SCUOLA
Il termine s. deriva dal lat. schola, che è prestito operato sul gr. scholé («tempo libero», «esercizio dello spirito»); donde la testimonianza di Festo: «scholae dictae sunt non ab otio ac vacatione omni, sed quod, ceteris rebus omissis, vacare liberalibus studiis pueri debent» (De verborum signifìcatu, 470, 14). Come calco di scholé a → Roma è attestato anche ludus, sempre con il valore di attività concepita al di fuori di ogni fine pratico e intesa, pertanto, sia come gioco sia come esercizio scolastico, prima di carattere privato o domestico e successivamente di carattere pubblico e formalizzato.
1. L’istituzione. Il riferimento alla → Grecia e a Roma è puramente emblematico, in quanto vuole indicare un fenomeno proprio di tutte le civiltà, quello cioè di sostituire l’apprendimento spontaneo o familiare delle giovani generazioni, fondato prevalentemente sull’imitazione degli adulti, con una trasmissione del sapere e della «cultura» affidata all’insegnamento, cui non potevano essere idonei né la famiglia né il gruppo sociale di appartenenza (→ storia della s.). I materiali culturali, che costituirono i contenuti delle prime forme di istruzione, furono finalizzati alla conservazione delle testimonianze e delle leggi, proprie di ogni comunità, per preservarle nei confronti di altri gruppi. A tale compito vennero delegati gli adulti, quali detentori della cultura del luogo, e in certo modo i garanti della sua autenticità; ad essi si richiese ben presto di calare in forme simboliche i contenuti da trasmettere ai giovani, con il ricorso in particolare ai diversi tipi di linguaggio, alle notazioni matematiche e musicali. Si venne così istituzionalizzando quell’aspetto dell’insegnamento e della s. contrassegnato dalla centralità dell’insegnante e dei contenuti (compresi sotto il termine di «cultura trasmessa»), che costituì la nota dominante della «s. strutturata», detta anche «s. della tradizione».
2. Dalla «s. della tradizione» alla s. dell’allievo. Solo intorno alla metà del sec. XX incominciano ad operare nella s. istanze elaborate anche nel passato, ma rimaste inattive, che porteranno al centro dell’insegnamento non più i contenuti ma il soggetto educando ed apprendente.
2.1. La cultura. Ad essere messa in crisi è innanzi tutto la nozione di → cultura, concepita come «eredità sociale», che al pari della eredità biologica richiama il patrimonio di una tradizione, dove all’uomo è lasciato un ruolo meramente passivo. L’ → educazione e 1’ → istruzione, in questa accezione di cultura, esercitano una funzione «depositaria», di trasmissione di contenuti già confezionati, che potrebbero valere soltanto se ad una ricezione passiva si sostituisse una ricezione critica, operata dal soggetto destinatario di questa trasmissione, che nella s. è l’allievo. Insieme con queste conoscenze culturali trasmesse da una generazione all’altra, la s. si fa anche carico di mediare il comportamento sociale accettato e di farlo assumere da parte dei giovani. La nozione alternativa di cultura, che è andata via via emergendo anche nella s., fa degli uomini, compresi quelli che si addestrano a diventarlo, non solo dei portatori e delle creature di una tradizione di nozioni e di un sistema di vita, ma dei creatori e manipolatori, capaci di esercitare un ruolo attivo tanto nell’uso di forme simboliche quanto nella costruzione di manufatti: accanto all’homo sapiens è «colto» infatti anche l’homo faber, l’uomo che comprende il mondo, che entra nel «cuore delle cose», per trasformarle a vantaggio dell’uomo. Se alla s. deve spettare il compito specifico di «umanizzare attraverso la cultura» (Perquin, 1967), occorre che questa per prima sia umanizzata, che si ponga cioè dalla parte dell’uomo come operatore di cultura.
2.2. 1 contenuti disciplinari. Quella sorta di «staticità» che ha caratterizzato la «cultura trasmessa» ha influito negativamente anche sull’insegnamento delle singole → discipline o dei loro contenuti; nel proporli infatti agli allievi non si ammetteva il «beneficio del dubbio», essendo i contenuti valutati sempre come certi, definiti ed assoluti. La «falsificabilità» delle teorie scientifiche per lo più non ha indotto gli insegnanti a relativizzare i dati riguardanti la materia dei loro insegnamenti, ad illustrare agli allievi, anche sotto il profilo storico, la provvisorietà che ha segnato il cammino della scienza. Oltre che un errore scientifico, ciò ha provocato uno scarso, o quasi nullo, coinvolgimento creativo degli allievi dinanzi al metodo «affermativo», con cui l’insegnante si rivolgeva ai suoi uditori, nella consolidata forma della «lezione». L’opposto, che rappresenta uno dei momenti fondamentali dell’innovazione scolastica e didattica, si ritrova nel metodo di insegnamento fondato sulla «soluzione di problemi» o, detto altrimenti, sulla ricerca. La quale, prima ancora di essere una tecnica o un espediente per occupare gli allievi, è un atteggiamento nuovo, una mentalità diversa, che accomunano docenti ed allievi, per trarre innanzi tutto un senso del limite proprio delle umane conoscenze. La prassi che deriva da questo atteggiamento consiste dunque nell’affrontare problemi aperti più che soluzioni compiute. L’aspetto problematizzante raccorda tutte le fasi della ricerca, anche nel suo inevitabile impianto tecnico. Essa muove infatti da una serie di interrogativi sull’argomento in questione, per trarne subito un’ipotesi di risposta o una soluzione provvisoria, da verificare successivamente, per formulare una teoria o una legge, se la verifica si è rivelata positiva.
2.3. L’allievo dimezzato. I limiti della nozione di cultura e la relatività dei contenuti disciplinari non hanno impedito alla s. di porsi come momento educativo e di sviluppo dell’allievo. Senonché si è trattato di un’azione fortemente riduttiva, in quanto ha privilegiato solo un aspetto dell’«educazione alla ragione» – che è educazione dell’uomo – cogliendone cioè esclusivamente il momento logico (la «ragione logica» direbbe Maritain) e trascurando la pluridimensionalità dell’esigenza razionale che è insieme intellettuale, affettiva, estetica, fisica, professionale, etico-sociale, creativa e intuitiva. Da una visione della ragione ridotta alla dimensione intellettuale deriva la tendenza a considerare tutte le discipline come «teoriche», aventi cioè come fine la conoscenza, a danno delle discipline per loro natura «pratiche», poiché riguardano le scelte (l’etica e la politica), e delle discipline «produttive» o del «fare» (le arti applicate, le «belle arti»). La stessa soluzione dei problemi, che potrebbe sembrare di tipo esclusivamente intellettuale, comporta nella fase della formulazione di un’ipotesi o di una risposta provvisoria, un intervento di carattere intuitivo, inventivo e creativo, che solo nei momenti successivi dovrà coinvolgere altri aspetti del razionale, come quello logico e operativo. L’innovazione dell’insegnamento dovrebbe coinvolgere insomma l’intero universo delle esperienze dell’allievo, l’intera persona nella pienezza delle sue possibilità.
2.4. L’organizzazione della popolazione scolastica. L’elemento che più manifestamente ha contraddistinto, e contraddistingue ancora, la s. formalizzata e strutturata, si trova nella distribuzione per classi della popolazione scolastica: elemento dell’apparato materiale ma determinante nella conservazione degli aspetti finora segnalati relativi all’insegnamento e di altri ancora. La classe infatti raccoglie gli allievi in un gruppo ritenuto per istituzione «omogeneo», sulla base del principio che ad ogni età cronologica corrisponde un’identica età mentale, distinta dagli stessi processi e ritmi di apprendimento, idonea ad affrontare programmi uguali per tutti gli allievi e tale, infine, da comportare o sopportare gli stessi criteri di valutazione. Il fatto è diventato tanto più grave quanto più la s. si è aperta formalmente a tutti i gruppi sociali, per una sorta di democratizzazione, o di «s. di massa», in cui i più «deboli» non trovano le strutture adeguate al reale sviluppo delle loro potenzialità di apprendimento. Una diversa proposta, per una più «umana» distribuzione degli alunni, è stata avanzata, da alcuni decenni, ed in parte anche realizzata in alcuni Paesi. Essa mira ad una sostituzione dei gruppi-classe con «gruppi di apprendimento» (team-learning), dotati di grande flessibilità per rispondere ai livelli di partenza propri di ogni soggetto, ai ritmi personali di apprendimento, agli interessi di studio e di ricerca. L’iniziativa consente, ad es., che lo stesso allievo possa appartenere, per tempi più o meno prolungati, a gruppi differenti, in base ai criteri accennati, nonché ad esigenze di ricuperi o di interventi su lacune in ambiti particolari. Dalla parte degli insegnanti, ai gruppi di apprendimento dovrebbero corrispondere i «gruppi di insegnamento» (team-teaching), condizione determinante per poter realizzare qualunque innovazione o riforma scolastica. Solo così, infatti, verrebbe meno il rapporto burocratico docente e gruppo-classe per dar luogo a una mobilità fra gli insegnanti, che favorisca da un lato un maggior accordo fra il corpo docente e dall’altro una disponibilità ad aggregazioni diversificate, funzionali alle esigenze delle aggregazioni degli allievi. Ad un’ampia riunione di studenti, per es., finalizzata al dibattito su un particolare problema potrebbe presiedere un solo insegnante, che abbia le qualità di animatore; mentre ad un gruppo, anche ridottissimo, di studio o di ricerca potrebbe essere destinato un gruppo consistente di insegnanti, competenti a rispondere alle esigenze del gruppo. I vantaggi più evidenti di questa nuova organizzazione della s. si registrano soprattutto nell’attenzione rivolta ad ogni singolo allievo, nella reale individualizzazione e nel corrispondente sviluppo delle sue attitudini e capacità, dei suoi interessi e delle sue inclinazioni; e in particolare nella valutazione dei suoi progressi non commisurati ad un profitto standard del gruppo-classe, ma agli effettivi cambiamenti di comportamento dalla fase iniziale a quella conclusiva dell’azione didattica. L’allievo è valutato non comparativamente ad «altri», ma a «se stesso», alla sua «crescita», tenendo conto delle sue capacità ed anche dei suoi limiti e condizionamenti.
3. Le resistenze al cambiamento. Le istanze elaborate dalle teorie sulla s. e sull’apprendimento hanno avuto accoglienze locali diverse: nell’insieme si può dire che la maggior parte dei sistemi scolastici europei ha instaurato una sorta di contaminazione fra s. tradizionale e s. progressiva. Quanto alle cause delle lentezze e talora anche delle resistenze che si riscontrano nell’attuazione del cambiamento, accenneremo a due fenomeni diffusi nei paesi dell’ → Europa occidentale: le riforme imperfette e il «conservatorismo» attribuito al corpo docente.
3.1. Le riforme imperfette. In teoria, il principio vigente nel XIX sec. «ad ogni classe sociale la propria s.» è stato superato dalla istituzionalizzazione della s. come servizio sociale offerto a tutti, e tale pertanto da valorizzare i singoli soggetti in età scolare, con l’estensione dell’obbligo oltre la s. primaria. Di fatto (Farinelli, 2006, 90), il livello di scolarizzazione in Italia rimane preoccupante, se raffrontato con il resto d’Europa: i giovani italiani fra i 18 e i 24 anni che possiedono solo la licenza media e non sono più in formazione sono il 21,9% della loro fascia d’età, a fronte del 12,6% della Francia, del 14,0% della Gran Bretagna, dell’8,7% della Finlandia e del 14,9% della media europea. La ragione è che nella maggior parte dei Paesi d’Europa l’obbligo scolastico è stato elevato fino ai sedici o ai diciotto anni di età, mentre in Italia è stato portato da 14 a 15 anni soltanto nell’a.s. 1999 / 2000. Ma al di là dei dati, anche di quelli che rappresentano un progresso della scolarizzazione, esiste un fenomeno di qualità della s., che non risponde allo sviluppo quantitativo. Se è vero che le riforme, dove sono state realizzate, hanno messo in crisi il modello di «mobilità sociale cooptativa» (l’élite sceglie le proprie reclute sulla base non dei meriti ma delle credenziali derivanti dalle classi sociali di appartenenza: livello economico-culturale, reddito, prestigio), il modello alternativo messo in atto, quello cioè della «mobilità competitiva», che dovrebbe consentire di raggiungere le posizioni più elevate a tutti coloro che vi aspirano, in realtà si rivela un vero meccanismo selettivo, a danno di quanti partono svantaggiati, per le condizioni di disparità in cui si trovano a contendere. I momenti concreti in cui si opera la selezione sono rappresentati dagli aspetti caratteristici della s. tradizionale, che abbiamo già considerato: una certa nozione di cultura, un certo modo di trasmettere i contenuti disciplinari, la distribuzione degli studenti in classi, una valutazione su modelli standard. Il sistema, in tal modo, oltre a conservare il consenso delle classi privilegiate, riesce a conquistare anche quello delle classi svantaggiate, grazie ad una solo apparente promozione. Le une e le altre, pertanto, o meglio i genitori di entrambe le classi, si trovano così d’accordo nel resistere alle riforme qualitative, che la s. e la società reclamano.
3.2. Gli insegnanti. Gli → insegnanti, dalla vasta letteratura che ne affronta il problema, vengono per lo più descritti come non innovatori, deferenti, privi di coraggio, passivi, non competitivi... Ovunque, nel Belgio come nella Costa d’Avorio, nella s. elementare come nella media, gli insegnanti applicano gli stessi schemi di insegnamento e consacrano l’essenziale del loro tempo a trasmettere nozioni o a organizzare la vita in classe (Crahay, 1986, 12-13). Ad essi viene pertanto attribuita la responsabilità delle riforme fallite o mancate, del diffuso malessere della s., dovuto piuttosto agli errori o alle inadempienze delle politiche scolastiche. Posti così in apparenza in una posizione centrale nella questione s., anziché trarne vantaggi in ogni caso discutibili, si vanno sempre più rendendo conto, almeno nell’area dei Paesi dell’Ocse (→ organizzazioni internazionali), di esercitare una professione non molto prestigiosa, una «professione debole», che non li motiva ad assumere iniziative di innovazione nella s. Contemporaneamente si avverte nei docenti anche una marcata disponibilità ad accettare le critiche, che vengono loro rivolte, sulla loro insufficiente preparazione professionale, sulla scarsa conoscenza della psicologia dell’apprendimento, della psicologia sociale, della sociologia, della metodologia dell’insegnamento. Pertanto, tra gli insegnanti è maturata la coscienza di essere essi stessi il prodotto di un sistema che va radicalmente cambiato nella sua organizzazione e nelle strutture di autorità e di potere che lo sorreggono. Altrimenti, non resta che auspicare paradossalmente il collasso dei sistemi scolastici, perché si possano aprire ai docenti prospettive professionali diverse rispetto a quelle attuali.
4. La s. alternativa. La limitata efficacia dell’istituzione scolastica nell’offrire reali e pari opportunità di istruzione a tutti gli aventi diritto, ha fatto sorgere proposte note sotto il termine di «s. alternativa». La sua formulazione più semplificata consiste nell’indurre le autorità responsabili a mettere a disposizione pari risorse sia per coloro che seguono corsi propedeutici all’università, sia per coloro che intendono spendere le risorse in altri tipi di s. (ad es. di formazione al lavoro), tanto più utili se si pensa come la s. secondaria superiore si riveli mal preparata ad unire i programmi scolastici con l’addestramento professionale. L’uguaglianza di opportunità non si identificherebbe pertanto con l’identità di opportunità o di trattamento, ma con l’offerta di possibilità educative, che armonizzino le attitudini e i livelli di sviluppo degli alunni con le esigenze proprie dei vari compiti di apprendimento. L’attuazione di questa «s. alternativa» comporta, al di là della sua apparente naturalezza, una vera rivoluzione, o quanto meno una grande flessibilità nel sistema formativo, tanto da far pensare ad una vera «descolarizzazione della società» (Illich, 1972). Alle strutture istituzionali Illich intendeva sostituire centri ordinati a creare per gli studenti un rapporto con le «cose» (biblioteche, laboratori, musei), con le «persone» fornite di competenze anche se prive di diplomi, con i «pari» e con gli «anziani», ricchi di esperienza e di saggezza. A questi centri dovrebbero poter accedere quanti intendono spendere le risorse, messe a disposizione dai poteri costituiti, per seguire programmi individuali di apprendimento, accanto a «maestri» scelti dagli interessati e a persone adulte con cui mettere a confronto ciò che vanno imparando. Nei centri, infatti, sono ammessi anche i non più giovani, che, usciti dal sistema scolastico, vogliano rientrare in un modello di formazione adatto ai loro ritmi e ai loro interessi. Nella proposta di Illich è tutta la comunità che viene impegnata, in forme che consentano a studenti di qualsiasi età di stabilire rapporti con una «cultura», che la s. non è in grado di promuovere. A questo coinvolgimento dell’intera comunità si sono ispirate varie iniziative di s. alternative. Si può dire che tutte, pur con modalità, forme e valore diversi, hanno contribuito a far uscire la s., come istituzione, dall’isolamento in cui si era chiusa e a coinvolgere l’intera comunità (genitori, amministratori, forze politiche, sociali e culturali, agenzie territoriali) nella gestione di essa. Rovesciando la formula di Illich «descolarizzare la società», ma rispettandone lo spirito, si può ritenere che le esperienze alternative locali, abbiano ottenuto lo scopo di «socializzare la s.».
Bibliografia
Perquin N., Algemene didactiek, Uitgevers, Roermond-Maaseik, Romen & Zonen, 1967; Richmond W. K., La rivoluzione nell’insegnamento, Roma, Armando, 1969; Bertin G. M., Educazione alla ragione, Ibid., 1971; Bloch J. H. (Ed.), Mastery learning. Procedimenti scientifici di educazione individualizzata, Torino, Loescher, 1972; Goodlad J. I. - R. H. Anderson, The nongraded school. S. senza classi, Ibid., 1972; Illich I., Descolarizzare la società, Milano, Mondadori, 1972; Levi G. - J. C. Schmitt, Storia dei giovani, Bari, Laterza, 1994; Gasperoni G., Diplomati e istruiti. Rendimento scolastico e istruzione secondaria superiore, Bologna, Il Mulino, 1996; Bonetta G., Storia della s. e delle istituzioni educative, Firenze, Giunti, 1998; Brint S., S. e società, Bologna, Il Mulino, 1999; Farinelli F. (Ed.), La s. in cifre 2006, Roma, Ministero della Pubblica I., Direzione Generale Studi e Programmazione, 2006.
G. Proverbio