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STRATEGIE EDUCATIVE

 

STRATEGIE EDUCATIVE

Sono processi raffinati che intendono coordinare i fattori delle operazioni educative utilizzando nel modo migliore le forze soggettive e quelle di contesto, per conseguire​​ ​​ fini e​​ ​​ obiettivi complessi, per limitare i danni, per rimediare difficoltà e errori.

1. A volte pretendono il riconoscimento di scientificità. Ma la necessaria apertura alle variabili della concretezza situazionale e contestuale le fa piuttosto simili a tecniche o ad arti ben fondate. Infatti qualche volta utilizzano l’abilità e l’artificio, e persino le debolezze e le dinamiche persuasive inconsce, avvicinandosi così alle tattiche pedagogiche, vale a dire all’insieme degli accorgimenti prudenti posti in atto per adeguare i mezzi al fine e alla scaltrezza e tatto nel muoversi concretamente educando. Responsabili di sistemi complessi, di interventi particolarmente carichi di fattori, di processi a lungo svolgimento, dovrebbero utilizzare anche la teoria dei giochi e disporre di regole di decisione che, prevedendo i possibili risultati di certe scelte note, stabiliscano quali linee di direzione adottare o seguire di conseguenza. L’​​ ​​ educazione risulta sempre una s. con finalità da conseguire, fattori da mettere insieme e impegnare, operazioni da organizzare e ben condurre. Si può immaginare come una grande s. pedagogica il mettere l’educazione in stretta connessione con i più forti sovra-sistemi (persona, società, cultura, mondo etico e religioso), allo scopo di definire meglio finalità e obiettivi, trovare risorse, attuare adattamenti opportuni alle situazioni e condizioni reali.

2. Il modello strategico può farsi più urgente oggi in rapporto alla complessità globalizzata con cui si ha a che fare a tutti i livelli dell’educazione e della vita. In tal senso si fa forte l’esigenza di ampie, profonde, esperte s. e tattiche di intervento generale, sociale, ambientale, locale, situazionale. Ma anche il particolare e speciale si è fatto esso stesso difficile. Si tratta, pertanto, di dare spazio maggiore non solo al ripensamento teorico, ma anche ai momenti di previsione rigorosa e operazionale, al fine di garantire la buona correlazione tra mondi vitali personali e comunitari, fini e obiettivi educativi, metodi e mezzi dotati di alta probabilità di buon esito.

Bibliografia

Gianola P.,​​ Pedagogia tra sfide e controsfide,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 41 (1994) 173-187; Callari Galli M. - F. Cambi - M. Ceruti,​​ Formare alla complessità. Prospettive dell’educazione nelle società globali, Roma, Carocci, 2003.​​ 

P. Gianola




STRESS

 

STRESS

Con il termine s. si intende una varietà di fenomeni vegetativo-emotivi, cognitivi e comportamentali che tendono a presentarsi congiuntamente (sebbene con differenze intra ed interindividuali di prevalenza dell’una o dell’altra categoria) quando un organismo è sottoposto ad un qualunque compito di natura adattiva.

1. Esso è considerato una reazione funzionale al mantenimento dello stato di equilibrio organismo-ambiente, reazione che si mobilita quando l’organismo si trova a fronteggiare particolari condizioni o eventi esterni che implicano richieste di tipo, qualità, intensità o durata diverse dal solito. Il termine ha finito per indicare una reazione che si stabilisce in presenza di uno squilibrio tra le richieste delle condizioni ambientali da una parte e le capacità e le risorse dell’organismo a farvi fronte dall’altra. Infatti, quando la reazione è sollecitata troppo a lungo o troppo intensamente, le capacità di adattamento finiscono con l’essere sopraffatte, nel senso che le energie sembrano esaurite, le strategie di​​ ​​ comportamento risultano inadeguate e il soggetto avverte una condizione di sgradevole tensione che difficilmente viene alleviata dal riposo. Il termine, su un piano più strettamente psicologico, esprime un fenomeno pervasivo della condizione umana che insorge quando l’equilibrio adattivo tra l’ambiente fisico e psicosociale e l’uomo va in crisi a sfavore di quest’ultimo, dando origine a fenomeni psicofisiologici e comportamentali di stretta rilevanza per la salute, il benessere psicoemotivo e il livello prestazionale individuale e collettivo.​​ 

2. Quando si parla di s. è inevitabile il riferimento al lavoro di H. Selye (1936, 1976), che più di ogni altro ha contribuito alla sua chiarificazione, fornendone una definizione ormai unanimemente accettata. L’A. usò per la prima volta il termine s. nel 1936 in una lettera inviata alla rivista scientifica inglese «Nature». In essa concettualizzava lo s. come stimolo nocivo, sottolineando come esperienze dannose (iniezioni di varie sostanze, scosse elettriche, stimoli dolorosi) potessero essere determinanti nell’insorgenza di disturbi somatici o di vere e proprie malattie. Successivamente, però, modificò questa prima formulazione del concetto, affermando che non solo gli eventi dolorosi o gli agenti nocivi erano in grado di produrre stati patologici o morbosi, ma anche fattori positivi di tipo emozionale (stati di felicità particolarmente intensi, gioia, eccitazione). L’attenzione restava comunque sempre sullo stimolo. Soltanto a partire dal 1950, Selye cominciò ad usare il termine s. come risposta e precisamente come​​ risposta non specifica dell’organismo ad ogni richiesta proveniente dall’ambiente​​ (Selye, 1976).

3. Tale cambio di prospettiva lo portò ad operare una distinzione tra stimolo e risposta. Quest’ultima, comprendente tutte le alterazioni fisiche che possono insorgere nell’organismo aggredito dagli stimoli, fu chiamata dall’A. (1976) Sindrome Generale di Adattamento (G.A.S. =​​ General Adaptation Syndrome).​​ In essa sono individuabili tre fasi tipiche: reazione di allarme, resistenza con adattamento ottimale, fase di esaurimento. Secondo Selye lo s. rappresenta un fenomeno inevitabile e, quando è contenuto entro certi limiti, ha una funzione importante. La mancanza totale di s., anche per periodi brevi, è incompatibile con la vita, proprio come quando lo s. è eccessivo. A partire dalle teorizzazioni di Selye si sono sviluppati tre filoni di ricerca indirizzati ad indagare, rispettivamente, gli effetti devastanti sia psicologici che somatici prodotti da situazioni estreme, i ruoli dei processi cognitivi ed emozionali nell’insorgenza e nella gestione dello s., lo s. prodotto da particolari richieste lavorative e da specifici contesti organizzativi. Le ricerche attuali tendono comunque ad orientare l’attenzione sulla dimensione soggettiva dello s., evidenziando come il valore stressogeno di una situazione sia intrinsecamente legato, oltre che alle caratteristiche di essa anche alle valenze, alle aspettative, alla percezione che l’individuo ha dei propri bisogni e delle proprie capacità.

4. Possiamo distinguere diversi tipi di s.:​​ fisici​​ (condizioni di rumore, inquinamento, temperature estreme, sforzi eccessivi),​​ psicosociali​​ (esigenze particolari poste dal contesto sociale dei rapporti umani in cui siamo inseriti oppure da noi stessi),​​ acuti​​ (avvenimenti improvvisi della vita più o meno gravi, che ci richiedono un sforzo di adattamento),​​ cronici​​ (condizioni persistenti che per intensità e durata che travalicano le nostre possibilità di fronteggiamento),​​ negativi​​ (situazioni nei confronti delle quali il giudizio del soggetto è negativo e che sono accompagnate da sensazioni soggettivamente spiacevoli),​​ positivi​​ (situazioni che richiedono un impegno maggiore del solito, ma che costituiscono per il soggetto una sfida, piuttosto che una minaccia al benessere personale). A nuocere sul nostro stato di salute sono soprattutto gli s. cronici fortemente correlati con le malattie cronico-degenerative. Esistono tuttavia importanti fattori di moderazione dello s. quali le strategie di​​ coping​​ e il sostegno sociale.

Bibliografia

Selye H.,​​ A syndrome produced by diverse nocious agents, in «Nature» (1936) 138, 32; Id.,​​ S. senza paura, Milano, Rizzoli, 1976; Del Rio G.,​​ S. e lavoro nei servizi: sintomi,​​ cause e rimedi del burnout, Firenze, La Nuova Italia Scientifica, 1990; Farnè M.,​​ Lo s., Bologna, Il Mulino, 1999; Lazarus R. S.,​​ S. and emotion: a new synthesis, New York, Springer, 1999; Di Nuovo S. - L. Rispoli - E. Genta,​​ Misurare lo s.: il test M.S.P. e altri strumenti per una valutazione integrata, Milano, Angeli, 2000; Mostofsky D. I. - D. H. Barlow (Edd.),​​ The management of s. and anxiety in medical disorders, Boston, Allyn and Bacon, 2000; Dayhoff S. A.,​​ Come vincere l’ansia sociale: superare le difficoltà di relazione con gli altri e il senso di insicurezza, Trento, Erickson, 2000; Horowitz M. J.,​​ Sindromi di risposta allo s.: valutazione e trattamento, Milano, Cortina, 2004.​​ 

A. R. Colasanti




STRUTTURALISMO PEDAGOGICO

 

STRUTTURALISMO PEDAGOGICO

Orientamento, sviluppatosi ed affermatosi soprattutto negli anni ’60 e ’70 del sec. scorso, in cui l’idea di struttura ha notevolmente influenzato alcune posizioni pedagogiche soprattutto a proposito della teoria del​​ ​​ curricolo, della​​ ​​ didattica e dell’​​ ​​ apprendimento.

1.​​ Sfondi.​​ Non si può parlare di una corrente o di una scuola nel senso usuale del termine ma, piuttosto, di una sorta di «pulviscolo multidisciplinare» dai vasti confini, nel quale l’idea strutturalistica opera soprattutto mediante l’evidenza di tre connotati basilari, consistenti nel primato del segno sull’oggetto (il sapere non riguarda gli enti naturali ma i segni prodotti dalla capacità semiotica dell’uomo), nella dominanza dell’immutevole sull’effimero (ciò a cui mirare non è la pura descrizione degli accadimenti ma l’individuazione delle costanti e delle leggi ad essi sottese) e nella pluridimensionalità della ricerca (la costruzione della totalità pensabile si avvale di una metodologia di reperimento di serie culturali omologhe). I caratteri «intellettuali» di fondo sono quindi costituiti dall’olismo, dalla sistemicità, dall’organicità, dalla composizione continua di diffrazioni analitiche e contrazioni sintetiche e dal senso dell’ulteriore (nascosto) rispetto all’immediato (evidente).

2.​​ Contributi.​​ È usuale riferirsi, come autore paradigmatico, a J. Bruner. In realtà, è più esatto dire che la sua teoria dell’istruzione ha rappresentato un punto di riferimento per proporre una prospettiva curricolare e psicodidattica che si potrebbe definire, in generale, post-attivistica. L’impianto strutturalista consiste nello svolgimento del tema della «struttura delle discipline» come elemento cruciale dello sviluppo cognitivo. La linea argomentativa si annoda attorno ad alcuni temi centrali: la vita cognitiva dell’essere umano si distingue per la sua attività esplorativa e regolativa fin dai primi momenti del suo esplicarsi; l’uomo dispone di tre possibilità di «mediazione» trascrittiva della realtà in termini di linguaggio mentale, e cioè la «rappresentazione» pratico-operativa (mano), quella iconica (occhio) e quella simbolica (mente); la cultura, intesa come insieme di «rappresentazioni» progressivamente ordinate e coerentizzate in settori scientificamente organici, costituisce l’eredità umanizzante dell’uomo. In definitiva, l’educazione viene intesa come processo di umanizzazione attraverso l’apprendimento degli elementi descrittivi e dinamici che definiscono l’eredità culturale propria di un essere umano, il cui nucleo è rappresentato dalle scienze (o discipline o materie di insegnamento). Queste idee hanno fornito lo spunto per una profonda revisione critica sul piano curricolare e didattico. Quanto al primo aspetto, si è rivalutata la rilevanza dei contenuti rispetto alle attività; quanto al secondo, è emersa l’indicazione di una didattica a fondamento epistemico, vale a dire mirata all’acquisizione delle procedure, dei criteri direttivi, dei principi metodologici e delle sistemazioni concettuali che definiscono la competenza accertata nei vari campi del sapere. Diventa allora ineludibile l’esperienza della scuola, intesa come vero e proprio «ingresso nella via della ragione», luogo in cui la guida dell’insegnante rende più efficace e sicuro il cammino di appropriazione delle qualità e degli strumenti che hanno reso possibile la cultura umana.

3.​​ Avvertenze.​​ Nell’interpretazione di questi messaggi occorre badare a non deragliare in senso quantitativo per rispettarne invece la sostanza eminentemente qualitativa. Sul piano curricolare, infatti, l’idea fondamentale non è di perseguire l’assorbimento di «tutto» l’accumulo dell’informazione fattuale possibile ma di garantire il contatto con ciò che si qualifica come assolutamente essenziale, definitivo e necessario (in una parola: categoriale) per estendere la possibilità di comprensione autonoma ulteriore; sul piano didattico, il criterio non è l’esercizio a se stante di abilità passivamente ricevute ma l’incorporazione dei tratti più intimamente costitutivi di una disciplina come forma della mente. «Ogni disciplina – dice G. Kneller – ha il suo nucleo di idee basilari» in virtù delle quali essa «è sia un tipo di conoscenza che una maniera di conoscere; è sia un sistema di idee (fatti e teorie) sia un mezzo per acquisirle. Ogni disciplina comprende un modo di pensare o di indagare il mondo, che ha dato prova della sua fertilità nel corso del tempo». Di ogni disciplina – secondo Schwab – si riconosce uno stato «cristallizzato» (rinchiuso in prodotti ormai stabiliti) ed uno «fluido» (corrispondente alle infinite possibilità connesse alla ricerca ed all’esploratività): sarebbe sbagliato far coincidere l’idea strutturalista in didattica soltanto con il primo. L’apprendimento formativo, quindi, si ha soltanto attraverso processi di attività cognitiva in forma di ricerca euristica; in definitiva, si tratta di sostituire alla esplorazione empirica l’esplorazione tematica, orientata, più che al «che» dei fatti, al «come» delle procedure e dei criteri.

4.​​ Dibattiti.​​ Le discussioni ed i dissensi si condensano sull’accusa di iperintellettualismo e di dimenticanza della preoccupazione psicoevolutiva, da cui discendono il didatticismo esasperato (insegnabilità di ogni cosa ad ogni età), il formalismo, l’antigradualismo (assimilazione del neofita all’esperto), lo scientismo, il conservatorismo (affinità con le concezioni curricolari più tradizionali): si tratta, in effetti, di pericoli reali e, in qualche caso, di sbandamenti effettivi. D’altra parte, è opportuno ricordare la sottolineatura della funzione umanizzante della scuola e la rivendicazione della necessaria presenza di un carattere di competenza e di qualità scientifica nell’insegnamento. Il modello didattico della «regola», tipico dello s.p., restituisce alla scuola stessa la finalità di «costruire un carattere autonomo e razionale che rappresenta la base delle imprese scientifiche, morali e culturali» (Schaeffler).

Bibliografia

Schaeffler I., «Modelli filosofici dell’insegnamento», in R. S. Peters (Ed.),​​ Analisi logica dell’educazione,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1961, 149-167; Bruner J. S.,​​ Verso una teoria dell’istruzione,​​ Roma, Armando, 1967; Schwab J. J. et al.,​​ La struttura della conoscenza e il curriculum,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1971; Scurati C.,​​ S. e scuola,​​ Brescia, La Scuola, 1972; Kneller G.,​​ Logica e linguaggio nella pedagogia,​​ Ibid., 1975; Pieretti A. (Ed.),​​ Lo s. in prospettiva didattica,​​ Roma, Centro Didattico Nazionale per i Licei, 1976; Deva F.,​​ Pedagogia strutturalistica,​​ Torino, Paravia, 1982.

C. Scurati




STUDENTE

 

STUDENTE

Lo s. (dal lat.​​ studére,​​ applicarsi, cercare, desiderare) è colui che si dedica allo studio in vista dell’acquisizione del sapere, di conoscenze utili sul piano professionale e di un titolo di studio. In particolare si definiscono s. gli adolescenti e i giovani iscritti a scuole secondarie anche d’indirizzo professionale e ad università. In sede pedagogica e talora in sede istituzionale, a questa concezione descrittiva si aggiungono note di carattere valoriale o auspicativo, che sottolineano per lo s. un orizzonte di fini più ampio per la vita dello s. e della società. Lo​​ Statuto delle studentesse e degli s.​​ vigente in Italia definisce infatti la scuola come «comunità di dialogo, di ricerca, di esperienza sociale informata ai valori democratici e volta alla​​ crescita della persona in tutte le sue dimensioni» (dpr 24.6.1998, n. 249, 1). Si precisa che nella scuola «ognuno, con pari dignità e diversità di ruoli, opera per garantire la formazione alla​​ cittadinanza, la realizzazione del diritto allo studio, lo​​ sviluppo della personalità di ciascuno​​ e il ricupero delle situazioni di svantaggio, in armonia coi​​ principi sanciti dalla Costituzione e dalla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia​​ fatta a New York il 20.11.1989 e con i principi generali dell’ordinamento italiano». Studiare nella scuola e nell’università è una via privilegiata per sviluppare se stessi come persone, cittadini e professionisti.

1.​​ Problemi generali.​​ Nel corso del XX sec. e in particolare nei Paesi industrializzati il numero degli s. è venuto costantemente aumentando, pure in rapporto all’innalzamento dell’obbligo scolastico. Anche per questo motivo gli s. sono sempre meno identificati con una categoria a sé stante, come avveniva nel​​ ​​ Medioevo con i​​ chierici​​ o con i​​ goliardi,​​ e sempre più identificati con la più generale categoria dei​​ ​​ giovani. A mano a mano che si superano le concezioni elitistiche, nell’ambito di una scuola e di una università di massa, la condizione studentesca pone sempre più problemi sia di tipo sociologico, per lo scollamento fra studio e sbocchi lavorativi, sia di tipo psicologico, per la difficoltà di costruirsi identità e percorsi culturali in una società sempre più complessa e sempre meno capace di programmare lo sviluppo socioeconomico, sia infine di tipo pedagogico, per la difficoltà di instaurare rapporti individuali e collettivi efficaci con i docenti, di utilizzare strutture adeguate, di apprendere stili di vita e tecniche di lavoro intellettuale adatte alle difficoltà e alle potenzialità del nostro tempo. Si tratta in particolare di combattere l’insuccesso e la mortalità scolastica, la cosiddetta​​ dispersione​​ (su cui continuano ad influire fattori di tipo socioculturale), di elaborare una cultura dello studio e dell’impegno personale, civico e professionale, che consenta ai giovani di partecipare alle soddisfazioni e alle responsabilità dello studio e della ricerca, della progettazione del futuro e della vita nella​​ ​​ «comunità scolastica.

2.​​ Profilo storico-sociologico.​​ Negli anni ’50 del sec. scorso il ruolo studentesco era concepito come​​ ruolo moratorio,​​ di attesa di esercizio di ruoli adulti prestigiosi da parte di minoranze socialmente e intellettualmente selezionate. Negli anni ’60 la ricerca di I. Bertoni fotografa un’immagine tranquilla e banale (aspirazioni alle 3 m.: moglie o marito, mestiere, macchina). Nel ’67-’68 però il mondo studentesco esplode in tutti i Paesi, con la cosiddetta contestazione globale del sistema capitalistico. La guerra del Vietnam e la rivoluzione culturale cinese forniscono simboli e modelli all’immaginario collettivo e lasciano credere che una rivoluzione mondiale sia alle porte. Assemblee, manifestazioni, occupazioni, provocazioni trasformano il tranquillo s. in temibile protagonista sociale, che rifiuta un ruolo ritenuto complice di un «sistema» autoritario e selettivo. I valori «postborghesi» (libertà, socialità, non competizione...) non trionfano però facilmente sui valori di tipo acquisitivo, basati sulla competizione per il successo e per l’accesso ai consumi. Si tratta di «valori difficili». Le ipotesi del ’68 sono state in complesso «falsificate» dalla storia. L’esperimento della rivoluzione da parte delle scuole, delle università e delle fabbriche contro un intollerabile «sistema» è fallito. Con il «riflusso» resta per alcuni anni allo scoperto l’assurda coerenza del terrorismo, con il suo corteo di delitti e di pentiti, ma anche con macerie di sogni e di valori. L’edificio istituzionale, benché scosso, sopravvive, assorbendo nella legislazione successiva alcune istanze espresse dai rivoluzionari. Si pensi, per la scuola, ai decreti delegati del 1974. Le disuguaglianze denunciate dalla​​ Lettera a una professoressa​​ (1967) di Don​​ ​​ Milani, che ha lanciato denunce e proposte profetiche, non si attenuano, nonostante le battaglie ideologiche: anzi il crollo dei miti marxisti, col Muro di Berlino (1989), lascia sole, di fronte alle ingiustizie e alle tensioni scolastiche e sociali, le forze deboli dell’educazione e della politica «ragionevole». I nuovi giovani non elaborano speranze e odi globali. Accettano il loro ruolo e la realtà, si potrebbe dire, in modo selettivo, in qualche modo opportunistico, secondo una gamma assai vasta di atteggiamenti e di comportamenti. Combattono in particolare contro le prospettive di apertura alle risorse private, ipotizzate da disegni di legge governativi che prevedono l’estensione dell’autonomia delle università e delle scuole secondarie. Negli anni ’90 giudicano «giurassica» la scuola, drammatizzano in modo variopinto il conflitto con l’istituzione, ritualmente «occupano» in autunno le scuole, distruggendo parte di quel «pubblico» che vorrebbero difendere dalla privatizzazione. Talora «autogestiscono», con risultati più costruttivi, spesso però ignorando gli spazi offerti dalle norme, non aiutati a farlo da docenti per lo più frustrati da norme talora nobili, ma generiche e non provviste di risorse economiche. Mentre permangono rigidi stereotipi contro il lavoro manuale, non mancano esperienze che denotano grande duttilità e creatività, con aperture alla cooperazione e all’imprenditoria giovanile, non disgiunte talora dall’intelligente generosità del volontariato. Si colloca in questo ambito la problematica dell’​​ ​​ orientamento personale e professionale, che si rivela sempre più strategica per dare senso e concretezza al diritto allo studio, tipico della​​ ​​ società della conoscenza​​ e soprattutto alla concezione della scuola come servizio alla persona, piuttosto che come apparato ideologico di Stato.

3.​​ I​​ tratti della «funzione s.» e le aperture del quadro istituzionale.​​ Si sono cercati nuovi termini per definire la condizione dello s.: il termine freddo di «utente» del servizio scolastico e il termine caldo di «cliente», che attende una prestazione professionale qualificata e che, come «portatore di bisogno» ha «sempre ragione» davanti al «portatore di competenza». Meglio sarebbe parlare di soggetti portatori di diritti e di doveri di​​ cittadinanza scolastica, ossia come​​ cittadini della scuola.​​ Questa è la direzione assunta dalla normativa negli anni ’90, che ha visto il passaggio dal​​ Progetto Giovani​​ alla​​ Carta dei servizi scolastici​​ allo​​ Statuto delle studentesse e degli s., all’autonomia scolastica, riconosciuta sia dalla legge (dpr 8.3.1999, n. 275) sia dalla Costituzione modificata nel 2001.​​ Lo studiare, da parte di un adolescente che deve già affrontare una notevole «fatica di crescere», costituisce una funzione fondamentale per la produzione di significati, di competenze, di relazioni, sul piano personale, civico-politico e professionale. Sono queste le componenti della «funzione s.». Per combattere e prevenire complesse forme di disagio giovanile, sulla base di una legge antidroga (9-10-1990, n. 309), che affida al Ministero, con alcune risorse economiche, il compito di «promuovere e coordinare attività di educazione alla​​ ​​ salute», negli anni ’90 si è sviluppata la strategia del Progetto Giovani ’93, poi 2000 (centrato sulle problematiche dell’identità​​ e della​​ solidarietà, condizioni per «star bene» con se stessi, con gli altri e con le istituzioni), dei correlativi Progetto Ragazzi 2000 e Progetto Genitori, e dei CIC, centri d’informazione e consulenza, nelle scuole secondarie superiori, in collaborazione con diverse forze dell’extrascuola. Il MPI da allora ha anche organizzato una serie di convegni provinciali, regionali e nazionali per s., per sviluppare il dialogo intergenerazionale e la comunicazione fra giovani e istituzioni. In uno di questi convegni (1993) i giovani hanno formulato lo slogan «Essere scuola, non esserci solo dentro», riprendendo inconsapevolmente la tematica dell’«imparare ad essere» lanciata dal Rapporto Faure dell’Unesco, nel 1972. In questo clima e sulla base di richieste degli s., è nata nel 1995 la rivista​​ Studenti & C.,​​ mensile del Ministero della PI per i giovani e viceversa, confezionata in collaborazione fra MPI e giovani, nella logica della Carta dei servizi: è stata inviata per 7 mesi ai rappresentanti di classe di tutte le scuole secondarie superiori. Se la pubblicazione è stata interrotta, così come l’impegno previsto dalla direttiva 8.2.1996 n. 58 circa il rinnovamento della educazione civica intesa come cultura costituzionale, la condizione studentesca ha fatto però passi avanti sul piano istituzionale, col citato​​ Statuto,​​ con le​​ Consulte studentesche provinciali​​ (dpr 567 / 1996 e succ. modif.), con i​​ Forum delle associazioni studentesche, con la istituzione della​​ Direzione generale per lo status dello s.​​ presso il MPI e anche con l’istituzione del Ministero per i giovani. Le consulte provinciali studentesche dispongono di altrettanti budget non irrilevanti, di spazi fisici d’incontro e di sostegno, pur limitato e talora discontinuo, da parte degli Uffici provinciali della PI. Si tratta di esperienze che hanno, e ancor più potrebbero avere, grande valore, se valorizzate nell’ambito di un impegno di ricostruzione di un tessuto scolastico caratterizzato da perdita di senso, di produttività e di rigore. Gli episodi di bullismo, la diffusione della droga, i risultati comparativamente deludenti dei nostri s. nelle indagini OCSE PISA richiedono una energica politica giovanile e un notevole impegno educativo e didattico. Gli s. universitari dispongono, dal 2.12.1997, n. 491, di un regolamento recante l’istituzione del CNSU,​​ Consiglio nazionale s. universitari, i cui membri ricevono rimborsi spese e gettoni di presenza. La partecipazione elettorale è però scarsa, come il senso di appartenenza alla comunità universitaria. Di qui lo spazio per un impegno dialogico dei docenti.

4.​​ Nuove condizioni culturali e socio-istituzionali.​​ Lo s. entra di fatto in possesso di una crescente capacità d’intervenire da protagonista nel suo processo di conoscenza. È lui che, in ultima analisi, decide del suo tempo, delle risorse da dedicare allo studio in senso stretto e alla vita scolastica in senso lato, in rapporto al prezzo che è disposto a pagare, e per i risultati che intende perseguire. Ciò è tanto più vero in rapporto alle nuove fonti di conoscenza e di comunicazione di cui oggi molti s. dispongono: dai​​ personal computer collegati a internet,​​ ai telefoni cellulari,​​ divenuti negli ultimi anni capaci di fotografare e cineriprendere, trasmettere e collocare in rete immagini, di registrare e riprodurre suoni, di consentire agli s. di «navigare», di «bloggare», di isolarsi e di collegarsi con chicchessia. I problemi della «disciplina» scolastica si arricchiscono di nuovi capitoli, anche di carattere giuridico. Di queste coordinate deve tener conto la​​ ​​ programmazione scolastica degli insegnanti, che dovrebbe favorire in modo diretto l’aumento di questa responsabilità di autodirezione, che concorre a definire il «mestiere di s.». Si tratta, per lo s., di mediare fra interesse e sforzo, autonomia e obbedienza, espressione di sé e apprendimento strumentale, gratuità di ricerca e di rapporto e tendenza al successo personale, solidarietà e competizione, libertà di pensiero e rispetto degli altri e dei vincoli istituzionali, sia di quelli di partenza, sia di quelli di arrivo. È indubbio che nell’incontro, sempre in qualche modo artificiale e burocratico, fra il desiderio più o meno intenso e spontaneo dei giovani di affermarsi e di conoscere, e il bisogno più o meno razionale dei docenti, di controllare e di dirigere questo processo, in modo da renderlo anche conforme alle attese sociali, vi sia una buona dose di complessità, di arbitrio e di sofferenza, a cui si possono ricondurre non poche delle forme patologiche che caratterizzano la vita scolastica. Non è corretto porre in alternativa l’​​ ​​ apprendimento​​ e la​​ ​​ partecipazione, perché le due attività, a parte le consonanze delle etimologie delle due espressioni, scaturiscono dalla stessa aspirazione ad essere, a capire, a contare di più. E se l’intima solidarietà fra queste funzioni non balza oggi evidente, ciò dipende dalle distorsioni, dalle rimozioni e dalle difficoltà di gestione, più che dalla reciproca incompatibilità fra dimensione conoscitiva e dimensione relazionale. Se il primo governo del centrosinistra (1996-2000) ha prodotto, con i ministri Luigi Berlinguer e Tullio De Mauro, lo​​ Statuto degli s.​​ e ha insistito sui saperi e sulle competenze, il governo di centrodestra, col ministro Letizia Moratti, ha insistito sulla​​ personalizzazione, sia nell’organizzazione scolastica, sia nella didattica, complicando i percorsi didattici. Il nuovo governo di centrosinistra, con Giuseppe Fioroni, ha cercato di mediare fra le linee emerse, rendendo più severo l’esame di maturità, ventilando il ritorno agli esami autunnali di riparazione, valorizzando la partecipazione, con una serie di direttive per la legalità, la lotta al bullismo, con attenzione a valori come la conoscenza, la salute e il benessere a scuola. Le nuove​​ Indicazioni nazionali, non sempre coerenti con i principi educativi enunciati, attendono la verifica dell’esperienza.​​ 

Bibliografia

Ricolfi L. - L. Sciolla,​​ Senza padri né maestri,​​ Bari, De Donato, 1980; Corradini L.,​​ Educare nella scuola. Cultura comunità curricolo,​​ Brescia, La Scuola, 1983; Butturini E.,​​ Disagio giovanile e impegno educativo,​​ Ibid., 1984; Corradini L.,​​ La scuola e i giovani verso il Duemila,​​ Teramo, Giunti e Lisciani, 1987; Vezzani B. - L. Tartarotti,​​ Benessere / malessere nella scuola. Una ricerca tra gli s. della scuola secondaria superiore,​​ Milano, Giuffré, 1988; Molinari L.,​​ I diritti degli s.,​​ Novara, De Agostini, 1990; Corradini L.,​​ Essere scuola nel cantiere dell’educazione,​​ Roma, Seam, 1995; Id. - W. Fornasa - S. Poli,​​ Educare alla convivenza civile, Roma, Armando, 2004; Chistolini S. (Ed.),​​ Cittadinanza e convivenza civile nella scuola europea, Saggi in onore di Luciano Corradini, Ibid., 2006; Corradini L.,​​ Una politica per i giovani. Promemoria per un rilancio delle iniziative educative trasversali e interistituzionali, in Id.,​​ Educare nella scuola nella prospettiva dell’UCIIM,​​ Ibid., 2006, 367-372; Mion R.,​​ Evoluzione della domanda educativa dei giovani, in «Orientamenti pedagogici» 55 (2007) 227-248; Cei, Segreteria Generale,​​ Al centro la persona. S. per una nuova qualità dello studio e della ricerca, Atti del 3° Convegno nazionale degli s. universitari, Notiziario UNESU, 4, 2007.

L. Corradini




studio del CASO

 

CASO: studio del

Lo studio del c. rientra nell’approccio idiografico che studia unità individuali.

1. Con tale espressione si fa riferimento, in​​ ambito psicologico, all’impostazione di metodo per condurre e organizzare il lavoro clinico o psicoeducativo su un singolo o su un sistema. A tale riguardo, occorre osservare che non esiste un approccio metodologico unico e che nella maggior parte dei c. l’impostazione adottata dai diversi centri di consulenza e di terapia risente significativamente del modello terapeutico prescelto. Ciononostante sono rinvenibili, pur con sfumature e accentuazioni diverse, alcune linee metodologiche comuni. Nel presentarle operiamo una distinzione tra conduzione e stesura del c. Nella​​ conduzione​​ del c. generalmente vengono seguite queste fasi: definizione dei ruoli e creazione di una collaborazione terapeutica, raccolta dati in funzione della comprensione del problema presentato, sviluppo di un progetto di cambiamento; negoziazione del trattamento; inizio del trattamento e mantenimento delle motivazioni; registrazione e verifica dei progressi; mantenimento del cambiamento; termine del trattamento.

2. Nella​​ stesura​​ del c. occorre curare la presentazione delle voci seguenti: a)​​ Dati generali:​​ richiedente (nome e cognome, età, sesso, composizione familiare, occupazione, livello sociale del paziente) e tipo di richiesta (indicare il motivo della consultazione e se quest’ultima è stata ricercata dal soggetto o da altri); date degli incontri; antefatto (informazioni su eventuali consultazioni precedenti alla consultazione attuale). b)​​ Indagine psicologica:​​ aree esplorate (comportamento, sentimenti, cognizioni, relazioni interpersonali, storia familiare, scolastica, lavorativa); strumenti utilizzati (esplorazione soggettiva e oggettiva, osservazione diretta, analisi comportamentale, test oggettivi, test proiettivi, questionari); informazioni ottenute dai singoli strumenti. c)​​ Analisi e integrazione dei dati raccolti:​​ indicazione del modello di analisi prescelto; convergenza degli indici ricavati dai singoli strumenti di rilevazione e organizzazione del problema e dei problemi presentati; presa di posizione (diagnosi e prognosi); indicazioni e controindicazioni per l’intervento. d)​​ Pianificazione dell’intervento:​​ obiettivi remoti e prossimi; forme di intervento (promozione dello sviluppo,​​ ​​ recupero, rieducazione, terapia, intervento in caso di crisi); organizzazione dell’intervento (aiuto al singolo, lavoro col gruppo, lavoro nell’ambiente); strategie e tecniche di intervento. e)​​ Verifica dell’intervento:​​ obiettivi raggiunti, stato attuale del soggetto,​​ follow-up.

3. In​​ ambito​​ più strettamente​​ psicosociale​​ lo studio del c. rientra nei metodi di ricerca qualitativa. Esso ha un carattere essenzialmente descrittivo e può riguardare il singolo individuo, un gruppo, una organizzazione, una comunità. Tra le caratteristiche distintive di tale metodo sono da menzionare: la piccola quantità di unità coinvolte, il riferimento ad un periodo di tempo limitato, l’analisi di eventi che si svolgono in vivo, la finalizzazione alla soluzione di problemi e non alla pura ricerca. Secondo Bromley (1986) le regole fondamentali per condurre efficacemente lo studio dei c. sono le seguenti: riferire i fenomeni in modo veritiero e puntuale utilizzando un linguaggio descrittivo; esplicitare e definire chiaramente scopi e obiettivi; valutare in che misura i risultati sono stati raggiunti, concedersi il tempo necessario per indagare e fare controlli incrociati sulle informazioni raccolte, considerare il contesto ecologico, argomentare con prove ciò che si afferma. La forza del metodo di studio del c. consiste nel suo contributo ad una descrizione accurata e particolareggiata dei fenomeni all’interno di una precisa struttura concettuale.

Bibliografia

Susskind E. - D. Klein (Edd.),​​ Community research: methods,​​ paradigms and applications,​​ New York, Praeger, 1985; Bromley D.,​​ The case study method in psychology and related disciplines, Chichester, Wiley, 1986; Urso A. (Ed.),​​ C. clinici,​​ in «Terapia del Comportamento» 32 (1991) 7-120; McWilliams N.,​​ Il c. clinico: dal colloquio alla diagnosi, Milano, Cortina, 2002.

A. R. Colasanti




STUPORE

 

STUPORE

Il termine s. (dal lat.​​ stupere,​​ sbalordire, dalla radice indoeuropea​​ [s]teup,​​ battere) indica lo stato di grande​​ ​​ meraviglia che colpisce e lascia attonito il soggetto. Per​​ ​​ Kant lo s. è «l’effetto prodotto dalla novità superiore all’attesa» (Kant, 1974, 126).

1. In genere lo s. viene assimilato alla meraviglia perché anche quest’ultima è un’emozione prodotta dalla novità. Ma dopo la definizione kantiana dello s. come sentimento del sublime non è più possibile operare questo scambio. Se si assumono infatti come riferimento gli studi di Kant, è possibile operare una distinzione tra s. e meraviglia, qualificando il primo come un sentimento estetico-morale che predispone all’azione; la seconda come un sentimento cognitivo che sfocia in curiosità e favorisce l’apprendimento. Ma già​​ ​​ Platone considerava lo s. (thaumàzein)​​ un sentimento da filosofo (Platone, 1974,182): una sensibilità che afferisce più alla ragione che al sentimento. Allo stesso modo fa Kant, che tuttavia media il collegamento tra ragione e sentimento attraverso la dimensione estetica. Il filosofo tedesco distingue, infatti, il giudizio estetico in bello e sublime. Ma la loro natura è il sentimento; il primo si basa sull’attrazione, il piacere della forma; il secondo su di un senso di ripulsa e di attrazione, disorientamento e riconoscimento, che si risolvono nella commozione dello s. «Lo s. nasce quando l’animo urta nell’impossibilità di conciliare una rappresentazione e la regola data da questa, coi principi che in esso sono fondamentali, in modo che gli nasce il dubbio se abbia ben visto e giudicato» (Kant, 1974, 232). Lo stesso sentimento ambivalente di spavento e sorpresa accompagna anche in Pascal l’annaspare del pensiero che tende a proiettarsi in dimensioni oltre lo spazio ed il tempo terreni (Pascal, 1995, 28). Per capire la qualificazione kantiana dello s. (sentimento etico in quanto estetico) bisogna riferirsi al fondamento universale di questo sentimento soggettivo. Esso si basa su un a-priori dato dal nostro sentimento morale. Sicché lo s. che si prova di fronte ad uno spettacolo sublime non è in realtà prodotto dall’oggetto, perché esso è un’affezione tutta interna al soggetto, determinata dalla constatazione della rispondenza della natura alla nostra modalità di rappresentazione estetica. S. è commozione nel sentirsi confermati come soggetti morali, sicché oggetto di vero s. rimane «il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me» (Kant, 1982, 197).

2. La dinamica dello s. è in relazione alla sua natura estetica, di piacere disinteressato, legato alla forma. Si genera in noi dalla semplice presa d’atto dell’oggetto in virtù della conservazione di uno sguardo ingenuo,​​ naïf,​​ «come fanno i poeti, secondo ciò che ci mostra la vista» (Kant, 1974, 124). Rispetto all’attrazione del bello che si sviluppa «dalla finalità soggettiva nella rappresentazione di un oggetto, senza nessun fine» (Kant, 1974, 65), lo s. consiste nella commozione di una scoperta ulteriore che non è la finalità di una semplice forma naturale, ma della natura nella sua totalità. Questa possibilità di comprensione oltre il sensibile che si consegue con l’aiuto della ragione in concomitanza di aspetti naturali smisurati, eccessivi, apparentemente disformi è ciò che fa dello s. un sentimento di livello superiore, che eleva al razionale, al disvelamento della purezza della legge morale.

3. L’importanza della cultura di questo sentimento sotto il profilo educativo è evidente. Esso prelude alle aperture della ragione, alle possibilità di una comprensione ultrasensibile e, negli sviluppi kantiani, rappresenta il livello più alto del sentimento morale e, per questo, esso occupa un posto privilegiato in una formazione morale che parta dal sentimento, dal movente piuttosto che dal motivo morale, come in genere si tende a fare. Un’educazione del sentimento dello s. inizia dalla natura, da quella vista ingenua che deve essere conservata come via di conoscenza peculiare rispetto al metodologismo della scienza. Favorisce lo s. ciò che in natura si dà come grande, potente, illimitato, oltre le nostre possibilità di misura: «le rocce che sporgono audaci e quasi minacciose, le nuvole di temporale che si ammassano in cielo tra lampi e tuoni, i vulcani che scatenano tutta la loro potenza distruttrice, e gli uragani che si lasciano dietro la devastazione, l’immenso oceano sconvolto dalla tempesta, la cataratta di un gran fiume, ecc.» (Kant, 1974, 122). Ma suscita commozione e s. anche la bellezza morale. Perciò una via ancor più efficace di educazione del sentimento morale nella direzione dello s. sono gli esempi, che rappresentano azioni, comportamenti ispirati ad un alto senso della dignità umana. Di fronte a tali esempi «il giovane ascoltatore verrà elevato gradatamente dalla semplice approvazione alla meraviglia, da questa allo s., finalmente alla più grande venerazione e a un vivo desiderio di poter anche lui essere un uomo simile» (Kant, 1982, 187).​​ 

Bibliografia

Kant I.,​​ Critica del giudizio,​​ Bari, Laterza, 1974; Platone, «Teeteto», in G. Pugliese Carratelli (Ed.),​​ Tutte le opere,​​ Firenze, Sansoni, 1974; Kant I.,​​ Critica della ragion pratica,​​ Bari, Laterza, 1982; Arendt H.,​​ La vita della mente,​​ Bologna, Il Mulino, 1987; Kant I.,​​ Lezioni di etica,​​ Bari, Laterza,​​ 21991; Id.,​​ Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime,​​ Milano, Rizzoli,​​ 21993; Pascal B.,​​ Pensieri,​​ Trento, Orsa Maggiore, 1995; Xodo C.,​​ S. e conoscenza,​​ in «Scuola e Didattica» 17 (1995) 50-64.

C. Xodo




SUCHODOLSKI Bogdan

 

SUCHODOLSKI Bogdan

n. a Sosnowiec (Polonia) il 27 dicembre 1903 - m. a Varsavia il 2 ottobre 1992, filosofo e pedagogista polacco.

1. Cattolico e seguace dello spiritualismo filosofico, segue le lezioni di E. Spranger. Professore di pedagogia all’università di Leopoli nel 1938, collabora con S. Hessen nel periodo della clandestinità contro l’occupazione nazista. Passato al marxismo, il​​ Trattato di pedagogia generale. Educazione per il tempo futuro​​ del 1947 gli ottiene dal Partito la cattedra di pedagogia generale a Varsavia e successivamente la direzione dell’Istituto di scienze pedagogiche della stessa università e dell’istituto della storia della tecnica dell’Accademia polacca delle scienze. Attivissimo in patria e all’estero, ricoprì importanti cariche e ottenne ampi riconoscimenti nazionali e internazionali. Rilevanti i suoi studi storici sul rinascimento polacco, su​​ ​​ Comenio, sull’educazione popolare; come pure quelli sulla dottrina marxista dell’educazione (Fondamenti di pedagogia marxista,​​ La pedagogia socialista,​​ La scuola primaria in una società socialista).

2. Nella linea della corrente marxista-umanistica, egli va oltre il superamento esistenzialistico-moderno della pedagogia classica dell’essenza, imprimendo alla problematica educativa una prospettiva storico-sociale e una forte tensione avveniristico-progressista. L’educazione è vista come «speranza razionale» che permette di superare sia il conformismo sociale sia la fuga solipsistica dal reale e consente uno sviluppo «poliedrico» dell’uomo (cfr. l’«onnilateralità» di Marx), oltre le ristrettezze dell’orizzonte borghese, grazie a una concezione dinamica del reale che supera l’«odiernità» storica, riunisce teoria e pratica di liberazione umana, riconcilia umanesimo e tecnica, apre la modernità europea alla cooperazione mondiale e a un futuro di civiltà. Sopravvissuto alla fine del comunismo, il vecchio S. – concreto testimone delle non semplici evoluzioni degli intellettuali dei Paesi comunisti dell’est europeo – provò a rileggere la sua «educazione per il tempo futuro» in termini apolitici di​​ ​​ educazione permanente.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ La pedagogia e le grandi correnti pedagogiche. Pedagogia dell’essenza e pedagogia dell’esistenza, Roma, Armando, 1962;​​ Trattato di pedagogia generale. Educazione per il tempo futuro, Ibid., 1964. b)​​ Studi:​​ Broccolini G.,​​ B.S. e il neomarxismo educativo, Ibid., 1967; Finazzi Sartor R. (Ed.),​​ Cultura e formazione umana nel pensiero di B.S., Ibid., 1996.​​ 

C. Nanni




SUICIDIO

 

SUICIDIO

Atto volontario e / o desiderio cosciente o deliberato dell’individuo di togliersi la vita.

1. Non esiste un accordo sostanziale sull’accezione comune del termine. Le definizioni di s. attualmente esistenti possono essere suddivise in due categorie. Alla prima appartengono quelle che limitano il termine s. alle «uccisioni di sé» volontarie; alla seconda quelle che includono nel termine s. anche le morti in cui è presente un impulso inconscio a uccidersi. Tra le due definizioni è presente, comunque, una certa contraddittorietà. Le prime, che si fondano sul criterio dell’intenzionalità per stabilire se parlare o meno di s., pongono il problema delle possibilità e delle modalità per individuare la volontarietà dell’atto. Infatti, tranne i casi in cui il soggetto lascia per iscritto una spiegazione del gesto suicida, non è facile risalire alla sua motivazione conscia, perché spesso è presente un’ambivalenza tra desiderio di vivere e desiderio di morire. Le definizioni appartenenti alla seconda categoria, invece, abolendo l’intenzionalità, comprendono anche quegli atti in cui il desiderio di togliersi la vita, pur non raggiungendo il livello della consapevolezza, traspare dalle varie azioni del soggetto. In tal modo si rischia però di includere nella categoria degli atti suicidi anche dei presumibili atti autodistruttivi inconsci, come incidenti, automutilazioni e turbe psichiche che portano all’autodistruzione corporea (anoressia mentale e tossicomania).​​ 

2. Vista l’assenza di soddisfacenti definizioni di s., è necessario stabilire che l’oggetto di indagine è rappresentato da una vasta gamma di comportamenti autolesivi che vanno da atti ben definiti (es. incidente stradale per eccessiva velocità, impiccagione, avvelenamento per respirazione di gas di scarico, ecc.) a modalità esistenziali in cui il soggetto si lascia morire (es. anoressia mentale). Dal punto di vista psicologico, all’inizio di questo secolo il s. era considerato il sintomo di una malattia mentale. Attualmente si riconosce l’influenza di diversi fattori (sociali, culturali, individuali, familiari, ecc.) sul soggetto suicida, ma non si esclude il ruolo fondamentale dell’orientamento verso pseudovalori che, favorendo la concentrazione sul conseguimento del​​ ​​ benessere o del successo, oppure sulla gratificazione esasperata di​​ ​​ bisogni, fanno piombare la persona nella frustrazione e nel vuoto esistenziale.

3. Pur essendo un fenomeno non molto frequente nell’infanzia, il s. del bambino non è solo frutto di incoscienza e di fantasie di onnipotenza, ma può anche essere l’espressione della consapevolezza dei dolori che accompagnano l’esistenza e dell’incapacità di trovare una soluzione soddisfacente. Nell’adolescenza il s. appare legato alla difficoltà di controllare ed equilibrare i cambiamenti psicofisici e istintuali, mentre nella «fascia oscura» dell’età di mezzo (dai 25 ai 64 anni) sembrano prevalere le mille preoccupazioni del lavoro, della vita affettiva, della salute, della solitudine. Nella vecchiaia, invece, giocano un ruolo decisivo il declino dell’intero organismo, le frequenti e profonde esperienze di lutto, la cessazione del lavoro e della partecipazione alla produttività sociale.

4. Una​​ ​​ prevenzione dal volto umano supera il concetto del puro contenimento del rischio del s. e chiede di fare riferimento alla persona e alla società, di operare sul territorio concreto, sulle istituzioni, sui processi e sulle interazioni umane, di effettuare interventi multilaterali e differenziati nella sfera del pubblico, del sociale, del giuridico, dell’economico, del sanitario, dell’etico e del religioso, di promuovere e qualificare la dimensione partecipativa e relazionale di ogni esistenza, di riconoscere l’esigenza di mobilitare un continuo processo di anticipazione delle patologie sociali. Fondamentalmente, la prevenzione primaria si configura come educazione al senso della vita; la prevenzione secondaria si rivolge alla famiglia, al gruppo dei pari, alla scuola e al quartiere per individuare i fattori predisponenti e per cercare di neutralizzarli; la prevenzione terziaria presuppone la piena rieducabilità del soggetto e si orienta sia verso il superamento dell’illusione della centralità egocentrica che verso la maturazione di un orientamento autotrascendente.

Bibliografia

Fizzotti E. - A. Gismondi,​​ II s. Vuoto esistenziale e ricerca di senso,​​ Torino, SEI, 1991; Crepet P.,​​ Le dimensioni del vuoto. I giovani e il s.,​​ Milano, Feltrinelli, 1993; Mazzani M.,​​ Il s. in adolescenza, Roma, Laurus Robuffo, 2004; Pangrazzi A. (Ed.),​​ Il s. Dalla resa alla lotta per la vita, Torino, Camilliane, 2004; Pietropolli Charmet G.,​​ Crisis center. Il tentato s. in adolescenza, Milano, Angeli, 2004; Bernardini P.,​​ Giacomo Casanova. Dialoghi sul s., Roma, Aracne, 2005; Loperfido A. - R. Irti,​​ La metamorfosi della sofferenza. Dopo il s. di un familiare, Bologna, EDB, 2005; Borgna E. - M. Manica - A. Pagnoni,​​ Il s. Amore tragico,​​ tragedia d’amore, Roma, Borla, 2006.

E. Fizzotti




SULLIVAN Harry Stack

 

SULLIVAN Harry Stack

n. a Norwick, New York nel 1892 - m. a Washington nel 1949, psichiatra e psicoanalista statunitense.

1. Entrato giovanissimo, nel 1904, alla Cornell University è costretto da problemi economici ad abbandonare gli studi che potrà riprendere soltanto nel 1915 quando si iscriverà alla Medical School di Chicago. Qui, in un ambiente culturale profondamente permeato dal pragmatismo, subisce l’influsso della psicologia sociale e dell’antropologia di B. Malinowski, nonché della psicologia sociale di W. McDougall. Psichiatra presso il Saint Elizabeth Hospital di Washington e docente all’Università del Maryland, dopo esser uscito dalla Società Psicoanalitica è, nel 1936, tra i fondatori della Washington School of Psychiatry e dà vita al movimento «culturalista,» di cui diventerà il portavoce. È stato inoltre professore di psichiatria e direttore del dipartimento di Psichiatria alla Georgetown University Medical School.

2. La sua attività clinica con i pazienti schizofrenici, e l’introduzione di alcune modifiche nella tecnica psicoanalitica classica lo portano a sostenere l’utilità di un approccio psicosociale all’interno della metodologia psichiatrica. Giunge così a formulare «la teoria interpersonale della psichiatria» che vuol essere un superamento della teoria freudiana. Secondo tale teoria, basata sulla nozione di «campo relazionale», la personalità individuale può essere considerata una «configurazione relativamente durevole, delle situazioni interpersonali, che caratterizzano la vita umana, e cioè come un prodotto dell’interazione di campi di forze interpersonali, intesi molto concretamente come l’insieme delle relazioni sociali in cui il soggetto si è venuto a trovare nel corso della sua vita». Su questa base S. sostiene che la malattia mentale, e la schizofrenia in particolare, ha origine in un disturbo delle relazioni interpersonali e riflette un problema di fondo, o una deformazione, dell’organizzazione di base della personalità. Per S. la psichiatria deve direttamente integrarsi nel vivo del tessuto sociale, aprirsi all’osservazione dei dati reali ed essere programmaticamente finalizzata al «beneficio del paziente».

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ tra le opere di S., pubblicate postume ad eccezione di​​ Conception of modern psychiatry​​ (1940) (La moderna concezione della psichiatria,​​ Milano, Feltrinelli, 1961), ricordiamo:​​ The psychiatric interview,​​ 1954;​​ Clinical studies in psychiatry​​ (1956);​​ Studi clinici,​​ Milano, Feltrinelli, 1965;​​ Il colloquio psichiatrico, Ibid., 1972;​​ Scritti sulla schizofrenia,​​ a cura di Helen Swick Perry; prefazione all’edizione italiana di Marco Conci, Ibid., 1993. b)​​ Studi:​​ Rattner J.,​​ Psychologie der zwischenmenschlichen Beziehungen: eine Einführung in die neopsychoanalytische Sozialpsychologie von H.S.S.,​​ Freiburg im Breisgau, Walter-Verlag,​​ 1969; Perry H. S.,​​ Psychiatrist of America: the life of H.S.S.,​​ Cambridge, Harvard University Press, 1982; Conci M.,​​ S. rivisitato: la sua rilevanza per la psichiatria,​​ la psicoterapia e la psicoanalisi contemporanee, Bolsena, Massari, 2000.

F. Ortu - N. Dazzi




SULPIZIANI

 

SULPIZIANI

Società di vita apostolica di sacerdoti diocesani e movimento spirituale-pedagogico francese.

1. La «Compagnia dei preti di San Sulpizio» fu fondata dal parroco J. J. Olier (1608-1657) a Parigi (adozione delle prime Costituzioni nel 1659), per la formazione dei seminaristi e dei preti. Operò inizialmente in Francia, Canada e Stati Uniti. Il gruppo di sacerdoti della Parrocchia e Seminario parigini di Saint-Sulpice si è distinto dal 1642 fino ad oggi nell’impegno per l’educazione religiosa della gioventù, diventando una scuola di formazione alla catechesi per una larga fascia del clero francese.

2. Come educatori dei seminaristi i S. si sono caratterizzati per una tradizione di spiritualità incentrata sul servizio religioso, seguendo la via dell’umanità di Gesù per giungere alla divinità, la preghiera assidua, gli «esami particolari» di notevole ricchezza anche psicologica, la disciplina di vita, l’impegno per la catechesi, la dedizione alla Chiesa. Nel campo della metodologia catechistica Saint-Sulpice ha elaborato un suo metodo, iniziato dall’Olier, sviluppatosi nei secoli seguenti e fatto conoscere dagli scritti di E. Faillon e​​ ​​ Dupanloup. Si avvale di un ambiente proprio, la cappella, e di un’organizzazione accurata. L’adunanza, di due o più ore, si svolge con uno schema prefissato: Interrogazione - Lettura dal Vangelo - Resoconto delle annotazioni - Istruzione - Omelia - Avvisi.

3. Alla scuola dell’Olier appartiene anche Ch. Démia SJ (1637-1689), che lavorò a Lione come fondatore dell’istruzione elementare basata sull’educazione religiosa. Fu il primo in Francia a passare dall’istruzione individuale a quella collettiva, metodo ripreso poi da J. B. de​​ ​​ La Salle. Saint-Sulpice continua a fare scuola anche oggi; ha dato al movimento catechistico francese e mondiale un promotore di eccezionali qualità spirituali, dottrinali organizzative e metodologiche, in​​ ​​ Colomb.

Bibliografia

Faillon E. M.,​​ Histoire des catéchismes de St.-Sulpice,​​ Paris, Gavone, 1831; Id.,​​ Méthode de St.-Sulpice dans la direction des catéchismes,​​ Paris, Leoffre, 1832; Id.,​​ Vie de M. Olier,​​ Paris, Poussielgue, 1841; Colomb J., «The Catechetical Method of Saint Sulpice», in G. Sloyan (Ed.),​​ Shaping the Christian Message,​​ New York, Macmillan, 1958.

U. Gianetto

SUMMERHILL​​ ​​ Scuole Nuove​​ ​​ Spontaneità / Spontaneismo