1

RABELAIS François

 

RABELAIS François

n. a Chinon nel 1494 - m. a Parigi nel 1553, umanista francese e critico dei costumi del suo tempo.

1. Ammiratore di​​ ​​ Erasmo, fa parte della generazione di umanisti come Agrippa,​​ ​​ Vives e Budé, che tentano di fissare le basi per l’educazione dell’uomo nuovo. La sua originalità brilla nel suo stile esilarante e sarcastico. R. utilizza la lingua popolare dei chierici erranti del basso​​ ​​ Medioevo. Attraverso i giganti protagonisti della sua famosa opera​​ Gargantua e Pantagruel​​ (1533-1564) ridicolizza l’educazione medievale impartita nelle scuole e nelle università. Gargantua fu educato da un famoso sofista della Sorbona chiamato Thubal Holofernes, che gli fece apprendere il​​ Donato,​​ il​​ Faceto​​ e l’Alanus in parabolis,​​ fino ai tredici anni. Con questi studi Gargantua divenne ogni giorno più pedante e vanitoso, cosa che non passò inosservata a suo padre. Quella educazione ottundeva la gioventù e non era utile all’apprendimento; la soluzione era cambiare sistema e iniziare la rieducazione di suo figlio. Il nuovo maestro Ponocrate gli fece un lavaggio del cervello per eliminare le conoscenze apprese in precedenza. Il suo programma era quello sostenuto da tutti gli umanisti del tempo: gr., lat., ebreo e arabo,​​ ​​ arti liberali (lasciando da parte l’astrologia), studio dell’Antico Testamento,​​ educazione fisica (equitazione, corsa, nuoto, scherma), storia e medicina gr., lat. e araba.

2. La pedagogia di R. era sostenuta dai grandi pedagogisti del suo tempo e dai metodi intuitivi che essi preconizzavano. La sua abbazia di Thélème, simbolo dell’utopia di R., che aveva come motto «Fai ciò che vuoi», preludeva ai principi naturalistici di​​ ​​ Rousseau. Eudemone, protagonista ideale dell’opera di R., educato secondo i suoi principi pedagogici, sa pensare con giudizio e parlare con buon senso; non è superbo, ma è sicuro delle sue idee e del suo modo di agire. Quando Gargantua lo conosce, si rende conto di non aver imparato a parlare e piange disperato, coprendosi il volto con il cappello: il tempo impiegato per la sua educazione era stato inutile e doveva cominciare di nuovo.

Bibliografia

a)​​ Fonti:,​​ Oeuvres complètes, par M. Huchon, Paris, Gallimard,​​ 2002. b)​​ Studi: Giraldi A.,​​ R. e l’educazione del principe,​​ Milano, APE, 1954; Leonarduzzi A.,​​ F.R. e la sua prospettiva pedagogica,​​ Trieste, Tip. Moderna, 1966; Cooper R.,​​ R. et l’Italie,​​ Genève, Droz, 1991; Bajtin M.,​​ La cultura en la Edad Media y en el Renacimiento: el contexto de F.R., Madrid, Alianza, 2005.

B. Delgado




RAGIONAMENTO

 

RAGIONAMENTO

Se un tempo il r. umano è stato ordinariamente campo di indagine della riflessione filosofica oggi è diventato anche oggetto di studio della ricerca psico-pedagogica interessata a scoprire le modalità concrete e le strategie per migliorare le potenzialità soggettive del r.

1.​​ Il r. sillogistico.​​ Sebbene la capacità di r. sia molto complessa, variegata ed estesa, la ricerca si è focalizzata spesso sul r.​​ sillogistico​​ perché permette un esame più controllato delle capacità razionali dell’uomo. Il sillogismo è un r. che si compone di due premesse ed una conclusione e si è soliti evidenziare la distinzione esistente tra r. induttivo e deduttivo. Il primo è anche indicato come​​ reasoning up:​​ il processo mediante il quale da esempi o esperienze particolari si giunge ad affermazioni generali. Il secondo è descritto come​​ reasoning down:​​ un processo mediante il quale da premesse generali si giunge ad affermazioni particolari. Il sillogismo​​ deduttivo​​ è corretto se la conclusione è valida ovvero se questa è inclusa nelle premesse. Se le premesse sono vere anche la conclusione valida sarà vera. Se le premesse sono false anche la conclusione che è valida sarà falsa. Nel sillogismo deduttivo è necessario distinguere validità da verità della conclusione. Il r. sillogistico deduttivo può assumere tre diverse forme: categoriale, lineare e condizionale. I sillogismi​​ categoriali​​ sono chiamati così perché gli operatori di quantità (alcuni, tutti e nessuno) sono presenti sia nelle premesse che nella conclusione. I sillogismi​​ lineari​​ permettono di ordinare in modo chiaro e preciso più informazioni fornite in un modo concatenato. I sillogismi​​ condizionali​​ sono rappresentati da eventi che sono dipendenti o conseguenti al verificarsi di altri. Essi sono espressi mediante le proposizioni «se» e «allora». La prima parte del sillogismo è chiamata «antecedente»; la seconda «conseguente». Sull’interpretazione del modo in cui la mente giunge a delle conclusioni valide e sicure si sono sviluppate recentemente tre teorie: a) la mente umana sarebbe «naturalmente» fornita delle regole della logica formale (Rips, 1983); b) la mente agirebbe con regole inferenziali «sensibili al contenuto» o regole che fanno riferimento a «schemi di un ragionare pragmatico» (Cheng-Holyoak, 1985); c) la mente nel ragionare seguirebbe «modelli di rappresentazione del mondo» piuttosto che le strutture del linguaggio utilizzato per descriverlo (Johnson-Laird - Byrne, 1991).

2. Il processo di induzione.​​ È così pervasivo nella vita di ogni giorno che si può dire che molte delle nostre conoscenze siano conclusioni di induzioni. La capacità della nostra mente di produrre generalizzazioni è fondamentale al nostro vivere e agire: ci permette di categorizzare esperienze e situazioni diverse, di agire velocemente sulla realtà individuando immediatamente le cause, gli elementi comuni o i principi che regolano certi eventi. L’induzione richiede due processi: la generazione dell’ipotesi e la sua valutazione. Data l’indefinibilità del numero di osservazioni necessarie per raggiungere una certezza e l’impossibilità di effettuarle tutte, non si è mai certi che l’ipotesi formulata sia corretta e il pericolo di errore non può mai essere evitato. In particolare si sbaglia nell’individuare leggi generali perché: a) si adottano strategie che tendono più a confermare che a rifiutare le ipotesi; b) si tende a cercare informazioni coerenti con le proprie convinzioni; c) la contiguità temporale porta facilmente al rilevamento di una relazione tra due stimoli o due esperienze; d) spesso eventi inaspettati sono presi maggiormente in considerazione se sono simili, ma un numero piccolo di eventi simili inaspettati può non essere sufficiente a suggerire l’esistenza di una condizione rilevante; e) la conoscenza valida in un dato momento struttura e limita le ipotesi.

3.​​ Il r. informale.​​ Molto comune nella vita quotidiana (ma frequente anche in molte aree di ricerca) sembra essere l’uso di un modo di ragionare​​ indicato come r. di ogni giorno o r. informale​​ (cioè non secondo le regole formali di una logica). Tale modo si esprime in un’affermazione (tesi) e in una sequenza di ragioni (argomentazioni) che intendono provare l’attendibilità dell’affermazione stessa. Le ragioni costituiscono il «perché» del r., la tesi il «che cosa». Quasi mai un r. informale possiede tutte le ragioni a favore né tutte le ragioni hanno la stessa forza probante, né le ragioni sono immutabili. Per questo l’attendibilità o la verità della conclusione non è sempre universalmente accettata, né può essere imposta con la forza di verità. In questo senso Polya (1958) parla di «plausibilità» o «non-plausibilità» di un r. Con ciò non si afferma che essa non potrebbe essere vera o che non possa essere utilizzata perché attendibile fino a prova contraria o che una conclusione possa essere migliore di un’altra che non gode di giustificazioni altrettanto forti ed evidenti.

4.​​ L’educazione della capacità di r.​​ La ricerca fornisce alcuni orientamenti per educare le capacità di un ragionare logico: a) avere fiducia nella ragione educando ad essere corretti nel ragionare; b) esercitare al r. stimolando l’esame e la validità intrinseca delle ragioni che vengono portate per una tesi; c) dare rigore logico al r.; d) valutare attentamente il peso e la varietà delle ragioni; e) conoscere non solo le regole di una logica formale, ma anche quelle del r. in specifiche aree, ecc. Ciò richiede un paziente controllo ed esercizio.

Bibliografia

Polya G.,​​ Les mathématiques et le raisonnement «plausible»,​​ Paris, Villards,​​ 1958; Johnson-Laird P. N.,​​ Modelli mentali,​​ Bologna, Il Mulino,​​ 1983; Rips L. J.,​​ Cognitive processes in propositional reasoning,​​ in «Psychological Review» 90 (1983) 38-71; Cheng P. W. - K. J. Holyoak,​​ Pragmatic reasoning schemas,​​ in «Cognitive Psychology» 17 (1985) 391-416; Johnson-Laird P. N. - R. M. J. Byrne,​​ Deduction,​​ London, Erlbaum, 1991; Garnham A. - J. Oakhill,​​ Thinking and reasoning,​​ Oxford, Blackwell, 1994.

M. Comoglio




RAGIONE / RAGIONEVOLEZZA

 

RAGIONE / RAGIONEVOLEZZA

1. R. è termine dai molteplici, spesso contrastanti, significati: filosofico, teologico, pedagogico, scientifico, ecc. Dal punto di vista pedagogico si può parlare di educare sia al​​ ​​ ragionamento che alla ragionevolezza, ma, più in particolare, della funzione della ragionevolezza nel processo educativo. All’uno e all’altra si riferiscono più voci del dizionario: educare alla r. speculativa (nel significato classico-cristiano), cioè alla sapienza e all’amore e ricerca della sapienza (​​ filosofia), alla contemplazione (teoria); ed educare alla ragion pratica (nel significato classico-cristiano) (​​ prudenza,​​ ​​ saggezza).

2. Il termine ragionevolezza esprime qualcosa di contiguo al concetto di prudenza-saggezza. A rigore, però, vi si distingue quale concetto pedagogico piuttosto empirico, strumentale, esperienziale. Non a caso lo si trova adottato ed elaborato in chiave empiristica da​​ ​​ Locke nei​​ Pensieri sull’educazione​​ (1693) e assunto da un educatore militante, s. G.​​ ​​ Bosco, come uno dei tre principi fondamentali del​​ ​​ sistema preventivo: «Questo sistema si appoggia tutto sopra la r., la religione e sopra l’amorevolezza» (1877). In ambedue gli autori esso è trattato prevalentemente dal punto di vista metodologico: educare​​ con​​ ragionevolezza, ragionevolmente, più che educare​​ alla​​ ragionevolezza. Il secondo tipo di considerazione, semmai, può essere proprio di un tipo di educazione di ispirazione illuministica, prevalentemente inglese, come educazione a una morale, a una religione, a un cristianesimo «senza misteri», «razionale» e «ragionevole» (above reason​​ e​​ reasonable).

3. «Persuadere col ragionamento», «ragionar con i fanciulli» «creature ragionevoli», è il metodo che, secondo Locke, il padre dovrebbe praticare dopo che si sia assicurato la sottomissione del figlio con l’autorità. Non indica un «ragionare che muove da lontani principi», da adulti, ma l’adozione di​​ ragioni​​ su misura dei fanciulli, «adatte alla loro età e intelligenza, ed esposte con poche e semplici parole», «ovvie, al livello della loro mentalità e tali che essi le sentano e le tocchino con mano». Per questo, in sostanza, il mezzo «più semplice, facile ed efficace consiste nel porre sotto i loro occhi gli​​ esempi​​ di ciò che si vuole facciano o non facciano»,​​ «additati​​ nella condotta delle persone da loro conosciute e accompagnati da qualche​​ riflessione​​ sulla loro bellezza o sconvenienza» (Pensieri,​​ nn. 81-82).

4. Il discorso di don Bosco è teoreticamente meno elaborato ma contenutisticamente più ricco. La r.-ragionevolezza ispira diverse attività educative: a) «umanizzare» il giovane mediante il contatto concreto con i valori razionali e terreni: salute, istruzione, lavoro, inserimento sociale con precise capacità professionali e una sicura «onestà» personale e civile; b) creare solide «convinzioni» in campo religioso, morale, sociale, più pratico-vitali che astratte: pietà illuminata, controllo delle «passioni», ordine; c) «ragionare il giovane» con la fondatezza, l’essenzialità, la coerenza e la comprensibilità delle «motivazioni»; d) inoltre, «guadagnare il cuore del giovane», poiché il cuore, oltre che organo dell’amore e del volere, è principio dell’intendere e del comprendere; e) adottare metodi e mezzi educativi (disciplina, regolamenti, organizzazione della comunità educativa, interventi) ispirati a buon senso, semplicità, funzionalità, attenzione alle diversità delle «indoli».

Bibliografia

Sina M.,​​ L’avvento della r. «Reason» e «above reason» dal razionalismo teologico inglese al deismo,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1976; Pellerey M.,​​ La via della r.: rileggendo le parole e le azioni di don Bosco, in «Orientamenti Pedagogici» 35 (1988) 383-396.

P. Braido




RAMAKRISHNA Sri

 

RAMAKRISHNA Sri

n. nel 1836 a Kamarpukur, villaggio del Bengala - m. nel 1886 nel tempio di Dakshineswar (Calcutta), maestro spirituale indiano.

1. Nato come Sambhuchandra prende poi il nome di R. da «Rama», settima incarnazione di Vishnu e «Krishna» (o Krsna), ottava incarnazione di Vishnu; ambedue sono figure mitologiche dell’​​ ​​ Induismo e rappresentano il divino umanizzato. R. è uno dei personaggi più rilevanti del XIX sec. Il suo insegnamento eclettico risulta dalla penetrazione di varie esperienze mistiche ed appare sintesi riuscita dell’Induismo. R. sa appena leggere e scrivere quando a nove anni riceve il cordone braminico, cioè l’investitura che gli permette di celebrare il culto della famiglia. Successivamente diviene sacerdote.

2. Prima di diventare maestro spirituale, R. è il discepolo che segue scrupolosamente quanto esposto nei 64 principali libri dei Tantra, i testi canonici della setta induista di nome Sakta, e la disciplina della negazione, propria del sistema filosofico-religioso del Vedanta. Nell’aspirazione a Dio, si trova circondato da molti devoti ai quali non offre un sistema di insegnamento, bensì la spinta a condurre una vita intensa, fondata su solidi principi a cui si deve credere al di là delle alterne fortune. R. non ha lasciato testi scritti. I suoi insegnamenti sono stati trascritti e raccolti da discepoli fedeli, primo fra tutti​​ ​​ Vivekananda. Secondo R. tanto il monaco quanto l’uomo comune devono osservare la disciplina​​ ​​ yoga, la meditazione e la preghiera, intesi come mezzi per divenire esempi credibili e persistenti; nessuno può essere il guru di un altro uomo, solo Dio è il guru e il maestro dell’universo.

3. L’insegnamento di R. è uscito dai monasteri dell’India ed è in tutto il mondo motivo ispiratore di centri educativi, scuole, istituti di formazione, ospedali.

Bibliografia

Herbert J. et al.​​ (Edd.),​​ Alla ricerca di Dio,​​ Roma, Astrolabio, 1963; Chistolini S.,​​ R. Vivekananda Gandhi. Maestri senza scuola,​​ Roma, Euroma-La Goliardica, 1992; Isherwood C.,​​ R. e i suoi discepoli, Parma, U. Guanda, 2004.

S. Chistolini




RAPPORTO EDUCATIVO

 

RAPPORTO EDUCATIVO

Aspetto centrale dell’​​ ​​ educazione. La relazione, la comunicazione e l’interazione cui dà luogo o che lo esprimono, evidenziano infatti come l’educazione, anche quando è rivolta al proprio sé (auto-educazione), si pone sempre nell’orizzonte di un «vivere in r.», all’interno di processi storici e di progetti personali e comunitari, nella concretezza dell’interazioni e dei processi di comunicazione interpersonale e sociale, siano essi intenzionali o meno; all’interno di strutture ed istituzioni; nel concreto farsi di società storiche; nella continua interazione con l’ambiente; nella dinamica dei processi produttivi, culturali, civili.

1. Un modo di intendere l’intera azione educativa.​​ A ben vedere la funzione educativa non è tanto funzione dell’educatore o dell’educando, ma piuttosto funzione di un r. tra persone, finalizzata ad uno scopo comune, sociale oltre che personale. In tal senso secondo alcuni il r.e. costituisce il punto di partenza obbligato e realistico di ogni riflessione e di ogni​​ ​​ ermeneutica pedagogica. Tradizionalmente ci si fissava sulle figure ed i ruoli delle persone che entrano in r. È stato questo il luogo privilegiato delle trattazioni riguardanti l’​​ ​​ educatore,​​ ​​ l’educando ed i rispettivi ruoli e funzioni all’interno del processo di sviluppo, di apprendimento e di formazione. È pure in quest’ambito che tradizionalmente veniva ad essere posto il discorso relativo alle cosiddette​​ ​​ antinomie educative, cioè alla serie di contrapposizioni che di fatto o di diritto si giudicano presenti nel r.e. in atto.

2. La centralità della relazione e della comunicazione.​​ Al presente, molte di queste questioni sono riprese a partire dal fenomeno e dai processi della​​ ​​ comunicazione umana. L’accento, più che sulle persone, è posto sul processo. Più che al r., staticamente visualizzato nei suoi aspetti e nelle sue intersezioni, l’attenzione va in primo luogo ai flussi interattivi ed alle ripercussioni che essi hanno sulla crescita delle persone. Tale approccio ha il merito di porre l’educazione nel contesto del vasto mondo dei simboli e dei linguaggi, in quello della cultura e delle sue dinamiche, e nel complesso mondo delle relazioni interpersonali e sociali (anche se oscura un po’ la dimensione di soggettività personale propria dei partner​​ del r.). Peraltro grazie agli studi scientifici e filosofici sul​​ ​​ linguaggio e sull’intersoggettività, si è potuto mettere in luce come il r.e. concorra all’emergenza della soggettività ed identità individuale e comunitaria. Oltre ad essere in qualche modo costitutiva dell’io di coloro che entrano in r., seppure in diverso grado e modo, oltre a farsi noti a se stessi e riconoscersi reciprocamente, nel r.e. si partecipa alla creazione del comune patrimonio d’idee, di valori, di modelli di comportamento e di espressione che diciamo​​ ​​ cultura. In tal modo si mette in risalto come l’educazione diventi momento di costruzione della comunità e del sentimento della cittadinanza.

3.​​ Nell’ambito della comunicazione,​​ delle relazioni e dei r. interpersonali.​​ Come nota​​ ​​ Dewey, ogni genuina comunicazione ha una valenza educativa, in quanto permette un allargamento e un mutamento della propria esperienza, dando adito ad una modificazione più o meno ampia dell’atteggiamento, del comportamento e della sistemazione mentale ed affettiva, sia che si trasmetta o si riceva una comunicazione. All’interno del r.e. ogni azione educativa può essere considerata una comunicazione mediata da simboli. Una tale affermazione, nella sua generalità, ha il vantaggio di essere comprensiva della molteplicità di forme in cui si può tradurre l’intervento educativo e si può esprimere il r.e. Vi può infatti rientrare qualsiasi intervento che, come la comunicazione, può essere intenzionale o solo funzionale, codificato o non del tutto codificato, derivante da fonti anonime o da persone concrete, direttamente o indirettamente, tramite parole o con altri mezzi. In tal modo si evidenzia che il r.e. soggiace alle regole ed al gioco, alle strutture ed alle dinamiche caratterizzanti l’incontro e la comunicazione tra persone, con tutte le sue difficoltà, interferenze, guasti: fino alle forme di vera e propria incomunicabilità, soggezione psicologica, reificazione personale, od altre forme patologiche. Similmente l’educazione appare come una relazione ed un processo interattivo (o, se si vuole, transattivo) nel senso che gli interscambi non sono riducibili alle sole intenzioni o contenuti verbali, ma implicano la creazione di atteggiamenti e di comportamenti globalmente personali con reazioni psicologiche e reinterpretazioni di sé, più o meno vaste, da parte dei partner del r., seppure in diverso grado e modalità d’incidenza. Per designare le polarità del r.e., la pedagogia tradizionalmente, parla in modo schematico di «educatore» e di «educando». In effetti le due polarità personali del r.e. possono essere interpretate unidimensionalmente e singolarmente, cioè come un r. di io-tu, globale o sotto qualche aspetto, naturalmente nel concreto di una situazione di vita; ma possono essere interpretate e vissute pluridimensionalmente e collettivamente, ad es. come individuo-gruppo, insegnante-classe, gruppo-gruppo, collettivo, comunità educativa di educandi e di educatori. Nel r.e. non è senza incidenza la specificazione del «genere» maschile o femminile della relazione, la quale richiede pertanto una sua differenziazione nell’interazione educativa. Anzi non è possibile mettere tra parentesi il carattere strettamente intersoggettivo del r., vale a dire la coscienza e il fatto di trovarsi di fronte a persone che hanno il loro «nome» e «cognome», per cui in sede di pratica educativa e didattica sarà necessaria una precisa attenzione all’​​ ​​ individualizzazione e alla​​ ​​ personalizzazione del r. stesso, non mai del tutto sovrapponibile alla interazione di gruppo o alle dinamiche collettive.

4.​​ La specificità del r.e.​​ All’interno del mondo dei r. interpersonali, il r.e. si specifica per modalità particolari e per gli scopi che regolano la relazione e la comunicazione interpersonale. In primo luogo il r.e. presuppone una situazione relazionale fondamentalmente e specificamente​​ asimmetrica,​​ nel senso che i partner del r. non solo giocano ruoli ed assolvono funzioni diversificate, ma intervengono in condizione di disparità per ciò che riguarda le diverse esigenze vitali e per ciò che concerne esperienza di vita, attitudini, maturità personale, cultura. Si tratta di una disparità specifica, non assoluta, né necessariamente a tutti i livelli, e quindi con la possibilità che risulti inesistente o addirittura capovolta nel tempo o sotto qualche altro aspetto della vita personale. Ad un’attenta riflessione essa si mostra inoltre complementare, nel senso che nel r.e. può trovare esaudimento il bisogno-aspirazione dei partner di partecipare al patrimonio sociale di cultura e di sentirsi coinvolti nel comune e generale processo di trasformazione e di liberazione personale e comunitaria (che fa da orizzonte di senso al r.e.). In un tale contesto sono da assumere le espressioni di​​ ​​ Freire, altrimenti piuttosto eccessive nella loro perentorietà, secondo cui «nessuno educa nessuno, nessuno si educa da solo, tutti si educano insieme nel r. con il mondo». In secondo luogo il r.e. (e la corrispettiva comunicazione e relazione) è da considerare come una​​ particolare «relazione di aiuto»​​ (​​ Rogers). Essa nasce da una «domanda» (più o meno implicita o chiara, individuale e spesso decisamente sociale) che appella ad un sostegno, ad un venire incontro in vista della promozione personale e della buona qualità della vita propria ed altrui («responsabilità educativa»), anche se più che una semplice «risposta» riveste le forme di una «proposta» che legge, interpreta, educa la domanda stessa in r. all’integralità delle istanze da essa avanzate. In tal modo l’aiuto diventa un voler il bene dell’educando. E ciò è constatabile nella​​ particolare tonalità affettiva​​ presente nel r.e., tale che fa parlare di «amore educativo» (con una sua base istintuale emozionale, denominabile​​ eros​​ educativo, e una sua espressione sentimentale, denominabile «affetto educativo»). Come in ogni altra forma di amore umano, specie quando il r.e. raggiunge una certa consistenza relazionale, è facile che in esso si producano momenti di dolore e di gioia, di sofferenza e di soddisfazione, di crisi e d’incomprensione profonda, di sentimento e di odio, di riconoscenza e di rancore, di attaccamento e di distacco, di gelosia e di indifferenza, di calore e di freddezza, di tenerezza e di aggressività, di incomprensione profonda e di finissima empatia, di momenti caldi e di routine noiosa, di differenza e di consonanza intellettuale ed emotiva, etica e religiosa, di vero e proprio transfert psicologico.

5.​​ I​​ caratteri del r.e.​​ L’evidenziazione delle peculiarità del r.e. permette di delineare agevolmente i suoi tratti essenziali. Esso va inteso anzitutto come un​​ r. teleologico,​​ cioè orientato secondo finalità, verso il conseguimento di obiettivi, con contenuti, appunto educativi, in quanto rivolti allo sviluppo e la formazione personale (e in tal senso differenziabili, almeno intenzionalmente e formalmente – anche se magari non materialmente – da finalità, obiettivi e contenuti di altro tipo, ad es. economici, politici, ecclesiali, ecc.). L’intenzionalità educativa può essere sperimentata e vissuta in forma cosciente ed esplicita, ma anche in forma implicita ed indiretta o anche sotto forma vitale, immediata e intuitiva; o ancora a livello di coscienza collettiva, cioè come modo culturale di comportamento (che si produce in costumi, usanze, comportamenti e che è oggettivata nelle istituzioni del sistema sociale di formazione). Essa specifica e regola la relazione, la comunicazione e la dinamica del r.e. È pure evidente che il r.e. si realizza quando c’è effettiva comunicazione ed interazione personale in un quadro intenzionalmente educativo. Il​​ carattere dialogale​​ del r.e. è oggi particolarmente sentito dalla coscienza contemporanea. Tuttavia, anche in questo caso, non significa che l’incontro non vada soggetto a tensioni tra le polarità del r.e. Anzi il carattere dialogale può conseguire alla decisione di dare sbocco positivo ad esse. In effetti fa parte del r.e. una intrinseca​​ dimensione dialettica:​​ ad es. nella linea del «controllo» lungo le polarità di dominanza-sottomissione, di autorità-libertà; oppure nella linea dell’«emozionalità» lungo le polarità di distacco-accettazione, di disistima, rifiuto, distacco o all’opposto di stima, calore, simpatia; o ancora nella linea della «possibilità di educazione» lungo le polarità di auto / etero-educazione, direttività / non direttività, educazione negativa / educazione positiva, auto-realizzazione / condizionamento. Il gioco dialettico del r.e. mette pure in luce l’aspetto dinamico​​ e​​ processuale​​ di esso, nel senso che si attua nel tempo, all’interno della vicenda storica delle persone e dei gruppi storici socialmente organizzati, e pertanto implica momenti privilegiati e di crisi; cicli e periodi soggetti a crescita ed a regressioni, a fissazioni e sviluppi; un laborioso apprendimento, pratico oltre che conoscitivo; una certa disciplina di vita, mentale, affettiva, volitiva e comportamentale; una gradualità ed un certo ordine di successione di contenuti, di atti, di metodi, di tecniche e di mezzi educativi; l’esperienza assimilativa ed elaborativa di quanto viene appreso; ed infine un certo residuo di tensione, non ulteriormente componibile, ma sempre suscettibile di trattamento in presenza di elementi di novità o di mutamento di intenzioni e di volontà. Ad evidenziare il carattere dinamico del r.e., nella tradizione pedagogica si è venuto a dire che etero-educazione ed auto-educazione stanno tra loro in r. inversamente proporzionale: la prima tende a diminuire e proporzionalmente l’altra ad aumentare. Al limite si può arrivare a dire che il r.e. sa che il suo «destino» è di «morire» come tale, quando e nella misura in cui ormai chi è soggetto educando ha competenza di guidare in proprio la crescita personale: un traguardo che non ha tempo stabilito, né unico. In molti casi il r. interpersonale continua. Quello che era l’educatore continua ad essere il padre, la madre, il sacerdote, l’amico, l’amica, il consigliere, il compagno, il concittadino con cui si fa strada insieme nella vita comune (e corrispettivamente quello che era l’educando continua ad essere il figlio, la figlia, ecc.).

6.​​ La situazionalità del r.e.: il fattore ambiente.​​ Nella sua dinamica il r.e. s’intreccia con i flussi comunicativi e con le procedure relazionali dell’ambiente in cui esso si compie come evento. L’attenzione all’​​ ​​ ambiente, non solo geo-fisico (l’habitat),​​ ma sociale, culturale, simbolico (vale a dire quello che si viene a creare nella mente di ognuno a seguito delle stimolazioni provenienti dalla comunicazione interpersonale e sociale) è caratteristica della tradizione pedagogica. Infatti il r.e. si dà sempre all’interno di situazioni di vita informali o appositamente strutturate; e quindi assume carattere differente a seconda di esse e del come esse sono vissute. Il r.e. si realizza normalmente in​​ ​​ istituzioni che accanto alla finalità educativa assolvono ad altre finalità (ad es., in famiglia, in parrocchia, nel sindacato, nel partito) o in istituzioni appositamente organizzate e strutturate (scuola, associazioni educative, giardini d’infanzia, collegi, convitti, università, convegni, seminari, corsi, lezioni) od anche in istituzioni non direttamente educative (associazioni sportive, associazioni ricreative, teatro, luoghi d’incontro, ecc.). Quanto alla dimensione storico-temporale si possono distinguere r.e. relativamente duraturi (come capita nel r. madre / figlio) e r.e. episodici, ma non per questo magari meno importanti o di minore efficacia educativa: si pensi a certi incontri, a certe conversazioni o dialoghi con amici, o con persone, o con grandi personaggi o «immaterialmente» con un libro e oggi «virtualmente» con le star della comunicazione tramite mass-media e new-media.

7.​​ Condizioni e condizionamenti del r.e.​​ Per solito questa costitutiva ed originaria connessione del r.e. con il mondo della natura, della civiltà, delle strutture e delle istituzioni economiche, sociali, culturali, comunicative, politiche e religiose viene considerata quasi solo come limite e condizionamento del processo formativo e dell’intervento educativo. Altrettanto viene detto dell’apparato strutturale bio-psichico soggettivo. Ma tale modo di vedere è decisamente improprio. Infatti la​​ ​​ corporeità umana nella sua struttura biopsichica, l’ambiente geo-fisico originario o variamente manipolato dal lavoro umano, le istituzioni culturali, sociali, politiche, economiche, religiose, le strutture della comunicazione interpersonale e sociale, i processi storici di sviluppo, sono, in senso proprio, condizioni normali ed essenziali dell’essere e del porsi del r.e. Anzi si può affermare che il r.e. dilapida i propri tesori se non dispone di tempo e di luoghi, di mezzi e di strutture pertinenti per svilupparsi. È pur vero che tali condizioni, in sé normali, possono diventare in concreto sorgente di condizionamenti, d’impedimenti, di limiti e di determinismi, che interferiscono negativamente nel processo e nel r.e. o lo rendono perlomeno arduo, dando luogo a squilibri, fissazioni o regressioni di personalità; oppure a forme varie di handicap o di insensibilità, frigidità, inerzia, passività, fissazione, egoismo. Ad altro livello possono configurarsi come massicce interferenze sociologiche, culturali, economiche, politiche, istituzionali, tecniche, come quando parliamo di esclusione sociale, di massificazione, di omologazione, di manipolazione, di alienazione, di oppressione, di discriminazione, di pressione, di angoscia. Ma è nei confronti di tale fondamentale ambiguità delle possibilità e delle​​ ​​ risorse, che va esercitato il carattere correttivo, integrativo o promozionale dell’intervento educativo e della ricerca pedagogica (​​ autorità educativa e​​ ​​ interazione educativa).

Bibliografia

Franta H.,​​ Interazione educativa,​​ Roma, LAS, 1977; Postic M.,​​ La relazione educativa,​​ Roma, Armando, 1983; Pati L.,​​ Pedagogia della comunicazione educativa,​​ Brescia, La Scuola, 1984; Porcheddu A.,​​ Insegnamento e comunicazione,​​ Teramo, Giunti e Lisciani, 1984; Perucca Paparella A.,​​ Genesi e sviluppo della relazione educativa,​​ Brescia, La Scuola, 1987; Caroni V. - V. Iori,​​ Asimmetria nel r.e.,​​ Roma, Armando, 1989; Bombi A. S. - G. Scittarelli,​​ Psicologia del r.e., Firenze, Giunti, 1998; Canevaro A. - A. Chieregatti,​​ La relazione di aiuto. L’incontro con l’altro nelle professioni educative, Roma, Carocci, 1999; Postic M.,​​ La relación educativa: factores institucionales, sociológicos y culturales, Madrid, Narcea,​​ 2000; Di Santo A. M. (Ed.),​​ Pensieri e affetti nella relazione educativa, Roma, Borla, 2002; Stella A.,​​ La relazione educativa. Complessità,​​ transazione e intenzione nel r. educatore-educando, Milano, Guerini, 2002; Masoni M. - B. Mezzani,​​ La relazione educativa, Milano, Angeli, 2004.

C. Nanni




rappresentazione della CONOSCENZA

 

CONOSCENZA:​​ rappresentazione della

Rispetto al passato, in cui prevaleva la ricerca di tipo filosofico sulla natura della c., gli studiosi contemporanei sembrano preferire la ricerca su come la c. sia rappresentabile, su come si trovi nella mente umana, su quanti e quali tipi di c. l’uomo disponga, su come la c. muti, si trasformi, venga acquisita o rimanga nella memoria a lungo termine. Possiamo immaginare la mente come la sede nella quale conserviamo, elaboriamo, organizziamo, inventiamo c. e informazioni. Nel 1972 Tulving ipotizzò un doppio archivio di c.:​​ episodiche​​ e​​ semantiche.​​ Le prime sarebbero c. che si riferiscono a esperienze personali spazialmente e temporalmente definite. Le seconde, di natura più astratta, esprimono l’essenza di qualcosa e su di esse si possono compiere operazioni logiche e inferenziali che non è possibile fare sulle prime. La distinzione di Tulving ha indotto gli studiosi ad analizzare altri tipi di c.

1.​​ Le c. dichiarative.​​ I vari tipi di c. riferentisi a «qualcosa» sono in genere indicati come c.​​ dichiarative.​​ Esse includono tutte le informazioni, sia sensoriali che semantiche che possediamo del mondo che ci circonda. Sono di diversa provenienza e di diverso livello di astrazione; possono appartenere ad un’identica area di significato o di oggetti ed essere in vario modo collegate tra loro o richiamarsi a vicenda. In ogni caso costituiscono la rappresentazione che abbiamo delle cose, degli eventi o delle situazioni del mondo e dell’ambiente nel quale viviamo. Hanno una importanza straordinaria perché ci permettono di muoverci velocemente nella grande complessità della realtà circostante, di categorizzare, di formulare ipotesi, di inferire, di comunicare, ecc. Paivio (Clark-Paivio, 1987) ha sostenuto che, oltre ad un archivio per le informazioni episodiche e semantiche, vi sia nella memoria anche un archivio di​​ immagini.​​ La sua tesi è sostenuta da varie ricerche, anche se non è mancato chi non ha condiviso questa posizione. L’esigenza di ipotizzare differenti processi ed archivi si è inizialmente fondata sulla constatazione che parole ed immagini hanno una realtà profondamente diversa. Le prime sono rappresentazioni simboliche di caratteristiche fonetiche; sono costituite da unità separabili e combinate secondo un ordine sequenziale. Il linguaggio verbale deve essere necessariamente sequenziale, pena la perdita di significato. Diverso è il codice visivo, dove le parti e le unità sono integrate, formano un continuo, sono analoghe agli oggetti reali, sono rappresentazioni olistiche e le varie parti non possono essere distinte, come invece accade per le lettere di una parola. L’uso di moderne metodologie di analisi ha fornito in questo campo dati di estremo interesse. Le rotazioni di immagini mentali hanno presentato caratteristiche assai simili a quelle che avvengono nella realtà. Il tempo necessario per esaminare un’immagine mentale si è dimostrato più o meno lungo a seconda della distanza dell’elemento da trovare dal punto di partenza. I processi connessi a compiti di immaginazione o percettivi, indagati mediante la tecnica del controllo del flusso ematico con emissione di positroni (PET) sembrano essere localizzati in specifiche parti della corteccia cerebrale (Kosslyn et al., 1993). Il movimento svolto o previsto è stato riscontrato corrispondente alla combinazione di vettori di cellule neuronali che indicano la direzione. In generale questo tipo di c. sembrerebbe globalmente possedere intrinsecamente le proprietà degli oggetti e degli eventi; avere una funzione importantissima per il riconoscimento di qualche cosa che viene percepito; mantenere informazioni che al momento dell’acquisizione possono essere riconosciute come poco importanti.

2.​​ Le c. semantiche.​​ Un secondo tipo di rappresentazione di c. è quella simbolica e riferibile all’area dei significati, ai contenuti semantici. La ricerca ha presentato molti modelli di rappresentazione semantica differenziantisi per l’ampiezza dell’unità che intendono rappresentare (parole, frasi, unità più complesse) e per il modo di rappresentarle. Tutti i modelli hanno la caratteristica comune di usare dei simboli: alcuni rappresentano le c. gerarchicamente a forma d’albero o di rete, altri attraverso un elenco a cui vengono associate procedure per la loro interpretazione. La proposizionale è stata la modalità più comune e diffusa. Questa modalità, rispetto a quella per immagini che mantiene «intrinsecamente» la struttura dell’oggetto rappresentato, usa un sistema arbitrario e simbolico e per questo mantiene «estrinsecamente» la struttura della c. rappresentata. A sostenere l’idea che la rappresentazione sia in grado di descrivere con una certa attendibilità le c. nella mente hanno contribuito diverse ricerche evidenziando come testi con lo stesso numero di parole richiedessero più tempo di lettura se contenevano un maggior numero di proposizioni oppure che il tempo di ricupero di parole lette in testi variasse a seconda che le parole si trovavano nella stessa proposizione o in proposizioni diverse. Questa modalità di rappresentazione ha avuto una grande diffusione sia nel campo della ricerca psicologica che educativa (costruzione delle mappe semantiche, educazione alla lettura e comprensione, apprendere da testo scritto), perché si è dimostrato un procedimento estremamente efficace e flessibile per rappresentare c. non riducibili a quelle concettuali, ma dotate di una complessità tale da essere assimilabili a quelle espresse in testi linguistici. La stessa linea di ricerca ha rilevato anche la presenza nella mente di c. complesse indicate con vari nomi:​​ script,​​ frame,​​ schemi,​​ mental model,​​ cognitive map.​​ Esse hanno in comune la particolarità di contenere le caratteristiche con cui un certo oggetto o evento abitualmente si presenta. Lo​​ script​​ ad es. rappresenta c. complesse costituite da una sequenza temporale di scene, il​​ frame​​ o lo schema rappresentano in genere scene (una stanza) che condividono elementi (muri, soffitto, pavimento, mobilio, quadri, luce, ecc.), forma (rettangolare o squadrata), grandezza (tra i 16 e i 25 mq.) ecc. I​​ mental model​​ rappresentano c. proposizionalmente descrivibili, ma per alcuni miste anche a rappresentazioni analogiche, varianti da persona a persona, da situazione a situazione, esperienze vissute.

3.​​ Le c. procedurali.​​ Dalle c. semantiche vanno distinte le c.​​ procedurali.​​ Esse riguardano azioni, cioè tutte quelle informazioni che una persona possiede relativamente al modo di fare qualcosa. Ad es., sono c. procedurali quelle suggerite da un insegnante ad un alunno perché impari ascrivere, a memorizzare, a calcolare. Le c.-azioni sono rappresentabili attraverso l’indicazione delle​​ procedure​​ che devono essere eseguite (Anderson, 1983). La ricerca su questo tipo di c. non è stata amplissima anche perché l’efficacia del suo uso è stata immediata e grandissima. Le evidenze più forti sono venute dall’osservazione delle persone affette da amnesia: esse perdono la memoria delle c. dichiarative, ma non di quelle procedurali. Anche gli errori commessi da studenti nelle prestazioni cognitive spesso rivelano un errore o un deficit nella c. procedurale che dovrebbe guidarli nella loro attività. La teoria della c. procedurale ha avuto anche una interessante applicazione nell’apprendimento di abilità. Secondo Anderson (1987) un’abilità verrebbe inizialmente appresa come dichiarativa e solo con l’esercizio e il transfer diventerebbe automatizzata e sarebbe archiviata nella memoria procedurale a lungo termine. L’automatizzazione nelle prestazioni spiegherebbe le differenze tra esperti e principianti. Gli esperti avendo automatizzato le c. dichiarative necessarie per l’esecuzione del compito possono attuare le loro prestazioni in modo più rapido alleggerendo il peso della memoria lavoro. Le conseguenze educative e le possibilità esplicative di molti comportamenti sono state amplissime. Nel campo educativo la teoria della c. procedurale offre un modello di riferimento per stabilire obiettivi di apprendimento, comprendere gli errori di prestazioni e suggerire come intervenire.

4.​​ La c. esplicita e la c. implicita.​​ Se invece di osservare le c. a partire dalla loro realtà, le si considera attraverso il modo in cui possono essere acquisite, esse si distinguono in esplicite e implicite. Le prime sono c. sia dichiarative che procedurali il cui momento di acquisizione è conscio e ricuperabile; le seconde, al contrario, sono quelle il cui ricordo non è posseduto dal soggetto anche se questi dimostra di possederle e di utilizzarle. Sebbene vi possa essere una relazione tra i due tipi di c., alcuni dati di ricerche sembrano dimostrare che esse sono mantenute in archivi diversi (Schacter, 1987; Schacter - Tulving, 1994).

5.​​ Conclusione.​​ La rappresentazione delle c. costituisce certamente la novità maggiore prodotta dalla ricerca cognitivista di questi ultimi decenni. Essa è anche al centro dell’interesse di un nuovo ambito di studi rappresentato dal connessionismo che invece di assumere come «paradigma» interpretativo la metafora del computer assume il cervello. Da questo punto di vista la c. è il prodotto di molte interazioni tra molti elementi semplici come i neuroni tali da formare delle «reti neurali».

Bibliografia

Tulving E. - W. Donaldson (Edd.),​​ Organization of memory,​​ New York, Academic Press, 1972;​​ Skill acquisition: compilation of weak-method problem solutions,​​ in «Psychological Review» 94 (1987) 192-210; Clark J. M. - A. Paivio, «A dual coding perspective on encoding processes», in M. A. McDaniel - M. Pressley (Edd.),​​ Imagery and related mnemonic processes: theories,​​ individual differences and applications,​​ New York, Springer-Verlag, 1987, 5-33; Schacter D. L.,​​ Implicit memory: history and current status,​​ in «Journal of Experimental Psychology: Learning, Memory, and Cognition» 13 (1987) 501-518; Kosslyn S. M. et al.,​​ Visual mental imagery activates topographically organized visual cortex: PET investigations,​​ in «Journal of Cognitive Neuroscience» 5 (1993) 263-287; Schacter D. L. - E. Tulving (Edd.),​​ Memory systems 1994,​​ Cambridge, MIT Press, 1994.

M. Comoglio




RATIO STUDIORUM

 

RATIO STUDIORUM

Metodi e pratiche pedagogiche sperimentati ripetutamente nei collegi della Compagnia di Gesù (​​ Gesuiti) durante quattro secoli, che furono radunati e vagliati per costituire una norma strutturata della pedagogia, senza negare la convenienza degli opportuni accomodamenti ai luoghi, tempi e persone. Il preposito generale C. Acquaviva ordinò la sua redazione definitiva nel 1599; in essa s’integravano gli esperimenti pratici del Collegio di Messina e quelli del Collegio Romano, in accordo con la parte IV delle​​ Costituzioni. A​​ partire dal 1832, la​​ r.s.​​ dovette essere adattata per proteggerla dalle ingerenze dei poteri pubblici.

1.​​ Struttura fondamentale.​​ Questa impostazione degli studi divide l’insegnamento in tre tappe:​​ studi umanistici,​​ filosofia​​ e​​ teologia.​​ A​​ loro volta, gli studi umanistici si dividevano in tre categorie:​​ grammatica,​​ studi letterari​​ e​​ retorica.​​ La grammatica era divisa ancora in​​ infima,​​ media​​ e​​ suprema.​​ Ogni livello stabiliva gli autori classici che dovevano essere spiegati (Cicerone, Virgilio, Orazio, ecc.). Come materie complementari, la​​ storia​​ e​​ l’erudizione.​​ Il corso di​​ filosofia​​ si divideva in: 1)​​ logica​​ e​​ metafisica generale,​​ con​​ matematica elementare; 2)​​ cosmologia e psicologia,​​ insieme alla​​ fisica​​ e alla​​ chimica;​​ 3)​​ teodicea​​ ed​​ etica,​​ con l’aggiunta della​​ matematica​​ e della​​ storia naturale.​​ Gli studi di​​ teologia​​ erano impostati secondo la​​ scolastica,​​ in particolare​​ ​​ Tommaso d’Aquino, insieme alla​​ teologia​​ Positiva: Sacra Scrittura​​ (Nuovo e Vecchio Testamento),​​ Canoni​​ e casi di teologia morale (casus conscientiae).

2.​​ Fondamento pedagogico.​​ La r.s. è la risposta metodologica ad alcuni principi e finalità previ che costituivano l’ideale educativo dei primi gesuiti: l’umanesimo cristiano. Ignazio di​​ ​​ Loyola sperimentò il valore e la necessità della formazione accademica che lo preparò alla fondazione di un Ordine religioso eminentemente educativo. Ritenne basilare un atteggiamento attivo del discepolo, coadiuvato dall’esperienza del maestro, sottolineando perciò l’importanza della relazione maestro-discepolo, nonché il progredire dello studente grado per grado.

Bibliografia

a)​​ Fonti: R. atque institutio s. S. I.​​ (1586, 1591, 1599), Roma, IHSI, 1986, ediz. in MHSI, 129;​​ La «r.s.». Il metodo degli studi umanistici nei collegi dei gesuiti alla fine del secolo XVI,​​ a cura dei Gesuiti de «La Civiltà Cattolica» e di San Fedele, Milano, 1989. b)​​ Studi:​​ Trossarelli F.,​​ La pedagogia dei Gesuiti dalla tradizione ad oggi,​​ Roma, 1973; Bertrán M. Ma,​​ «Introducción», in C. Labrador et al.,​​ La «r.s.» de los jesuitas,​​ Madrid, Universidad Comillas,​​ 1986;​​ R. atque institutio studiorum Societatis Iesu. Introduzione e traduzione​​ di​​ A. Bianchi, testo latino a fronte, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 2002.

F.-J. de Lasala




RATKE Wolfgang

 

RATKE Wolfgang

n. a Wilster nel 1571 - m. ad Erfurt nel 1635, pedagogista enciclopedico e didatta tedesco.

1. Di famiglia borghese, R. studiò teologia e lingue, con interessi enciclopedici e, poi, pedagogici. Soggiornò a Londra e, in guerra, ad Amsterdam, per stabilirsi nel 1611 a Francoforte, dove stese il suo noto​​ Memoriale​​ (1612), presentato alla Dieta. Tentò di applicarne i principi a Cöthen, senza successo, finendo in carcere. In seguito errò per varie città, a volte con l’appoggio dei governanti, ritentando il suo esperimento e sostenendolo con vari saggi, in polemica con i suoi critici, finché approdò a Erfurt, dove morì. Oltre agli scritti di didattica:​​ Allunterweisung. Schriften zur Bildungs-,​​ Wissenschafts- und Gesellschaftsreform​​ (Istruzione universale. Scritti per una riforma dell’educazione, della scienza e della società), 2 voll., Berlino, Volk und Wissen, 1970-1971.

2. È nota la sua concezione didattica, meno quella enciclopedico-riformistica, fondata sulla​​ ​​ Bibbia, sulla natura e sulle lingue, con una connotazione cristiana e pedagogica di fondo. Alla prima sono legati la sua fama e i suoi meriti. Individuata nel​​ metodo​​ la procedura più efficace e innovativa, ne propone un’applicazione all’insegnamento. Si tratta di un​​ metodo naturale​​ e quindi unico, come la natura, a cui si devono ispirare i manuali, che, da allora, si vanno moltiplicando. La sua fiducia nel metodo risulta riduttrice del ruolo dell’educatore e, in parte, delle peculiarità dell’alunno. I suoi​​ «aforismi»​​ sono di​​ tre categorie:​​ due didattiche (più tradizionale l’una e innovativa l’altra) e la terza di carattere più generale. Della prima fanno parte la gradualità, la ripetizione frequente e il silenzio. Della seconda, l’esclusione della violenza e costrizione, l’adattamento al singolo, l’armonia universale, la priorità della lingua vernacola e il primato di esperienza, esempi, e uso su precetti, autorità e preconcetti. Della terza sono parte l’esigenza di democratizzazione, di continuità tra famiglia e scuola e di organizzazione.

3. Ebbe grande, seppur contrastato influsso, e va considerato un fecondo seminatore più che un produttore.

Bibliografia

su R., attenta e ricca l’«Introduzione» all’Allunterweisung;​​ Rioux G.,​​ L’oeuvre pédagogique de W.R., Paris, Vrin,​​ 1963;​​ Hofmann F.,​​ Das Schulbuchwerk W.R.s zur Allunterweisung, Ratingen, A. Henn, 1974;​​ Michel G.,​​ Die Welt als Schule. R.,​​ Comenius und die didaktische Bewegung,​​ Hannover, H. Schrödel, 1978.

B. A. Bellerate




RAYNERI Giovanni Antonio

 

RAYNERI Giovanni Antonio

n. a Carmagnola nel 1810 - m. a Torino nel 1867, pedagogista e educatore italiano.

1. Nasce in una famiglia modesta, compie gli studi di retorica e di filosofia nella cittadina natale e di teologia a Chieri. Ordinato sacerdote, s’impegna nello studio e nell’insegnamento della pedagogia. Dopo aver seguito il corso di lezioni di​​ ​​ Aporti a Torino (1844), R. è nominato direttore della scuola di Metodo a Saluzzo (1846) e, due anni dopo, primo titolare della cattedra superiore di Metodo, detta poi di pedagogia, presso l’università di Torino. Nel 1849 partecipa alla fondazione della Società d’Istruzione e d’Educazione, il cui scopo è «il risorgimento della patria per mezzo dell’educazione morale e religiosa, civile e politica». Ne diviene il primo presidente effettivo e ne resta sempre uno dei membri più attivi.

2. Il suo saggio,​​ Primi principi di metodica​​ (1850), ha avuto notevole diffusione diventando il «vademecum» dei maestri italiani nella seconda metà dell’Ottocento. Nell’opera di maggior impegno,​​ Della pedagogica. Libri cinque​​ (1859) «confluisce il pensiero educativo del nostro Risorgimento» (Gambaro, 1977, 671). Il contributo di R. non rimane limitato all’impegno, pur apprezzabile, di sistematore e propagatore delle più autorevoli dottrine pedagogiche e didattiche del suo tempo dalla cattedra universitaria e attraverso i suoi scritti. Fu anche significativa la sua presenza nell’ambito della politica scolastica: prese parte attiva alla stesura della L. Boncompagni (1848) e collaborò nei progetti di riforma educativa dei ministri Gioja, Cadorna e Berti.

Bibliografia

Gambaro A., «La pedagogia del Risorgimento», in​​ Nuove questioni di storia della pedagogia,​​ vol. II,​​ Da Comenio al Risorgimento italiano,​​ Brescia, La Scuola, 1977, 535-796; Prellezo J. M.,​​ Pensiero pedagogico e politica scolastica. Il caso di G.A.R. (1810-1867),​​ in «Annali di Storia dell’Educazione» 1 (1994) 149-167; Id., «R.G.A.», in​​ Enciclopedia filosofica, vol. 10, Milano, Bompiani / Fondaz. C.S.F. Gallarate, 2006, 9415-9416; Chiosso G.,​​ Carità educatrice e istruzione in Piemonte. Aristocratici,​​ filantropi e preti di fronte all’educazione del popolo nel primo ‘800, Torino, SEI, 2007.

J. M. Prellezo




RAZIONALITÀ

 

RAZIONALITÀ

Dal lat. tardo​​ rationalitas,​​ è la proprietà di essere razionale, di possedere cioè una struttura che deriva dalla​​ ​​ ragione o che può essere compresa dalla ragione.

1.​​ Le due forme tradizionali.​​ La r. analitica e quella dialettica costituiscono, com’è noto, i capisaldi della r. umana, in quanto la prima è il metodo della scienza, la seconda quello della filosofia. La r. moderna ha trovato nella prima la sua identità: la riduzione delle forme della r. teoretica a quella matematico-scientifica e l’emarginazione delle altre forme di r. di tradizione aristotelica. Oggi però si riscontra una rinnovata attenzione proprio per quelle altre forme di r., anche se segnate dall’esperienza filosofica degli ultimi tempi. La r. assume un significato più ampio e si manifesta in modi molteplici e sulla base di procedimenti plurimi di pensiero. Si conferma l’identità distinta delle due procedure di pensiero: l’analitica caratterizza la procedura scientifico-dimostrativa; la dialettica quella dell’argomentazione filosofica.

2.​​ R. coerente con l’oggetto di ricerca.​​ Questi due modi di ragionare si devono a loro volta confrontare con l’oggetto del discorso. Ad un sapere diretto alla conoscenza delle​​ cose che sono necessarie,​​ occorre accostare un sapere diretto alla conoscenza delle​​ cose che sono per lo più e di quelle che possono essere altrimenti:​​ cioè gli oggetti verso cui può dirigersi la nostra attenzione e il nostro studio non sono gli stessi, ma sono differenti. I metodi di studio e di riflessione critica vanno di conseguenza selezionati ed anche adattati in modo da risultare coerenti con il diverso oggetto di ricerca. Ora fra​​ le cose che sono per lo più o che possono essere altrimenti​​ occorre mettere le azioni umane. Le vicende umane non possono essere studiate​​ soltanto​​ con metodi scientifici del tipo di quelli utilizzati per indagare i fenomeni naturali.

3.​​ R. e complessità dei processi educativo-didattici.​​ I comportamenti umani, come l’insegnare​​ e l’apprendere,​​ sono inestricabilmente intrecciati con componenti interne (intenzioni,​​ propositi,​​ motivazioni)​​ che danno loro senso e significato. Il metodo scientifico classico considera legami causali diretti, a senso unico; ma connessioni di tal tipo non sono le sole che esistono fra l’azione del docente​​ e l’apprendimento del discente.​​ Tale metodo può essere applicato a fenomeni naturali che rimangono stabili e uniformi nel tempo e nello spazio: ma questo è un contesto che ha poco a che fare con la situazione educativa e didattica. La realtà complessa e dinamica dei processi educativi e didattici non riesce ad essere compresa o spiegata adeguatamente da nessuno di essi. In quest’epoca di crisi della r. analitica, occorre riconoscere la molteplicità delle «vie della ragione» e ridare spazio a r. spesso presenti, ma tenute nascoste, quasi vergognosamente, come la​​ dialettica,​​ quella​​ retorica​​ e quella​​ pratica,​​ favorendo l’integrazione tra i diversi apporti. Anche gli apparati tecnologici messi in opera dalle teorie curricolari emerse negli anni ’60 e ’70 del XX sec. sono governati da orientamenti tecnici, sensibili solo alle esigenze di​​ efficacia,​​ di​​ efficienza,​​ di​​ r.​​ obiettiva. Sono questi gli stessi caratteri evidenziati da un approccio scientifico che vuole «misurare tutto ciò che si muove», ignorando i problemi economici, sociali e politici che si nascondono dietro i numeri. Pertanto il termine r. nel campo pedagogico-didattico se, da un lato, ha valorizzato la dimensione scientifica della r. analitica, dall’altro non può non riconoscerne i limiti. Dunque: senza voler espellere questo tipo di r. dal dominio delle scienze dell’educazione né dare spazio a nuovi primati o imperialismi, siano essi legati all’esaltazione della r. pratica, dialettica o addirittura retorica, occorre piuttosto muoversi in una prospettiva sistemica, di collaborazione reciproca, di complementarità. In campo didattico sarà inevitabile valorizzare l’apporto di approcci e metodologie differenti e complementari al fine di: a) descrivere e comprendere al meglio situazioni di fatto; b) cercare di spiegare in modo sufficientemente affidabile le cause dell’insoddisfazione; c) intervenire ispirandosi a quadri di significati e di valori che possano non solo illuminare lo scenario di riferimento, ma soprattutto guidare le scelte e le azioni conseguenti. In tal senso occorrerà favorire lo sviluppo della pluralità delle vie percorse della r. umana, mirata non soltanto alla costruzione del sapere, ma anche all’impegno dell’agire: e dunque r. teorica e r. pratica, r. «forte» e r. «debole»; e così via.

Bibliografia

Ladrière J.,​​ I​​ rischi della r.: la sfida della scienza e della tecnologia alle culture,​​ Torino, SEI, 1978; Agazzi E. - F. Minazzi - L. Geymonat,​​ Filosofia,​​ verità e scienza,​​ Milano, Rusconi, 1989; Laneve C.,​​ Per una teoria della didattica. Modelli e linee di ricerca,​​ Brescia, La Scuola, 1993;​​ Romero Pérez C.,​​ Conocimiento, acción y racionalidad en educación, Madrid, Biblioteca Nueva,​​ 2004; Scuderi Sanfilippo G.,​​ Il razionalismo critico come problema pedagogico. Banfi,​​ Bertin e il senso della pedagogia, Cosenza, Pellegrini, 2005; Minichiello G.,​​ Il principio imperfezione. Razionalismo pedagogico e teoria della conoscenza, Lecce, Pensa, 2006.

C. Laneve