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SCHEMA CORPOREO

 

SCHEMA CORPOREO

La formazione dello s.c. appartiene all’ambito psicofisico e si può riscontrare anche negli animali. Nell’uomo prelude alla formazione dell’immagine di sé,​​ che è qualcosa di molto complesso e che assume un ruolo fondamentale nella strutturazione della personalità. Secondo alcuni uno stadio intermedio è rappresentato dalla formazione dell’immagine corporea,​​ che si differenziano dal semplice s.c. per l’aggiunta della componente estetica. Non tutti gli Autori distinguono però questi due momenti e parlano indifferentemente di s. e di immagine corporea.

1.​​ Definizione.​​ P. Schilder, uno dei maggiori competenti in questo campo, senza far distinzione fra s. e immagine corporea, così scrive: «Con l’espressione​​ immagine del corpo umano​​ intendiamo il quadro mentale che ci facciamo del nostro corpo, vale a dire, il modo in cui il corpo appare a noi stessi. Noi riceviamo delle sensazioni, vediamo parti della superficie del nostro corpo, abbiamo sensazioni tattili, termiche, dolorose, sensazioni indicanti le deformazioni del muscolo provenienti dalla muscolatura e dalle guaine muscolari e sensazioni di origine viscerale. Ma al di là di tutto questo vi è l’esperienza immediata dell’esistenza di un’entità corporea che, se è vero che viene percepita, è d’altra parte qualcosa di più che una percezione: noi la definiamo s. del nostro corpo o​​ s.c.​​ [...]​​ è l’immagine tridimensionale che ciascuno ha di se stesso». A. Delmas, anch’egli senza far distinzione fra s.c. e immagine corporea, dice: «L’immagine del nostro corpo è il risultato di una serie di informazioni di provenienza varia. Abbiamo infatti del nostro io corporeo conoscenza in vari modi; per mezzo del tatto ci rendiamo conto della forma e della consistenza delle diverse parti del corpo; per mezzo degli stimoli propriocettivi siamo informati sull’atteggiamento e sulla nostra situazione nello spazio; per mezzo della vista vediamo il nostro corpo; per mezzo dell’udito possiamo sentire la nostra voce e i rumori che provochiamo. Tutte le informazioni raccolte dagli organi di senso ci permettono di distinguerci da ciò che è al di fuori di noi. Le aree della sensibilità tattile (aree parietali), dell’udito (aree temporali), visive (aree occipitali) sono collegate a una regione dell’emisfero cerebrale situata in corrispondenza dei loro confini; è questa l’area dello s.c., corrispondente alle circonvoluzioni che circondano l’estremità posteriore della scissura laterale di Silvio e del primo solco temporale». Molto opportuna l’osservazione di G. Guaraldi, M. Venuta ed E. Orlandi, che iniziano col sottolineare come s.c., immagine del corpo, vissuto corporeo e altri termini consimili, rappresentano solo un tentativo di definire la corporeità come parte essenziale di un Io, e continuano dicendo che: «Oggetto di studio non è il corpo biologico in sé, ma questo in relazione con la vita psichica; è l’esperienza corporea, è come l’individuo sperimenta il suo corpo e come si struttura ed evolve questa esperienza». Sottolineiamo che è implicito il concetto del continuo divenire. Infatti soprattutto nel periodo dell’accrescimento, variano continuamente le sensazioni provenienti dal corpo in crescita e le informazioni provenienti dall’ambiente esterno (sia per il mutare di esso sia per la continua attività esplorativa del soggetto stesso) e pertanto dovrà cambiare per forza la sensazione globale che il soggetto ha del proprio corpo.

2. Finalità.​​ Come si è accennato la formazione dello s.c. è il presupposto per la formazione dell’immagine corporea e dell’immagine di sé; però già di per se stesso lo s.c. ha lo scopo di fornire al soggetto umano, come all’animale inferiore all’uomo, la percezione del proprio corpo sia in situazione statica sia in situazione dinamica; è possibile eseguire i vari movimenti armonicamente proprio perché il soggetto ha la corretta percezione del suo essere corporeo e gli equilibri si raggiungono con maggiore facilità.

Bibliografia

Delmas A.,​​ Vie e centri nervosi,​​ Milano, Masson, 1986; Guaraldi G. et al.,​​ L’immagine del corpo in psichiatria,​​ vol. VII, Quaderni Italiani di Psichiatria, Milano, Masson, 1988, 239-266; Schilder P.,​​ Immagine di sé e s.c.,​​ Milano, Angeli, 1988.

V. Polizzi




SCIENZA

 

SCIENZA

Il rapporto tra​​ sapere​​ e educazione è evidentemente assai stretto, proponendosi l’educazione di incentivarlo, e di avviare l’individuo a conoscenza, oltre che di sviluppare la cultura morale e di condurre a maturazione la personalità.​​ 

1. La s. nel senso moderno della parola ha però un significato più preciso; essa si pone all’interno del sapere come una sua forma rigorosa; come tale o è s.​​ esatta​​ (quali sono le matematiche) o è s.​​ sperimentale​​ (quali sono la fisica, la chimica, la biologia) vale a dire basata su metodi osservativi e sperimentali controllati dalla ragione euristica, cioè intesa alla ricerca. Quest’ultima richiede una ferma aderenza all’esperienza sensibile. Già nella tarda​​ ​​ Scolastica i «nominalisti» avevano criticato il ricorso nella spiegazione dei fatti ad entità estranee ai fatti stessi, secondo il principio detto «rasoio di Ockam» che​​ non sunt multiplicanda entia sine necessitate.​​ Nel Rinascimento B. Telesio aveva espresso l’oggetto della ricerca come quello che tratta​​ de rerum natura iuxta propria principia.​​ Non si devono insomma introdurre nel discorso forme, entelechie, forze, virtù, facoltà che forniscono spiegazioni illusorie (come dire che l’oppio fa dormire perché ha la​​ virtus dormitiva).​​ In filosofia queste parole possono avere un senso, perché «tengono il posto» di spiegazioni concrete per il momento accantonate, svolgendo un discorso più generale. Ma nella s. si pone proprio il compito di quella sostituzione.

2. Per comodità linguistica si può anche dire che ci sia una​​ virtus dormitiva;​​ ma il problema è di spiegare in che cosa essa consista e come essa operi, attraverso certi processi biochimici agenti sulle cellule nervose. Anche negli sviluppi della s. moderna sono stati talvolta introdotti dei costrutti teorici come il «flogisto» per spiegare i fenomeni di combustione, o l’«etere» per spiegare la trasmissione delle onde elettromagnetiche nel vuoto; ma la loro ammissione è stata del tutto provvisoria, fino a che i fenomeni corrispondenti sono stati spiegati mediante il nesso con altri fenomeni.

3. Occorre rilevare che l’educazione che conseguiva dalle impostazioni antiche e medievali era confacente a una mentalità di tradizione assai solida, ma di tipo storico-letterario e teologico-filosofico-giuridico più che scientifico; basti pensare che Plinio il Vecchio, autore della più grande enciclopedia antica intitolata​​ Historiae naturales,​​ confessava in verità di aver tratto i contenuti dell’opera dalla «lettura» di oltre duemila opere a lui antecedenti. L’esito finale non poteva che essere una cultura in gran parte solo verbalistica, e spesso riportata «per sentito dire». Occorre aggiungere che questa veduta ormai superata dalla s. militante è invece ancora oggi largamente diffusa nella pratica didattica, ove regna incontrastato il dominio dei trattati sistematici, dei manuali e dei sommari (e spesso dei riassunti) che vengono puntualmente mandati a memoria e ripetuti senza originalità.

4. F. Bacone, criticando la sterilità dei ragionamenti puramente sillogistici, propose l’osservazione dei fatti registrando quelli concordanti e quelli discordanti, e le variazioni concomitanti tra di essi. G. Galilei rafforzò questa opzione di fondo, affermando che la s. sperimentale cerca di formulare rapporti matematici tra variabili associate, misurate a due a due, tenendo le altre «ferme» o ininfluenti, mediante una riproduzione dei fenomeni in condizioni controllate. Dopo di loro​​ ​​ Locke, D. Hume e J. Stuart Mill hanno delineato quello che si è chiamato metodo​​ empiristico.​​ Empiristi, sensisti e positivisti hanno ribadito che la s. positiva deve partire dai fatti, e dopo avere sviluppato l’elaborazione razionale dei loro nessi, deve tornare ai fatti per una verifica. Questo processo dovrebbe mettere in evidenza come nella varietà dei fenomeni molteplici e contingenti si possano tuttavia astrarre delle «invarianti», che consentono previsioni e costituiscono le leggi della natura.

5. Questa convinzione ha sostenuto il cosiddetto​​ induttivismo,​​ vale dire la proposta non di dedurre proposizioni a priori da principi, bensì di indurre i principi a posteriori dai confronti tra i fatti. La s. si costruirebbe passando dal particolare all’universale, e solo in fase successiva di sistemazione passando dall’universale al particolare. Dal punto di vista educativo l’induttivismo ha sollevato grandi speranze; si è ritenuto infatti che esso fosse il migliore metodo per superare una s. «di carta», invitando gli allievi a cimentarsi direttamente con la natura. Ma un generico invito «ricercate!» ha poco significato, se non si aggiunge «che cosa» ricercare. La ricerca è sempre selettiva, nasce da un atto di attenzione a qualche aspetto delle cose che presenta probabili connessioni con i fatti osservati. Limitarsi ad ammassare fatti è un esercizio futile e vano, e alla lunga decade in​​ ​​ nozionismo. Già in passato gli aristotelici e i tomisti, fraintesi dai loro epigoni, e meglio in epoca moderna i razionalisti e gli analisti logici, hanno rilevato che da un semplice atteggiamento passivo alla raccolta di fatti non si ricava vera «s.», ma semmai solo «notizia», erudizione affastellata,​​ rudis indigestaque moles.

6. Il momento critico decisivo della ricerca sta invece in un atteggiamento attivo, anzi «creativo» dell’immaginazione e dell’intelligenza, che producono congetture o​​ ipotesi,​​ vale a dire si rappresentano possibili collegamenti tra i fatti. Le ipotesi vengono poi messe alla prova, in quanto da esse si può dedurre l’attesa di certe conseguenze, che si vanno a riscontrare coi fatti stessi. Se le conseguenze «osservate» non sono quelle «attese», si dice che l’ipotesi è «falsificata»; se invece sono uguali, vengono dette impropriamente «verificate»; ma in realtà esse sono soltanto provvisoriamente «confermate» o corroborate in attesa di ulteriori indagini. Questo punto è stato approfondito solo di recente dalla epistemologia contemporanea, e principalmente da K. R. Popper. La falsificazione e la verificazione non sono infatti due alternative simmetriche. La prima scarta un’ipotesi come incompatibile coi fatti osservati, e costringe quanto meno a modificarla. La seconda invece stabilisce che l’ipotesi è compatibile coi fatti osservati, ma non ci dice se «altre» ipotesi ugualmente compatibili siano possibili, e magari tali da garantire una compatibilità ancora più estesa. Lo spareggio di queste «altre» eventuali ipotesi non può avere luogo se non ancora attraverso una falsificazione che proceda per via eliminatoria. Ma essa non ha virtualmente mai fine. Conseguenze di grande portata filosofica e pedagogica derivano da queste premesse. Anzitutto, la pretesa dei trattati sistematici di «aver detto tutto» su una s. deve venire accantonata. La s. è in continuo movimento, e le sue proposizioni più numerose sono​​ domande e non risposte.​​ Un manuale che dia l’impressione contraria rende un cattivo servizio allo spirito scientifico, e si allea al più deteriore «scientismo» che è una forma di dogmatismo chiuso. L’​​ ​​ educazione scientifica deve quindi coltivare lo «spirito di domanda» e la umiltà di riconoscere che la s. non ha «dogmi» propri. Se questo atteggiamento è condiviso, su un diverso piano, da chi riconosce che in religione i misteri della fede non sono traducibili in s., si esclude in via preliminare che vi possa essere contrasto tra le due.

7. In secondo luogo, l’educazione scientifica ha a disposizione un forte argomento per escludere il manualismo preconfezionato, non già a vantaggio di un ambiguo induttivismo, ma piuttosto di una didattica della ricerca basata sul​​ metodo delle ipotesi.​​ È importante rendersi conto che le s. nascono da un incontro tra esperienza e ragione, ovvero tra dati osservativi e costrutti teorici. Le ipotesi confermate sono i gradini di una scala, che tuttavia prosegue verso ipotesi sempre più vaste e unitarie, atte a dare ragioni più estese e fondamentali. Le tappe superate nel progresso della ricerca non sono tanto da considerare «errori» quanto piuttosto «verità parziali», da integrare in prospettive sempre più complete. Il sapere finito è sempre approssimato e la «verità» scientifica non è mai un possesso tranquillo, ma un ideale regolativo. L’unilaterale empirismo e l’unilaterale razionalismo sono stati superati attraverso la costruzione effettiva di un sapere che è sempre limitato ma sempre perfettibile. La nozione di s. nella formazione degli insegnanti riguarda la conoscenza riconosciuta, appresa, diffusa.

Bibliografia

Duhem P.,​​ Le système du monde,​​ Paris, Hermann,​​ 1913-1959, 10 voll.; Poincaré H.,​​ Il valore della s.,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1947; Dewey J.,​​ Logica,​​ teoria dell’indagine, 2 voll., Torino, Einaudi, 1949; De Santillana G.,​​ Le origini del pensiero scientifico,​​ Firenze, Sansoni, 1966; Naville E.,​​ La logica dell’ipotesi,​​ Milano, Rusconi, 1989; Blezza F.,​​ Educazione 2000,​​ Cosenza, Pellegrini, 1993; Laeng M.,​​ S. filosofia religione: l’enigma nello specchio,​​ Brescia, La Scuola, 2003; Chistolini S.,​​ S. e formazione. Manuale del laboratorio universitario di pedagogia,​​ Milano, Angeli, 2006; Todaro L.,​​ L’ordine pedagogico, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006.

M. Laeng​​ 




SCIENZA/E COGNITIVA/E

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SCIENZA / E COGNITIVA / E

La s.c., o al plurale scienze cognitive, è un’area di studio e ricerca che ha per oggetto i processi che richiedono l’acquisizione e l’uso di conoscenza.​​ 

1. I tipici argomenti di cui si interessa sono i processi «intelligenti», come il linguaggio, la rappresentazione, il ragionamento, la soluzione di problemi, la decisione. Alcune delle discipline partecipanti sono la psicologia, in particolar modo la psicologia cognitiva,​​ la linguistica, le​​ ​​ neuroscienze, l’intelligenza artificiale, la filosofia della mente e del linguaggio, l’epistemologia, la logica e la filosofia della matematica. La prospettiva della s.c. è interdisciplinare e combina le ricerche svolte su questo oggetto di studio da parte di tutte queste discipline. Alcuni esempi di domande che interessano chi svolge ricerche nell’ambito delle s.c.: come si acquisisce la capacità di far fronte alla complessità dell’ambiente? in che modo ci rappresentiamo le situazioni e perché alcune costituiscono un problema? come possiamo pianificare o controllare le azioni che svolgiamo per ottenere certi risultati? come possiamo imparare e ricordare meglio? come possiamo ragionare meglio? perché commettiamo certi errori? come scegliere fra alternative e prendere decisioni difficili? come possiamo gestire linguaggi diversi? come possiamo utilizzare al meglio le macchine e gli oggetti di uso quotidiano? possiamo costruire macchine intelligenti? Queste domande portano a studiare da prospettive diverse i vari processi cognitivi come la memoria, il ragionamento, la soluzione di problemi, la percezione, l’attenzione, la coscienza, l’apprendimento.​​ 

2. All’origine della s.c. si possono ricondurre le ricerche che hanno permesso la costruzione e l’uso dei calcolatori elettronici. Tra queste ricerche merita una menzione particolare la macchina universale di Alan Turing. Essa era intesa come un modello per simbolizzare ogni possibile operazione di calcolo. Turing intendeva dimostrare che esistevano enunciati matematici non calcolabili; in questo modo egli dimostrò che la matematica non era completamente decidibile. La sua macchina è stata in seguito considerata il primo modello di mente computazionale. Negli anni cinquanta del sec. scorso la metafora della mente umana come elaboratore di informazioni divenne il riferimento fondamentale per gli sviluppi della psicologia cognitivista, come di ogni altra s.c. Oggi sono particolarmente vive le ricerche sulla simulazione mediante macchine dei processi cognitivi superiori e del comportamento degli esperti nei vari settori, sull’interazione uomo-macchina e la valorizzazione delle macchine per allargare le potenzialità dell’intelligenza umana o per superarne alcune disfunzioni.

Bibliografia

Gardner H.,​​ La nuova s. della mente, Milano, Feltrinelli, 1985; Di Francesco M.,​​ Introduzione alla filosofia della mente, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1996; Ferretti F.,​​ Dizionario di s.c., Roma, Editori Riuniti, 2000; Legrenzi P.,​​ Prima lezione di s.c., Bari, Laterza, 2005; Searle J. R.,​​ La mente, Milano, Cortina, 2005; Boncinelli E.,​​ L’anima della tecnica, Milano, Rizzoli, 2006.​​ 

M. Pellerey




SCIENZE DELL’EDUCAZIONE

 

SCIENZE DELL’EDUCAZIONE

L’insieme delle discipline che studiano il fatto educativo, i processi sociali di​​ ​​ formazione, lo​​ ​​ sviluppo personale, 1’​​ ​​ apprendimento, 1’​​ ​​ insegnamento e 1’​​ ​​ intervento educativo in genere (​​ pedagogia).

1.​​ Dalla scienza alle s.d.e.​​ ​​ Claparède e Bovet chiamarono​​ École des Sciences de l’Éducation,​​ l’Institut J. J. Rousseau​​ da essi fondato nel 1912. Ma l’espressione «s.d.e.» è diventata comune solo dagli anni sessanta in poi, quando oltre che specifico ambito di indagine disciplinare, ha preso ad essere collegata a istituzioni di studi superiori a carattere pedagogico, ad es. istituti, dipartimenti, facoltà (​​ facoltà di s.d.e.), oppure a corsi di studi e di formazione, ad es. corsi di laurea o di specializzazione. In quegli anni lo studio della formazione si è generalizzato a tutte le s. umane, sociali e comportamentali, in concomitanza con il fatto che i problemi formativi sono diventati un punto d’interesse prioritario nelle politiche nazionali e in quelle dello sviluppo internazionale. Le funzioni e i ruoli formativi si sono dilatati, complessificati e specializzati. La​​ pedagogia, prima sostanzialmente incentrata – come suggerisce l’etimologia del termine – sullo studio del bambino e sulla preparazione del maestro, è stata spinta ad aprirsi alle diverse età della vita (​​ educazione permanente, continua, degli adulti, della terza età), ai differenti ambienti e situazioni dell’esistenza sociale oltre la scuola (enti e strutture locali, assistenza, disabilità, emarginazione e devianza, condizione giovanile, educazione della donna, formazione ed aggiornamento professionale, alternanza scuola-lavoro, mass-media e nuovi media, divertimento, tempo libero, sport). Nuove esigenze sociali hanno dato forza alla richiesta di nuovi contenuti educativi (convivenza civile e democratica, ecologia, pace, sviluppo, diritti umani, qualità della vita, salute, benessere, interculturalità, informatica, culture e lingue europee, ecc.), di nuove competenze (programmazione, lavoro in équipe e secondo un progetto di comunità, utilizzo di nuove tecnologie educative multimediali, ecc.) e di nuove figure formative oltre quelle tradizionali (educatori professionali, équipe psico-pedagogica, tutor, orientatori scolastici e professionali, animatori socio-culturali, operatori formativi del territorio, ecc.). L’istanza di un approccio multidisciplinare alla formazione si è venuta imponendo nella convinzione che occorrano competenze scientifiche varie e complementari per dar risposta ai sempre più complessi e vasti problemi della formazione pubblica e privata. In questo senso si è preso a parlare di «s.d.e.» al plurale e non tanto di «scienza​​ d.e.» al singolare. Ma indubbiamente il passaggio dalla s. alle s.d.e. (o alle «s. pedagogiche», come vogliono coloro che accentuano l’aspetto metodologico rispetto a quello teorico o rilevativo), è anche connesso con (e in qualche modo esprime) il pluralismo socioculturale presente nella convivenza sociale, nazionale ed internazionale; e partecipa del dibattito che pervade la ricerca e la produzione scientifica, anch’esso segnato dal rifiuto di forme univoche di scientificità ed invece aperto a forme di pluralismo scientifico e metodologico-interdisciplinare.

2.​​ Pro e contro le s.d.e.​​ Ad un certo punto è sembrato quasi che la pedagogia, come disciplina, dovesse scomparire e che il termine dovesse designare solo l’ambito cultural-scientifico occupato dalle s.d.e. In questi ultimi anni sembra invece esservi un ritorno alla pedagogia, più «pragmatico» che epistemologicamente giustificato. Secondo alcuni, infatti, lo spettacolo che offrono le cosiddette s.d.e. è piuttosto quello di un insieme di discipline senza unità reale. Esse esprimerebbero il trionfo della dispersione, della confusione o della sovrapposizione di approcci, che vanno avanti per proprio conto, con i propri metodi, con le proprie tecniche di investigazione, con i propri presupposti epistemologici. Nel migliore dei casi si avrebbe un raggruppamento generico di discipline, quasi una sorta di «enciclopedia», che solo estrinsecamente sarebbe unificata dalla problematica educativa, in vista di una sorta di «educologia». Da parte di chi, invece, afferma la necessità delle s.d.e., si controbatte che non si tratta di pura e semplice pluralità di approcci, ma di un «sistema» multidisciplinare, che non solo ha lo stesso centro problematico (= i problemi della formazione e dell’educazione) ed una stessa linea di sviluppo scientifico (secondo una sequenza metodologica generale di problemi – congetture – controllo critico delle asserzioni), ma che pone l’​​ ​​ interdisciplinarità (vale a dire la pratica di una diffusa interazione e coordinazione) come metodo fondamentale del processo di produzione scientifico-conoscitiva. Una tale pratica intellettuale richiede come presupposto istituzionale una comunità scientifica che sia il soggetto e il propulsore del sistema multidisciplinare; e forse è anche necessaria la condivisione di un interesse-guida conoscitivo che coniughi spirito scientifico e attenzione ai problemi formativi ed educativi, arrivando anche ad affermazioni di cararattere transdisciplinare. Si tratterebbe di fare scienza in maniera per così dire «sinfonica», vale a dire secondo un’orchestrazione di discipline diverse che convergono, ciascuna secondo un proprio e specifico apporto, verso un prodotto comune, rigoroso e significativo. È pur vero che sono proprio queste condizioni di base che di fatto spesso non sussistono o faticano ad affermarsi. Ne sono una controprova le difficoltà che si hanno nelle sedi universitarie dove si sono instaurati dipartimenti o facoltà di s.d.e. o dove si cerca di dare attuazione a corsi di laurea in s.d.e.

3.​​ Due diversi modi di intendere le s.d.e.​​ Un altro punto in questione riguarda la determinazione delle discipline che dovrebbero comporre le s.d.e. Chi intende scienza in un senso largo, equivalente a «sapere critico e giustificato», arriva a prospettare un sistema di discipline: a)​​ rilevative​​ (volte ad appurare «dove, come e quando» avviene l’educazione: vi si comprenderebbero le discipline storico-comparative e quelle provenienti dalle scienze umane e sociali); b)​​ teoriche​​ (volte a chiedersi «cosa ultimamente» significa l’educazione: vi si includerebbero la​​ ​​ filosofia dell’educazione, l’epistemologia pedagogica e magari la​​ ​​ teologia dell’educazione); c)​​ metodologiche​​ (volte a cercare «cosa fare» per l’educazione: vi si collocherebbero la metodologia pedagogica generale e le diverse metodologie particolari:​​ ​​ didattica, evolutiva, speciale, per gli adulti; d)​​ operativo-strumentali​​ (volte a ricercare «con quali mezzi» educare: vi si collocherebbero ad es.​​ ​​ le tecnologie educative, la docimologia, la statistica, l’informatica). Chi invece intende scienza nel senso stretto di disciplina empirico-logica, limita le s.d.e. alle discipline che specificano le scienze umane e sociali per ciò che attiene lo sviluppo, la formazione, l’educazione, vale a dire ad es.:​​ ​​ biologia,​​ ​​ antropologia,​​ ​​ psicologia,​​ ​​ sociologia dell’educazione, della famiglia, della scuola, della gioventù, dell’apprendimento, dell’istruzione, dello sviluppo. In questo caso le s.d.e. e le altre discipline sopra denominate storico-comparative, teoriche, metodologiche ed operativo-strumentali sono viste come discipline «ausiliarie» o contestuali della pedagogia, che ne assume i contributi, le interpreta e le pone in prospettiva di intervento formativo. È appena da notare che le concrete sistemazioni delle s.d.e. all’interno di istituti, dipartimenti o Facoltà Universitarie, non obbediscono solo a motivazioni di ordine teorico-epistemologico, ma più spesso a ragioni di ordine pratico o di tradizioni accademiche o di competenze e mezzi economici disponibili o di procedure giuridiche e legislative vigenti.

4. Oggi si parla anche di «s. della​​ formazione», riferite più che all’azione educativa alla globalità della crescita e alla qualificazione della vita individuale e collettiva, includendovi aspetti / discipline di tipo giuridico, linguistico, economico, comunicativo, ecc., che eccedono, di per sé, l’ambito puramente pedagogico, dando luogo a trasversalità conoscitive difficilmente perimetrabili scientificamente.

Bibliografia

Braido P. (Ed.),​​ Educare. Sommario di s. pedagogiche,​​ 3 voll., Zürich, PAS-Verlag, 1962-1963; Debesse M. - G. Mialaret (Edd.),​​ Trattato delle s. pedagogiche,​​ 10 voll., Roma, Armando, 1970-1978; Visalberghi A. - R. Maragliano - B. Vertecchi,​​ Pedagogia e s.d.e.,​​ Milano, Mondadori, 1979; Nanni C.,​​ Educazione e s.d.e.,​​ Roma, LAS, 1986; Mialaret G. (Ed.),​​ Introduzione alle s.d.e.,​​ Roma / Bari, Laterza, 1989; Bellatalla L. - G. Genovesi (Edd.),​​ Scienza​​ dell’educazione, Tirrenia, Edizioni del Cerro, 2006.

C. Nanni




SCIENZE SOCIALI

 

SCIENZE SOCIALI

La​​ ​​ scienza è una delle forme di conoscenza umana, specializzata nella produzione razionale e critica di descrizioni, spiegazioni, previsioni e manipolazioni di eventi, fenomeni e processi fisici, biologici, psichici e socioculturali.

1.​​ Natura. Nell’epistemologia aristotelica le s. veniva- no suddivise in metafisiche, fisiche e positivo-empiriche. In tempi più recenti sono articolate sulla base dei contenuti e del metodo in s. logico-formali, empirico-formali, s. della natura e s. dell’uomo. Le s.s. vengono classificate sia all’interno delle s. empirico-formali per quanto riguarda il metodo di ricerca positivo fenomenologico, sia tra le s. dell’uomo per quanto concerne i contenuti. Si distinguono invece dalle s. della natura perché lo studio degli esseri umani è diverso dall’osservazione degli eventi nel mondo fisico. Infatti l’analisi della vita sociale si occupa di​​ attività dotate di senso​​ perché diversamente dagli oggetti del mondo della natura gli uomini sono esseri autoconsapevoli, dotati di libertà, che perciò attribuiscono significato e finalità alle loro azioni.

2.​​ Orientamenti e tipologie.​​ Le s.s. sono definite anche​​ s. teorico-pratiche​​ in quanto hanno come oggetto lo studio della vita sociale umana, dei gruppi, dell’uomo nella sua dimensione sociale e dei fattori sociali che ne condizionano le trasformazioni. L’orientamento teorico si manifesta nell’impegno di organizzare scientificamente le conoscenze sociali con una metodologia rigorosamente corretta e critica, che ne permette la formulazione sistematica, logica, unitaria e coerente all’interno di un quadro teorico e di concettualizzazioni opportunamente elaborate. L’orientamento pratico si esprime nella funzione politica delle s.s. Infatti sia la raccolta scientifica dei dati fattuali di esperienza, sia la loro interpretazione, sono tutte fasi di un processo che partendo dalla conoscenza della realtà tende a prevederne i cambiamenti possibili per intervenire su di essi, secondo la formula classica di «voir pour prévoir, et prévoir pour pouvoir». In modo propositivo le s.s. mirano anche a creare un’immagine di società scientificamente elaborata,​​ attraverso un metodo d’indagine scientifico connotato da precise caratteristiche, e cioè: oggettività, sistematicità, verificabilità, standardizzazione, struttura logica dell’argomentazione e distacco del ricercatore rispetto ai fatti in esame. Emergerebbero però oggi fattori che metterebbero in discussione tale scientificità, come la relatività delle conoscenze empiriche, la reintroduzione del soggetto conoscente nel processo della conoscenza, la spiegazione probabilistica dei fatti, il relativismo metodologico, per cui la spiegazione dei comportamenti e delle azioni sociali non potrebbe prescindere da valori, norme, bisogni e schemi interpretativi propri. Il dibattito è ancora aperto. Comunque venga risolto il problema, fanno tuttavia parte in senso stretto delle s.s.​​ la sociologia,​​ l’antropologia culturale,​​ l’economia e la s. politica.​​ Altre s. vi possono rientrare sia pure in modo indiretto, perché alcuni loro aspetti contenutistici vi sono correlati o anche sovrapposti, come la psicologia, la pedagogia, la storia, la comunicazione sociale, il diritto e la legislazione sociale.

Bibliografia

Alexander J. C.,​​ Teoria sociologica e mutamento sociale. Un’analisi multidimensionale della modernità, Milano, Angeli, 1990; Gallino L. et al.,​​ Manuale di sociologia, Torino, UTET, 1997; Mion R.,​​ Sociologia e s.s. a confronto con le sfide della società contemporanea, in «Orientamenti Pedagogici» 46 (1999) 9-27; Barbano F.,​​ La sociologia in Italia. Le trasformazioni degli anni 70, Milano, Angeli, 2003; Prandini R. (Ed.),​​ La realtà del sociale: sfide e paradigmi, Ibid., 2004; Donati P. P. - I. Colozzi (Edd.),​​ Il paradigma relazionale nelle s.s: le prospettive sociologiche, Bologna, Il Mulino, 2006; Donati P. P. (Ed.),​​ Sociologia. Una introduzione allo studio della società, Padova, CEDAM, 2006.

R. Mion




SCOLASTICA

 

SCOLASTICA

Qui non interessa la denominazione s. come categoria storiografica [1]; né tanto meno il suo disteso sviluppo. Importa invece la metodica che essa ha prodotto. Alla denominazione lasceremo per ciò stesso il suo significato letterale per controllare la didattica sviluppata dalla scuola medievale nelle sue successive accezioni:​​ claustrale,​​ cattedrale​​ e​​ municipale,​​ e quindi​​ universitaria​​ [2].

1.​​ Scuole claustrali.​​ Il prevalente interesse al testo, soprattutto sacro, avvia allo studio delle​​ tecniche grammaticali​​ e si esprime in caute​​ glosse,​​ florilegi​​ e​​ commenti.​​ Là ove inopinati ricuperi di fonti bizantine suscitano esaltanti ambizioni, come nel caso del​​ Perifyseon​​ di Giovanni Scoto Eriugena († ca. 877), l’intrapresa assume curiosamente le forme lente e guardinghe del dialogo.

2.​​ Scuole cattedrali e municipali.​​ Passata formalmente nelle disponibilità del Vescovo e del suo capitolo, la scuola trova assestamenti inediti sia sotto il punto di vista istituzionale, sia sotto quello didattico. Già il​​ Libellus scholasticus​​ di Walter di Speyer [3] descrive, verso il 982, le progressioni pluriannuali di un curricolo sotteso dalle​​ Sette arti,​​ e la dovizia di testi da assimilare. Ben più copiose le acquisizioni dell’imponente​​ Heptateuchon​​ di Teodorico di Chartres († ca. 1155). Vi si ricuperano, con​​ ​​ Platone,​​ ​​ Aristotele e Boezio, Varrone, Plinio, Cicerone, Marziano Capella, Macrobio, Calcidio, e ancora Tolomeo, Isidoro di Siviglia e Gerberto d’Aurillac. Un’enorme enciclopedia,​​ totius philosophiae unicum ac singulare instrumentum,​​ che composta circa il 1140, può beneficiare delle riflessioni che Ugo di St.-Victor († 1141) ha già consegnato al suo​​ Didascalion de studio legendi.​​ Perentoria la rivoluzione della​​ Dialettica:​​ mentre l’impegno monastico, a ridosso del testo «sacro», si esauriva in reverente lettura e meditazione, l’affluenza di produzioni di disparata estrazione chiama l’interlocutore a compiti di più responsabile impegno [4]. I generi in cui codesta nuova congiuntura si esprime sono svariati. Persiste fecondissimo l’esercizio del​​ Commento;​​ e però, oltre le​​ Glosse,​​ fioriscono le​​ Distinzioni,​​ uno studio semantico di singole parole o di grumi coerenti di testo, a norma dello schema accreditato dei quattro livelli, storico, allegorico, tropologico e anagogico; e con esse le​​ Sentenze,​​ formazioni tematiche elementari e autosufficienti, prima disparate e tosto coordinate sotto congrua rubrica in complessi coerenti. La​​ Scuola di Laon​​ si è specializzata nel genere; a Pietro Lombardo († ca. 1160) spetta il discutibile onore di aver prodotto, in quattro libri, la collezione più fruita dalla posterità intellettuale. Singolare importanza ha fuor di dubbio l’elaborazione della​​ Quaestio.​​ Affiora prima timidamente, per costituire nel seguito il tipico esercizio della procedura coperta dalla nostra denominazione, s. per eccellenza, nel bene e nel male. Vi concorre, sotto l’interrogativo tipicamente introdotto dall’Utrum,​​ il pro e il contro, in una successione contraddittoria di testi autorevoli, argomentazioni di ogni indole, e quant’altro il maestro si trova sottomano. L’apparente affastellamento sollecita in sostanza la storia pregressa dell’aporia. Al seguito si apre solenne la determinazione della soluzione divisata. A modo di conclusivo corollario, se ne prolunga il perentorio tenore a soluzione della serie di argomentazioni antitetiche proposte in apertura. Così come le​​ Sentenze,​​ anche le​​ Questioni​​ trovano tosto ordinata disposizione in costellazioni assortite più o meno ampie; e allorché tenderanno vogliosamente a tematizzare ambiti complessivi, si arrogheranno a buon diritto la rubrica di​​ Summa.

3.​​ Scuole universitarie.​​ Sia o meno la più straordinaria delle innovazioni medievali, la​​ Universitas magistrorum et studentium,​​ è certamente creazione ammirabile [5]. La contesa circa la primogenitura è qui e altrove del tutto irrilevante. Come tutte le altre corporazioni costituitesi all’interno della città, l’Università costituisce entità giuridica collettiva in grado di organizzare autonomamente la propria vita, che è poi l’esuberanza delle moltitudini di studenti, laici e chierici, che affollano le vecchie scuole cattedrali di Bologna, Parigi, Orléans, Oxford o Colonia, contro i cui patroni, vescovi e cancellieri, ingaggiano, sostenuti dall’iniziativa non del tutto disinteressata del Papato, memorabili contestazioni. Non interessa nemmeno la sua storia istituzionale, perché, per essa, i riferimenti fatti sono fonte di informazione esaustiva. Ci interessa la sua fecondità funzionale [6]. Per la​​ Facoltà delle Arti, prima propedeutica della​​ Facoltà di Teologia, e tosto fieramente autonoma [7], disponiamo delle preziose indiscrezioni del cosiddetto​​ Compendium examinatorium parisiense,​​ recentemente edito [8], nel quale, circa il 1240, un anonimo maestro compiacente propone un prontuario atto a facilitare, preparandole opportunamente, le prove di esame. Non è l’unico documento del genere [9], ma può passare per il più espediente al fine di cogliere la progressiva maturazione dell’esordiente e le definitive acquisizioni del maturato, alle prese con tutto il disponibile del​​ Corpus aristotelicum​​ e quanto di tradizione platonica e neoplatonica è venuto ai Latini, sia nel diretto controllo di Macrobio e Calcidio, sia tramite la mediazione araba. La​​ Facoltà di Teologia​​ impegnava i proprii studenti fondamentalmente su due testi: la​​ S. Scrittura,​​ naturalmente, e i​​ Quattro libri delle Sentenze​​ di Pietro Lombardo. A ridosso della composizione lombardiana si esercita, progressivo, lo sforzo di quanti intendono guadagnarsi, con un proprio​​ Commento​​ ufficialmente ratificato, una​​ Licentia docendi.​​ Inediti sviluppi trova il genere della​​ Quaestio,​​ che, sia nell’accezione​​ ordinaria,​​ sia in quella festiva​​ de quolibet,​​ si apre sempre più liberalmente alla concorrenza a varii livelli di volenterosi studenti [10]. Anche la​​ Facoltà di Diritto​​ dispone di proprii testi ufficiali: il​​ Corpus iuris canonici​​ e il​​ Corpus iuris civilis.​​ Nei corsi ordinarii, tenuti da dottori accreditati, venivano affrontati il​​ Decreto​​ e le​​ Decretali,​​ per il Diritto canonico, e il​​ Digesto antico​​ e i primi nove libri del​​ Codice,​​ per il Diritto civile. Questo nucleo era poi arricchito, in corsi straordinarii, affidati, sempre sotto il controllo dei cattedratici, a baccellieri. Vi si studiava il​​ Liber sextus​​ e le​​ Clementinae​​ per il Diritto canonico; e il​​ Digesto nuovo,​​ l’Infortiatum,​​ le​​ Istituzioni,​​ gli ultimi libri del​​ Codice,​​ le​​ Autentiche​​ imperiali e il​​ Liber feudorum,​​ per il Diritto civile. In grado di esercitare variamente, alla fine felice degli studi, i maturati portano nella società medievale fermenti di tutto riguardo e notevole impegno. C’è, per finire, una​​ s. medica,​​ anch’essa legata a testualità canonica. Ippocrate, Galeno, Costantino l’Africano, Avicenna e il suo​​ Canone,​​ e altra svariata produzione di varia estrazione. Con l’introduzione della pratica necroscopica, però, la​​ Facoltà di Medicina​​ evolverà lentamente verso assetti meno convenzionali.

4. In conclusione: se la s. designa la metodica messa in opera nelle scuole medievali, una sua definizione per genere e differenza risulta ovviamente impervia. Tutto quanto ne residua è l’efficacia del suo impatto, e questa a sua volta non può essere valutata che a ridosso dei soggetti che se ne sono immediatamente avvalsi; dei contesti che ne hanno eventualmente beneficiato; della posterità presumibilmente lasciata. Per i primi, non si può che frugare nelle grandi storie specializzate [11]. Per i contesti, il consuntivo è in corso d’opera in miriadi di controlli, quante sono le università medievali [12]. Per la posterità, oltre a tornare alle grandi Storie, si può già contare su qualche saggio interessante [13].

Bibliografia

[1] Schmidinger H. M., «‘Scholastik’ und ‘Neuscholastik’. Geschichte zweier Begriffe», in​​ Christliche Philosophie im katholischen Denken des 19. und 20. Jahrhunderts,​​ Bd. II,​​ Rückgriff auf scholastisches Erbe,​​ Graz, 1988, 12-53; [2] Cfr. Verger J., «Schule», in​​ Lexicon des Mittelalter,​​ Bd. VII,​​ 1582-1586, München, 1995; [3] Vossen P.,​​ Der «Libellus scholasticus» des Walter von Speyer. Ein Schulbericht aus dem Jahre 984,​​ Berlin, 1962;​​ [4] Weijers O.,​​ Méthodes et instruments du travail intellectuel au Moyen Age,​​ Turnhout, 1990; Id. (Ed.),​​ Vocabulaire des écoles et des méthodes d’enseignement au Moyen Age,​​ Turnhout, 1992;​​ [5]​​ Geschichte der Universität im Europa​​ (Hrsg. W. Ruegg, I:​​ Mittelalter),​​ München,​​ 1993;​​ [6] Weijers O.,​​ Manuels,​​ programmes des cours et techniques d’enseignement dans les universités médiévales,​​ Turnhout, 1994; [7] Glorieux P.,​​ La Faculté des arts et ses maîtres au XIIIe s.,​​ Paris, 1971; Weijers O.,​​ Le travail intellectuel à la Faculté des arts de Paris. Textes et maîtres,​​ c. 1200-1500,​​ Turnhout, 1994s.; [8] Lafleur C. - J. Carrier,​​ Le «Guide de l’étudiant» d’un maître anonyme de la Faculté des Arts de Paris au XIIIe s.,​​ Québec,​​ 1992;​​ [9] Lewry O.,​​ Thirteenth-Century examination Compendia from the Faculty of Arts,​​ in​​ Les genres littéraires​​ [4], 101-116: [10] Viola C. - B. C. Bazan - J. F. Wippel, in​​ Les genres littéraires​​ [4];​​ [11] Eccone tre recenti: Gilson E.,​​ History of Christian philosophy in the Middle Ages,​​ London, 1955; Flasch K.,​​ Das philosophische Denken im Mittelalter. Von Augustin zu Machiavelli,​​ Stuttgart,​​ 1986; Rossi P. - C. A. Viano (Edd.),​​ Storia della filosofia,​​ II:​​ Il​​ Medioevo,​​ Bari, 1995; [12] Ecco qualche sommario provvisorio:​​ Classen P.,​​ Studium und Gesellschaft im Mittelalter,​​ Stuttgart,​​ 1982;​​ Università e società nei secoli XII-XIV,​​ Pistoia, 1982;​​ The university and the city.​​ From medieval origins to the present​​ (Ed. T. Bender), Oxford, 1988; [13]​​ Hengst K.,​​ Jesuiten an Universitäten und Jesuitenuniversitäten,​​ Paderborn,​​ 1981; Bockliss L. W. B.,​​ French higher education in the Seventeenth and Eighteenth centuries.​​ A cultural history,​​ Oxford, 1987.

P. T. Stella




SCOLOPI

 

SCOLOPI

Religiosi delle Scuole pie, create da s. José de​​ ​​ Calasanz (Calasanzio) nel 1597, erette in Congregazione da Paolo V (1617) ed elevate ad Ordine religioso nel 1621. I loro membri iniziano la vita in comune nel 1602; nella loro professione religiosa fanno come quarto voto solenne quello «di insegnare secondo l’obbedienza».

1. Il Calasanzio non scrisse alcun trattato di educazione, ma fu un buon creatore, gestore e supervisore delle sue scuole. Scrisse ca. 10.000 lettere (la metà delle quali pubblicate) in cui l’educazione è sempre presente e delle​​ Costituzioni​​ con vari capitoli dedicati a questo tema. È del 1603-1604 la sua​​ Breve relazione​​ (Documentum Princeps​​ della sua pedagogia) in cui descrive il suo originale apporto all’educazione, organizzando l’insegnamento primario parallelamente a quanto avevano fatto i​​ ​​ Gesuiti per l’insegnamento medio. Nel 1645-46 formò un’équipe giuridica che difese per suo conto davanti al tribunale papale il diritto del povero non solo all’istruzione primaria ma anche all’istruzione secondaria elementare.

2. Queste opere ed azioni costituirono il programma seguito dagli s., che si dedicarono all’insegnamento della gioventù, soprattutto povera. Essi hanno mantenuto la gratuità dell’insegnamento mentre gli organismi con i quali vennero a patti la maggioranza delle fondazioni hanno tenuto fede agli accordi firmati; in casi come la Spagna fino alla guerra civile del 1936. Pio IX autorizzò l’istruzione a pagamento prima di consentire la chiusura di alcun collegio. Nel 1698 fu pubblicata la prima​​ Ratio studiorum pro exteris;​​ la pietà mariana e, in campo scientifico, l’ammirazione per il matematico Galileo Galilei sono state presenti nel rinnovamento educativo nei loro collegi sparsi in tutto il mondo. Dati statistici: nel 1637, 27 case e 362 membri; nel 1994, 229 case, 1.447 membri e 121.182 alunni.

Bibliografia

Giner S. et al.,​​ Escuelas Pías: ser e historia,​​ Salamanca, Ediciones Calasancianas,​​ 1978; Vilá Palá C. - L. M. Bandrés Rey (Edd.),​​ Diccionario enciclopédico escolapio,​​ vol. I:​​ Presencia de las Escuelas Pías;​​ vol.​​ II:​​ Biografías de escolapios,​​ Ibid., 1983; Prellezo J. M., «S., pedagogia degli», in​​ Enciclopedia filosofica, vol. 10, Milano, Bompiani / Fondaz. C.S.F. Gallarate, 2006, 10330-10331.

V. Faubell​​ 




SCRITTURA

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SCRITTURA

L’attività umana che, come quella del comprendere, può essere assimilata ad un complesso processo di ricerca di soluzione di un problema (​​ problem solving). Infatti, sono molte le domande a cui deve rispondere chi comincia a scrivere: chi è il mio interlocutore? Qual è lo scopo del mio scrivere? Quale struttura deve avere il mio scritto? ecc. Solo dando delle precise risposte a queste domande lo scrivente può pianificare ed organizzare gerarchicamente altre sotto-attività. Chiunque si accinge a scrivere, indipendentemente dalla sua cultura e dal testo in cui è impegnato, usa processi simili anche se le modalità con cui li affronta dipendono dal contesto, dall’argomento, dal tipo di documento da redigere e dallo stile, dalla competenza ed esperienza raggiunte.

1.​​ I processi dello scrivere.​​ Se ci riferiamo allo scrittore adulto, l’attività dello scrivere sembra richiedere vari momenti: la definizione del lettore, il ricupero del contenuto, l’organizzazione dello scritto, la stesura e la revisione del testo. La valutazione delle​​ informazioni del lettore​​ è molto importante per lo scrivere. Mentre nella conversazione un eventuale errore può essere corretto per un intervento dell’ascoltatore, nello scritto viene meno questa possibilità. Dalla conoscenza del lettore colui che scrive può risolvere molti problemi: l’uso del linguaggio, la distribuzione dell’informazione, l’aiuto che egli dovrà dargli per portarlo a comprendere, ecc. Altrettanto decisivo nello scrivere è il processo di​​ ricupero del contenuto.​​ Bereiter e Scardamalia (1982) hanno rilevato che per un esperto il richiamo del contenuto è maggiore del necessario, così che egli deve successivamente intervenire per abbreviare o escludere delle parti, mentre per un inesperto questo compito costituisce una difficoltà notevole. Sebbene la conoscenza possa essere ben organizzata in una rappresentazione mentale, spesse volte, soprattutto per contenuti complessi, il richiamo richiede la messa in opera di strategie di aiuto. Quando è ricuperato, generalmente il contenuto deve ricevere un’organizzazione​​ o​​ ristrutturazione.​​ Le idee richiamate devono essere sistemate secondo una successione e una dipendenza di argomenti, una coerenza di punti di vista, un ordine logico, un ordine progressivo. In altre parole, poiché il richiamo non assicura di per sé la migliore successione delle idee, si impone un’abilità di organizzazione globale scegliendo i contenuti e la loro disposizione opportuna, tenendo presente contemporaneamente il contenuto stesso, le conoscenze del lettore e lo scopo dello scrivere.

2.​​ Il​​ processo di stesura.​​ Prese le decisioni delle fasi precedenti, chi scrive si impegna nella stesura di una bozza. Egli starà attento alla struttura delle frasi ed alla scelta delle parole né troppo specifiche né troppo generiche, cercherà di mantenere lo stile, la coerenza del linguaggio, la distribuzione delle informazioni, aiuterà con sintesi e con particolari accorgimenti la comprensione del testo. Lo scrittore esperto si muove in questo processo tornando più volte sui propri passi, ad es. rivedendo la pianificazione effettuata, la bozza e così via. In questa fase potrà rendersi conto della necessità di rivedere alcune decisioni prese precedentemente ed, eventualmente, di riformulare il suo piano.

3.​​ Il processo di revisione.​​ In quest’ultimo processo chi scrive assume la posizione del lettore, per rivedere quanto scritto nel suo documento e valutare se quello che legge è ciò che egli intendeva trasmettere, se è riuscito a rendere comprensibile la sua comunicazione e se il messaggio può essere accettato dal suo lettore. Colui che scrive dovrà rivedere il documento per migliorare i punti in cui la valutazione ha accertato alcune mancanze. Sebbene sia del tutto scontato correggere un testo dopo la prima stesura, in realtà questa fase non è così semplice da definire o facile da acquisire come si potrebbe credere. Si è potuto rilevare che la competenza richiesta diminuisce rispetto all’aumento dell’età e che è qualitativamente diversa tra esperto e inesperto.

4.​​ Ricorsività dei processi di s.​​ I processi che compongono l’attività dello scrivere non sono percorsi in maniera lineare così come vengono descritti. L’attività dello scrivere è molto complessa e richiede allo scrittore di ritornare più volte sui propri passi, sulle decisioni prese, sulla bozza considerata rivedendo il suo documento. Per tale motivo, chi vuole riuscire in modo efficace nel suo lavoro e trasmettere in modo significativo e accettabile i suoi messaggi, dopo aver redatto l’intero documento può decidere di cambiare o di ripianificare un’intera sequenza di informazioni perché possono risultare, secondo la sua valutazione, poco comprensibili per il pubblico dei lettori. Egli potrebbe anche decidere di operare dei cambiamenti in una sezione del documento scritto precedentemente, mentre sta eseguendo la stesura del paragrafo finale del testo. I processi dello scrivere non sono lineari e semplici, ma molto complessi e richiedono un lungo esercizio e un’attenta auto-educazione.

Bibliografia

Bereiter C. - M. Scardamalia, «From conversation to composition: the role of instruction in a developmental process», in R. Glaser (Ed.),​​ Advances in instructional psychology,​​ Hillsdale, Erlbaum, 1982, 1-64; Fowler L. J. - L. Carey,​​ Strategies far writing theories and practices,​​ in «College Composition Communication» 37 (1986) 3, 302-314; Scardamalia M. - C.​​ Bereiter, «Research on written composition», in M. C. Wittrock (Ed.),​​ Handbook of research on teaching,​​ New York, Macmillan,​​ 31986, 778-803; Idd.,​​ The psychology of written composition,​​ Hillsdale, Erlbaum, 1987; Hacker D. J. et al.,​​ Text revision: detection and correction of errors,​​ in «Journal of Educational Psychology» 86 (1994) 65-78.

M. Comoglio




SCUOLA

 

SCUOLA

Il termine s. deriva dal lat.​​ schola,​​ che è prestito operato sul gr.​​ scholé​​ («tempo libero», «esercizio dello spirito»); donde la testimonianza di Festo: «scholae dictae sunt non ab otio ac vacatione omni, sed quod, ceteris rebus omissis, vacare liberalibus studiis pueri debent» (De verborum signifìcatu,​​ 470, 14). Come calco di​​ scholé​​ a​​ ​​ Roma è attestato anche​​ ludus,​​ sempre con il valore di attività concepita al di fuori di ogni fine pratico e intesa, pertanto, sia come gioco sia come esercizio scolastico, prima di carattere privato o domestico e successivamente di carattere pubblico e formalizzato.

1.​​ L’istituzione.​​ Il riferimento alla​​ ​​ Grecia e a Roma è puramente emblematico, in quanto vuole indicare un fenomeno proprio di tutte le civiltà, quello cioè di sostituire l’apprendimento spontaneo o familiare delle giovani generazioni, fondato prevalentemente sull’imitazione degli adulti, con una trasmissione del sapere e della «cultura» affidata all’insegnamento, cui non potevano essere idonei né la famiglia né il gruppo sociale di appartenenza (​​ storia della s.). I materiali culturali, che costituirono i contenuti delle prime forme di istruzione, furono finalizzati alla conservazione delle testimonianze e delle leggi, proprie di ogni comunità, per preservarle nei confronti di altri gruppi. A tale compito vennero delegati gli adulti, quali detentori della cultura del luogo, e in certo modo i garanti della sua autenticità; ad essi si richiese ben presto di calare in forme simboliche i contenuti da trasmettere ai giovani, con il ricorso in particolare ai diversi tipi di linguaggio, alle notazioni matematiche e musicali. Si venne così istituzionalizzando quell’aspetto dell’insegnamento e della s. contrassegnato dalla centralità dell’insegnante e dei contenuti (compresi sotto il termine di «cultura trasmessa»), che costituì la nota dominante della «s. strutturata», detta anche «s. della tradizione».

2.​​ Dalla «s. della tradizione» alla s. dell’allievo.​​ Solo intorno alla metà del sec. XX incominciano ad operare nella s. istanze elaborate anche nel passato, ma rimaste inattive, che porteranno al centro dell’insegnamento non più i contenuti ma il soggetto educando ed apprendente.

2.1.​​ La cultura.​​ Ad essere messa in crisi è innanzi tutto la nozione di​​ ​​ cultura, concepita come «eredità sociale», che al pari della eredità biologica richiama il patrimonio di una tradizione, dove all’uomo è lasciato un ruolo meramente passivo. L’​​ ​​ educazione e 1’​​ ​​ istruzione, in questa accezione di cultura, esercitano una funzione «depositaria», di trasmissione di contenuti già confezionati, che potrebbero valere soltanto se ad una ricezione passiva si sostituisse una ricezione critica, operata dal soggetto destinatario di questa trasmissione, che nella s. è l’allievo. Insieme con queste conoscenze culturali trasmesse da una generazione all’altra, la s. si fa anche carico di mediare il comportamento sociale accettato e di farlo assumere da parte dei giovani. La nozione alternativa di cultura, che è andata via via emergendo anche nella s., fa degli uomini, compresi quelli che si addestrano a diventarlo, non solo dei portatori e delle creature di una tradizione di nozioni e di un sistema di vita, ma dei creatori e manipolatori, capaci di esercitare un ruolo attivo tanto nell’uso di forme simboliche quanto nella costruzione di manufatti: accanto all’homo sapiens​​ è «colto» infatti anche l’homo faber,​​ l’uomo che comprende il mondo, che entra nel «cuore delle cose», per trasformarle a vantaggio dell’uomo. Se alla s. deve spettare il compito specifico di «umanizzare attraverso la cultura» (Perquin, 1967), occorre che questa per prima sia umanizzata, che si ponga cioè dalla parte dell’uomo come operatore di cultura.

2.2.​​ 1 contenuti disciplinari.​​ Quella sorta di «staticità» che ha caratterizzato la «cultura trasmessa» ha influito negativamente anche sull’insegnamento delle singole​​ ​​ discipline o dei loro contenuti; nel proporli infatti agli allievi non si ammetteva il «beneficio del dubbio», essendo i contenuti valutati sempre come certi, definiti ed assoluti. La «falsificabilità» delle teorie scientifiche per lo più non ha indotto gli insegnanti a relativizzare i dati riguardanti la materia dei loro insegnamenti, ad illustrare agli allievi, anche sotto il profilo storico, la provvisorietà che ha segnato il cammino della scienza. Oltre che un errore scientifico, ciò ha provocato uno scarso, o quasi nullo, coinvolgimento creativo degli allievi dinanzi al metodo «affermativo», con cui l’insegnante si rivolgeva ai suoi uditori, nella consolidata forma della «lezione». L’opposto, che rappresenta uno dei momenti fondamentali dell’innovazione scolastica e didattica, si ritrova nel metodo di insegnamento fondato sulla «soluzione di problemi» o, detto altrimenti, sulla ricerca. La quale, prima ancora di essere una tecnica o un espediente per occupare gli allievi, è un atteggiamento nuovo, una mentalità diversa, che accomunano docenti ed allievi, per trarre innanzi tutto un senso del limite proprio delle umane conoscenze. La prassi che deriva da questo atteggiamento consiste dunque nell’affrontare problemi aperti più che soluzioni compiute. L’aspetto problematizzante raccorda tutte le fasi della ricerca, anche nel suo inevitabile impianto tecnico. Essa muove infatti da una serie di interrogativi sull’argomento in questione, per trarne subito un’ipotesi di risposta o una soluzione provvisoria, da verificare successivamente, per formulare una teoria o una legge, se la verifica si è rivelata positiva.

2.3.​​ L’allievo dimezzato.​​ I limiti della nozione di cultura e la relatività dei contenuti disciplinari non hanno impedito alla s. di porsi come momento educativo e di sviluppo dell’allievo. Senonché si è trattato di un’azione fortemente riduttiva, in quanto ha privilegiato solo un aspetto dell’«educazione alla ragione» – che è educazione dell’uomo – cogliendone cioè esclusivamente il momento logico (la «ragione logica» direbbe Maritain) e trascurando la pluridimensionalità dell’esigenza razionale che è insieme intellettuale, affettiva, estetica, fisica, professionale, etico-sociale, creativa e intuitiva. Da una visione della ragione ridotta alla dimensione intellettuale deriva la tendenza a considerare tutte le discipline come «teoriche», aventi cioè come fine la conoscenza, a danno delle discipline per loro natura «pratiche», poiché riguardano le scelte (l’etica e la politica), e delle discipline «produttive» o del «fare» (le arti applicate, le «belle arti»). La stessa soluzione dei problemi, che potrebbe sembrare di tipo esclusivamente intellettuale, comporta nella fase della formulazione di un’ipotesi o di una risposta provvisoria, un intervento di carattere intuitivo, inventivo e creativo, che solo nei momenti successivi dovrà coinvolgere altri aspetti del razionale, come quello logico e operativo. L’innovazione dell’insegnamento dovrebbe coinvolgere insomma l’intero universo delle esperienze dell’allievo, l’intera persona nella pienezza delle sue possibilità.

2.4.​​ L’organizzazione della popolazione scolastica.​​ L’elemento che più manifestamente ha contraddistinto, e contraddistingue ancora, la s. formalizzata e strutturata, si trova nella distribuzione per classi della popolazione scolastica: elemento dell’apparato materiale ma determinante nella conservazione degli aspetti finora segnalati relativi all’insegnamento e di altri ancora. La classe infatti raccoglie gli allievi in un gruppo ritenuto per istituzione «omogeneo», sulla base del principio che ad ogni età cronologica corrisponde un’identica età mentale, distinta dagli stessi processi e ritmi di apprendimento, idonea ad affrontare programmi uguali per tutti gli allievi e tale, infine, da comportare o sopportare gli stessi criteri di valutazione. Il fatto è diventato tanto più grave quanto più la s. si è aperta formalmente a tutti i gruppi sociali, per una sorta di democratizzazione, o di «s. di massa», in cui i più «deboli» non trovano le strutture adeguate al reale sviluppo delle loro potenzialità di apprendimento. Una diversa proposta, per una più «umana» distribuzione degli alunni, è stata avanzata, da alcuni decenni, ed in parte anche realizzata in alcuni Paesi. Essa mira ad una sostituzione dei gruppi-classe con «gruppi di apprendimento» (team-learning),​​ dotati di grande flessibilità per rispondere ai livelli di partenza propri di ogni soggetto, ai ritmi personali di apprendimento, agli interessi di studio e di ricerca. L’iniziativa consente, ad es., che lo stesso allievo possa appartenere, per tempi più o meno prolungati, a gruppi differenti, in base ai criteri accennati, nonché ad esigenze di ricuperi o di interventi su lacune in ambiti particolari. Dalla parte degli insegnanti, ai gruppi di apprendimento dovrebbero corrispondere i «gruppi di insegnamento» (team-teaching),​​ condizione determinante per poter realizzare qualunque innovazione o riforma scolastica. Solo così, infatti, verrebbe meno il rapporto burocratico docente e gruppo-classe per dar luogo a una mobilità fra gli insegnanti, che favorisca da un lato un maggior accordo fra il corpo docente e dall’altro una disponibilità ad aggregazioni diversificate, funzionali alle esigenze delle aggregazioni degli allievi. Ad un’ampia riunione di studenti, per es., finalizzata al dibattito su un particolare problema potrebbe presiedere un solo insegnante, che abbia le qualità di animatore; mentre ad un gruppo, anche ridottissimo, di studio o di ricerca potrebbe essere destinato un gruppo consistente di insegnanti, competenti a rispondere alle esigenze del gruppo. I vantaggi più evidenti di questa nuova organizzazione della s. si registrano soprattutto nell’attenzione rivolta ad ogni singolo allievo, nella reale individualizzazione e nel corrispondente sviluppo delle sue attitudini e capacità, dei suoi interessi e delle sue inclinazioni; e in particolare nella valutazione dei suoi progressi non commisurati ad un profitto standard del gruppo-classe, ma agli effettivi cambiamenti di comportamento dalla fase iniziale a quella conclusiva dell’azione didattica. L’allievo è valutato non comparativamente ad «altri», ma a «se stesso», alla sua «crescita», tenendo conto delle sue capacità ed anche dei suoi limiti e condizionamenti.

3.​​ Le resistenze al cambiamento.​​ Le istanze elaborate dalle teorie sulla s. e sull’apprendimento hanno avuto accoglienze locali diverse: nell’insieme si può dire che la maggior parte dei sistemi scolastici europei ha instaurato una sorta di contaminazione fra s. tradizionale e s. progressiva. Quanto alle cause delle lentezze e talora anche delle resistenze che si riscontrano nell’attuazione del cambiamento, accenneremo a due fenomeni diffusi nei paesi dell’​​ ​​ Europa occidentale: le riforme imperfette e il «conservatorismo» attribuito al corpo docente.​​ 

3.1.​​ Le riforme imperfette.​​ In teoria, il principio vigente nel XIX sec. «ad ogni classe sociale la propria s.» è stato superato dalla istituzionalizzazione della s. come servizio sociale offerto a tutti, e tale pertanto da valorizzare i singoli soggetti in età scolare, con l’estensione dell’obbligo oltre la s. primaria. Di fatto (Farinelli, 2006, 90), il livello di scolarizzazione in Italia rimane preoccupante, se raffrontato con il resto d’Europa: i giovani italiani fra i 18 e i 24 anni che possiedono solo la licenza media e non sono più in formazione sono il 21,9% della loro fascia d’età, a fronte del 12,6% della Francia, del 14,0% della Gran Bretagna, dell’8,7% della Finlandia e del 14,9% della media europea. La ragione è che nella maggior parte dei Paesi d’Europa l’obbligo scolastico è stato elevato fino ai sedici o ai diciotto anni di età, mentre in Italia è stato portato da 14 a 15 anni soltanto nell’a.s. 1999 / 2000. Ma al di là dei dati, anche di quelli che rappresentano un progresso della scolarizzazione, esiste un fenomeno di qualità della s., che non risponde allo sviluppo quantitativo. Se è vero che le riforme, dove sono state realizzate, hanno messo in crisi il modello di «mobilità sociale cooptativa» (l’élite sceglie le proprie reclute sulla base non dei meriti ma delle credenziali derivanti dalle classi sociali di appartenenza: livello economico-culturale, reddito, prestigio), il modello alternativo messo in atto, quello cioè della «mobilità competitiva», che dovrebbe consentire di raggiungere le posizioni più elevate a tutti coloro che vi aspirano, in realtà si rivela un vero meccanismo selettivo, a danno di quanti partono svantaggiati, per le condizioni di disparità in cui si trovano a contendere. I momenti concreti in cui si opera la selezione sono rappresentati dagli aspetti caratteristici della s. tradizionale, che abbiamo già considerato: una certa nozione di cultura, un certo modo di trasmettere i contenuti disciplinari, la distribuzione degli studenti in classi, una valutazione su modelli standard. Il sistema, in tal modo, oltre a conservare il consenso delle classi privilegiate, riesce a conquistare anche quello delle classi svantaggiate, grazie ad una solo apparente promozione. Le une e le altre, pertanto, o meglio i genitori di entrambe le classi, si trovano così d’accordo nel resistere alle riforme qualitative, che la s. e la società reclamano.

3.2.​​ Gli insegnanti.​​ Gli​​ ​​ insegnanti, dalla vasta letteratura che ne affronta il problema, vengono per lo più descritti come non innovatori, deferenti, privi di coraggio, passivi, non competitivi... Ovunque, nel Belgio come nella Costa d’Avorio, nella s. elementare come nella media, gli insegnanti applicano gli stessi schemi di insegnamento e consacrano l’essenziale del loro tempo a trasmettere nozioni o a organizzare la vita in classe (Crahay, 1986, 12-13). Ad essi viene pertanto attribuita la responsabilità delle riforme fallite o mancate, del diffuso malessere della s., dovuto piuttosto agli errori o alle inadempienze delle politiche scolastiche. Posti così in apparenza in una posizione centrale nella questione s., anziché trarne vantaggi in ogni caso discutibili, si vanno sempre più rendendo conto, almeno nell’area dei Paesi dell’Ocse (​​ organizzazioni internazionali), di esercitare una professione non molto prestigiosa, una «professione debole», che non li motiva ad assumere iniziative di innovazione nella s. Contemporaneamente si avverte nei docenti anche una marcata disponibilità ad accettare le critiche, che vengono loro rivolte, sulla loro insufficiente preparazione professionale, sulla scarsa conoscenza della psicologia dell’apprendimento, della psicologia sociale, della sociologia, della metodologia dell’insegnamento. Pertanto, tra gli insegnanti è maturata la coscienza di essere essi stessi il prodotto di un sistema che va radicalmente cambiato nella sua organizzazione e nelle strutture di autorità e di potere che lo sorreggono. Altrimenti, non resta che auspicare paradossalmente il collasso dei sistemi scolastici, perché si possano aprire ai docenti prospettive professionali diverse rispetto a quelle attuali.

4.​​ La s. alternativa.​​ La limitata efficacia dell’istituzione scolastica nell’offrire reali e pari opportunità di istruzione a tutti gli aventi diritto, ha fatto sorgere proposte note sotto il termine di «s. alternativa». La sua formulazione più semplificata consiste nell’indurre le autorità responsabili a mettere a disposizione pari risorse sia per coloro che seguono corsi propedeutici all’università, sia per coloro che intendono spendere le risorse in altri tipi di s. (ad es. di formazione al lavoro), tanto più utili se si pensa come la s. secondaria superiore si riveli mal preparata ad unire i programmi scolastici con l’addestramento professionale. L’uguaglianza di opportunità non si identificherebbe pertanto con l’identità di opportunità o di trattamento, ma con l’offerta di possibilità educative, che armonizzino le attitudini e i livelli di sviluppo degli alunni con le esigenze proprie dei vari compiti di apprendimento. L’attuazione di questa «s. alternativa» comporta, al di là della sua apparente naturalezza, una vera rivoluzione, o quanto meno una grande flessibilità nel sistema formativo, tanto da far pensare ad una vera «descolarizzazione della società» (Illich, 1972). Alle strutture istituzionali Illich intendeva sostituire centri ordinati a creare per gli studenti un rapporto con le «cose» (biblioteche, laboratori, musei), con le «persone» fornite di competenze anche se prive di diplomi, con i «pari» e con gli «anziani», ricchi di esperienza e di saggezza. A questi centri dovrebbero poter accedere quanti intendono spendere le risorse, messe a disposizione dai poteri costituiti, per seguire programmi individuali di apprendimento, accanto a «maestri» scelti dagli interessati e a persone adulte con cui mettere a confronto ciò che vanno imparando. Nei centri, infatti, sono ammessi anche i non più giovani, che, usciti dal sistema scolastico, vogliano rientrare in un modello di formazione adatto ai loro ritmi e ai loro interessi. Nella proposta di Illich è tutta la comunità che viene impegnata, in forme che consentano a studenti di qualsiasi età di stabilire rapporti con una «cultura», che la s. non è in grado di promuovere. A questo coinvolgimento dell’intera comunità si sono ispirate varie iniziative di s. alternative. Si può dire che tutte, pur con modalità, forme e valore diversi, hanno contribuito a far uscire la s., come istituzione, dall’isolamento in cui si era chiusa e a coinvolgere l’intera comunità (genitori, amministratori, forze politiche, sociali e culturali, agenzie territoriali) nella gestione di essa. Rovesciando la formula di Illich «descolarizzare la società», ma rispettandone lo spirito, si può ritenere che le esperienze alternative locali, abbiano ottenuto lo scopo di «socializzare la s.».

Bibliografia

Perquin N.,​​ Algemene didactiek,​​ Uitgevers, Roermond-Maaseik, Romen​​ &​​ Zonen,​​ 1967; Richmond W. K.,​​ La rivoluzione nell’insegnamento,​​ Roma, Armando, 1969; Bertin G. M.,​​ Educazione alla ragione,​​ Ibid., 1971; Bloch J. H. (Ed.),​​ Mastery learning. Procedimenti scientifici di educazione individualizzata,​​ Torino, Loescher, 1972; Goodlad J. I. - R. H. Anderson,​​ The nongraded school. S. senza classi,​​ Ibid., 1972; Illich I.,​​ Descolarizzare la società,​​ Milano, Mondadori, 1972; Levi G. - J. C. Schmitt,​​ Storia dei giovani,​​ Bari, Laterza, 1994; Gasperoni G.,​​ Diplomati e istruiti. Rendimento scolastico e istruzione secondaria superiore, Bologna, Il Mulino, 1996; Bonetta G.,​​ Storia della s. e delle istituzioni educative, Firenze, Giunti, 1998; Brint S.,​​ S. e società, Bologna, Il Mulino, 1999; Farinelli F. (Ed.),​​ La s. in cifre 2006, Roma, Ministero della Pubblica I., Direzione Generale Studi e Programmazione, 2006.

G. Proverbio




SCUOLA AGRICOLA

 

SCUOLA AGRICOLA

Riunisce, come poche istituzioni educative, le due componenti di ogni insegnamento: quella teorica (apprendimento scolastico) e quella pratica (applicazione di tutte le scienze studiate: fisica, chimica, biologia, botanica, zoologia, mineralogia... e l’acquisizione di abilità manuali).

1. Per questo tipo di insegnamento è essenziale la disponibilità di un appezzamento di terreno ove fare sperimentazione, sia nello stesso giardino della s. (per ogni tipo di s.a.) sia, ai livelli superiori, in campi lavorati con la supervisione di esperti. Il curricolo tradizionale comprende, almeno, lo studio del suolo, delle piante, del clima e visite ad aziende modello. Oggi bisogna aggiungere anche le tecniche artificiali di coltivazione ed irrigazione, le malattie delle piante, la applicazione generalizzata della chimica, lo studio dei macchinari, del mercato agricolo, della legislazione, e la conoscenza delle fonti di informazione. Ovviamente contro questa concezione si sta aprendo la strada alla cosiddetta «agricoltura ecologica o biologica», che ricerca un insegnamento mirato alla produzione agricola tradizionale senza l’impiego della chimica, che non è però regolata ancora da nessuna legislazione. La s.a. offre un’occasione importante per l’apprendimento del lavoro in​​ équipe,​​ germe del futuro cooperativismo agricolo che è ormai un fenomeno da cui non si può prescindere.

2. Fino alla fine degli anni ’30 del XX sec. la politica della formazione professionale in agricoltura seguì l’evoluzione del​​ ​​ sistema formativo di ogni nazione. Ma già nel IV Congresso Internazionale di Insegnamento Agricolo (Roma) si chiese che la s. primaria istruisse il futuro agricoltore nella conoscenza delle cause e dei fondamenti scientifici che sono alla base della sua attività e si opponesse alle cause economiche e morali che contribuivano allo spopolamento dei campi.​​ ​​ Organizzazioni internazionali come l’Unesco, l’Ocde e l’Oit, con i loro studi e le loro Raccomandazioni, hanno portato ad una politica unificata nelle sue linee generali, secondo cui la s.a. si è andata spostando dal livello elementare o di secondaria di primo ciclo a quello della secondaria superiore professionale; inoltre la cultura generale ha assunto una rilevanza sempre più grande nel curricolo. Nell’Unione Europea, dal Trattato di Roma del 1957 fino al 1971, si può solo parlare di «principi comuni» di formazione professionale in seguito anche a «programmi di attività», benché solo a partire dal 1992 l’educazione abbia un riconoscimento giuridico nei diversi Trattati. Sul piano amministrativo la competenza sulla s.a. tende ad essere dispersa tra vari Ministeri (dell’Istruzione, del Lavoro, dell’Agricoltura).

Bibliografia

V Congresso Internazionale dell’insegnamento agrario,​​ Roma, CITA, 1975;​​ Raimbault R. N. et al.,​​ Enseignement agricole et Tiers Monde,​​ Paris,​​ AFDI, 1989;​​ Rivero J. M.,​​ Profesionalización del agricultor y formación de técnicos,​​ Valencia, Generalitat, 1992; Prellezo J. M., «Le s. professionali (1880-1922)»,​​ in​​ L’educazione salesiana dal 1880 al 1922. Istanze e attuazioni in diversi contesti, a cura di J. G. González et. al., vol. 1, Roma, LAS, 2007, 53-94.

V. Faubell