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READINESS

 

READINESS

Le teorie riguardanti la r. all’apprendimento – o stato di adeguatezza – si rifanno al concetto di maturazione durante le tappe di sviluppo biologico e mentale di ogni individuo. Tale concetto si basa sulla constatazione che il bambino, per raggiungere la maturità, passa attraverso tutti gli stadi dello​​ ​​ sviluppo.

1. Alcuni pedagogisti ed educatori hanno espresso punti di vista diversi a proposito dello stato di r.​​ ​​ Piaget basa la sua teoria dell’apprendimento sul concetto di r., ma nel suo approccio allo sviluppo non enfatizza eccessivamente gli stati di maturazione e di r. dato che evidenzia come, dopo i primi mesi di vita, la maturazione sia marginale nei suoi effetti mentre l’esperienza è ciò che conta. Secondo Piaget, lo sviluppo attraverso fasi o tappe intellettuali coincide necessariamente con le esperienze concrete vissute dal soggetto e da ciò si deduce che lo stato di r. non avviene passivamente, ma va stimolato attivamente e che è compito dell’insegnante proporre attività situate ad un livello sopra qualunque stato di r. ci si trovi davanti. Secondo la​​ ​​ Montessori, i periodi di «sensitività» corrispondenti a particolari età esistono quando l’interesse e le capacità mentali del soggetto-bambino sono adatte ad acquisire nuove conoscenze come quella dei colori e del linguaggio.

2. Nell’ambito della scuola, spetta all’insegnante scoprire, per ogni alunno, il livello di r. all’apprendimento e, affinché questo abbia luogo, disporre i tempi, i metodi e i materiali. Il concetto di r. è utilizzato in riferimento all’apprendimento della lettura che prevede un periodo ottimale d’inizio dai 5 anni e 6 mesi ai 6 anni e 6 mesi. Nonostante la relativa certezza sulla r. del periodo citato, è necessario verificarla per ogni soggetto.

Bibliografia

Bybee R. W. - R. B. Sound,​​ Piaget for educators, Columbus (Ohio), Charles E. Merrill Publishing Co, 1990; Pianta R. C. - M. J. Cox - K. L. Snow (Edd.),​​ School r.,​​ early learning and the transition to Kindergarten, Baltimore (MD), Brookes, 2007.

C. Cangià




RECUPERO

 

RECUPERO

Il termine r. è utilizzato spesso in contesti medico-sanitari nei quali i campi possono essere quelli della fisiologia, della psicologia clinica o della memoria (Galimberti, 1992). Più in generale esso è alla radice di tutti quegli interventi che si utilizzano per portare la persona a riattivare funzioni o operazioni parzialmente deteriorate o mal funzionanti.

1.​​ R. e rieducazione.​​ Nel contesto​​ sociale​​ si parla anche di rieducazione intendendo tutta una serie di interventi ritenuti necessari per riportare il soggetto a riappropriarsi del suo itinerario di crescita in modo più adeguato. Abitualmente quindi si fa riferimento soprattutto a un soggetto in età evolutiva, che sta adottando comportamenti non in sintonia con le norme vigenti nel suo contesto sociale e che quindi deve imparare a comportarsi in modo diverso da come, abitualmente o sporadicamente ma in modo compromettente, fa. In questo processo di riattivizzazione delle proprie energie, la parola rieducazione sottolinea l’intervento dall’esterno, mentre, più opportunamente, il termine r. esprime sia l’operazione di stimolo di un agente esterno che il riattivarsi delle energie compiuto dal soggetto a partire dal suo interno. Il percorso di r. sociale dovrebbe tenere conto dei bisogni dei giovani, dell’organizzazione complessiva della società, della qualità delle relazioni sociali, della presenza di strutture intermedie di socializzazione quali la scuola, le associazioni, i servizi sociali, della capacità degli adulti di trasmettere sentimenti, mete, obiettivi e modelli di identificazione e soprattutto della loro capacità di interagire dinamicamente con i giovani. Un tempo il mezzo privilegiato erano le case di rieducazione ampiamente criticate per il loro effetto stigmatizzante e per la logica della repressione e della esclusione (Goffman, 1968). Da allora si assiste a una molteplicità di interventi intesi ad attivare il percorso di r. del minore senza toglierlo dalla comunità di vita e aiutando lui e gli adulti ad assumere le proprie responsabilità. Perché l’intervento da potere sociale dell’adulto diventi aiuto per il giovane viene fatto veicolare su un terreno meno assistenziale e più educativo.

2.​​ R. e ambienti educativi.​​ Le strutture educative sono quindi ipotizzate come differenziate sul bisogno dei​​ ​​ minori. Ogni Paese sta superando il sociale-giuridico per pensare gli interventi in terreni più agili del privato-sociale. Le aree di intervento si allargano comprendendo l’area della socializzazione, quella del lavoro e della formazione professionale, e quella più specifica della emarginazione e della​​ ​​ devianza. I servizi si moltiplicano e i tipi di intervento cercano di rispettare una priorità che dovrebbe assicurare meglio la realizzazione degli obiettivi educativi. In caso quindi di necessità viene proposto nell’ordine: l’affido familiare, le comunità o gli istituti. Questi ambienti educativi sono molto articolati e molteplici. Ogni Paese avvalendosi delle proprie tradizioni cerca di modularli tenendo conto (almeno come tensione ideale) della finalità pedagogico-educativa, rispettando possibilmente il ruolo della​​ ​​ famiglia che non andrebbe deresponsabilizzata, inserendo personale educativo e proponendo una giusta flessibilità.

3.​​ Interventi alternativi al carcere.​​ Rimanendo nell’area europea segnaliamo alcuni interventi proposti come alternativa al​​ ​​ carcere. In​​ Francia​​ dal 1-12-89, non è più possibile la detenzione dei minori infrasedicenni. Per quelli con età maggiore oltre alla detenzione sono state introdotte tre misure alternative: «il rinvio della pronuncia della pena», il «lavoro di interesse generale (Tgi)» e la «mediazione-riparazione». Interessante quest’ultima soluzione che consiste nel non far comparire il giovane davanti al giudice minorile, ma nel fargli prendere coscienza dell’esistere di una legge penale, del suo contenuto e delle conseguenze della trasgressione nei confronti della vittima e della società. Il diritto minorile​​ tedesco,​​ invece, è caratterizzato dal principio dell’educazione, nel tentativo di mettere in secondo piano il concetto di punizione. Vengono utilizzate come misure alternative alla detenzione, solo per i reati meno gravi, le «misure alternative ambulanti» (es. obbligo di seguire lavori non remunerati di utilizzo sociale, pagare una multa a favore di un’istituzione sociale, risarcire la vittima, presentare le proprie scuse, evitare certi luoghi o talune persone, ecc.). Per quanto riguarda i reati più gravi sono state sviluppate le «nuove misure ambulanti» che comprendono i corsi di rieducazione sociale in cui un gruppo di minori discute insieme ad un operatore sociale di argomenti importanti che riguardano la loro situazione, i corsi di rieducazione specializzati per il r. dei conflitti, destinati in particolare a coloro che hanno la tendenza al maltrattamento ed alla violenza, la presa in carico singola da parte di un istruttore che si occuperà delle difficoltà familiari e / o sociali del giovane, ed infine la mediazione tra autore e vittima del reato che ha come scopo principale l’obiettivo di placare in prima persona i partecipanti al conflitto generato. Per ultimo, l’organizzazione penale minorile utilizzata in​​ Scozia​​ ed in​​ Inghilterra​​ è basata sull’uso di «sistemi di ascolto dei minori» con l’obiettivo di decidere se un minore che abbia commesso un reato, che si trovi in uno stato di abbandono o vittima di una violenza, abbia bisogno di un intervento delle autorità. Tali sistemi di ascolto sono una specie di Tribunale Informale in cui i componenti della struttura, i minori stessi, i genitori e gli operatori sociali discutono insieme del problema portato da uno dei minori e con una commissione che rappresenta lo Stato propongono interventi adeguati. Anche in​​ Italia,​​ soprattutto dopo il DPR 448 / 88, la tendenza è quella di utilizzare il carcere come estremo rimedio. Misure alternative, seguendo un po’ l’andamento delle soluzioni proposte negli altri stati europei, sono la «messa alla prova» e la «conciliazione con la vittima». Significativa ormai è la tendenza a utilizzare risorse educativamente più rilevanti come l’inserimento del ragazzo in comunità educative (comunità alloggio, case famiglia, gruppi appartamento, comunità di accoglienza, cooperative di lavoro) con adulti in grado di aiutarlo a riappropriarsi di competenze più adeguate alla sua crescita. Ogni comunità ha il suo progetto educativo (​​ progettazione educativa) che tiene conto delle indicazioni generali imposte dagli standard regionali o nazionali, dei principi di riferimento a cui si ispira il gruppo educativo e della metodologia ritenuta adeguata ai fini proposti. Si può quindi concludere affermando che in Europa si è passati da un «modello punitivo retributivo» a un «modello rieducativo trattamentale» e si sono poste ormai le basi per impostare il r. su un «modello riparativo conciliativo».

4.​​ Il​​ r. scolastico.​​ Una parte importante del r. viene riservata al​​ r. scolastico​​ in quanto la​​ ​​ scuola occupa il minore per molte ore del giorno e costituisce un fattore a volte determinante della sua crescita. Variabili significative sono quelle relative all’​​ ​​ apprendimento, all’​​ ​​ insegnamento e all’​​ ​​ insuccesso scolastico.

Bibliografia

Goffman E.,​​ Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza,​​ Torino, Einaudi, 1968; De Leo G. - A. M. Dell’Antonio,​​ Nuovi ambiti legislativi e di ricerca per la tutela dei minori,​​ Milano, Giuffré, 1993; Cavallo M. (Ed.),​​ Le nuove criminalità: ragazzi vittime e protagonisti,​​ Milano, Angeli, 1995; Severi V.,​​ Insegnamento e apprendimento in difficoltà. Ricerca e azione educativa di fronte all’insuccesso scolastico,​​ Torino, UTET, 1996; Stella P.,​​ Difesa sociale e rieducazione del minore,​​ Padova, CEDAM,​​ 2001; Scardaccione G.,​​ Il minore autore e vittima di reato. Competenze professionali,​​ principi di tutela e nuovi spazi operativi, Milano, Angeli, 2007.

L. Ferraroli




REGISTRO

 

REGISTRO

È un libro o quaderno che serve da strumento per la documentazione della vita scolastica in generale e della classe in particolare.

1. Esistono diversi tipi di r. utilizzati nella scuola: oltre a quelli di carattere amministrativo (r. contabili, r. delle assenze di tutti gli addetti all’istituto, r. delle tasse pagate e degli esoneri, r. di carico e scarico dei diplomi rilasciati, r. partitario delle entrate e delle spese) e quelli dei verbali delle adunanze dei rispettivi organi collegiali, ce ne sono altri relativi agli alunni, quali: r. annuale degli alunni («r. di classe»), r. degli esami, delle prove e dei voti di esame, «scheda di valutazione»,​​ ​​ «portfolio», ecc.

2. Oggi, secondo il concetto pedagogico sia di​​ ​​ valutazione che di​​ ​​ organizzazione scolastica, alcuni r. assumono un’importanza particolare, quali il «r. di classe», il «r. del professore». Quest’ultimo serve propriamente per l’annotazione dell’osservazione sistematica che questi fa nei riguardi dei singoli alunni durante le ore di lezione, per la raccolta e documentazione dei risultati della valutazione continua degli alunni attraverso le prove orali e / o scritte della verifica. Tale tipo di r. ha un carattere anche narrativo e può presentare diverse tecniche di osservazione quali liste di controllo e scale di classificazioni. Questi tipi di r. possono avere, a seconda dei Paesi, una forma​​ standard​​ stabilita dallo stesso organismo nazionale incaricato dell’istruzione scolastica.

3. Infine, il termine r. nell’ambito scolastico viene usato a volte per indicare mezzi didattici di vario genere, quali ad es. i diversi timbri della voce che un insegnante può variare, o il tipo di canale comunicativo che si adotta nel processo didattico.

Bibliografia

Giannarelli R. - G. Trainito,​​ Compendio della legislazione sull’istruzione secondaria,​​ Firenze, Le Monnier, 1992; Pellerey M.,​​ Le competenze individuali e il portfolio, Milano, RCS, 2004.

H.-C. A. Chang




RELATIVISMO ETICO

 

RELATIVISMO ETICO

Un certo​​ pluralismo etico​​ è sempre esistito nel mondo dell’uomo. Spesso si radica in un più vasto pluralismo culturale e, dati gli inevitabili rapporti esistenti tra etica e religione, si accompagna a un certo pluralismo religioso che non raramente è sfociato nel passato (ma in parte tuttora) in forme di conflittualità e pratiche di imperialismo religioso. Forse anche per evitare queste forme di conflitto, si sta diffondendo l’idea che ogni forma di convinzione morale debba avere uguale diritto di presenza nella società globale in cui viviamo. Questa tolleranza sbocca facilmente in un vero e proprio r.e.

1. La diversità delle opinioni etiche non è più vista come un​​ minor male, magari superabile solo parzialmente e lentamente, attraverso un dialogo franco e sereno, ma addirittura come una ricchezza e quindi come un valore. È facile vedere come questa tendenza, mentre sottolinea il ruolo della coscienza e delle convinzioni personali nel vissuto etico e religioso, minaccia la serietà del vissuto etico: se tutte le forme di pensiero morale, per quanto diverse e perfino contraddittorie, fossero ugualmente valide, nessuna di esse potrebbe arrogarsi il privilegio della verità; sarebbe come dire che tutti le affermazioni morali sono sempre discutibili e rifiutabili. Mentre il pluralismo etico invita alla ricerca e al dialogo, fosse pure animoso, il r.e. abbatte le fondamenta stesse del pensiero morale.

2. Ed è facile vedere come il r.e. si riveli minaccioso, in un mondo in cui l’umanità può, con una possibile guerra nucleare totale, o anche solo con il saccheggio della natura, distruggere la sua stessa sopravvivenza. Nelle sue forme estreme, il r. morale finisce per negare serietà e carattere obbligante a qualsiasi affermazione etica. Per questo, non sono mancati pensatori che hanno cercato di elaborare un’etica dotata di validità universale, capace perciò di essere accettata da tutti. E, poiché alla radice di o almeno collegato con il pluralismo etico si trova spesso il pluralismo delle religioni, una simile forma di pensiero morale dovrebbe essere valida a prescindere da ogni riferimento al mondo del divino, e fondarsi quindi solo su principi di ragione per sé evidenti e perciò, almeno potenzialmente, universali. Una simile forma di pensiero morale vorrebbe essere, ad es., quella fondata sul cosiddetto​​ principio di reciprocità,​​ che impegna il soggetto a comportarsi con gli altri come egli vorrebbe che essi si comportassero con lui. Questo principio (già presente peraltro nell’evangelico «ama il prossimo tuo come te stesso») è il contenuto del cosiddetto «imperativo categorico» che sta alla base dell’etica kantiana e che è stato ancora recentemente ripreso nella «teoria della giustizia» di J. Rawls e nell’«Etica della comunicazione» di J. Habermas e O. Apel, come fondamento di un’etica universale. Altri tentativi recenti di dare fondamento stabile a un’etica universale tendono a privilegiare l’urgenza di salvare la vita sulla terra dal pericolo incombente di una catastrofe ambientale: così ad es.​​ Il principio responsabilità​​ di H. Jonas.

3. Si noti come nelle diverse «teorie della società» ideale che, dall’Illuminismo in poi, attraversano non solo la storia del pensiero ma anche la prassi politica del nostro tempo, sia sempre inclusa, se pure magari non esplicitata, una qualche forma di pensiero morale che aspira a un consenso universale. Il credente guarda con interesse a queste forme di pensiero morale, riconoscendo in esse una risposta al bisogno di certezze etiche, che nasce dal cuore dell’uomo e dalle stesse esigenze della convivenza sociale, a livello mondiale. E tuttavia non ci si può nascondere la radicale insufficienza di tutti questi tentativi. Essi sono infatti privi di una vera efficacia motivante. La loro attuazione pratica esigerebbe quel supplemento di motivazione che solo qualcosa di equivalente a una fede religiosa potrebbe dare. Ora una tale unanimità motivazionale non appare ancora all’orizzonte dell’umanità.

4. Per il cristiano, una realtà così complessa e contraddittoria rappresenta una sfida: egli ritiene infatti di possedere un insieme di certezze che possono costituire il nucleo portante di un’etica universale. Per questo egli si sente chiamato ad attuare nella propria vita l’impegno morale del Vangelo, in tutta la sua serietà, e perciò in maniera esemplare e contagiosa, così come esigito dalla sua fede. Compito dell’educazione morale cristiana, attuata sia nella famiglia credente, che attraverso l’azione diretta della Chiesa è proprio anche quello di creare nell’educando credente una simile percezione di responsabilità, in certo modo universale.

Bibliografia

Gründel J.,​​ Mutabile e immutabile nella teologia​​ morale, Brescia, Morcelliana, 1976;​​ Rippe K. P.,​​ Ethischer Relativismus,​​ seine Grenzen,​​ seine Geltung, Paderborn, Schöning,​​ 1993; Harnan G.,​​ Moral relativism and moral obiectivity, Cambridge Mass., Blackwell, 1996; Corbi E.,​​ La verità negata. Riflessioni pedagogiche sul r.e., Milano, Angeli, 2005.

G. Gatti




relazione di AIUTO

 

AIUTO: relazione di

Si parla di relazione di a. ogni qualvolta si verifica un incontro tra due persone una delle quali è in condizioni di difficoltà e l’altra è in possesso delle competenze e degli strumenti necessari per agevolarne il superamento. In tal senso, la relazione di a. può essere definita come un processo dinamico nel quale una persona è assistita per operare un adattamento personale ad una situazione nei confronti della quale non è ancora riuscita ad adattarsi. Aiutare, infatti, deriva dal lat.​​ adiuvare (ad + iuvare)​​ ossia arrecare giovamento.

1. La situazione di difficoltà può essere di diversa natura: fisica, psicoemotiva, sociale, comportamentale, ed è sperimentata da chi ne è portatore come una condizione non soddisfacente, che incide sulla qualità della sua vita e dei suoi rapporti con l’ambiente. Colui che aiuta ha il compito di comprendere il problema nei termini in cui si pone per quel particolare individuo in quella particolare situazione, per poi aiutare l’individuo stesso ad evolvere personalmente nel senso di un miglior adattamento personale e sociale. Possiamo avere relazioni di a. di tipo informale (relazioni amicali, familiari, di vicinato) e relazioni di a. di tipo formale-professionale (relazioni insegnante-allievo; medico – paziente; sacerdote – fedele, ecc.). L’a. fornito, all’interno di queste relazioni può assumere diverse forme: sostegno emotivo, informativo, strumentale, valutativo. Alla luce di quanto espresso la relazione di a. viene a configurarsi come un’interazione asimmetricamente dipendente, in quanto una persona è nella posizione del «dare», l’altra è nella posizione del «ricevere». Il potere di influsso è, così, sbilanciato a favore di chi presta a. Sta quindi a quest’ultimo non abusare del potere che la situazione e il suo ruolo gli conferiscono e di agevolare la comunicazione nell’altro e a favore dell’altro.

2. Una metodologia particolare della relazione di a. è il colloquio di a. messo a punto da Rogers (1970). L’idea di fondo del colloquio di a. è che il miglior modo di offrire sostegno alla persona in difficoltà, non è suggerire soluzioni o prescrivere comportamenti da attuare, quanto piuttosto aiutare la persona stessa a comprendere meglio la sua situazione per giungere poi a riconoscere ed attivare risorse cognitive, emotive e comportamentali che ne consentono una migliore gestione. A tale riguardo, la cura degli aspetti comunicativi e relazionali assume un grande rilievo. In particolare, a colui che presta a. si richiede di: evitare interventi direttivi (consigliare, prescrivere, rassicurare, valutare, interpretare) per lasciare spazio a forme di supporto verbale non direttive che facilitino l’autoesplorazione e l’autocomprensione (riformulare, rispecchiare, chiarificare); creare un ambiente non ostacolante; mostrare attenzione, calma e disponibilità; modellare il proprio comportamento su criteri quali la parità e il rispetto, la dignità altrui e la tutela dei reciproci diritti; trasmettere comprensione emotiva. Inoltre, poiché l’individuo che si trovi coinvolto in una relazione di a. con un altro individuo in posizione di bisogno pone se stesso in una situazione non priva di rischi (coinvolgimento emotivo, spersonalizzazione, induzione di aspettative irrealistiche), è necessario che egli disponga di alcune condizioni personali quali: consapevolezza di sé, contatto con le proprie emozioni ed esperienze, autocontrollo, responsività.

Bibliografia

Rogers C. -​​ G. M. Kinget,​​ Psychothérapie et relations humaines: théorie et pratique de la thérapie non-directive, Louvain, Publications Universitaires, 1969-1971; Rogers C. R.,​​ La terapia centrata sul cliente,​​ Firenze, Martinelli, 1970; Carkhuff R.,​​ L’arte di aiutare,​​ Ibid., 1997; Rogers C. R.,​​ Terapia centrata sul cliente, Firenze, La Nuova Italia, 1997; Bruzzone D.,​​ Psicoterapia e pedagogia in Carl R. Rogers. Una ricerca sui contributi dell’approccio centrato-sulla-persona all’educazione, in «Orientamenti Pedagogici» 45 (1998) 447-465; Colasanti A. R. - R. Mastromarino,​​ L’ascolto attivo, Roma, IFREP (1999); Egan G.,​​ The skilled helper: a problem-management and opportunity-development approach to helping, Pacific Grove, California, Brooks-Cole, 2002; Di Fabio A.,​​ Counseling e relazione di a.,​​ Firenze, Giunti, 2003.

A. R. Colasanti




RELIGIONE

 

RELIGIONE

«Il più sicuro sostegno, la suprema dignità, la maggiore ricchezza, la più perfetta serenità di un uomo si fondano sulla r., cioè sul rapporto con la realtà ultima e più profonda» (Heiler, 1985, 9). Quest’affermazione di un grande studioso della r. trova nella​​ ​​ cultura attuale affermazioni di segno contrario: anche sull’onda dell’​​ ​​ ideologia la r. è spesso considerata con sospetto, accusata di alienare e illudere. Resta il fatto che la r. accompagna il cammino dell’uomo e lo sostiene in quel confronto mai risolto con il mistero che l’avvolge con il destino che l’attende. La sua valenza educativa nel bene e nel male resta incomparabile.

1.​​ Il​​ termine e l’uso consueto nella tradizione classica.​​ Già nell’antichità precristiana la r. designa il rapporto con il sacro, con il​​ numen.​​ Anzi la r. dice appunto la profonda riverenza, il turbamento di fronte al divino, alla sua misteriosa azione. Questo è vero per l’antichità classica: Cicerone vede nella r. «l’accurata osservanza di tutto ciò che attiene al culto degli dei» (De natura deorum,​​ 2, 72); questo atteggiamento è vero anche per la tradizione ebraica: a Mosè è ingiunto di togliersi i calzari per avvicinarsi al misterioso roveto ardente (Es 3,5). La tradizione cristiana ha preferito l’interpretazione di Servio che fa derivare la r. da​​ religare​​ come un unire di nuovo ciò che era separato.​​ ​​ Agostino dà ampia risonanza a quest’accezione perché interprete puntuale della sua dottrina della grazia, del peccato e in particolare del peccato originale. Resta comunque il fatto che la r. si porta obbligatoriamente sul doppio versante: del mistero, dell’arcano, della trascendenza; e dell’atteggiamento umano di ricerca, di trepidazione, di sgomento, che ne deriva.

2.​​ La ricerca recente.​​ La ricerca religiosa come analisi specifica e differenziata del fenomeno religioso, è tuttavia piuttosto recente. In termini generali si può dire che accompagna la progressiva contestazione o la presa di distanza della cultura moderna dall’unicità della tradizione cristiana. In ambito filosofico e ideologico la provocazione più sconcertante è data dalla pubblicazione dell’opera di Feuerbach –​​ L’essenza del cristianesimo​​ (1841) – proprio in quanto la r. è ridotta a fenomeno umano. Alla fine del secolo scorso la spinta data dalla concezione evoluzionistica della scienza ha fortemente stimolato la ricerca religiosa; ha indotto a risalire alle origini della r., a misurarne il progressivo evolversi, spesso in un quadro di precomprensioni che cercavano conferma nell’analisi storica, etnologica, filologica. La stessa esigenza di verifica critica ha investito la tradizione biblica e ha spinto a ricerche vaste e accurate circa l’intero orizzonte religioso, specialmente del Medio Oriente. Successivamente il differenziarsi dei metodi di ricerca nell’ambito delle scienze dello spirito con Dilthey, l’esigenza di rigore della scuola fenomenologica hanno spinto a specificare la ricerca e quindi anche a moltiplicare le scienze di analisi del dato religioso. L’accentuazione portata sul fenomeno come dato umano ha naturalmente il suo rischio: denunciato con veemenza da tutta una corrente – la teologia dialettica – che con Barth ha richiamato risolutamente il primato del divino e della Parola, screditando la r. come radicale fraintendimento (Barth, 1989).

3.​​ La progressiva articolazione della ricerca sulla r.​​ Naturalmente non è questa la sede per seguire neppure nelle grandi linee il dibattito, diversificato nelle discipline che di fatto ormai sono impegnate a decifrare il fenomeno religioso.

3.1.​​ Si dilata l’orizzonte di ricerca.​​ Si possono richiamare in sintesi i diversi ambiti di ricerca collegandoli alle istanze educative che li accompagnano. Innanzitutto il progressivo distanziarsi della cultura moderna dalla tradizione cristiana e, nell’ambito stesso dell’occidente, l’irrompere di civiltà diverse con proprie tradizioni anche religiose di remota antichità forzano l’orizzonte della ricerca oltre il dibattito teologico-biblico. La storia delle r. suscita vasto interesse, confronto aperto sui metodi e sugli obiettivi: in particolare si impone il compito di decifrare i fenomeni complessi che accompagnano la r.; la fenomenologia della r. tende a darvi interpretazione unitaria e plausibile avvalendosi anche di metodologie che si affermano in campo storico e filosofico. Donde il dibattito così vivo negli anni sessanta sui reciproci apporti e limiti della storia e della fenomenologia; vivace anche per merito degli studiosi di prestigio internazionale che vi prendono parte (Heiler a Marburgo, Bianchi in Italia, Van der Leeuwe in Olanda).

3.2.​​ Molteplicità e articolazione delle scienze della r.​​ Attualmente si va affermando la consapevolezza che l’interpretazione della r. rende indispensabile l’apporto concertato di molteplici scienze che si portano sul versante ermeneutico: tendono cioè a dare un’interpretazione unitaria e al fenomeno religioso (Eliade, Panikkar, Ries...) e al linguaggio che lo esprime (Marcel, Ricoeur, Ladrière...). L’attenzione portata sul soggetto in ambito educativo – recente svolta antropologica – ha suscitato ricerche vaste e articolate nell’ambito della psicologia religiosa. Così lo scadimento della pratica tradizionale religiosa, la perdita di rilevanza del «sacro» e la conseguente crisi delle istituzioni religiose, costituiscono quel fenomeno diffuso e complesso che va sotto il nome piuttosto generico di​​ ​​ secolarizzazione; una situazione in tanta parte inedita che ha dato incremento notevole alla ricerca socio-religiosa: alcuni studiosi sono notissimi in Italia (Acquaviva, Berger, Luckmann). Specificamente per quanto riguarda l’analisi dei processi interiori e degli itinerari educativi, le connessioni fra esperienza di fede e maturazione personale, studi interessanti sono venuti dalla​​ ​​ psicologia, soprattutto da quella di impronta umanistica, molto conosciuti in Italia (Allport, Erikson, Vergote, Godin). Più recentemente sono in atto ricerche circa le condizioni e i processi di maturazione specifica della fede a partire dall’idea di motivazione, dalla ricerca di significato sia in ambito psicologico che sociologico (Piaget, Keagan, Moran, Fowler, Oser, Nipkow). Per quanto concerne la ricerca filosofica un richiamo particolare meritano studiosi che hanno analizzato con novità e originalità l’esperienza umana nella sua dimensione specificamente religiosa.

4.​​ La dimensione religiosa nell’esperienza umana.​​ a)​​ L’istanza ermeneutica.​​ La riflessione attuale si è portata sul versante ermeneutico che analizza l’esistenza soprattutto nel rapporto interpersonale; si è concentrata sull’esperienza concreta, ne ha sondato lo spessore, ne ha perseguite le ramificazioni. Anche la ricerca religiosa si è sempre più consapevolmente orientata verso l’esperienza: ha inteso sondarne il mistero che la caratterizza, il richiamo alla trascendenza che l’attraversa. b)​​ I riferimenti qualificanti dell’analisi recente.​​ Schematicamente si possono delineare le tappe di una progressiva concentrazione sull’esperienza concreta per esplorarla nel presagio e legittimarla nell’opzione per la r. Risale a Kierkegaard la rivendicazione perentoria di una verità esistenzialmente significativa (Kierkegaard, 1962). Il rapporto religioso oltre che nella sua​​ verità​​ va verificato nella sua​​ significatività. A​​ conferire singolare risonanza al richiamo di Kierkegaard ha contribuito la svolta ermeneutica, impressa dalla riflessione heideggeriana. È sulla base di un certo progetto personale previo che si compie l’interpretazione della realtà (Heidegger, 1970). Precisamente la risonanza e il significato del rapporto religioso costituiscono l’orizzonte sollecitante di ricerca. Il contributo più significativo viene in proposito da G. Marcel. Egli argomenta da una considerazione attenta e vigile dell’esperienza umana, così come si lascia decifrare nella consuetudine anche quotidiana; si preoccupa di lasciarne affiorare tutte le ramificazioni e la complessità (Marcel, 1963). È in questa considerazione aperta, puntuale e consapevole che l’esperienza denuncia un margine insanabile di precarietà e appella alla trascendenza: ripiega nell’insignificanza, se non è «sostenuta dall’armatura del sacro». Il gesto e la parola umana sono in definitiva votati all’insignificanza, se non risultano ancorati ad un approdo definitivo: il rapporto con l’assoluto salva da una precarietà altrimenti irrecuperabile. Dunque una legittimazione tipicamente esistenziale, che porta la ricerca religiosa al suo nocciolo qualificante: il rapporto a tu per tu dell’uomo con Dio. E qui il maestro è indubbiamente​​ ​​ Buber. Gli stimoli che egli offre ad una rivisitazione dell’esperienza religiosa sono originali e spesso espliciti. Puntano soprattutto ad esplorare la novità e la ricchezza, l’intensità emotiva e il coinvolgimento esistenziale (Buber, 1993): del resto rimbalzati nella riflessione di altri interpreti contemporanei accreditati, quali Lévinas, Ricoeur, Ladrière. Il quadro dei riferimenti può opportunamente venir completato con l’analisi del processo interiore, che ragionevolmente sospinge la riflessione verso l’approdo religioso. Su questa traccia indicazioni preziose vengono offerte da M. Scheler, soprattutto in un’analisi rigorosamente conseguente dell’atto di fede. Secondo Scheler l’intuizione religiosa si afferma in una considerazione interiore, a verifica dello scarto fra aspirazione e risposta, che attraversa ogni esperienza umana autentica. Comprende tappe successive che vanno dall’insoddisfazione radicale che segna l’esistenza all’incontro con l’ultimo approdo, costituito da un Dio che entra in dialogo con l’uomo (Scheler, 1972). Il tema che a questo punto s’impone è quello del​​ ​​ linguaggio: come articolare ed esprimere un’esperienza che per tanti aspetti risulta al limite dell’interpretazione e della manifestazione; la consapevolezza della fede in particolare è alla ricerca di un proprio linguaggio che dia figura al rapporto interiore con Dio e ne consenta un’elaborazione razionalmente plausibile.

5.​​ La valenza educativa della r.​​ Anche la r. subisce l’urto spesso rude dei cambiamenti che attraversano il tessuto sociale e culturale. Nel giro di alcuni decenni è saltato il «sistema» che inquadrava l’esperienza religiosa. A torto o a ragione la r. ha perduto la sua indiscussa credibilità: lo studioso rileva di fatto un tracollo di plausibilità che, a livello educativo, rappresenta una considerazione decisiva (Milanesi, 1981). La risonanza che la r. assume nell’esperienza personale e collettiva non è esente da ambiguità. È fin troppo facile documentare strumentalizzazioni della r. nei rapporti interpersonali e comunitari. Proprio per la sua costitutiva esigenza di totalità e di radicalità la r. si presta a molti abusi. Bisogna riconoscere un’ambivalenza insita nel fatto religioso e una pluralità di emergenze che possono diversamente venir interpretate nelle molteplici situazioni storiche ed esistenziali. Già la tradizione biblica è portatrice di accentuazioni singolari su cui la ricerca anche filosofica ritorna. È nota la differenza fra tradizioni storiche e tradizioni profetiche nella r. biblica (Von Rad, 1974); il patto che soggiace alle tradizioni storiche vede Dio affiancarsi da alleato potente all’impresa epica di un piccolo popolo alla conquista della patria (Ricoeur, 1969) e colora la r. di un singolare rapporto di alleanza, stabilito quasi alla pari fra Israele e il suo Dio. Le tradizioni profetiche raccolgono più l’istanza interiore; il rapporto di intimità, guardano a Dio come all’amico e al confidente; ne presagiscono la presenza nei grandi segni sponsali e familiari, privilegiano il simbolo della paternità, nella ricerca recente reinterpretato perfino sulla traccia della riflessione psicoanalitica (Vergote, 1967). Altra ambivalenza è data dal riferimento che la stessa tradizione religiosa privilegia. C’è una tendenza a rifarsi alle origini, a garantire stabilità e sicurezza con una fedeltà al passato che può diventare anche spinta alla conservazione e resistenza al processo irrinunciabile della storia. Bergson ha visto bene quando ha voluto distinguere una doppia matrice della r.: quella statica e quella dinamica; ed è precisamente nell’analisi della risorsa innovativa​​ ​​ della matrice dinamica​​ ​​ che Bergson rileva la spinta più alta al processo di maturazione personale e collettiva che anima l’istanza religiosa. L’analisi del misticismo come fonte di rinnovamento per l’umanità gli ha dettato pagine suggestive e vere (Bergson, 1967). Nel contesto attuale è la distinzione fra sacro e profano che spinge la ricerca. L’ambito storico-esistenziale rappresenta un’esperienza indivisibile. La r. non può presumere uno spazio «separato», né appellarsi ad un ricorso «estraneo», pena l’emarginazione dalla percezione attuale che l’uomo ha di sé e della sua storia. Il perno della ricerca si porta allora sulla funzione e sul ruolo che la r. assume per il processo esistenziale e storico oltre che sulla concezione della trascendenza come dato interiore e costitutivo della vita.

Bibliografia

Acquaviva S. S.,​​ L’eclissi del sacro nella società industriale,​​ Milano, Comunità, 1961; Kierkegaard S.,​​ Diario,​​ Brescia, Morcelliana, 1962;​​ Marcel G.,​​ Le mystère de l’être,​​ Paris, Aubier, 1963; Bergson H.,​​ Les deux sources de la morale et de la religion,​​ Paris, PUF, 1967;​​ Vergote A.,​​ Psicologia religiosa,​​ Torino, Borla, 1967;​​ Ricoeur P.,​​ Le conflit des interprétations,​​ Paris, Seuil, 1969; Heidegger M.,​​ Essere e Tempo,​​ Milano, Longanesi, 1970; Feuerbach L.,​​ L’essenza del cristianesimo,​​ Milano, Feltrinelli, 1971; Allport G. W.,​​ L’individuo e la sua r.,​​ Brescia, La Scuola, 1972; Scheler M.,​​ L’eterno nell’uomo,​​ Milano, Fabbri, 1972; Rad G. von,​​ Teologia dell’Antico Testamento,​​ Brescia, Paideia, 1974; Milanesi G.,​​ Oggi credono così,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1981; Heiler F.,​​ Le r. dell’umanità,​​ Milano, Jaca Book, 1985; Barth K.,​​ L’epistola ai Romani,​​ Milano, Feltrinelli, 1989; Buber M.,​​ Il principio dialogico e altri saggi,​​ Torino, San Paolo, 1993; Trenti Z.,​​ Opzione religiosa e dignità umana, Roma, Armando, 2003; Filoramo G. (Ed.),​​ Storia delle r.​​ Mondo classico-Europa precristiana, Milano, Mondadori, 2005; Despland M., «R.», in​​ Dizionario delle r., Ibid., 2007.

Z. Trenti




RELIGIOSITÀ nuove forme

 

RELIGIOSITÀ: nuove forme

Espressioni e modalità di fede che si affiancano, e talvolta si contrappongono, alle religioni tradizionali.

1. La riscoperta del sacro, che sembra aver caratterizzato il tramonto del XX sec., è stata accompagnata dalla proliferazione di movimenti religiosi di varia matrice. Da un lato, infatti, si è assistito al sorgere di movimenti all’interno delle religioni tradizionali, che non tendevano a contrapporsi ad esse, ma anzi ne favorivano la purificazione e la trasparenza sia nel messaggio che nelle forme di aggregazione e di formazione, sgorgando da un autentico carisma e avendo come filo conduttore la comunione sincera fra i membri. Dall’altro lato, si è notato con sempre maggior frequenza il nascere di movimenti – tra i quali occorre collocare anche quelli di natura magica – che tendono a porsi in alternativa alle religioni localmente più diffuse e in particolare a quella cattolica, manifestando un atteggiamento talvolta coercitivo e ricorrendo a sollecitazioni non sempre oneste, che provocano disunioni familiari e alienazione ingiustificata dei propri beni.

2. All’origine di entrambe queste nuove forme di r. sembra che vada collocato il fenomeno della​​ ​​ secolarizzazione, che è caratterizzato da vari elementi che risultano essere nello stesso tempo negativi e positivi: straordinari progressi scientifici e tecnologici; conquista fiera della propria libertà; confinamento del dato religioso e del senso della vita nell’intimo della propria coscienza; svuotamento dei rapporti interpersonali e mancanza di calore umano; desiderio di fratellanza e di accoglienza; volontà di dominio delle energie non scientificamente controllabili; presunzione di possedere particolari doti di conoscenza e di padronanza della realtà.

3. Alcune forme della nuova r. non possono certamente essere chiamate cristiane, e neppure religiose, perché mancano in esse alcuni elementi che costituiscono in genere una religione: risposta al senso ultimo dell’esistenza; riconoscimento di un essere superiore e soprannaturale al di fuori e al di là del mondo (comunque egli venga chiamato); riti e pratiche che permettono di mettersi in contatto con tale essere soprannaturale. Ciò non toglie che esse abbiano di positivo il fatto di offrire uno spazio alla ricerca spirituale (anche se talvolta solo come segno di protesta e di insoddisfazione contro una società eccessivamente individualista e impersonale) e un ambiente caratterizzato da calore umano, da una buona accettazione personale, da spontaneità, da precise finalità da raggiungere.

4. Dinanzi a tali movimenti religiosi di «corto respiro», e che fondano le loro proposte sui «vuoti» lasciati dalle grandi religioni, c’è il rischio di assumere un atteggiamento di difesa negativa della propria fede e di un esasperato contro-proselitismo. Sembra, invece, necessaria un’azione positiva e capillare di formazione a tutti i livelli, accompagnata da una presentazione completa e aggiornata dei contenuti dottrinali e da concrete e impegnative iniziative di servizio. Ad essa va affiancata l’indicazione di modalità esistenziali che suscitino atteggiamenti di ascolto mutuo, di corresponsabilità nel creare comunità accoglienti e fraterne, di ricerca paziente e sincera delle risposte agli interrogativi sul senso ultimo della propria esistenza.

Bibliografia

Sudbrack J.,​​ La nuova r. Una sfida per i cristiani,​​ Brescia, Queriniana, 1988; Barker E.,​​ I​​ nuovi movimenti religiosi. Un’introduzione pratica,​​ Milano, Mondadori, 1992; Introvigne M.,​​ La questione della nuova r.,​​ Piacenza, Cristianità, 1993; Fizzotti E. - F. Squarcini (Edd.),​​ L’Oriente che non tramonta. Movimenti religiosi di origine orientale in Italia, Roma, LAS, 1999; Terrin A.N.,​​ Mistiche dell’occidente. New Age,​​ Orientalismo,​​ Mondo Pentecostale, Brescia, Morcelliana, 2001; Pavese A.,​​ Il libro nero della magia. Maghi,​​ truffatori,​​ ciarlatani & cialtroni in Italia oggi, Casale Monferrato (AL), Piemme, 2003; Id.,​​ Fede come terapia. Analisi psicologica della fede come strumento di guarigione fisica e spirituale in casi reali, Casale Monferrato (AL), Portalupi, 2005; Fizzotti E.,​​ Psicologia dell’atteggiamento religioso. Percorsi e prospettive, Trento, Erickson, 2006.

E. Fizzotti




RELIGIOSITÀ POPOLARE

 

RELIGIOSITÀ POPOLARE

Circa l’espressione r.p. si sono fatte lunghe disquisizioni e si sono proposte denominazioni diverse (religione popolare, pietà popolare, religione del popolo, ecc.) per evitare equivoci e superare pregiudizi e ambivalenze. Resta comunque un alone di indeterminatezza nell’uso dell’espressione sia in riferimento ai soggetti che al significato e agli aspetti fondamentali che la caratterizzano. Poiché qualunque tentativo di definizione risulterebbe parziale ai fini della sua comprensione, è più utile elaborare un quadro concettuale che aiuti a comprenderne la natura e le caratteristiche.

1.​​ R.p.: un modo di vivere e credere.​​ Prima di ogni contrapposizione e accentuazione di «alterità», si deve anzitutto riconoscere la r.p. come una modalità concreta di​​ ​​ religione radicata in una cultura e vissuta in contesti sociali particolari. Si tratta quindi di un fenomeno religioso inscindibile da un’esperienza culturale, legato alla storia di comunità locali. Questo significa che, in quanto «vissuto di un popolo», se ne comprende il valore e il significato non a partire dalle concezioni o dai contenuti che esprime, ma dalle funzioni che svolge, da cui, ovviamente, si possono dedurre concezioni e contenuti. La sua è anzitutto una funzione rassicurante perché realizza una sorta di «umanizzazione del divino», avvicinandolo alla vita. La r.p. costituisce inoltre l’orizzonte di comprensione dei significati della vita e il fondamento comune dei comportamenti concreti. Assume quindi valore centrale per l’identificazione individuale e collettiva. Le manifestazioni religiose servono ad esprimere e a rinsaldare l’identità della comunità ambientale, a rafforzare le appartenenze, a far riconoscere i segreti dell’arte di vivere alle nuove generazioni e a segnare i momenti di progressivo inserimento nel mondo degli adulti. L’obiettivo e il modello ideale di riferimento è una realizzazione sapienziale della vita incarnata, per lo più, in un anziano. Il coinvolgimento nelle manifestazioni religiose, peraltro, è tradizionalmente il modo più efficace per realizzare la​​ ​​ socializzazione sia religiosa che ambientale; insieme​​ costituiscono e vengono percepite come aspetti complementari di un itinerario unificante che integra i contenuti sacrali con quelli socioculturali. Alla luce di questi elementi di comprensione si può senz’altro affermare che una caratteristica fondamentale della r.p. è quella di essere una «fede condivisa», espressa insieme e in gran numero da coloro che si riconoscono portatori di valori e che non possono sottrarsi alla sua presenza. Ci sono senz’altro livelli e intensità diversi di coinvolgimento, ma la r.p. riguarda tutti coloro che vivono in uno stesso contesto e si riconoscono negli stessi valori di fondo. «La religione fatta di costumi è una casa simbolica ove ci si sente a proprio agio, e ove si diventa se stessi, e a cui si è legati profondamente perché ivi si può essere durevolmente se stessi ed esprimervi le proprie convinzioni spontaneamente e i propri sentimenti più profondi» (Vergote, 1981, 298).

2.​​ R.p.: aspetti fondamentali.​​ Uno degli aspetti fondamentali della r.p. è anzitutto l’accentuazione della dimensione rituale, la sovrabbondanza dei segni, la preminenza della corporeità. Il primato è dato all’esperienza, al vissuto, al segno come mediazione, alla presenza come contatto diretto con il luogo sacro o con l’immagine sacra. La «fede corporea» facilmente porta a sentire profondamente insieme con gli altri; a sentire il beneficio di un’atmosfera, di un clima, di ciò che suscita ammirazione. In questa fede corporea vi è un cuore che dà anima e nuova energia a ogni manifestazione: la​​ ​​ festa. Essa segna i ritmi della vita collettiva, è l’occasione della rigenerazione, aiuta a vivere la gioia dell’appartenenza alla collettività ambientale, ecc. La r.p. sente anche forte il bisogno del «meraviglioso», del «miracolo», poiché accentua l’esigenza di segni concreti della presenza e della potenza del divino. Potenza che si vuole benevola e disposta a coinvolgersi nelle situazioni personali problematiche attraverso una serie di comportamenti devozionali, appresi e trasmessi secondo le modalità efficaci sperimentate nella tradizione. Le caratteristiche finora accennate non devono indurre a pensare che tutto nella r.p. si esaurisca nell’esteriorità. La ritualità popolare, nella sua varietà e ricchezza, esprime spontaneità di sentimenti e una fede carica di emozionalità, ma queste si radicano nelle motivazioni devozionali e di fede nelle quali non è affatto estraneo un bisogno salvifico insieme a quello materiale.

3.​​ R.p.: aspetti problematici.​​ La r.p., per quanto sia un fenomeno molto diffuso ancora oggi, fa pensare spontaneamente a qualcosa di passato e rischia di essere idealizzata. Nel passato e soprattutto oggi essa non è invece priva di aspetti problematici. Anzitutto bisogna sottolineare che la r.p. ha una fragilità intrinseca dovuta al suo specifico di essere una «religione di costume», radicata in un «modo culturale» e vissuta in contesti sociali e territoriali particolari. Tutti questi aspetti sono stati attraversati da grandi cambiamenti che hanno coinvolto profondamente la r.p., ma poiché non vi è stata continuità nel rinnovamento, oggi si rischia di rimanere sulle tracce dei padri più per fedeltà materiale che per comprensione e valorizzazione di significati. La frattura tra «memoria e mentalità» è carica di conseguenze problematiche e rischia di far scadere nel folkloristico non poche manifestazioni religiose. La fragilità e problematicità è accresciuta anche dalla marginalizzazione del cattolicesimo popolare rispetto alla liturgia e all’azione pastorale della​​ ​​ Chiesa. Il rischio del parallelismo di modalità religiose e di modi di credere è tutt’altro che scongiurato: dopo il grande fervore di riflessioni e di ricerche degli anni Settanta e Ottanta del sec. scorso, attualmente si riscontra solo una maggiore tolleranza senza veri riconoscimenti e capacità di interazioni e di integrazioni. Non bisogna trascurare inoltre di sottolineare elementi di ambiguità presenti nelle stesse concezioni che animano la r.p., legate al ruolo assegnato a Dio e ai Santi, all’ambivalenza di atteggiamenti e di valutazioni, di sentimenti e di credenze: alla fede si ritiene di dover aggiungere sempre qualche supplemento, di dover affiancare qualche perplessità o di chiedere una sorta di verifica. Problematicità, fragilità e ambivalenza della r.p. richiedono un forte impegno educativo-religioso che consenta anche di valorizzarne meglio il significato e la portata nell’attuale percorso storico del «popolo di Dio».

Bibliografia

Pannet R.,​​ Le catholicisme populaire,​​ Paris, Centurion,​​ 1974;​​ Equipo Seladoc,​​ R.p.,​​ Roma, ASAL, 1977; Sartori L. (Ed.),​​ R.p. e cammino di liberazione,​​ Bologna, EDB, 1978; Orlando V.,​​ La religione «del popolo»,​​ Bari, Ecumenica, 1980; Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti,​​ Direttorio su pietà popolare e liturgia. Principi e orientamenti, Città del Vaticano, LEV, 2002; Sodi M. - G. La Torre (Edd.),​​ Pietà popolare e liturgia. Teologia-spiritualità-catechesi-cultura, Ibid., 2004; Orlando V.,​​ Religione «popolo» e pastorale popolare,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1986; Id.,​​ R. p. nel Sud. Criteri e metodi di analisi, in «Itinerarium» 13 (2005) 211-233.

V. Orlando




RESILIENZA

 

RESILIENZA

Il termine r.​​ (dal latino​​ resilio​​ = saltare indietro, rimbalzare) è stato coniato in fisica ed indica la «capacità di un materiale di resistere ad urti improvvisi senza spaccarsi» (Zingarelli, 2001).

1. Nelle scienze socio-educative indica la capacità di una persona di fare appello alle sue risorse interiori per reagire ad una situazione sfavorevole e sviluppare una​​ ​​ personalità positiva, nonostante tutte le previsioni contrarie. Molti soggetti vivono situazioni ad alto rischio e tuttavia non vengono sconfitti dalle stesse, nonostante debbano affrontare sventure, traumi o lutti che provocano dolore, stress, ansietà, tensione. La r. li aiuta a non cadere nella​​ ​​ devianza. Questa «forza d’animo» può forse avere una base genetica, ma è essenzialmente una qualità morale, che si sviluppa nel corso della vita assumendo modalità diverse a seconda delle circostanze, dei singoli individui, dei modelli di riferimento e degli apprendimenti.

2. Caratteristiche del «resiliente» sono: a) la capacità di esaminare autenticamente se stesso; b) la capacità di mantenersi a una certa distanza, fisica ed emozionale, dai problemi, senza isolarsi; c) la capacità di stabilire rapporti intimi e soddisfacenti; d) la capacità di affrontare i problemi, capirli e controllarli; e) la capacità di creare ordine, bellezza e darsi obiettivi partendo dal disordine; f) la disposizione dello spirito all’allegria, che permette di relativizzare gli avvenimenti negativi e coglierne il lato positivo; g) la capacità di interiorizzare i​​ ​​ valori comuni di una​​ ​​ società. Queste disposizioni si sviluppano in connessione a buoni rapporti iniziali con madre e​​ ​​ famiglia (attaccamento) che forniscono la base per​​ ​​ sicurezza interna, autostima e senso di​​ ​​ autoefficacia. Se queste basi mancano, bisogna provvedere con figure ed esperienze alternative (​​ prevenzione). Si tratta di scoprire i punti di forza del ragazzo e far leva su di essi per aiutarlo a risollevarsi da una situazione insopportabile. La r. è favorita infatti da​​ empowerment​​ e​​ coping,​​ ​​ proattività, competenze comportamentali e sociali, capacità di dar​​ ​​ senso alla vita, ecc.

Bibliografia

Oliverio Ferraris A.,​​ La forza d’animo,​​ Milano, Rizzoli, 2003; Malaguti E.,​​ Educarsi alla r. Come affrontare crisi e difficoltà e migliorarsi,​​ Trento, Erickson, 2005; Cyrulnik B.- E. Malaguti (Edd.),​​ Costruire r. La riorganizzazione positiva della vita e la creazione di legami significativi, Ibid., 2006.

G. Vettorato




RETI EDUCATIVE

 

RETI EDUCATIVE

L’elaborazione del paradigma pedagogico delle r.e. può essere ricondotta a più fattori, sia di ordine socio-pedagogico che antropologico. Il punto di partenza, tuttavia, è «l’emergenza educativa», legata alla crisi delle agenzie educative tradizionali, alle incertezze dovute ai cambiamenti radicali avvenuti e in atto, al policentrismo socio-educativo e al rischio di frammentazione che l’accompagna.

1. Il lavoro di r. è un lavorare in «contesto»; in una realtà territoriale che «contiene» una pluralità di presenze private e pubbliche, che vivono, per lo più, di vita propria, e verso cui ciascuno si orienta, o liberamente o perché vive, al loro interno, esperienze significative della sua quotidianità. Lo specifico del paradigma (modello) operativo di r. è che queste presenze non sono viste settorializzate, separate, funzionali a qualcosa di specifico, ecc.; rientrano invece in una visione globale, sistemica della situazione. A partire da questo approccio risultano sempre più impellenti le esigenze di coordinamento, di integrazione, di sinergia. La prospettiva teorico-sociale-educativa di riferimento del lavoro di r. è l’approccio sistemico relazionale che partendo dalla consapevolezza dei problemi e delle sfide della società attuale e cogliendone il riflesso nel contesto territoriale concreto, matura la consapevolezza di un progetto educativo integrato e attiva strategie valide per la sua concretizzazione. Per l’efficacia di questa strategia operativa risulta indispensabile lo sviluppo di una ritrovata capacità di «soggettività sociale» delle componenti individuali e organizzate della società civile, che la facciano evolvere verso una prospettiva di «comunità solidale».

2. Perché le r. possano esprimere la loro potenzialità educativa, devono aiutare a ridare centralità all’uomo nel suo mondo, dando la parola ai suoi desideri più autentici; devono concretamente agevolare le persone perché possano riconoscere lo spazio in cui esprimere il loro protagonismo e rivelarsi soggetti sociali responsabili. Il lavoro educativo di r. si fonda sulla visione antropologica di​​ ​​ Mounier che vede la persona umana strutturalmente aperta all’altro, che è condizione per essere se stesso, e comporta una assunzione di responsabilità nei confronti dell’altro. Questo porta verso il «noi comunitario» e aiuta a comprendere la società come r. di persone solidali, che cercano di vivere una reciproca responsabilità. Una r.e. diventa, pertanto, una risorsa di senso che incrementa il tessuto relazionale e dà consistenza alla convivenza umana. Tutto questo fa comprendere che la r.e. non è attivata per rispondere ad emergenze o a patologie particolari, ma per mettere in circolo nuove idee per migliorare la qualità della vita di tutti, per la ricerca di un’identità condivisa e la costruzione progressiva del «noi comunitario». Si pone pertanto come antidoto alla frammentazione della complessità sociale, cerca di far maturare un patrimonio di beni educativi, di promuovere educazione in prospettiva preventiva e, in questa prospettiva, farsi carico anche di situazioni di bisogno.

3. Il lavoro educativo di r. tende, quindi, al superamento dell’individualismo pedagogico, e a evidenziare il valore sociale dell’educazione; cura una nuova grammatica delle relazioni educative e suscita sinergie per la conoscenza del territorio per poter operare all’interno del sistema socio-culturale. Proprio per questo ha come esigenze prioritarie per la sua efficacia il confronto e la riflessione per poter interpretare l’esperienza, la logica di scambio per costruire riferimenti culturali comuni, l’interiorizzazione dell’etica del dono per creare fiducia reciproca, la complementarità possibile tra identità differenti e l’importanza della progettualità di r., in cui tutti questi elementi trovano sintesi ed efficacia operativa.

4. La costruzione di una buona r.e., si fonda sull’individuazione dei componenti di r., dei compiti e delle funzioni, evidenziando in maniera esplicita gli elementi essenziali e gli impegni del reticolo formativo, organizzandoli e gestendoli in maniera armonica. Le condizioni indispensabili per l’operatività della r.e. sono, quindi, la comunicazione e il coinvolgimento, l’attività solidale e il sostegno alle dinamiche formative; la capacità di mediare relazioni informali e interventi formali; ottemperando alla necessità del compito condiviso della osservazione partecipante per un rinnovato senso di appartenenza e capacità di protagonismo nella comunità educante.

5. L’operatività e la costruzione della r.e. dipendono anche dalla capacità di far emergere figure professionali con competenze educative peculiari e di riferimento diversificato. Ciascuna realtà territoriale dovrebbe esprimere un operatore di r. che potrebbe fare da stimolatore dell’attenzione educativa all’interno delle stesse. È indispensabile, tuttavia, individuare un coordinatore, che sia veramente in grado di una «regia pedagogica» finalizzata a suscitare e coordinare il protagonismo di tutti, con l’intento di valorizzare lo specifico educativo delle diverse presenze territoriali.

Bibliografia

Rossini V.,​​ Marginalità al centro. Riflessioni pedagogiche e percorsi formativi, Roma, Carocci, 2001; Sanicola L.,​​ L’intervento di r., Napoli, Liguori, 1994; De Natale M. L.,​​ Devianza e pedagogia, Brescia, La Scuola, 1998; Serra R.,​​ Logiche di r. Dalla teoria all’intervento sociale, Milano, Angeli, 2001; Di Nicola P. (Ed.),​​ R. in movimento,​​ politica della prossimità e società civile, Ibid., 2004; Orlando V. - M. Pacucci,​​ Le r.e. territoriali, in «Orientamenti Pedagogici» 51 (2004) 415-444; Idd.,​​ La scommessa delle r.e. Il territorio come comunità educante, Roma, LAS, 2005.

V. Orlando