1

QUALITÀ DELL’EDUCAZIONE

 

QUALITÀ DELL’EDUCAZIONE

È il complesso delle caratteristiche che l’educazione deve possedere per soddisfare i bisogni degli educandi.

1.​​ La polisemia del termine q.​​ Parlare di q. vuol dire per un verso riferirsi all’insieme di elementi concreti che costituiscono la natura di qualcuno o di qualcosa. Ma nel termine italiano si aggiunge un’altra connotazione che dice il grado di capacità, di utilità, di perfezione di qualcuno o di qualcosa. Risulta subito chiaro che ci troviamo di fronte ad un termine polisemico e oggi, in aggiunta, la parola q. assume tanta rilevanza culturale nelle sue due grandi specificazioni di «q. della vita» e di «q. totale». Con la prima si viene ad indicare l’insieme delle condizioni ambientali, sociali, culturali, lavorative che concorrono a determinare una vita umanamente degna. Con la seconda si intende un modello di gestione aziendale volto a migliorare l’efficienza del sistema in relazione alla soddisfazione del cliente.

2.​​ La q.d.e. Di questa si può parlare a priori alla luce di un concetto ideale di uomo e di educazione In tale caso si tratterà di stabilire le condizioni essenziali che occorrono perché si realizzi il fine educativo, inteso come promozione umana della persona. In questa linea di rapporto tra azione e finalità educativa la q.d.e. appare in primo luogo come affermazione dell’integralità​​ dell’educazione contro ogni suo riduzionismo ed unilateralismo.​​ In secondo luogo, la q.d.e. si manifesta come ricerca di coerenza​​ dell’azione educativa, nel senso che essa tenga il passo con lo sviluppo personale dell’educando; ordini i suoi interventi secondo esigenze concrete dell’esistenza; commisuri se stessa all’importanza ed ai valori personali che sono in gioco, senza stravolgimenti per difetto o per eccesso, per sottovalutazione o sopravvalutazione; ricerchi le relazioni e i rapporti tra interventi educativi e tra fattori della personalità. Inoltre, la q.d.e. può essere intesa come pertinenza ed efficacia​​ dell’azione educativa, nel senso che sia adeguata al fine da raggiungere.

3.​​ La q. totale. È un modello organizzativo che nasce negli Stati Uniti nella prima metà del sec. scorso e si sviluppa poi nel Giappone per affermarsi infine in tutto il mondo.​​ Nell’industria, dove si è originata, la q. viene intesa in base a una prospettiva non più interna all’azienda, ma esterna e si caratterizza per i seguenti spostamenti di accento: la priorità passa alla produzione della q. e alla sua programmazione rispetto al controllo; la q. come soddisfazione del cliente diviene più importante della q. come assenza di difetti; non importa tanto raggiungere dei requisiti prefissati e statici quanto puntare al miglioramento continuo; la q. non va considerata come una prerogativa esclusiva degli addetti ai lavori, quanto come un valore per l’intera umanità. Di fronte ai gravi problemi dell’educazione, molti pensano sia utile rifarsi al modello della q. totale. Infatti, secondo alcuni, esso avrebbe una prima ricaduta positiva​​ .sull’educazione perché risulterebbe in piena consonanza con due principi pedagogici,​​ tipici della coscienza pedagogica contemporanea: 1) che l’educando occupa il centro del sistema formativo; 2) e che l’autoformazione è la strategia principe del suo apprendimento. Ma contrasta con questa prospettiva il fatto che nel modello della q. totale si tratta di cliente e il fine di tutto è il successo dell’azienda nel mercato e non certo il «successo formativo» del soggetto che apprende, cresce e si sviluppa per essere pienamente persona. L’approccio della q. totale fornisce pure una linea di azione chiara per assicurare la efficacia e l’efficienza del sistema educativo, in quanto la validità dell’offerta e dei processi è ottenuta perseguendo la q. Con la sua logica dei rapporti interni, consente di motivare i formatori più adeguatamente: infatti, la strategia della q. totale si pone l’obiettivo di soddisfare pienamente i bisogni del lavoratore ai diversi livelli oltre che quelli dei clienti. Dal punto di vista procedurale, poi, con il principio, secondo il quale si deve far bene le cose la prima volta, in quanto è molto più dispendioso dover intervenire in un secondo momento per correggere un’azione non riuscita, l’approccio della q. totale mette in risalto il «costo della non q.» inteso come spreco di risorse per riparare le carenze di ciò che è stato già realizzato male. All’opposto di questa situazione, vi è l’altro principio del miglioramento continuo che significa una sollecitazione costante a non accontentarsi mai dei risultati raggiunti per cui il progresso è sempre dietro l’angolo. Ancora più radicalmente è avanzata l’idea della prevenzione che significa superare la logica di contare gli insuccessi alla fine dell’intervento educativo per sostituirla con quella di prevedere fin dall’inizio le condizioni che consentono di evitare gli insuccessi. E tutto ciò è possibile perché la creatività​​ è presente in tutti almeno come capacità di dare risposta a una esigenza. Contribuiscono anche nella medesima direzione sia il formare le persone a risolvere i problemi con i dati e i fatti​​ piuttosto che sulla base di impressioni e di sensazioni, sia l’abituarle a ragionare per cause​​ anziché per colpe. La q. totale fa molto affidamento sulle sinergie, sulla concentrazione di forze. È la logica che sottostà ai circoli della q. e ai gruppi di miglioramento, nella convinzione che un gruppo di persone che opera unito ottiene senz’altro esiti più soddisfacenti di un medesimo numero di soggetti che lavorano individualmente. Al tempo stesso ai singoli è chiesto di sviluppare responsabilità e autocontrollo. Da questo punto di vista è decisivo il superamento della separazione tra chi decide, chi esegue e chi controlla a favore della logica che chi esegue deve controllare le proprie prestazioni e deve contribuire con la propria esperienza al miglioramento continuo del funzionamento dell’organizzazione, operando insieme. Ma rimane che la trasposizione del modello della q. totale in educazione non è senza​​ problemi. Oltre a quello già accennato sopra, resta che la soddisfazione del cliente non può essere l’unico criterio di validità di un intervento educativo. I bisogni dell’educando da soddisfare non sono sempre e solo quelli che egli percepisce, ma è necessario spesso «educare» la sua domanda. In altre parole la q. totale è esposta al pericolo di dare ansa al soggettivismo e al relativismo. Ma più radicalmente, è da precisare che l’educazione non si può ridurre al soddisfacimento dei bisogni dell’educando. In questo quadro assumono una particolare rilevanza​​ concetti​​ come: la certificazione della q., cioè l’accertamento della congruenza di una specifica realtà scolastica con un insieme di requisiti di q. definiti e verificati da soggetti di parte terza (agenzie accreditate alla certificazione); l’assicurazione q., cioè l’insieme delle azioni necessarie per dare adeguata confidenza che un prodotto o servizio corrisponda a determinati requisiti di q.; la normativa ISO 9000 che definisce q. e assicurazione q. e dà indicazioni per la scelta del sistema q. più adatto per ogni tipo di impresa e di prodotto.

Bibliografia

Negro G.,​​ Q. totale a scuola, Milano, Il Sole 24 Ore, 1995; Malizia G. - C. Nanni,​​ La q.d.e.: gli antecedenti e le teorie attuali, in «Orientamenti Pedagogici» 48 (2001) 4, 580-606; Sallis E.,​​ Total quality management in education,​​ London, Kogan Page, 3 ediz 2002; Ceriani A. - P. Giaveri,​​ I ruoli della q. nella scuola, Milano, Angeli, 2005.

G. Malizia




QUESTIONARI

 

QUESTIONARI

Insieme di quesiti, più o meno elaborati psicometricamente, su uno o più argomenti. Il q. è una delle forme più antiche di​​ ​​ test di personalità, nato per integrare, standardizzare e rendere più oggettivo il​​ ​​ colloquio psichiatrico e psicologico.

1.​​ Tipi di q.​​ Attualmente, i q. sono il tipo di strumento più diffuso per la misurazione di tratti della personalità normale, di psicopatologie, di stati di disagio, di interessi scolastici e professionali, di atteggiamenti sociali. Le loro caratteristiche strutturali li rendono particolarmente adatti ad essere utilizzati nella fascia di età compresa fra i 10 e i 70 anni, con costi gestionali minimi perché si prestano bene alla somministrazione collettiva e computerizzata e consentono un massimo di automatizzazione nell’attribuzione del punteggio e nell’elaborazione dei dati. Per la misurazione di caratteristiche della personalità normale, i q. più usati in campo internazionale sono il CPI (California Psychological Inventory) di H. Gough, che misura numerose caratteristiche descritte in termini di vita quotidiana e attinenti a comportamenti che interessano il lavoro e la socialità; il 16 PF. di R.B. Cattell per adulti e le analoghe forme per adolescenti (HSPQ), ragazzi (CPQ) e bambini (ESPQ), che misurano la «sfera della personalità normale», con riferimento a 16 variabili (o poco meno, a seconda dell’età dei soggetti) individuate fattorialmente; q. riferiti alla teoria dei Big Five (Comrey, Caprara e coll.). Accanto ai q. appena citati, che ambiscono a fornire una descrizione completa della personalità, numerosi strumenti hanno ambito più ristretto. Per es. si trovano q. che misurano dinamiche psicologiche in riferimento a varie teorie, che valutano le difese dell’Io o altri costrutti desunti dalla teoria psicoanalitica, che si riferiscono al costrutto psicologico del Sé, che valutano il​​ ​​ locus of control, i ruoli sessuali, il machiavellismo, la personalità «di tipo A», l’aggressività ecc. Il disagio psicologico viene valutato da altri q., il più famoso dei quali è il Minnesota Multiphasic Personality Inventory (MMPI, MMPI 2, MMPI A), che considera varie patologie, applicando sistemi di assegnazione del punteggio che si sono andati accumulando nel corso di mezzo secolo (le «scale aggiuntive» di cui esiste almeno qualche verifica di validità sono decine). Q. che valutano disturbi clinici e di personalità in riferimento a nosografie contemporanee (DSM-IV e ICD-10) sono il Millon Clinical Multiaxial Inventory Manual, distribuito solo nei Paesi anglosassoni, e le varie forme dell’italiano TALEIA. Molto numerosi sono i q. per la valutazione di patologie specifiche o di stati di disagio particolari: ansia di stato e di tratto, ossessività, paure, problemi, depressione, stress,​​ ​​ burn-out​​ ecc. I q. attinenti al disagio psichico per bambini sono pochissimi: si può citare il CDS e il CDI (depressione), lo STAIC, le Scale psichiatriche di autosomministrazione per fanciulli e adolescenti (SAFA), il Q. Scala d’Ansia per l’età evolutiva (ansia). Quasi esclusivamente per ragazzi e adolescenti sono invece i q. che misurano​​ ​​ interessi scolastici professionali. In Italia i q. d’interessi più utilizzati, soprattutto in orientamento, sono quelli di G. F. Kuder, di J. L. Holland e di M. Viglietti. Tra i q. che misurano i​​ ​​ valori, si possono citare lo «Studio dei valori» di Allport, Vernon e Lindzey e la «Rassegna dei valori» di Rokeach, ambedue prevalentemente usati a scopo di ricerca. I q. che misurano​​ ​​ atteggiamenti sono per lo più costruiti in funzione di ipotesi di ricerca particolari. Fra quelli di interesse più generale si possono citare il Parental Attitude Research Instrument (PARI) e la scala di «Dogmatismo educativo» di De Grada, Ercolani, Ponzo ispirata al costrutto di dogmatismo di Rokeach. I q. sono anche utilizzati a scopo esplorativo, per raccogliere informazioni di varia natura, in alternativa a interviste standardizzate. In questo caso, di solito la sofisticazione psicometrica degli strumenti è minima: viene curata solo la validità di contenuto e non viene compiuta una verifica preliminare sperimentale della validità.

2.​​ Le scale di controllo.​​ I primi q. si collocavano nella tradizione della psicologia introspettiva: si ipotizzava che la risposta al quesito fosse una descrizione autentica e attendibile della realtà intrapsichica. Presto questa ipotesi fu abbandonata, principalmente per effetto delle ricerche sulle distorsioni indotte dalla «desiderabilità sociale» della risposta. Vennero conseguentemente introdotte varie forme di controllo: alcune prevalentemente finalizzate a eliminare gli effetti della desiderabilità sociale (per es. «scelta forzata»), altre principalmente finalizzate a evidenziare l’entità e la presenza di distorsioni di vario tipo. Nell’approccio della «scelta forzata», introdotto nel 1953 da Edwards nel suo Personal Preference Schedule (P.P.S.: misura l’intensità relativa di dinamiche psichiche riferite alla teoria di Murray), ogni quesito contiene due affermazioni, che si suppone siano di pari desiderabilità sociale ma diverse qualitativamente: il soggetto deve scegliere quella preferita. Questo metodo, adottato in alcuni q. di interessi (per es. Kuder) estendendo il gruppo di affermazioni a tre per item, probabilmente elimina l’effetto della desiderabilità sociale, ma suscita altri inconvenienti. Il soggetto deve esprimere una valutazione di gradimento relativo sulle affermazioni che gli sono presentate: ogni risposta è una graduatoria, che non dice la distanza di gradimento fra un elemento e l’altro. Il punteggio che ne risulta viene detto «punteggio ipsativo» e possiede caratteristiche metrologiche peculiari (per es. non è appropriato su questi punteggi calcolare coefficienti di correlazione o analisi fattoriale), in quanto espressione di una graduatoria interna agli interessi del singolo soggetto e non misura oggettiva e «trasversale». Ad es., se un q. a scelta forzata sugli interessi sportivi viene sottoposto a ragazzi e ragazze, può darsi che Maria, a cui di sport interessa molto poco, metta comunque al primo posto il calcio; Gianni invece, interessato a tutti gli sport, mette al primo posto la pallacanestro, al secondo il ping pong e al terzo il calcio, ma l’interesse che Gianni ha per il calcio è certamente superiore all’interesse che per il calcio ha Maria, costretta a scegliere fra oggetti di cui non le importa gran che. La tecnica della scelta forzata è stata abbandonata da Edwards, che pure l’aveva introdotta per primo, nella più recente edizione del suo q. di personalità (1967). Più largamente diffuso è il ricorso a scale di controllo, rivelative di risposte «non autentiche» per l’una o l’altra ragione. I prototipi delle scale di controllo sono le scale L e F introdotte nella prima edizione del MMPI (1940), successivamente integrate dalla scala K. La scala L segnala la tendenza del soggetto ad autoelogiarsi, la F ad autodenigrarsi. La scala K, analogamente alla L, segnala la tendenza ad autoelogiarsi, ma si basa su affermazioni più «sottili», meno esageratamente assertive di perfezione. I protocolli che hanno punteggi molto più alti della media in L o F vengono considerati inattendibili e i punteggi nelle altre scale non sono interpretati. I punteggi nella scala K possono invece essere utilizzati per «correggere» i punteggi di altre scale. Quest’ultima prassi è lasciata peraltro alla decisione dell’interprete del q., dato che la validità della scala K è stata provata una sola volta, su un campione statunitense, circa sessanta anni fa e, per es. in Italia, non è stata mai sottoposta a verifica. Scale di controllo analoghe sono presenti nel CPI e, limitatamente alla L, in alcuni dei q. di Cattell e di Eysenck. Le scale L, F e K si basano su una stima di incongruenza fra risposte al q. e realtà osservata nella media di più campioni della popolazione. Altre scale si basano sulla «coerenza» tra risposte date allo stesso quesito o tra risposte date a quesiti di significato opposto, oppure sulla frequenza «abnorme» di un particolare tipo di risposta: moltissimi «Vero», moltissimi «Falso», moltissimi «Non so». Scale di questo tipo sono state introdotte nel MMPI-2 (1990) e nei TALEIA (2007). Nella seconda edizione del CPI (1987) vengono presentate delle equazioni, derivate da ricerche su campioni statunitensi, che consentono l’individuazione di tre tipi di scarsa affidabilità: a) Imbrogliare per sembrare migliori (Fake good), b) Carenza di validità per altri motivi, c) Risposte a casaccio contrapposte a imbrogliare per sembrare peggiori. Le scale di controllo sono uno dei punti di forza della diffusione dei q. rispetto ad altri tipi di strumento (per es. i test proiettivi) che danno per scontata sia l’assenza o l’impossibilità di inganno, sia l’assenza di risposte date «a casaccio». Allo stato attuale, non solo è stata invece largamente provata la possibilità di rispondere in modo ingannevole a qualsiasi tipo di test o d’intervista, ma sono anche sempre più diffusi «libri di testo», corsi di preparazione per rispondere ai test più usati nei concorsi e nelle perizie e addirittura guide per la contraffazione della propria calligrafia.

Bibliografia

Nunnally J. C. - I. H. Bernstein,​​ Psychometric theory,​​ New York, McGraw-Hill,​​ 31994; Weiss D. J. (Ed.),​​ New horizons in testing.​​ Latent trait test theory and computerized adaptive testing, London, Academic Press, 1983; Lanyon R. I. - L. D. Goodstein,​​ Personality assessment, New York, Wiley,​​ 31997; Boncori L.,​​ Teoria e tecniche dei test, Torino, Bollati Boringhieri, 1993; Id.,​​ I test in psicologia,​​ Bologna, Il Mulino, 2006; Roccato M.,​​ L’inchiesta e il sondaggio nella ricerca psicosociale, Ibid., 2006; Boncori L.,​​ TALEIA-400A,​​ Trento, Erickson, 2007.

L. Boncori




QUINTILIANO Marco Fabio

 

QUINTILIANO Marco Fabio

Vissuto tra il 35 / 40 e il 95 d.C., retore romano, n. a Calahorra in Spagna.

1.​​ Vita.​​ Dopo aver compiuto gli studi a Roma esercita in Spagna l’insegnamento della Retorica. Condotto a Roma dall’imperatore Galba nel 68, è il primo maestro di Retorica stipendiato dallo Stato. È pure educatore dei pronipoti dell’imperatore Domiziano. Corona il suo insegnamento con la pubblicazione della​​ Institutio oratoria, l’opera che gli assegna un posto di particolare importanza nella storia dell’educazione umanistica.

2.​​ L’ideale dell’oratore. Q. è uno dei più fedeli interpreti di quell’ideale di​​ Humanitas, che ha nell’Orator​​ il suo paradigma più completo, e che alla tradizionale​​ virtus romana​​ associa l’apporto determinante della​​ ​​ paideia greca.​​ Continua così la tradizione di cui fu grande maestro​​ ​​ Cicerone (che Q.,​​ Inst. 10,1,112, dice non più solo nome di una singola persona, ma della stessa oratoria). È importante il contributo di Q. per il concetto stesso di​​ Orator, vale a dire per la dignità, la figura culturale e morale, la missione che gli è affidata. In lui Q. vuol raggiungere, per quanto umanamente possibile, la perfezione della formazione («Oratorem​​ instituimus illum perfectum... qualis fortasse nemo adhuc fuerit»). Per questo torna ripetutamente sulla completezza della sua formazione, accentuandone singolarmente due aspetti, ritenuti inscindibili, che perciò entrano nella stessa definizione dell’Orator: quello culturale (vir vere sapiens), che fiorisce nell’arte oratoria (dicendi eximia facultas) e quello etico (omnes animi virtutes; ratio rectae honestaeque vitae); anzi con una esigenza prioritaria della componente etica, tanto da ritenere che la stessa oratoria o sia virtù, o non sia neppure oratoria. Rivendica così per l’Orator​​ alcune caratteristiche che, in particolare gli stoici, attribuivano ai filosofi. Ciò è visto anche come un’esigenza della missione sociale che, secondo Q., compete all’Orator​​ e che, con una certa enfasi, sintetizza così: «regere consiliis urbes,​​ fundare legibus,​​ emendare iudiciis». La sua concezione della dignità dell’Orator​​ e della stessa oratoria ci fa paragonare la posizione di Q. nella Roma del I sec. d.C. a quella di Isocrate nell’Atene del IV sec. a.C.

3.​​ La formazione dell’oratore. L’oratoria, così considerata, costituisce la meta dell’educazione nella quale Q. si sente personalmente impegnato. Passati i tempi della Repubblica, in cui l’impegno politico dell’oratore era più immediato, e la formazione avveniva (come ci dice Tacito,​​ Dial. 34) nel contatto con i più famosi oratori nel vivo della lotta (pugnare in proelio disceret), ora è la scuola la palestra di quella formazione. Ma, oltre che essere meta, l’oratoria, liberata dal formalismo e dedita ai grandi valori, è per Q. anche dotata di per se stessa di una eccellente forza educatrice. Proprio in questa dimensione educativa Q. ci lascia l’eredità più preziosa. Un primo rilievo da fare è la visione globale e unitaria della formazione dell’oratore, che porta Q. a valorizzarne tutte le fasi; per cui non si accontenta di presentarci la metodologia dell’insegnamento della Retorica, che pure occupa la maggior parte della​​ Institutio oratoria, ma si preoccupa anche della formazione precedente, come pure della fase ultima della vita dell’oratore, in cui, oltre a dar risalto all’influsso costante della sua saggezza, suggerisce anche un prezioso coronamento come educatore a sua volta dei giovani. In questo quadro unitario cogliamo l’originalità di Q. nell’importanza data all’educazione nell’infanzia, che vede come condizione indispensabile alla stessa formazione dell’oratore (minora illa sed quae si neglegas non sit maioribus locus​​ / Proem.). Nell’infanzia evidenzia la malleabilità della natura, la forza e la persistenza delle prime impressioni. Di qui l’importanza dei primi anni; la fiducia nelle capacità della natura (pater de nato filio spem optimam capiat); la ricerca anche di una metodologia adatta attraverso il gioco; la scelta, per qualità morali e culturali, delle persone che si occupano del bambino; la stessa istanza sull’importanza della vita familiare e dell’influsso che essa esercita sulla prima educazione, destinato a durare tutta la vita. La fiducia nella​​ natura​​ umana (di rado totalmente refrattaria all’azione dell’educazione) si associa alla considerazione dell’arte dell’educazione. Essa non può essere efficace se non basandosi sulle doti di natura in ogni singolo individuo. Conoscerle e adeguarvisi è compito del maestro. Nella​​ relazione​​ maestro-discepolo​​ va cercata anche la risposta di Q. al problema della disciplina: la formazione dell’oratore non può venire che dall’azione concorde del maestro e del discepolo. Ciò si estende a un altro settore, in cui Q. si mette intenzionalmente in contrasto con una prassi da molti giustificata: quella delle punizioni corporali. Vi si oppone energicamente non solo perché essa può ottenere l’effetto contrario a quello voluto (cioè provocare odio anziché amore allo studio); ma in considerazione della dignità personale dell’alunno («in aetatem infirmam et iniuriae obnoxiam nemini debet numium licere»). Osserva pure che ciò può dipendere dalla cattiva scelta dei maestri. Un ultimo rilievo circa la scuola è la preferenza da Q. attribuita alla scuola pubblica su quella familiare, per il vantaggio offerto dal confronto con altri compagni, per il diverso dinamismo della vita scolastica, per lo stimolo dell’emulazione usata anche come mezzo disciplinare.

4.​​ Incidenza e risonanza. L’influsso esercitato da Q. si estende a tutta la successiva pedagogia umanistica. A lui si ispira s.​​ ​​ Girolamo nella sua​​ Lettera a Leta sull’educazione della figliola Paola. In particolare costituisce un punto di riferimento privilegiato degli Umanisti rinascimentali nel loro ritorno alla classicità. Sulla sua​​ Institutio oratoria​​ si basa soprattutto​​ ​​ Guarino Guarini nella sua organizzazione della scuola umanistica del ’400.

Bibl: a)​​ Fonti: Q.,​​ Institutio oratoria. Ediz. con testo a fronte a cura di A. Pennacini, Torino, Einaudi Gallimard, 2001, 2 voll. b)​​ Studi: Cerruti F.,​​ Una trilogia pedagogica ossia Q.,​​ Vittorino da Feltre e don Bosco, Roma, Scuola Tip. Salesiana, 1908; Gerini G. B.,​​ Le dottrine pedagogiche di Cicerone,​​ Seneca,​​ Q., Torino, Paravia, 1914;​​ Cousin J.,​​ Études sur Quintilien, 2 voll., Paris, 1936; Bianca G.,​​ La pedagogia di Q., Padova, CEDAM, 1963;​​ Galino M. Á.,​​ Historia de la educación. Edades antigua y media, Madrid, Gredos, 1988.

M. Simoncelli