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ROGERS Carl

 

ROGERS Carl

n. a Chicago nel 1902 - m. a La Jolla nel 1987, psicologo statunitense.

1. R. fu il quarto dei sei figli di una famiglia molto unita e dai rigidi principi morali. Visse i primi anni della sua vita in campagna e frequentò gli studi di agraria al College del Wisconsin. Durante un viaggio in Cina ebbe modo di allargare i propri orizzonti culturali; dopo questo viaggio decise di dedicarsi alla vita religiosa: ma avendo scoperto che la propria vocazione non aveva radici profonde, abbandonò questa strada ed incominciò a frequentare vari corsi all’Università di Columbia dove individuò la propria autentica inclinazione verso la psicologia e la psichiatria, il che lo indusse a studiare all’Institute for Child Guidance.​​ Assunto come psicologo nel​​ Child Study Department​​ della​​ Society for the Prevention of Cruelty to Children​​ a Rochester, New York, vi lavorò per 12 anni e fu qui che, verso la fine della sua permanenza, fondò un «Centro di Consultazione». Nel 1940 fu nominato professore all’Università di Stato dell’Ohio, dove nel 1942 presentò una prima formulazione delle sue idee nel lavoro intitolato​​ Counseling and psychotherapy.​​ È da questo momento che la terapia di R. si consolida come sistema teorico che viene via via presentato in varie opere, articoli e libri, fra i quali è da ricordare​​ Client-centered therapy: its current practice,​​ implications and theory,​​ che contiene in maniera sintetica gli aspetti principali della sua teoria. L’interesse per il benessere e la salute psichica della persona lo portò a fondare una scuola che assunse la denominazione di​​ Client-centered therapy​​ (terapia centrata sul cliente).

2. Nei lavori di R. si possono individuare tre aspetti fondamentali che riguardano: la «tendenza attualizzante», forza di crescita presente nella persona che la porta ad agire ed a vivere pienamente la vita; gli «scopi» che la terapia si propone; ed i «procedimenti tecnici», cioè i modelli, gli strumenti, la condotta ed i mezzi adottati dal terapeuta per svolgere il processo terapeutico che porterà all’esame degli eventi psichici che si svolgono nel soggetto. La modalità di intervento terapeutico è stata denominata «non direttiva» in quanto il terapeuta non deve proporre al cliente obiettivi lontani o diversi da quelli che questi vorrebbe raggiungere e deve evitare ogni accelerazione prematura nello sviluppo personale del cliente stesso rispettandone i tempi ed i ritmi di cui egli ha bisogno per effettuare il cambiamento. Nel​​ ​​ colloquio, il terapeuta, con le sue risposte al vissuto del cliente tenta in primo luogo di favorire l’espressione dell’emozionalità del soggetto, prosegue poi verso la promozione dell’«insight», denominata auto-esplorazione e auto-comprensione, e verso la chiarificazione delle azioni del cliente, badando in ogni momento a rispondere al sentimento del cliente stesso. Il terapeuta aiuta il soggetto ad auto-esplorarsi attraverso un atteggiamento di «genuinità», di «accettazione positiva incondizionata» e di «empatia», nonché rinforzandolo attraverso specifiche modalità di «risposta». Così, insensibilmente, la persona passa dall’auto-esplorazione all’auto-comprensione. Questo passaggio costituisce il momento decisivo del processo terapeutico perché con esso si determina un notevole cambiamento sulla base dell’acquisizione, da parte del cliente, di una obiettiva conoscenza di sé, dei suoi problemi e del suo mondo, conoscenza che include la comprensione dell’impatto sulle altre persone, e la natura o la modalità del proprio modo di essere e di agire nelle relazioni interpersonali.

3. Ci siamo soffermati sulla psicoterapia perché la teoria della personalità elaborata da R. discende direttamente dalla sua esperienza clinica, riceve conferma dalla ricerca empirica, e si presenta come una teoria dinamica, in quanto si interessa del cambio della personalità e non delle strutture fisse. R. dalla fenomenologia e dalla teoria organismica, coglie ed elabora alcuni concetti fondamentali: il concetto di sé, inteso come l’immagine soggettiva che la persona ha di se stessa, e quello dell’organismo, concepito come l’insieme organizzato della psiche e del soma, in cui è presente un impulso fondamentale verso l’auto-realizzazione. Questa spinta per diverse circostanze della vita può essere stata soffocata, e per mezzo del colloquio terapeutico viene fatta riemergere, ponendo, quindi, la persona nuovamente in grado di conquistare libertà, autonomia e capacità di dirigersi costruttivamente. L’interesse che R. provava per la persona umana lo portò a studiarne anche altri aspetti oltre a quelli brevemente enunciati e che, in un modo o nell’altro, ruotano intorno alla modalità terapeutica da lui proposta. Fra questi ricordiamo la «coscienza di sé», intesa principalmente come simbolizzazione delle esperienze, di una coscienza esistenziale, di un sentimento di esistere, che se non è distorta bensì aperta all’esperienza, porta la persona a vivere in un modo più sensibile, più variato e più ricco. Un altro aspetto è quello di «libertà» intesa come libertà interiore che permette di vivere secondo le proprie scelte. Fra i tanti temi che R. ha studiato e proposto, ricordiamo quello della «soggettività umana», tema esistenziale presente in tutti i suoi scritti. Per R. l’uomo è un soggetto attivo che, padrone di se stesso, vive soggettivamente l’esistenza, i propri sentimenti e le proprie esperienze. Sono state molte le critiche rivolte a R. a causa di queste enunciazioni, ma resta il fatto che da lui ebbe inizio una ricca e feconda corrente di studi e di osservazioni sull’uomo, sulla personalità umana e sulle sue possibilità di normale sviluppo o di degenerazione patologica. La teoria di R., senza cristallizzarsi negli schemi di una presunta ortodossia, ha influito su parecchie tendenze della scienza e della pratica psicologica in situazioni ed a livelli diversi, nel laboratorio e nella clinica, nel lavoro e nella scuola.

Bibliografia

R.C.R. - G. M. Kinget,​​ Psicoterapia e relazioni umane,​​ Torino, Bollati Boringhieri, 1970; R.C.R.,​​ La terapia centrata sul cliente,​​ Firenze, Martinelli, 1970; Id.,​​ Psicoterapia di consultazione:​​ nuove idee nella pratica clinica e sociale,​​ Roma, Astrolabio, 1971; Bruzzone D., C.R.,​​ La relazione efficace nella psicoterapia e nel lavoro educativo, Roma, Carocci, 2007.

W. Visconti




ROLLIN Charles

 

ROLLIN Charles

n. a Parigi nel 1661 - m. a Parigi nel 1741, scrittore e educatore francese.

1. Nasce in una famiglia di artigiani. Con l’aiuto di un monaco benedettino, ottiene una borsa di studio. Segue corsi teologici alla Sorbonne, ma non diventa sacerdote. Sente invece molto viva l’inclinazione all’insegnamento. Nel 1687 è chiamato a occupare la cattedra di retorica e di eloquenza presso il​​ Collège royal.​​ Eletto rettore dell’università di Parigi (1694-1696), prende severe misure per ristabilire la disciplina, il buon ordine e la serietà degli studi. Accusato di​​ ​​ giansenismo, lascia, nel 1712, la direzione del collegio Beauvais. L’opera più nota è​​ Traité des études​​ (1726-1728).

2. L’opera di R. presenta una vasta e articolata problematica: l’educazione infantile e delle fanciulle, studio delle lingue, della poesia, retorica, eloquenza, storia e filosofia, governo interno del collegio. Per R. l’istruzione dei giovani ha tre obiettivi: la scienza, i costumi e la religione; cioè coltivare lo spirito, regolare il cuore e formare l’uomo cristiano. Sulla stregua di​​ ​​ Quintiliano, afferma l’importanza dell’educazione fin dai primi anni. Come​​ ​​ Fénelon, dedica speciale attenzione all’istruzione femminile, sottolineando il ruolo della madre nell’educazione. Nell’andamento di un istituto educativo considera centrale la figura dell’educatore: «di carattere fermo, moderato, sempre padrone di sé, che non ha per guida che la ragione, che mai agisce per capriccio o per impulso del momento»; in sintesi: che sappia ispirare ai ragazzi, allo stesso tempo, «amore e rispettoso timore». Gli equilibrati suggerimenti, vicini alle idee di Port Royal, hanno trovato molti consensi tra gli educatori cristiani dell’Ottocento, anche in Italia.

Bibliografia

Cadet F., «Vie de R.», in Ch.R.,​​ Traité des études. De la manière d’enseigner et d’étudier les belles lettres par rapport à l’esprit et au coeur,​​ vol. I, Paris, 1805, 1-69; R.Ch.,​​ Discours préliminaire du Traité des études, Introduction et notes de J. Lombard, Paris / Montréal, L’Harmattan, 1998.

J. M. Prellezo




ROMA educazione

 

ROMA: educazione

La​​ ​​ paideia​​ greca, come finalità e programma educativo, è nata e si è sviluppata in​​ ​​ Grecia in sintonia con la stessa cultura greca e quale mezzo per il suo perdurare. Con l’espandersi di tale cultura oltre i confini della Grecia si diffonde parallelamente anche la​​ paideia​​ ad essa inscindibilmente connessa. Questo evento più culturale che geografico o politico si è verificato nei secoli II a.C. - V d.C., dando origine al fenomeno che fu appunto chiamato Ellenismo, realizzando quella comunione della cultura greca, celebrata ed auspicata da grandi scrittori greci (​​ Isocrate,​​ ​​ Platone...), che si diffuse in tutta l’area del Mediterraneo e del Medio Oriente.

1.​​ L’ellenizzazione della antica cultura romana.​​ Con la conquista della Grecia da parte di R. si effettua la diffusione diretta della cultura e della​​ paideia​​ anche sul suolo romano e attraverso R. in tutto il mondo civile romanizzato. Infatti all’inizio del II sec. a.C. nella storia civile, politica e letteraria dei Romani si verifica chiaramente una «crisi», una rivoluzione (Wendepunkt):​​ la civiltà romana nei suoi aspetti fondamentali si trasforma clamorosamente e profondamente dando origine ad un processo irreversibile di​​ ​​ inculturazione e di «spiritualità». Questo cambio di mentalità e di prassi ebbe come elemento catalizzatore il fascino sempre più consapevole e diretto della civiltà greca e la presenza e l’attività determinanti di filosofi, letterati ed artisti greci, venuti in Italia, come pure di letterati, filosofi e insigni cittadini romani, che formarono il​​ Sodalicium Scipionum,​​ ruotante appunto attorno alla famiglia degli Scipioni, vero «cenacolo» e fulcro dello sviluppo evolutivo della storia romana. Nonostante la resistenza ostinata della classe tradizionalista (Catone il Censore), che difendeva il​​ mos maiorum​​ (= tradizione), valore sacrosanto per la tradizione della società romana contro il partito sempre più numeroso dei​​ novatores,​​ chiamati sprezzantemente​​ Graeculi,​​ la cultura e la condotta di vita dei Greci furono conosciute studiate ed imitate sempre maggiormente dalla parte più vivace ed aperta della società romana. Anche se in questo cammino progressivo si verificò qualche incidente di percorso, l’assimilazione della civiltà greca divenne orientamento pratico nell’evoluzione della storia romana. La vittoria del partito favorevole alla civiltà greca era scontata sia per l’ineluttabile progresso culturale e civile della società romana, come pure per la prospettiva politica di R. già proiettata decisamente alla sua missione di impero universale.

2.​​ L’humanitas romana.​​ In questo «cenacolo» di massimi esponenti della vita culturale, civile, militare della società romana, quale fu appunto il «Circolo degli Scipioni», si inserirono con un prestigio straordinario due personalità di prima grandezza del mondo greco, Polibio e Panezio, venuti a R. in tempi e circostanze diverse: il primo, grande storico greco, fu uno dei mille ostaggi portati a R. dopo la battaglia di Pidna (168 a.C.) vinta da L. Emilio Paolo. A R. egli lo accolse immediatamente in casa (167-150 a.C.) e gli affidò l’educazione dei suoi due figli: Fabio e Scipione Emiliano. Il secondo, filosofo stoico, venne a R. verso il 150 a.C. e fu ospite del «Circolo degli Scipioni» (150-129 a.C). L’influsso dello storico Polibio e del filosofo stoico Panezio fu determinante per la formazione di una mentalità storica aperta ed universale della classe dirigente dei cittadini e per l’educazione ad un dinamico personalismo: l’uomo diventava veramente centro dell’attenzione e della formazione globale, motore della storia personale e politica (faber suae quisque fortunae; teknites tou​​ biou)​​ nella sua dimensione personale e politica, con l’acquisizione e lo sviluppo delle virtù della​​ magnanimitas​​ (megalopsychía)​​ della filantropia (filanthropía)​​ e della comunione con gli altri (koinonía),​​ rafforzate dalle virtù tradizionali romane della​​ fortitudo,​​ della​​ pietas,​​ della​​ gravitas,​​ della​​ fides,​​ della​​ clementia.​​ L’osmosi di queste virtù doveva produrre nel cittadino romano l’equilibrio, l’armonia, l’eleganza, la dignità di tutta la vita nella condotta e persino nelle espressioni artistiche:​​ recte vivere,​​ facultas recte sentiendi et cogitandi,​​ recte loqui.​​ Come appare chiaramente anche attraverso la storia della civiltà romana questo orientamento programmatico non è solo una corsia preferenziale di formazione culturale, ma anche ed armonicamente di impegno pedagogico, veicolato dalla cultura. Una sintesi significativa della dottrina di Panezio sul culto della personalità si trova nel​​ De officiis​​ di​​ ​​ Cicerone, che riproduce il trattato di Panezio​​ perì tou kathékontos.​​ Il frutto più maturo e significativo era quindi una sintesi di «spiritualità», di cultura e di pedagogia, fondata sull’otium​​ e il​​ negotium​​ (contemplazione e azione, teoria e prassi) per formare globalmente l’uomo, e soprattutto il giovane. Dalla città eterna questo ideale di vita si diffuse trionfalmente nell’impero romano. L’enucleazione di questo ideale di cultura e di pedagogia, nella sua diffusione ed incarnazione, fu arricchito specialmente con il contributo originale di Cicerone (Somnium Scipionis,​​ De officiis,​​ De oratore),​​ di Terenzio, di Lucrezio, di Virgilio, di Orazio (Carm. III, 1,2, 3,4,5, 6:​​ Carmina romana),​​ di Properzio (Elegiae romanae:​​ IV, 11), di Tito Livio, di​​ ​​ Seneca e di​​ ​​ Quintiliano. Questo emblematico traguardo della civiltà romana venne chiamato significativamente​​ humanitas.​​ Aulo Gellio puntualizza questo evento della civiltà romana, quando presenta la traduzione latina del termine greco​​ paideia:​​ «Qui verba latina fecerunt quique his probe usi sunt ... humanitatem appellaverunt id propemodum,​​ quod Graeci “paideian” vocant,​​ nos eruditionem institutionemque in bonas artis dicimus...»​​ (XIII, 17).

3.​​ Le specificità educative.​​ Rispetto ai Greci i Romani mirarono particolarmente al traguardo della teoria e della prassi educativa (paideia):​​ rendere l’uomo perfettamente uomo (homines maxime homines,​​ liberi maxime liberi)​​ e cittadino utile alla​​ res publica.​​ Più specificamente gli elementi qualificanti della «mens romana»​​ nell’educazione della gioventù, differenziati da quelli dei Greci, possono essere schematicamente ridotti a questi: 1) maggior senso e dedizione alla famiglia; 2) nella famiglia una più forte coscienza della responsabilità diretta dei genitori sull’educazione dei figli, considerata come un’esplicazione anch’essa della​​ patria potestas;​​ 3) caratteristica impronta di praticità e concretezza, che fa associare la vita di lavoro e di attività produttiva con la preoccupazione della​​ res publica,​​ con la vita del foro e con l’impegno militare; 4) una maggior serietà e semplicità nella concezione della vita e spiccata formazione morale e religiosa, che distinse il popolo romano da quello greco; 5) una salda strutturazione della vita sociale, nella creazione del diritto, nel rispetto della maestà delle leggi e del​​ mos maiorum:​​ la formazione del​​ civis romanus​​ in opposizione all’individualismo greco. Senza dubbio la​​ paideia​​ greca si presenta in una sintesi più culturale e completa; R., giunta all’akme​​ del suo sviluppo civile, culturale, politico e militare, non poteva non subirne il fascino e non sentire il bisogno di assimilarlo, operando una sintesi originale e congeniale al patrimonio spirituale romano. Ma a parte la differenziazione tra Grecia e R., è da dire che questa sintesi felice ed armonica di​​ paideia​​ greca e di​​ humanitas​​ romana si diffonderà nel tempo e nello spazio in tutto l’impero di R. e formerà l’apporto più vivace all’ideale umanistico di educazione che si svilupperà lungo i secoli.

Bibliografia

Büchner K.,​​ Humanitas romana,​​ Heidelberg, Winter, 1957; Simoncelli M., «Lineamenti di storia della pedagogia», in​​ Educare,​​ «Enciclopedia delle Scienze dell’Educazione», vol. I, Zürich, PAS-Verlag, 1962; Jäger W.,​​ Paideia,​​ I, II, III, Firenze, La Nuova Italia, 1963;​​ Grimal P.,​​ Le siècle des Scipions,​​ Paris, Aubier,​​ 21975;​​ Bonner S.,​​ La educación en la antigua Roma: desde Catón el Viejo a Plinio el joven, Barcelona, Herder,​​ 1994; Marrou H. I.,​​ Storia dell’educazione nell’antichità,​​ Roma, Studium, 1994; Frasca R.,​​ Educazione e formazione a R. Storia,​​ testi,​​ immagini,​​ Bari, Dedalo, 1996; Prellezo J. M. - R. Lanfranchi,​​ Educazione e pedagogia nei solchi della storia,​​ vol. 1:​​ Dall’antichità alle soglie dell’Umanesimo,​​ Torino, SEI, 2004.

S. Felici




ROMANTICISMO E EDUCAZIONE

 

ROMANTICISMO E EDUCAZIONE

Bisogna ricordare anzitutto che non si dovrebbe parlare di R., al singolare, ma di r., al plurale, specialmente dopo gli studi di A. O. Lovejoy (Essays on history of ideas,​​ 1948); e che non si può identificare completamente qualche autore dell’epoca come «romantico», poiché non avrà tutte le caratteristiche possibili. Senza dimenticare, d’altra parte, che una cosa è «il» R. o «i» r. in educazione (che si possono trovare in tutti i tempi) e un’altra cosa ben diversa è quella che interessa concretamente in questa sede: il rapporto dell’educazione con quel movimento, chiamato R., a cui possono essere assegnati determinati limiti temporali, tra l’anno 1798 e l’anno 1830 (nel ’98 F. Schlegel pubblica un articolo significativo nella rivista «Athenaeum» e nel ’30 va in scena il dramma​​ Hernani​​ di V. Hugo). Ma queste date sono semplicemente indicative, poiché, ad es., è esistito tutto un movimento «preromantico», e, d’altro lato, va tenuto presente che sono stati molti gli aspetti artistici, sociali, ideologici, politici, ecc., che hanno contestualizzato l’apparizione e la vita del nuovo movimento.

1. Senza bisogno di definire con precisione il R., possiamo avvicinarci ad alcune delle sue note caratteristiche, specialmente quelle che hanno avuto conseguenze decisive per la pedagogia e per l’educazione successive. In un’epoca di trionfo della ragione, dell’industrializzazione, della borghesia, della verità, delle idee, della rivoluzione, del progresso, della storia lineare, delle guerre imperiali, della staticità, della correzione..., gli uomini cominciarono a sentirsi soffocati, abbandonati, trascurati; e diedero un grido di ribellione per trovare se stessi, per poter essere se stessi, per poter essere stimati per quello che erano. Essi decisero di «fuggire» e fuggirono verso il passato, il passato remoto, il Medioevo, l’esotismo, la libertà e l’indipendenza personale e dei popoli. Solo «a partire dalla Rivoluzione e dal R. la natura dell’uomo e della società cominciò a essere sentita come specialmente evoluzionista e dinamica» (A. Hauser).

2. Al di sopra dell’intelligenza e della volontà, si affermarono i sentimenti. Per​​ ​​ Pestalozzi, ad es., la formazione del cuore del fanciullo non è un compito in più, ma una attività fondamentale; e, il primo sentimento, è quello della bellezza, tanto che si può parlare di una predominanza estetica. Al posto della dichiarazione degli illuministi – la bellezza è nella verità – , A. de Musset dice ora che «niente è vero fuori del bello». È certo che già in​​ ​​ Locke c’era un appello ai sentimenti, ai​​ feelings;​​ ma non è meno certo che in​​ ​​ Rousseau si opera una rivoluzione. Al di sopra di un​​ ​​ Kant che rispetta la natura ma desidera condurre il fanciullo verso un modello ideale, degno della specie umana, Rousseau mette in risalto il valore dell’istinto, lascia che la natura agisca liberamente, e cerca di raggiungere una formazione completa in cui occupino un posto rilevante i sentimenti. Ma la cosa più importante è che egli colloca il fanciullo al centro del processo educativo, che significa far girare l’educazione attorno all’individuo. In seguito sarà possibile una​​ educazione progressiva​​ (​​ Necker), un’istruzione dei bambini (​​ Owen) e anche i​​ giardini d’infanzia​​ (​​ Fröbel). E se in ciò che riguarda il metodo la ragione lascia il posto all’intuizione, nel R. non sembrerà strano il valore che acquista detta intuizione nei pedagogisti dell’epoca, seguendo specialmente Pestalozzi, che fa dell’intuizione stessa il principio fondamentale della sua proposta didattica. Veicoli efficaci di molte delle istanze caratteristiche del R. in educazione furono i romanzi «pedagogici» come​​ Levana​​ di​​ ​​ Richter;​​ Wilhelm Meister​​ di Göthe;​​ William Lovell​​ di Tieck; o i precedenti,​​ Emilio​​ di Rousseau o​​ Eusebio​​ dello spagnolo P. Montengón.

Bibliografia

De Pascale C.,​​ Il problema dell’educazione in Germania. Dal Neoumanesimo al R.,​​ Torino, Loescher, 1979; Willinsky J. (Ed.),​​ The educational legacy of Romanticism,​​ Waterloo (Ontario), Wilfrid Laurier University, 1990.

J. Ruiz Berrio




ROSMINI-SERBATI Antonio

 

ROSMINI-SERBATI Antonio

n. a Rovereto nel 1797 - m. a Stresa nel 1855, sacerdote, filosofo e pedagogista italiano.

1. Di nobile famiglia, compie gli studi elementari e superiori a Rovereto, quelli universitari a Padova, dove conosce N. Tommaseo e traduce il​​ De catechizandis rudibus​​ di​​ ​​ Agostino, che pubblica nel 1821. Per la sorella Margherita, direttrice nel 1820 dell’orfanotrofio femminile di Rovereto, scrive​​ Dell’educazione cristiana,​​ edita nel 1823. Sacerdote dal 1821 conduce vita austera tra studi e opere di carità, mentre matura l’idea di elaborare una grande opera politica per risanare moralmente la società. A tale scopo nel 1826 si reca a Milano, dove conosce Manzoni e il conte Mellerio. Scrive il saggio​​ Sull’unità dell’educazione​​ (1826), in cui sostiene che prima regola dell’educazione è l’unità e ogni forma di essa deve tendere alla formazione di​​ tutto​​ l’uomo, in modo che «tutto in esso armoniosamente proceda». Nel 1828 è al monte Calvario di Domodossola: fonda l’Istituto della Carità e ne scrive le​​ Costituzioni;​​ a novembre è a Roma per far approvare l’Istituto, per pubblicare il​​ Nuovo saggio sull’origine delle idee​​ (1830) e le​​ Massime di perfezione cristiana​​ (1830). Gli anni che seguono sono caratterizzati da intenso lavoro: fondazione (1832) delle Suore della Provvidenza (Rosminiane); istituzione del Collegio degli Educatori elementari e quello dei Missionari; pubblicazione di molte opere. Tra il 1839-40 scrive​​ Del principio supremo della metodica​​ (pubblicato postumo nel 1857) per aiutare i suoi religiosi / e a meglio svolgere il loro insegnamento nelle scuole materne, elementari e superiori.

2. R. svolge il problema metodologico dal punto di vista filosofico e pedagogico riprendendolo nella​​ Logica​​ (1854) e, ancor prima, nella​​ Prefazione​​ al​​ Catechismo disposto secondo l’ordine delle idee​​ (ediz. 1844): «Il principio che regge e governa tutto quanto l’ordine didattico è il seguente semplicissimo: “Le verità sieno disposte in una serie ordinata in guisa che quelle che precedono non abbiano bisogno per essere intese di quelle che seguono”». Nel 1848 il governo piemontese gli affida una missione diplomatica presso la S. Sede, che fallisce anche per la politica filoaustriaca del card. Antonelli. Nel 1849 ritorna a Stresa, dove si è stabilito dal 1836, e continua la sua attività di scrittore e di guida degli istituti da lui fondati senza ribellarsi per la messa all’Indice di due sue opere:​​ Le cinque piaghe della Santa Chiesa,​​ Costituzione secondo la giustizia sociale.​​ Su proposta del vescovo d’Ivrea, scrive una serie di articoli in difesa della libertà d’insegnamento. È in relazione con i più noti pedagogisti del​​ ​​ Risorgimento italiano. Dopo il Concilio Vaticano II, la sua persona e i suoi scritti, che spaziano in vari ambiti del sapere, sono oggetto di studio e vivo interesse. Nel 1994 si dà inizio alla causa di beatificazione. In data 26.06.2006 la Congregazione delle Cause dei Santi promulga il decreto riguardante le virtù eroiche del Venerabile A.R.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ l’ediz. di tutte le opere di R. è ora continuata dall’ediz. critica​​ a cura dell’Istituto di Studi Filosofici di Roma e dal Centro Internazionale di Studi Rosminiani di Stresa. Prevede circa 80 volumi, che vengono pubblicati dall’Editrice Città Nuova di Roma. Tra questi​​ Della educ. cristiana. Sull’unità dell’educazione, a cura di L. Prenna, n. 31. b)​​ Studi:​​ per la vita di R. è fondamentale:​​ La vita di A. R. scritta da un sacerdote dell’Istituto della Carità riveduta e aggiornata dal prof. G. Rossi,​​ 2​​ voll., Rovereto, Manfrini, 1959. Validi strumenti di lavoro sono: Bergamaschi C.,​​ Bibliografia Rosminiana, Stresa, Edizioni Rosminiane Sodalitas, 1967-1996, 7 voll. e Id.,​​ Grande dizionario antologico del pensiero di A. R., Novara, Interlinea, 1997; Morando D.,​​ La pedagogia di A. R.,​​ Brescia, La Scuola, 1948; Prenna L.,​​ Dall’essere all’uomo. Antropologia dell’educazione nel pensiero rosminiano,​​ Roma, Città Nuova, 1979; Lanfranchi R.,​​ Genesi degli scritti pedagogici di A. R.,​​ Ibid., 1983.

R. Lanfranchi




ROUSSEAU Jean-Jacques

 

ROUSSEAU Jean-Jacques

n. a Ginevra nel 1712 - m. a Ermenonville nel 1778, filosofo e pedagogista svizzero.

1.​​ Vita.​​ Dominio del sentimento, fantasticherie, spirito di avventura, ricerca del nuovo: sono i tratti che caratterizzano R. fin dalla sua infanzia. E ancora: incapacità di sottomettersi a qualsiasi tipo di attività, e perciò insofferenza per l’assunzione di ruoli sociali. È domestico, segretario, incisore, copista, ma anche precettore, musicista, seminarista, cattolico e protestante e poi deista, incapace di coerenza, anzi portato all’esaltazione, e infine al paradosso. Vinse nel 1750 il concorso bandito dall’Accademia di Digione, e da quel tempo i suoi contatti con gli intellettuali si fanno più continui, ma non lo portano, per l’incostanza che lo domina, ad inserirsi nel mondo illuminista. Anche Parigi lo disturba, si rifugia in campagna, dove sembra trovare tranquillità e possibilità di meditazioni. La condanna dei suoi scritti maggiori – l’Emilio​​ e il​​ Contratto sociale​​ – lo allontana dalla Francia; e vive un nuovo periodo di vita errabonda. Rientra in Francia; soggiorna ad Ermenonville dove muore.

2.​​ Paradossalità e dover essere.​​ «Preferisco essere uomo del paradosso che uomo dei pregiudizi»: così afferma R. nel secondo libro dell’Emilio.​​ E in corrispondenza a quanto era stato definito nella​​ Encyclopédie,​​ il paradosso è proposta apparentemente assurda, che tuttavia presenta motivi di verità. In realtà, è termine che, interpretato in riferimento all’opposto «pregiudizio», non solo sottolinea il nuovo con cui R. ritiene di caratterizzare il suo pensiero; ma spiega anche la sua reazione alla convenzionalità del costume sociale del tempo, la manifestazione di quel tanto di incoerente, talvolta di disorganico, certamente di non coerentemente logico, di cui sono caratterizzati i discorsi rousseauiani. Questi non solo richiedono un continuo procedere dall’uno all’altro scritto, ma sono portati ad evidenziare problemi, anzi problemi aperti, piuttosto che soluzioni definitive. In realtà il paradosso, pur nella sua almeno parziale dimensione utopica, permette una lettura delle opere di R. che evita il radicalismo estremo di una interpretazione del tutto critica e negativa, onde R. sarebbe il visionario senza capacità di contatti e di controlli da parte della realtà; interpretazione, questa, che in parte si contrappone all’altra, che sottolinea l’estremo frammentismo degli scritti, e perciò l’asistematicità del programma, sia quello politico, sia quello educativo. Certo è che R. non ci offre trattazioni sistematiche: e ne dà continua conferma. Ma ciò dipende dal fatto che il pensatore guarda al «dover essere», più che all’immediatamente «fattibile», che è sempre «ciò che si fa». Frammentarismo ed irrealtà: R. lo riconosce, e per questo ritiene possibile che dei suoi scritti si parli come di​​ fantasticherie.​​ Si tratta, allora, di sapere​​ leggere​​ «oltre il rigo», al di là della convenzionalità del senso comune, così che dal paradosso possa emergere, nel contrasto con il pregiudizio, una dialettica che impone, da una parte il continuo riferimento al contesto e dunque alla situazione prospettata, ma dall’altra la inevitabilità di sfuggire alla tentazione di un adeguamento al ciò che è. È per questo che l’opera di R. è piuttosto «romanzo» che «trattato» di un programma per un «imparare a vivere». Dove è solo il ripensamento critico che può legittimarlo: «lettore volgare, perdonate i miei paradossi: bisogna farne quando si riflette?». Il riflettere è atteggiamento critico, che conduce ad una valutazione di ciò che è, ma insieme a prospettare – che non vuol dire ancora un progettare concreto – ciò che si vorrebbe che fosse, o che dovrebbe essere. È il rapporto tra volere e dovere, in tensione nei confronti delle possibilità dell’ideale, a caratterizzare un pensiero che, in ogni caso, mai potrà essere definito​​ astratto:​​ al più se ne parli come di una​​ teoria​​ che, almeno dal punto di vista delle​​ idee,​​ non può non confrontarsi con il concreto della esperienza.

3.​​ Natura e libertà.​​ Due i termini-concetti-chiave per una​​ equilibrata​​ lettura di R.:​​ natura​​ e​​ libertà.​​ Ma entrambi i termini non sono univoci, logicamente definibili, e ciò anche perché se ne parla come «atteggiamenti» della prassi, così che sempre il molteplice domina sull’uno, il vario sull’identico. Certo la natura è dichiarata il​​ bene,​​ la naturalità la​​ bontà:​​ «tutto è bene uscendo dalle mani dell’Autore delle cose». Così inizia l’Emilio,​​ ed è dichiarazione che, con modalità varie, impronta tutti gli scritti, e quasi sempre in correlazione-opposizione con il​​ male,​​ prodotto dalle mani dell’uomo. Duplice è la natura cui si fa riferimento: quella​​ fisica,​​ l’ambiente​​ che viene privilegiato nella sua dimensione spontanea, immediata: la campagna e non la città, che è costruzione umana. È preferenza che verrà ampiamente accolta nel mondo romantico e che costituirà il tema preferito di non pochi scrittori, romanzieri e poeti di stile «sentimentale» dell’Ottocento. È la campagna ad accogliere Emilio per la sua educazione: solo in quell’ambiente egli potrà non risentire delle degenerazioni della vita sociale. Non per questo la conservazione – o la ricostituzione – della naturalità significherà ricondurre l’educazione ad​​ individualità,​​ o a fare dell’uomo «un selvaggio» o un abitante dei boschi o delle caverne. Si tratta di evitare che l’uomo venga «travolto dalle passioni» ma anche «dalle opinioni» degli uomini, così che egli possa «vedere con i​​ suoi​​ occhi e sentire con il​​ suo​​ cuore». Ancora qui riappare la radicalità del paradosso usato per sconfiggere l’artificiosità dei pregiudizi. Certo la natura-ambiente ha la sua inflessibilità: è quel che è, così che le​​ cose​​ si impongono all’uomo, prescrivendo l’uso di strumenti e di modalità atti a permettergli l’utilizzazione dell’esperienza a proprio vantaggio. Infatti l’uomo naturalmente tende alla felicità, che è​​ equilibrio di forze​​ ​​ quelle offerte dall’ambiente e quelle costitutive della natura umana – e​​ di bisogni,​​ quelli della crescita umana (dalla puerizia alla giovinezza) riscontrabile negli esiti del​​ piacere,​​ dell’utile,​​ del​​ bene.​​ Si tratta di bisogni naturali: che caratterizzano l’altra faccia del naturale, la natura «originaria» dell’uomo – che è spesso denominata​​ carattere,​​ ma forse meglio si dovrebbe dire «temperamento» – che non si identifica con una solitudine individualistica, come troppo affrettati interpreti hanno concluso. Le dichiarazioni di R. sono esplicite: «l’uomo è socievole per sua natura»; è «fatto per vivere con gli uomini». Ne danno esplicita conferma il quarto e il quinto libro dell’Emilio,​​ ma ancor più il​​ Contratto sociale,​​ dove viene prospettata la via per uscire dallo stato di forza, che mette ciascuno in contrasto con l’altro, e pervenire, attraverso lo stato di diritto, allo stato di realizzazione della piena libertà morale, che non è solo il vertice cui deve pervenire il singolo mediante una corretta educ. naturale, ma anche il contrassegno di quella​​ Res pubblica,​​ in cui si realizza politicamente il bene comune. È un fatto che allo stretto rapporto delle due maggiori opere, l’Emilio​​ e il​​ Contratto sociale,​​ gran parte degli studiosi ha dato scarso rilievo, preferendo piuttosto l’antitesi, basata sul​​ naturalismo​​ dell’​​ Emilio​​ ​​ letto in chiave «individualistica» – e sulla​​ solidarietà​​ di un «contratto», redatto necessariamente in termini di socialità e di politicità.

4. L’«uomo intero».​​ L’inadeguata, perché unilaterale e superficiale, interpretazione dell’uomo naturale​​ ha impedito quell’andare oltre la lettera del dettato, per coglierne l’intenso significato problematico. Eppure R. è, in questo, quanto mai esplicito. «L’uomo naturale è tutto per sé; è l’unità numerica, l’intero assoluto che non ha rapporto che con se stesso o con il suo simile. L’uomo civile non è che una unità frazionata dipendente dal denominatore, e il cui valore è in rapporto con l’intero che è il corpo sociale». È distinzione essenziale, questa, dell’uomo intero dall’uomo frazionato che vive ed esercita i suoi ruoli sociali e professionali. «Nell’ordine sociale in cui tutti i posti sono precisati ciascuno deve essere allevato per il proprio»: su questa base si può intendere l’obiettivo dell’educazione naturale comune a quello del contratto sociale. Qui è la​​ volontà generale​​ ​​ la volontà degli uomini​​ interi​​ ​​ e non la​​ volontà di tutti​​ ​​ gli uomini​​ frazionati​​ ​​ a permettere la realizzazione di uno Stato tutto rivolto al «bene comune»; nella educazione naturale è la ricostituzione dell’interezza dell’uomo o, per dirlo con altra espressione, dell’umanità dell’uomo,​​ a dover essere perseguita, anche perché altrimenti la stessa sua​​ libertà​​ verrebbe intaccata, essendo inevitabilmente l’agire sociale e professionale legato ai limiti dei ruoli. «Nell’ordine naturale, essendo gli uomini tutti uguali, la loro vocazione comune è lo stato di uomo». Come si vede, viene chiaramente prospettato l’obiettivo di sempre: riportare il ruolo all’uomo, e non ridurre l’uomo al suo ruolo. È per questo che R. è in condizione di presentare la famiglia come prima società naturale; ma anche di considerare naturali gli esiti politici di quelle comunità sociali dove non il numero bensì la​​ qualità​​ ​​ l’intero naturale – è il punto di riferimento. Il «bene comune» non esclude una considerazione meritocratica della società, a condizione che il merito professionale non trascuri il valore dell’uomo intero.

5.​​ Mente,​​ cuore,​​ socialità.​​ A smentire l’antisocialità della pedagogia di R. sta anche, fra gli scritti considerati minori, il​​ Progetto per l’educazione del signor Saint-Marie,​​ dove il ventottenne scrittore richiama l’attenzione sulla necessaria collaborazione educativa tra genitori e precettori, e sulla solida azione autoritaria – capace di castigare e non solo di lodare – precisando che in ogni caso bisogna insegnare ad​​ imparare a vivere​​ fin dai primissimi anni dell’infanzia. Un più ampio programma di educazione sociale troviamo nelle​​ Considerazioni sul governo della Polonia​​ (1772), dove la dimensione nazionale dell’educazione viene privilegiata nel quadro di un programma d’insegnamento. Anche l’accentuato sentimentalismo della​​ Nuova Eloisa​​ (1758) riconosce il primato dell’educazione del cuore rispetto all’educazione della mente, così precisando la​​ natura​​ dell’infanzia che «bimbi debbono essere prima che uomini». L’educazione del cuore è preminente anche nel programma educativo di Sofia, che deve essere formata per​​ compiacere​​ Emilio, il suo futuro compagno di vita. Preceduto dal saggio, vincitore del Concorso bandito dall’Accademia di Digione​​ «Se il progresso delle scienze e delle arti abbia contribuito alla corruzione o alla purificazione dei costumi»,​​ e da un secondo saggio sulla​​ «Origine e il fondamento della ineguaglianza tra gli uomini»,​​ è il Discorso sulla​​ Economia politica​​ (1754-55) che offre, accanto alle indicazioni di socialità riguardanti l’educazione, una chiara presentazione delle tematiche riguardanti il vivere sociale e pubblico. Tali temi sono ripresi e più ampiamente discussi nel​​ Contratto sociale​​ del 1762, che vuole essere una ricerca riguardante il «se, nell’ordine civile, ci possa essere qualche regola di amministrazione legittima e sicura, prendendo gli uomini quali sono, e le leggi quali possono essere». Si tratta, in sostanza, di ricercare se l’uomo, nato libero, e perciò costitutivamente libero, possa conservare la sua libertà, o forse anche potenziarla, senza cadere in catene. Il costituirsi della società non deve infatti né diminuire né annullare la libertà di ciascuno, che è diritto cui non si può rinunciare, perché ciò significherebbe «rinunciare alla propria qualità d’uomo». La proposta di costituire una società fondata sulla volontà generale, significa considerare l’aspetto​​ qualitativo​​ dell’uomo, e non la quantità, il numero degli associati, tanto meno fondare la società – lo Stato – sul rapporto maggioranza-minoranza. Per questo R. preferisce parlare di​​ Res-publica​​ piuttosto che di democrazia, solo così attuandosi il passaggio dallo stato di natura (la libertà naturale) allo stato civile (la libertà civile), provocando nell’uomo il cambiamento dell’istinto in giustizia, così che «ogni cittadino non pensi che con la sua testa».

6.​​ Infanzia e religiosità.​​ Ancora due aspetti del pensiero di R. debbono essere evidenziati, sempre entro i limiti di questa sintetica rassegna. Il primo è il riconoscimento dell’infanzia come centro e principio della considerazione educativa. La esplicita dichiarazione che «l’infanzia non è punto conosciuta», pur nella sua paradossalità, conduce R. a pretendere che il fanciullo non sia più da considerare come un uomo in miniatura, così da dover trasformare in atto questa sua potenzialità. Importa considerare il fanciullo per quel che egli è prima di essere adulto:​​ iuxta propria principia.​​ Ciò riguarda anche tutte le altre fasi della crescita biologica e spirituale dell’uomo. Contro l’adultismo ancora dominante ai suoi tempi, R. pone le richieste di un​​ puerocentrismo​​ che troverà dopo di lui la più ampia diffusione. L’altro aspetto riguarda la dimensione educativa della religiosità: essa viene collocata solo verso i quindici anni, in attesa che si manifestino le capacità razionali, peraltro sempre raccordate con le voci del cuore e del sentimento.​​ La professione di fede del Vicario savoiardo​​ si muove così tra​​ deismo​​ e​​ teismo,​​ non senza venature di fideismo. Il pedagogista riconosce che l’uomo non può prescindere da un suo rapportarsi con la Divinità, con l’Assoluto. Vi è una volontà che anima e governa il mondo, della quale si parla in termini di potenza, di bontà, di intelligenza. Perciò la religione è naturale, e dunque lascia libero Emilio di assumere altro atteggiamento: «Non ho il diritto di essere la sua guida; spetta a lui solo di scegliere». Al di là della considerazione dei contenuti della fede, è il rapporto dell’umano con il divino che importa sottolineare.

7.​​ Osservazioni conclusive.​​ Se vogliamo accettare la precisazione di R. «non aspettate da me un discorso sapiente né profondi ragionamenti. Io non sono un grande filosofo e mi curo poco di esserlo»; e se, ancor più, ci rendiamo conto del biografismo che caratterizza tutti i suoi scritti – e non solo le​​ Confessioni,​​ I dialoghi di R. giudice di J.J.​​ e​​ Le passeggiate solitarie​​ ​​ la troppo ripetuta critica di un R. disorganico, quando non anche contraddittorio, dove l’immediatezza del sentimento domina troppo spesso la linearità del razionale, ci può trovare consenzienti. Ma ciò a condizione di considerarla come una chiara testimonianza, una schietta documentazione di uno stile che è del discorso perché è dell’esperienza vissuta. Essa comunque nulla toglie alla ricca problematicità di un’analisi che sempre deve andare oltre l’interpretazione letterale, per evidenziare proposte, progetti, ideali, a volte utopie, tuttavia sempre contrassegnati dal vigoroso ripensamento delle due idee guida: la​​ natura​​ e la​​ libertà.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ R. J.-J.,Oeuvres complètes,​​ a cura di M. Lannay, Paris, Seuil, 1971;​​ Opere,​​ a cura di P. Rossi, Firenze, Sansoni, 1972;​​ Julie o la nuova Eloisa, tr. it., Milano, Casini, 1988;​​ Emilio o dell’educazione, tr. integrale di P. Massimi, Roma, Armando, 1995; b)​​ Studi:​​ Cassirer E.,​​ Il problema di J.J.R.,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1948; Chevallier J. J.,​​ Le grandi opere del pensiero politico. Da Machiavelli ai nostri giorni, Bologna, Il Mulino, 1968; Roggerone G. A., «J. J. R.», in​​ Nuove questioni di storia della pedagogia, vol. II, Brescia, La Scuola, 1977, 109-166; Xodo C.,​​ Maître de soi. L’idea di libertà nel pensiero pedagogico di R., Ibid., 1984; Iannello N.,​​ L’ordine degli uomini: antropologia e politica nel pensiero di Thomas Hobbes e di J.-J.R., Roma-Pisa, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 1998; Pesare F.,​​ Politica e educazione in J.J.R., Bari, Adriatica, 2000; Zedda M.,​​ Rileggendo l’Emilio. Itinerari di pedagogia rousseauiana, Roma, Armando, 2003; Gatti R., «R.», in​​ Enciclopedia Filosofica, vol. X, Milano, Bompiani, 2006, 9870-9878.

G. Flores d’Arcais