazione abbia un riconoscimento giuridico nei diversi Trattati. Sul piano amministrativo la competenza sulla s.a. tende ad essere dispersa tra vari Ministeri (dell’Istruzione, del Lavoro, dell’Agricoltura).

Bibliografia

V Congresso Internazionale dell’insegnamento agrario,​​ Roma, CITA, 1975;​​ Raimbault R. N. et al.,​​ Enseignement agricole et Tiers Monde,​​ Paris,​​ AFDI, 1989;​​ Rivero J. M.,​​ Profesionalización del agricultor y formación de técnicos,​​ Valencia, Generalitat, 1992; Prellezo J. M., «Le s. professionali (1880-1922)»,​​ in​​ L’educazione salesiana dal 1880 al 1922. Istanze e attuazioni in diversi contesti, a cura di J. G. González et. al., vol. 1, Roma, LAS, 2007, 53-94.

V. Faubell




SCUOLA CATTOLICA

 

SCUOLA CATTOLICA

La s.c. è una​​ ​​ s. libera che si propone finalità di educazione, e non di lucro, nel quadro di un progetto educativo fondato sui valori della fede cattolica.

1.​​ L’evoluzione.​​ L’attuale quadro di iniziative che rientrano nell’ambito della s.c., presenta​​ radici​​ storiche assai profonde che sono connesse con l’impegno culturale svolto dalla Chiesa nei secoli. In sintesi è sufficiente richiamare il ruolo delle abbazie benedettine, delle parrocchie, delle università della vecchia Europa, delle s. nate nel contesto del risveglio suscitato dal Concilio di Trento, degli ordini e delle congregazioni che si sono dedicate all’apostolato nell’istruzione ed educazione dei giovani. Passando a tempi più recenti e all’Italia, è opportuno ricordare due contributi della s.c. allo sviluppo del nostro​​ ​​ sistema educativo. Il principale è quello della​​ popolarità​​ da intendersi a sua volta in un duplice senso: come rispetto dell’esperienza di un popolo che ha maturato un impianto di valori che ne hanno plasmato la cultura propria e al cui interno la prospettiva religiosa assume una rilevanza centrale anche per scopi di educazione; come riscatto economico, culturale, sociale e politico a servizio degli ultimi e contro ogni pretesa di egemonia. L’altro tratto dell’esperienza storica della s.c. va identificato nel contributo offerto alla​​ modernizzazione​​ del Paese.

2.​​ La s. nella missione della Chiesa.​​ La Chiesa educa alla fede e fa maturare una cultura cristiana ricorrendo a varie strategie. Tra queste va menzionata la s.c. che contribuisce alla missione pastorale in base alla sua caratteristica propria dell’essere s. che consiste nella formazione alla ricerca della verità, alla riflessione critica e al sapere scientifico secondo le dimensioni dell’organicità e della sistematicità. Essa anzi è​​ strumento privilegiato​​ in quanto tra i luoghi in cui avviene l’incontro tra la Chiesa e i giovani nessuno si presenta così ampio, quotidiano e incisivo. Da questa relazione discendono i tratti distintivi della​​ identità ecclesiale della s.c.​​ Essa è vero soggetto ecclesiale in quanto verifica in sé le dimensioni essenziali dell’essere Chiesa, anche se in modo qualitativo piuttosto che quantitativo. Se la Chiesa è anzitutto comunione e se la luce del Vangelo consente di cogliere la verità profonda sull’uomo, la s.c. non può che essere un ambiente comunitario permeato dallo spirito cristiano di libertà e di carità (v.​​ GE, 8). La​​ ricaduta pastorale​​ del rapporto tra Chiesa e s.c. va ricercata in due direzioni principali. Anzitutto la Chiesa è chiamata ad aiutare la s.c. a custodire e ad attuare la propria identità in comunione con tutte le altre realtà ecclesiali. A sua volta la s.c. è invitata a fare la sua parte, impegnandosi in modo solidale e corresponsabile a percorrere il cammino pastorale della Chiesa locale senza chiusure e isolamenti secondo la modalità propria di un servizio formativo di una fede che si fa cultura.

3.​​ Il progetto educativo della s.c.​​ Esso delinea un iter formativo che è cammino al tempo stesso di verità, di libertà e di carità. La s.c, ispirandosi a un modello aperto di razionalità, deve promuovere l’assimilazione critica e sistematica del sapere e nell’attuazione di questo compito si presenta come comunità educante che punta al coinvolgimento di tutti nell’opera formativa, alla gestione sociale da parte della comunità cristiana e alla vocazione a produrre cultura educativa. Il progetto della s.c. pone al centro l’educando e assume come elemento insostituibile la mediazione personale dell’educatore tra competenza ed esperienza di fede. Indubbiamente ai​​ ​​ genitori spetta il diritto-dovere di scegliere per i propri figli la s. che fornisca l’educazione più conforme alle loro convinzioni (CIC, can. 797) ma i figli anche vanno posti nella condizione di prendere parte alla scelta; a loro volta gli insegnanti possono liberamente scegliere dove svolgere la loro attività professionale. Per assicurare il carattere della s.c. è conveniente la presenza simultanea di sacerdoti, religiosi, religiose e laici che la rende più adeguata a realizzare la sua missione di educare alla fede, in quanto ne fa un riflesso della ricchezza e varietà della comunità ecclesiale. Al diritto dei genitori e dei figli a una​​ reale libertà di educazione​​ corrisponde il dovere dei pubblici poteri di renderne effettivo l’esercizio mediante sovvenzioni. Tale obbligo va visto nel quadro dell’osservanza della giustizia distributiva e del rispetto del principio di sussidiarietà che esclude ogni forma di monopolio scolastico. Pertanto, la s.c. in quanto s. delle famiglie e della comunità chiede di essere trattata in modo realmente paritario, senza privilegi, ma anche senza discriminazioni. La s.c. è diffusa in tutto il mondo e tra il 1980 e il 2000 si riscontra una crescita di oltre il 30% sia delle s. (+30,1%) sia degli alunni (+32%): più precisamente le prime si avvicinano ormai alle 200.000 unità e i secondi hanno superato i 45 milioni (Malizia - Cicatelli, 2004, 212-215). In Italia, nel 2005-06 gli iscritti alle s. dell’infanzia di ispirazione cristiana sono circa 600.000, quelli delle elementari, medie e superiori circa 400.000 e quelli della Formazione Professionale oltre 56.000: i dati indicano una forte crescita nell’ultimo decennio per la scuola dell’infanzia, una crescita minore per la formazione professionale e un leggero calo per gli altri ordini di scuola (Malizia - Cicatelli - Pieroni, 2007, 75). Sul piano qualitativo, ricerche fuori dell’Italia evidenziano un rendimento degli alunni più elevato delle s.c. che sarebbe da attribuire al loro modello di organizzazione di tipo comunitario (Ribolzi, 1997). Per quanto riguarda il nostro Paese un sondaggio del 1999 mette in risalto che la s.c. è percepita come​​ un’opportunità formativa​​ che aumenta le possibilità dei giovani di autorealizzarsi e quelle dei genitori di esercitare meglio le loro responsabilità di padri e madri (Stenco et al., 2001).

Bibliografia

Gravissimum educationis, Concilio Vaticano II, Roma, 1965; S. Congr. per l’Educazione Cattolica,​​ La s.c., Città del Vaticano, 1977;​​ Id.,​​ La s.c. oggi in Italia, Roma, 1983; Id.,​​ La presenza della s.c. in Italia,​​ Brescia, La Scuola, 1992; Ribolzi L.,​​ Il sistema ingessato, Ibid., 1997; Id.,​​ La s.c. alle soglie del Terzo Millennio, Città del Vaticano, LEV, 1998; Cssc-Centro Studi per la S.C.,​​ Per un progetto di s. alle soglie del XXI secolo. S.c. in Italia. Secondo rapporto, Brescia, La Scuola, 2000; Stenco B. et al., «Gestori, docenti, genitori e studenti di fronte alla qualità», in Cssc-Centro Studi per la S.C.,​​ Per una cultura della qualità. Promozione e verifica. S.c. in Italia. Terzo rapporto,​​ Ibid., 2001, 157-188; Malizia G. - S. Cicatelli, «La s.c. nel contesto ecclesiale e civile», in Id.,​​ Dirigere e coordinare le s. S.c. in Italia. Sesto rapporto, Ibid., 2004, 203-234; Malizia G. - S. Cicatelli - V. Pieroni,​​ La s.c. in cifre. Anno 2005-06, Roma, Centro Studi per la S.C., 2007.

G. Malizia - S. Cicatelli




SCUOLA DELL’INFANZIA

 

SCUOLA DELL’INFANZIA

Con questa espressione, nel passato usata in maniera alternativa rispetto a quella classica di «s. materna», si indica la s. che accoglie ed educa i bambini dai tre ai sei anni.​​ 

1. Le prime s. infantili, poi chiamate «asili», sono nate in Italia nella prima metà dell’Ottocento (1830 circa) per iniziativa del sacerdote cremonese Ferrante​​ ​​ Aporti ed ebbero una rapida diffusione nell’età risorgimentale. Nel corso dello stesso secolo ad esse si affiancarono i giardini d’infanzia froebeliani, poi rinnovati e ricostruiti pedagogicamente da Rosa e Carolina​​ ​​ Agazzi e dal 1907 in poi le​​ Case dei bambini​​ montessoriane. Nel 1914 gli asili e i giardini infantili italiani ebbero i loro primi programmi, in cui si precisava che essi sono prima di tutto istituti di educazione e come tali si sono affermati nel corso del Novecento fino a giungere alla legge istitutiva della s. materna statale del 1968 (n. 444), ed agli​​ Orientamenti dell’attività educativa nelle s. materne statali​​ del 1969 e poi del 1991, che ne hanno ridefinito la natura, la specificità e l’identità e che sono alla base delle «Indicazioni Nazionali per i Piani Personalizzati delle attività educative nelle s.d.i.», legate alla L. 53 / 2003.

2. La s.d.i. si configura come un’istituzione scolastica connotata dal rapporto che intercorre tra la flessibilità, l’inventività didattica e «l’intenzionalità», chiamata a promuovere l’educazione integrale della personalità infantile e quindi un’equilibrata maturazione e organizzazione (per non dire sinergia) delle componenti affettive, sociali, religiose, e ad aiutare il bambino nell’acquisizione «di capacità logiche e di competenze di tipo comunicativo, espressivo e operativo», tenendo presenti la variabilità individuale dei ritmi, dei tempi e degli stili di apprendimento, le motivazioni e gli interessi personali. L’identità dell’istituzione è data infatti dall’attenzione per la centralità del bambino, come soggetto attivo e protagonista del suo apprendimento (individuale e cooperativo), che interagisce con gli adulti e con i «pari» e da un insieme di elementi che si influenzano vicendevolmente quali la particolarità del curricolo e / o del piano educativo, il rapporto tra esperienze e sistemi simbolico-culturali, le finalità, la qualità dell’organizzazione, della mediazione didattica, della relazione e della comunicazione, la valorizzazione dell’attività ludica, ludiforme «di lavoro» e di vita quotidiana e della collaborazione tra s. e famiglia e altri «servizi» educativi per l’infanzia.

Bibliografia

Macchietti S. S.,​​ La s. infantile tra politica e pedagogia dall’età aportiana ad oggi, Brescia, La Scuola, 1985; Scurati C. (Ed.),​​ Infanzia scenari di s., Ibid., 2003; Id.,​​ Infanzia famiglia s. Comunità e comunicazione, Ibid., 2005; Id.,​​ A s. per l’infanzia, Ibid., 2006.

S. S. Macchietti




SCUOLA DI FRANCOFORTE

 

SCUOLA DI FRANCOFORTE

Istituzione di ricerca sociale che ha avuto vasta eco nella critica alla cultura occidentale contemporanea.

1. L’Institut für Sozialforschung,​​ aggregato all’Università di Francoforte, fu fondato nel 1924. Nel 1930 ne divenne direttore M.​​ Horkheimer​​ che diresse anche la rivista dell’Istituto «Zeitschrift für Sozialforschung» dalla fondazione (1932) alla cessazione delle pubblicazioni (1938). Dell’Istituto fecero parte Th. W. Adorno, H. Marcuse, F. Pollock,​​ ​​ Fromm,​​ ​​ Bettelheim ed altri, tra cui specialmente W. Benjamin. A causa del nazismo nel 1938 l’Istituto si trasferì negli USA, ospitato dalla Columbia University. Con il ritorno nel 1950 a Francoforte, per l’impulso di M. Horkheimer (1895-1973) e Th. W. Adorno (1903-1969), l’Istituto fece «scuola». J. Habermas (n. 1929) se ne può considerare il prosecutore più autorevole.

2. La ricerca sociale della S.d.F. è organizzata secondo un approccio ultra-disciplinare che tiene conto di filosofia, psicoanalisi, economia, storia delle idee, ricerca empirica. Inizialmente si riferì principalmente al marxismo, ma esso stesso, specie di fronte agli esiti dello stalinismo, venne messo radicalmente in questione. La «teoria critica» della società (terminologia introdotta da Horkheimer nel 1937), connette l’indagine socio-economica con quella degli apparati ideologici e culturali in una prospettiva di emancipazione da ogni alienazione e dominazione per una società libera e razionale. Sono famosi gli studi sulla famiglia, sulla personalità autoritaria, sull’antisemitismo e sul razzismo. Soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, gli autori della S.d.F. accomunarono il totalitarismo nazi-fascista e stalinista al capitalismo tecnocratico, nella stessa radice di «eclisse della ragione», iniziata con l’ambigua «dialettica dell’illuminismo», in cui la ragione scientifica sarebbe stata ridotta a «ragione strumentale» e dominata da una logica efficientistico-tecnocratica, manipolatrice di uomini e cose, supporto ideologico al capitalismo delle multinazionali e a quello di Stato.

3. Rispetto a tali esiti, si può collocare l’affermazione di Horkheimer relativa alla «nostalgia del totalmente altro» e la ricerca di H. Marcuse di un «nuovo sensorio» (un nuovo modo di vedere e di pensare più attento alla dimensione estetica), così come la ricerca di J. Habermas per una ermeneutica finalizzata ad una società della comunicazione e del dialogo democratico. Nella linea francofortese si è mossa (e in vario modo ancora si riferisce) la​​ ​​ critica didattica e pedagogica; e ad essa si è ispirata la pedagogia dell’​​ ​​ emancipazione.

Bibliografia

Schmidt A. - G. E. Rusconi,​​ La S.d.F. Origine e significato attuale,​​ Bari, De Donato, 1972; Geninazzi L.,​​ Horkheimer & C.: gli intellettuali disorganici,​​ Milano, Jaca Book, 1977; Bedeschi G.,​​ Introduzione a la S.d.F.,​​ Roma / Bari, Laterza,​​ 22005.

C. Nanni




SCUOLA LAICA

 

SCUOLA LAICA

L’idea di s.l. può ben dirsi una tipica «invenzione» francese. A partire dal 1880, i governi della Terza Repubblica adottarono, nel volgere di pochi anni, una serie di provvedimenti miranti ad avviare, in opposizione alla precedente legislazione favorevole alla Chiesa cattolica, un processo di laicizzazione scolastica.

1. È da ricordare, in special modo, la L. del 29 marzo 1882, proposta dal titolare della Pubblica Istruzione J. Ferry, con la quale s’introduceva il principio dell’obbligatorietà della frequenza della s. elementare e, nel medesimo tempo, si aboliva dai programmi l’insegnamento della religione a vantaggio di quello della morale «laica». In Francia la laicità scolastica conservò, per lungo tempo, un carattere oltranzistico, fortemente anticlericale. Essa, con tutto il suo carico di polemiche e lacerazioni, divenne una bandiera agitata anche in altri paesi di tradizione neo-latina (per es., l’Italia) o particolarmente sensibili all’influsso francese (come nel caso del Belgio), dove il contenzioso fra Stato e​​ ​​ Chiesa nel secondo ’800 andò via via crescendo d’intensità.

2. Nel contesto nazionale italiano si possono schematicamente individuare tre fasi, da non interpretarsi però in modo rigido, del cammino dell’idea laica in campo scolastico. La​​ prima,​​ corrispondente agli anni della formazione dello Stato unitario, in cui fu sempre più vivo l’intento dei governi liberali di rivendicare l’autonomia della s. pubblica (allora ordinata dalla L. Casati del 13 novembre 1859) nei confronti dell’influsso esercitato su questa dalla Chiesa cattolica, come documentavano, fra l’altro, i​​ Programmi​​ per le elementari del 1867, dove non vi era espressa menzione per la religione; la​​ seconda,​​ relativa al periodo compreso tra l’ascesa al potere della Sinistra (1876) e la cosiddetta età giolittiana (inizio Novecento), quando, sotto l’influsso dello scientismo positivistico, risultò evidente l’ulteriore sforzo di laicizzare l’insegnamento pubblico (basti citare, mentre era in carica il ministro M. Coppino, la L. del 23 giugno 1877, che aboliva i direttori spirituali nelle s. secondarie e quella del 15 luglio 1877, sull’​​ ​​ obbligo scolastico, che introduceva nell’elementare le «prime nozioni dei doveri dell’uomo e del cittadino» al posto dell’istruzione religiosa); la​​ terza,​​ successiva alla guerra e al ventennio fascista (durante il quale era stato anche ripristinato l’insegnamento della religione cattolica in tutti gli ordini e gradi del sistema scolastico), allorché nell’Italia democratico-repubblicana andò facendosi gradualmente strada, pur fra incertezze, tortuosità e polemiche a non finire, un ideale di s.l. come ambiente di promozione personale dell’alunno, fuori da qualsiasi tentazione d’indottrinamento e da superate, ancorché impossibili, neutralità.​​ 

3. Molti studiosi dei problemi scolastici oggi convengono circa l’esigenza di accantonare definitivamente ogni forma di «archeo-laicità», con il suo ingombrante fardello di razionalismo e di anticlericalismo, per accedere invece a una «laicità aperta» o «del confronto». Secondo quest’ultima prospettiva, per s.l. possiamo allora intendere un modello scolastico fondato «sul concorso di tutti e aperto a tutti», in cui, lungi dall’assumere «una determinata visione del mondo» per imporla agli studenti o dal promuovere «un mortificante quanto illusorio silenzio sulle questioni che dividono», ci si prefigge di sollecitare in ciascun soggetto la maturazione di attitudini riflessive e la disponibilità «a confrontarsi con le posizioni degli altri» (Pazzaglia, 1977, 409). Una concezione del genere annovera pertanto fra i suoi caratteri distintivi: il pluralismo nelle istituzioni, lo spirito critico, la dimensione dialogica, la ricerca culturale sull’intero arco dell’esperienza umana. L’ultimo tratto indicato consente di precisare che la vera s.l., proprio perché non censura nessun aspetto della vicenda storica ed esistenziale dell’uomo, avvia il discente, in maniera adeguata sul piano pedagogico e didattico, allo studio anche del fenomeno religioso nelle sue complesse espressioni e istanze. In un contesto di società multietnica e multireligiosa come la nostra, lo statuto di laicità è l’unico in grado di assicurare un’esperienza educativo-scolastica aperta, promovente e rispettosa di tutte le esperienze. Entro questa cornice teorico-programmatica vanno anche affrontati problemi di non semplice soluzione, come la presenza intra-scolastica dei simboli religiosi, espressione di appartenenza identitaria. Negli ultimi anni, a seguito dei sempre più massicci fenomeni immigratori, con forte incremento degli islamici, il dibattito sulla questione si è acceso pure in Italia. La via d’uscita richiede, da ogni parte, il superamento di posizioni oltranzistiche, a vantaggio di una visione pluralistica della s., dove tutti hanno diritto di cittadinanza, nel rispetto però delle regole di convivenza democratica, costituzionalmente sancite.

Bibliografia

Tomasi T.,​​ L’idea laica nell’Italia contemporanea (1870-1970),​​ Firenze, La Nuova Italia, 1971; Jouguelet P.,​​ Laicità,​​ libertà e verità,​​ Brescia, La Scuola, 1976; Pazzaglia L., «Laicità e s.», in​​ Laicità. Problemi e prospettive,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1977, 407-429;​​ Società civile s.l. e insegnamento della religione,​​ Brescia, Queriniana, 1983; Caimi L., «Laicità», in E. Berti - G. Campanini (Edd.),​​ Dizionario delle idee politiche,​​ Roma, AVE, 1993, 417-427; Galli N.,​​ I​​ «nuovi cantieri della laicità» nell’attuale riflessione d’oltralpe,​​ in «Pedagogia e Vita» (1995) 2, 8-10; Cambi F.,​​ Alla ricerca di una nuova laicità: tra ripresa della tradizione e rilancio del modello laico,​​ in «Scuola e Città» (1995) 8, 363-366;​​ Baubérot J.,​​ Laïcité 1905-2005,​​ entre passion et raison, Paris, Éditions du Seuil, 2004; Coq G.,​​ La laïcité,​​ principe universel, Paris, Éditions du Félin, 2005; Savagnone G.,​​ Dibattito sulla laicità.​​ Alla ricerca di una identità, Leumann (TO), Elle Di Ci, 2006; De Giorgi F.,​​ Laicità europea. Processi storici,​​ categorie,​​ ambiti, Brescia, Morcelliana, 2007; Scola A.,​​ Una nuova laicità. Temi per una società plurale, Venezia, Marsilio, 2007.​​ 

L. Caimi​​ 




SCUOLA LIBERA

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SCUOLA LIBERA

La terminologia più diffusa distingue tra s.​​ privata​​ e pubblica secondo che sia istituita da privati, singoli o istituzioni, o dal potere pubblico, mentre alcuni parlano di s.​​ statale​​ e non, ma ambedue le definizioni non sembrano del tutto adeguate perché nel primo caso l’appellativo di pubbliche non può essere negato a s. che, pur nate dall’iniziativa privata, offrono un servizio a tutti, e nel secondo va osservato che non in ogni Paese le s. sono dello Stato e inoltre la categoria «non statale», oltre ad essere una definizione negativa, per esclusione, risulta molto eterogenea dato che raggruppa un’ampia gamma di s., da quelle degli enti pubblici a quelle private con scopo di lucro. Un’altra terminologia di area francese usa l’espressione s.l. per indicare programmi formali di educazione istituiti e gestiti da privati, singoli o enti, con finalità di interesse pubblico o di profitto. Essa non implica alcun giudizio negativo nei confronti della s. pubblica, quasi che lì non fosse rispettata la libertà, ma vuole sottolineare che la s.l. costituisce una manifestazione del diritto dei cittadini all’iniziativa in campo educativo.

1.​​ La situazione italiana.​​ Nel primo cinquantennio dello Stato unitario ha dominato il principio del​​ monopolio statale.​​ Durante il fascismo la riforma​​ ​​ Gentile del 1923 e, soprattutto, la L. n. 86 / 42 introdussero la normativa sul​​ riconoscimento legale​​ dei titoli di studio conseguiti nelle s.l., a condizione della conformità degli ordinamenti didattici a quelli delle corrispondenti s. statali. La​​ Costituzione repubblicana​​ ha inserito dal 1948 il sistema educativo in un quadro nuovo di principi. L’ordinamento scolastico è finalizzato al pieno sviluppo della persona umana all’interno di una concezione pluralista della società e svolge la sua funzione in connessione inscindibile con l’attività delle comunità naturali e delle formazioni sociali in cui avviene la maturazione dell’individuo, soprattutto con la famiglia. Esso va organizzato secondo i principi di libertà e di democrazia in vista soprattutto della realizzazione di tre diritti: all’educazione, alla libertà d’insegnamento, alla libertà d’iniziativa scolastica. Il punto più problematico è rappresentato dalla clausola contenuta nell’art. 33 secondo la quale il diritto di istituire s. è riconosciuto ad enti e privati​​ senza oneri per lo Stato.​​ Grosso modo le interpretazioni possono essere raccolte intorno a tre nuclei. Per alcuni la clausola sancisce il diritto di istituire s.l., ma vieta allo Stato di erogare loro finanziamenti. Secondo altri la normativa intende semplicemente escludere un diritto costituzionale dei privati ai contributi dello Stato; essa però non vieta qualsiasi aiuto pubblico alle s. libere. Altri infine ritengono che la tesi del divieto è in contraddizione con il resto della nostra costituzione scolastica. Per oltre 50 anni il dettato della carta fondamentale che, tra l’altro, richiedeva l’emanazione di una legge sulla parità delle s. non statali, è rimasto inattuato,​​ nonostante l’invito della Corte Costituzionale nel 1958 a provvedere con sollecitudine. Solo nel​​ 2000​​ la L. n. 62 ha introdotto una​​ parità parziale e imperfetta. Gli aspetti problematici riguardano soprattutto il concreto della vita scolastica: la realizzazione del tutto inadeguata della libertà di educazione della famiglia; l’ambiguità presente già nel titolo che mescola parità e diritto allo studio e all’istruzione; l’affermazione di principi giuridici di per sé validi ma di cui non viene valorizzata tutta la potenzialità pratica. Al tempo stesso risultano apprezzabili alcuni aspetti fondamentali di carattere giuridico quali: la consacrazione in legge del principio di un sistema nazionale di istruzione che non si identifica con la s. dello Stato e degli Enti locali, ma del quale sono parte integrante s. statale e l.; il riconoscimento del servizio pubblico delle s. paritarie; la libertà culturale e pedagogica con il diritto di dichiarare nel progetto educativo la propria ispirazione culturale o religiosa; la libertà del gestore di scegliere il personale dirigente e docente, purché fornito di abilitazione. Benché la quasi totalità delle s.l. siano divenute paritarie, rimane, tuttavia, molto bassa la percentuale degli alunni che le frequentano sul totale degli allievi del sistema scolastico: appena il 10.6% che, è vero, diviene nelle s. dell’infanzia il 35.4%, ma negli altri livelli non supera il 6% (5.8% nelle elementari e 5.2% nelle superiori) o nel caso delle medie raggiunge solo il 3.4% (Relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della L. 10 marzo 2000, n. 62, 2004).​​ 

2.​​ Lo scenario a livello mondiale.​​ Il riconoscimento reale e pieno della libertà di educazione può contare almeno su tre​​ giustificazioni:​​ il diritto di ogni persona ad educarsi e a essere educata secondo le proprie convinzioni e il correlativo diritto dei genitori di decidere dell’educazione e del genere d’ istruzione da dare ai loro figli minori; il modello dell’educazione permanente la cui attuazione è assicurata non solo dalle istituzioni formative statali, ma anche da una pluralità di strutture educative pubbliche o private che, in quanto operano senza scopo di lucro, hanno diritto di ricevere adeguate sovvenzioni statali; l’emergere nelle dinamiche sociali fra Stato e mercato di un «terzo settore» o del «privato sociale» che, creato dall’iniziativa dei privati e orientato a perseguire finalità di interesse generale, sta ottenendo un sostegno sempre più consistente dallo Stato a motivo delle sue valenze solidaristiche. Vari fattori hanno spinto i governi ad interessarsi a forme di privatizzazione dell’istruzione tra cui, fra l’altro, una certa superiorità della s.l. rispetto alla pubblica circa il profitto degli allievi, evidenziata dalla ricerca. Tra i​​ regimi giuridici​​ della libertà di educazione una formula che contrasta con criteri di eguaglianza sostanziale è costituita dal monopolio dello Stato che relega le s.l. in una posizione marginale, escludendole tra l’altro dai finanziamenti pubblici. Tra i modelli accettabili vanno ricordati: il sistema integrato di servizio scolastico che è caratterizzato dall’integrazione e dal coordinamento nell’unico servizio pubblico delle s. predisposte dai pubblici poteri e di quelle istituite e / o gestite da soggetti diversi, purché dirette al fine di educazione; il regime delle convenzioni che consiste in un’associazione dell’iniziativa privata al servizio pubblico, a metà strada fra l’indipendenza e l’integrazione; il buono s., purché sia subordinato a condizioni che garantiscano l’eguaglianza delle opportunità. Da ultimo, una ipotesi recente che potrebbe rivelarsi molto valida propone il passaggio da una s. sostanzialmente dello Stato a una s. della società civile con un perdurante ed irrinunciabile ruolo dello Stato, ma nella linea della sussidiarietà.

Bibliografia

Ribolzi L.,​​ Il sistema ingessato, Brescia, La Scuola, 1997; Rescalli G.,​​ La s. privata nell’Unione Europea, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1999;​​ Fernández A. et al.,​​ El estado de las libertades educativas en el mundo, Madrid, Santillana, 2002; Malizia G., «La legge 62 / 2000 e la libertà di educazione. Quali prospettive?», in Cssc-Centro Studi per la S. Cattolica,​​ A confronto con le riforme. S. cattolica in Italia. Quarto Rapporto, Brescia, La Scuola, 2002, 57-72;​​ Relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della legge 10 marzo 2000,​​ n. 62, Roma, Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, 2004.

G. Malizia - S. Cicatelli




SCUOLA NORMALE

 

SCUOLA NORMALE

Antica istituzione scolastica pubblica per la formazione dei maestri della s. elementare. Nata nel contesto socio-politico e culturale che ha favorito la diffusione dell’​​ ​​ alfabetizzazione popolare.

1. Il​​ Regolamento scolastico​​ di Maria Teresa (1774) precisa che sono s.n. quelle che devono servire da modello a tutte le s. della provincia; in esse «saranno i maestri istruiti in tutte le cose necessarie o almeno saranno approvati quelli che altrove averanno imparato» (art. 2). L’espressione viene ripresa da Lakanal nel rapporto alla Convenzione: sostiene che le s.n. devono essere​​ «le type et la règle de toutes les autres».​​ Nel 1795 è creata a Parigi la prima s.n. francese, in cui cittadini già istruiti possano imparare «l’art d’enseigner» (art. 1), che ha vita breve; nel 1815, Napoleone stabilisce la creazione di una​​ «École d’essai d’éducation primaire, organisée de manière à pouvoir servir de modèle et à devenir école normale, pour former des instituteurs primaires». Gradualmente alla s.n. vengono additati due scopi: l’istruzione e la​​ ​​ formazione professionale.

2. Le esperienze austriache e francesi influiscono in altri Paesi, come Spagna e Italia per opera del p. Soave. In Piemonte la s.n. è preceduta dalla s. di​​ ​​ metodo. La L. Casati (1859) prevede la creazione di «nove s.n. per gli allievi maestri» e altrettante per le allieve maestre. I corsi hanno la durata di due anni (per la patente di grado inferiore, che abilita all’insegnamento nella la​​ e 2a​​ classe elementare) o tre anni (patente di grado superiore, per l’insegnamento nella 3a​​ e 4a​​ classe elementare). Il programma triennale del 1867 comprendeva: religione, morale, pedagogia, lingua e lettere italiane, geografia, aritmetica, scienze naturali, storia, disegno, calligrafia, esercizi militari, canto e ginnastica. Nelle s.n. per le maestre si aggiungeva l’insegnamento dei «lavori propri al sesso femminile». Per tutti era obbligatorio un periodo di tirocinio. Nei programmi del 1883, Baccelli ribadisce che la s.n. è un «istituto pedagogico, nel quale non basta comunicare agli alunni una data quantità di nozioni», ma è necessario pure che essi «apprendano il modo di comunicarle efficacemente», sì da «preparare alla società abili maestri e buoni educatori».

3. All’esigenza di una migliore formazione professionale risponde la centralità dell’insegnamento della pedagogia nei nuovi programmi del 1888 e l’istituzione, nel 1890, del Corso preparatorio, che precede il triennio della s.n. I programmi fissati nel 1897 durano fino alla riforma​​ ​​ Gentile. Dal 1911 (L. Credaro), la formazione dei maestri viene curata anche attraverso Corsi magistrali, della durata di due anni, successivi al ginnasio, in cui l’insegnamento della pedagogia occupa un posto centrale. Con la riforma del 1923 i corsi magistrali e la s.n. sono sostituiti dall’​​ ​​ Istituto magistrale, s. secondaria superiore a corso quadriennale (​​ Facoltà di Scienze dell’Educazione).

Bibliografia

Vigo G.,​​ Il​​ maestro elementare italiano nell’800,​​ in «Nuova Rivista Storica» 4 (1977) 43-84;​​ Escolano A.,​​ Las escuelas normales,​​ in «Revista de Educación»​​ 30 (1982) 55-76; De Vivo F.,​​ La formazione del maestro. Cultura e professionalità dalla legge Casati ad oggi,​​ Brescia, La Scuola, 1986;​​ Guzmán M.,​​ Vida y muerte de las escuelas normales, Barcelona,​​ PPU, 1986; Archivio Centrale dello Stato,​​ L’istruzione normale dalla legge Casati all’età giolittiana,​​ a cura di C. Covato e A. M. Sorge, Roma, Ministero dei Beni Culturali, 1994.

J. M. Prellezo​​ 




SCUOLA OPERAIA

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SCUOLA OPERAIA

Nell’ambito del movimento delle​​ ​​ Scuole Nuove attecchì l’idea che bisognava sostituire la tradizionale s. libresca, mnemonica e passiva con una s. attiva, creativa, riflessiva e legata al mondo del lavoro.

1. Si cercava in tal modo di avvicinare la s. alla realtà sociale ed una delle strade intraprese fu lo sforzo di introdurre il lavoro produttivo nel mondo scolastico, non nel senso del lavoro manuale propugnato da Basedow (​​ Filantropinismo), né nel senso del lavoro proposto da marxisti ed anarchici. Si cercò piuttosto una via di mezzo che potesse avvicinare il bambino e l’adolescente al mondo del lavoro in modo non traumatico. A questo scopo si crearono i laboratori scolastici, l’orto e la fattoria, il giardino curato dagli stessi ragazzi, l’acquario, l’alveare, ecc. nei quali gli allievi apprendevano pian piano le nozioni del mondo del lavoro.

2. In questa direzione operò con successo​​ ​​ Kerschensteiner; egli rese popolare la​​ s. di lavoro​​ (Arbeitschule),​​ i cui principi espose ne​​ Il​​ concetto della s. del lavoro​​ (1912). Per venticinque anni fu responsabile delle s. di Monaco, sua città natale, riformandole in accordo con i principi della pedagogia più avanzata. Nel primo terzo del sec. XX, Kerschensteiner fu il pedagogista tedesco più noto in ambito internazionale. Conobbe profondamente l’impostazione pedagogica del positivismo, dell’idealismo tedesco, del pragmatismo di​​ ​​ Dewey e del neokantismo di Lipps,​​ ​​ Natorp e​​ ​​ Spranger. Kerschensteiner si sforzò di cambiare le s. di Monaco, in veri centri di nuova educazione, nei quali si univa lo studio e l’azione, la riflessione e il lavoro produttivo.

Bibliografia

Imberciadori P.,​​ La s. del lavoro e l’educazione della gioventù operaia e contadina,​​ Firenze, Vallecchi, 1946;​​ Martín E.,​​ Familias de clase obrera y escuela,​​ Bilbao, Iralka, 2000; Prellezo J. M. - R. Lanfranchi,​​ Educazione e pedagogia nei solchi della storia,​​ vol. 3,​​ Torino, SEI, 2004.

B. Delgado




SCUOLA RURALE

 

SCUOLA RURALE

Tradizionalmente per s.r. si intende quella s. che si trova in nuclei di popolazione agricola (villaggi, case coloniche, borgate, fattorie, masserie, tenute) a volte definita nelle leggi riguardanti l’educazione in base al numero di abitanti (per es. meno di 5000).

1. Dal punto di vista educativo le s.r. sono quelle che si trovano in campagna, che sono carenti di cultura, di stimoli educativi, di mezzi e di prospettive di miglioramento sociale e che sono generalmente unitarie e monodidattiche (un solo​​ ​​ maestro per tutte le età), in contrapposizione alla s. urbana, ricca, omogenea, graduata e che rende possibile il cambio sociale. Nella maggioranza delle pubblicazioni fino al primo terzo del sec. XX si confonde s.r. con s. primaria, di adulti e istruzione popolare. Fino alla prima guerra mondiale nella legislazione di alcuni Paesi si definivano «s. incomplete» (non vi si insegnava il programma completo) e in quasi tutti, «s.r.». Dove queste s. esistevano, erano miste, non per ragioni pedagogiche e sociali ma per mancanza di mezzi. All’inizio del sec. XX la Russia aveva delle s.r. modello (di una o due classi) di insegnamento elementare complete mentre in Germania quelle che avevano un solo maestro erano tutte rurali e separate per sesso. In Svezia vi erano 16 s.r. superiori e in Danimarca s. superiori di campagna, fondate da N. Grundtvig nel 1844; «superiore» significava il grado più avanzato dell’insegnamento primario. Certamente, le s.r. sono state le s. tradizionalmente più trascurate in tutti i Paesi.

2. Le​​ Raccomandazioni​​ dell’Unesco del 1956 e del 1958 hanno portato all’uguaglianza delle opportunità rispetto alle s. urbane e alla cosiddetta «concentrazione scolastica». Attualmente vi sono più di 500 milioni di donne analfabete nelle regioni rurali del cosiddetto Terzo Mondo, che ignorano perfino il proprio diritto all’educazione; il 64,5% dei ragazzi superiori ai 15 anni in Asia sono analfabeti; in Africa lo sono il 47,4%; in​​ ​​ America Latina e nei Caraibi il 19,2%; nell’area del Pacifico il 10,2%; negli Stati Arabi il 70,4%; nei Paesi meno sviluppati il 78,4%. Questo dimostra che il problema delle s.r. non è solo questione di migliorarle dove già vi sono, ma è necessario impiantarle nelle grandi aree in cui non esistono né progetti né programmi nei piani di sviluppo.

Bibliografia

Hippeau​​ C,​​ L’Instruction publique, Paris, Didier,​​ 1872-1881;​​ García P. de A.,​​ Teoría y práctica de la educación y la enseñanza,​​ vol. II, Madrid, Hernando,​​ 21902, vol.​​ IX,​​ 1905; Chlebowska K.,​​ Literacy for rural women in the Third World,​​ Paris,​​ Unesco, 1990; Unesco,​​ World education report 1991,​​ Ibid., 1991.

V. Faubell