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PUBBLICITÀ

 

PUBBLICITÀ

È una forma di​​ ​​ comunicazione con espliciti intenti persuasivi adottata principalmente dalle imprese industriali e commerciali (p.​​ commerciale) per farsi conoscere o far conoscere i propri prodotti e, in generale, per influenzare atteggiamenti e comportamenti relativi all’acquisto e al consumo di beni e all’utilizzazione di servizi. Il ricorso alle tecniche pubblicitarie di comunicazione messe a punto dalle imprese avviene anche, con crescente frequenza, da parte di organizzazioni non commerciali: si parla, in questo caso, di p.​​ non profit​​ o​​ non commerciale​​ e, in particolare, di p., di volta in volta,​​ sociale,​​ politica,​​ elettorale,​​ pubblica,​​ religiosa,​​ a seconda dei soggetti che vi fanno ricorso e dell’oggetto dei messaggi.

1.​​ Caratteri.​​ La p. assume caratteristiche formali, di contenuto e diffusive del tutto particolari. Si presenta generalmente sotto forma di messaggi brevi o brevissimi, sintetici, semplici, accattivanti e spesso fortemente emotivi, parziali nella scelta contenutistica a favore del committente e sovente sconfinanti in una più o meno evidente ingannevolezza, ripetuti sistematicamente fino a ricadere nell’eccesso, diffusi con ogni mezzo utile e fortemente intrusivi, talora in modo irritante come accade con le interruzioni televisive.

2.​​ Educazione e p.​​ Strumento indispensabile per le imprese, la p. – per le sue caratteristiche tipiche – non esaurisce la sua influenza sul piano che le è originariamente proprio, non si limita, cioè, ad agire su atteggiamenti e comportamenti di consumo. Essa, nel suo continuo sforzo persuasivo, coinvolge in pratica tutti gli aspetti della realtà, sfruttandoli, selezionandoli, deformandoli. Finisce così per proporre, nei singoli messaggi e col loro insieme, una certa visione dell’esistenza, per esaltare modelli di comportamento funzionali (e subordinati) all’acquisto e all’uso dei beni materiali, per costruire una scala di valori che privilegia, insieme al consumo (concorrendo all’espandersi della sua forma esasperata, il​​ consumismo), il successo, la ricchezza, la competizione sociale, l’esibizione fine a se stessa: non solo degli oggetti, ma anche del corpo umano degradato a mero elemento di richiamo. In tal modo si configura come una «grande impresa pedagogica», così definita un po’ ambiguamente da Marshall McLuhan. Essa, in effetti, assume un ruolo importante nel​​ far conoscere​​ (imprese e prodotti), nel​​ suggerire modelli di comportamento​​ (anche non relativi a prodotti), nel​​ proporre valori​​ (generalmente estranei ai prodotti): dunque, nell’esercitare, a suo modo, una funzione didattica, educativa e anche ideologica. La p. televisiva – con i suoi «testi» brevi o brevissimi, continuamente ripetuti e quindi ampiamente conosciuti, a volte anche divertenti e formalmente pregevoli – si presta ad un efficace lavoro didattico, che può addirittura costituire il primo approccio per una più ampia educazione ai media collegata all’esperienza vissuta concretamente, ogni giorno, dai minori. La proposta di​​ lavorare sulla p.​​ risulta generalmente gradita ai ragazzi, come dimostrano le ormai numerose esperienze compiute anche in molte scuole italiane. La p. viene addirittura definita come «il tema per eccellenza di cui l’insegnante dispone per preparare il ragazzo alla vita adulta. Infatti, più tardi costui sarà lettore, spettatore, telespettatore, consumatore; dovrà effettuare delle scelte. Come si accorgerà di poter essere manipolato? Avrà i mezzi per scoprire la frode? Saprà orientarsi fra la moltitudine di messaggi quotidiani? La scuola deve avvertire il ragazzo che nella vita tali messaggi possono connotare il contrario di quanto denotano, talvolta abilmente dissimulati dietro la falsa scientificità, la falsa referenza, la falsa ingenuità» (Martin, 1982). Il «lavoro sulla p.» è in grado anche di mostrare ai ragazzi la grande ragnatela ideologica che i messaggi commerciali costruiscono giorno per giorno, e può aiutarli a individuare gli artifici, le finalità, i pericoli, il vero e proprio «assalto all’infanzia» spesso perpetrato dal marketing e dalla comunicazione commerciale (Linn, 2005), senza che ciò suoni condanna radicale per una forma di comunicazione che, se rettamente concepita, realizzata e diffusa, può giovare al progresso delle imprese e dell’economia in generale.

3.​​ Etica nella p. Nel documento «Etica nella p.», emanato nel 1997 dal Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, si afferma che la p. «si rivela nel mondo contemporaneo forza persuasiva e potente che influisce sulla mentalità e il comportamento», si delineano «benefici» e «danni» che essa può produrre, si indicano tre principi morali fondamentali «che si applicano specificamente alla p.»: la veridicità, la dignità della persona umana e la responsabilità sociale. Infine, il documento espone alcune misure da adottare per un esercizio responsabile della p.: il miglioramento dei codici volontari di deontologia; l’intervento del potere pubblico per regolamentare contenuti e prassi della p. «al di là della semplice interdizione della p. falsa, in senso stretto»; la diffusione di informazioni critiche sulla p. da parte dei media; la formazione ai media, come parte integrante dei piani pastorali della Chiesa, che contenga «l’insegnamento circa il ruolo della p. nel mondo contemporaneo»; l’impegno dei professionisti della p. perché «ne elimino gli aspetti socialmente dannosi e adottino regole morali di alta qualità».

Bibliografia

Martin M.,​​ Sémiologie de l’image et pédagogie. Pour une pédagogie de la recherche,​​ Paris, PUF, 1982; Kapferer J. N.,​​ L’enfant et la publicité,​​ Paris, Dunod,​​ 1985; Zanacchi A.,​​ Convivere con la p.,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1999; Id.,​​ P.: effetti collaterali, Roma, Editori Riuniti, 2004; Linn S.,​​ Il marketing all’assalto dell’infanzia. Come media,​​ p. e consumi stanno trasformando per sempre il mondo dei bambini,​​ Milano, Orme, 2005.

A. Zanacchi




PUBBLICO / PRIVATO

 

PUBBLICO / PRIVATO

Usati in generale per mettere in risalto due ambiti della vita sociale, i due termini sono qui assunti in riferimento specifico all’istruzione e al​​ ​​ sistema formativo scolastico.

1. Il sistema del servizio scolastico / formativo è infatti indirizzato alla piena realizzazione del diritto all’istruzione, nel quadro dell’attuazione del dovere-diritto dei genitori di mantenere, istruire, educare i figli. La funzione dello Stato è quella di «dettare le norme generali sull’istruzione», in un contesto in cui la​​ ​​ libertà d’insegnamento si esprime non solo sul piano individuale, ma anche sul piano collettivo, riconosciuta come è​​ ​​ insieme con tutti i diritti fondamentali​​ ​​ anche alle comunità o formazioni sociali (​​ legislazione scolastica). La libertà d’insegnamento si pone a fondamento​​ ​​ insieme con la libertà di intrapresa​​ ​​ della libertà di istituire scuole ed istituti di educazione. Come lo Stato, per adempiere al suo compito di rendere effettivo il diritto all’istruzione dei propri cittadini, istituisce proprie scuole per tutti gli ordini e i gradi, così enti e privati possono istituire scuole, per realizzare il medesimo servizio pubblico, onde rendere altresì effettivo il diritto di libera scelta scolastica che compete ai genitori, quale corollario necessario della loro responsabilità in ordine all’istruzione dei figli. In questa concezione che è comune a tutte le costituzioni democratiche ed alle indicazioni di tutti i documenti internazionali concernenti la tutela dei diritti delle persone e dei popoli, sembra superata la distinzione p. / p. che fa perno sull’appartenenza per dire così «catastale» delle singole istituzioni scolastiche e sul loro stato giuridico (se di diritto pubblico o di diritto privato), per distinguere l’istruzione pubblica dall’istruzione privata. In realtà​​ ​​ come riconosciuto dalla maggior parte degli ordinamenti​​ ​​ si tratta di un unico​​ servizio pubblico​​ esplicato sullo stesso piano da soggetti di diritto pubblico e soggetti di diritto privato.

2. Se è vero che, in questo contesto, «l’istruzione​​ non potrebbe più qualificarsi​​ come invece ancora tradizionalmente si fa​​ ​​ quale istruzione​​ pubblica​​ o​​ privata»,​​ ma​​ «pubbliche​​ o​​ private​​ invero sono ormai soltanto le scuole, a seconda che ad esse provveda lo Stato ovvero i privati, mentre l’istruzione resterebbe sempre la stessa» (Pototschnig, 1961), sembra allora assai più appropriato​​ ​​ come fa la Cost. italiana​​ ​​ usare le espressioni​​ scuole pubbliche statali​​ e​​ scuole pubbliche non statali,​​ graduando tra queste ultime diversi livelli di «pubblicità» (cioè partecipazione all’espletamento del servizio pubblico scolastico / formativo), a seconda della maggiore o minore incisività e rilevanza della loro adesione al sistema di diritti ed obblighi stabiliti dallo Stato con la posizione delle «norme generali sull’istruzione» (né pubblica né privata), riguardanti la determinazione di requisiti e condizioni oggettive (standard) per la corretta esplicazione di tale servizio. Si tratterà, cioè, di stabilire i requisiti e le condizioni – validi sia per le scuole istituite da parte dello Stato sia per quelle istituite da soggetti di diritto privato – in base ai quali l’istruzione impartita in esse raggiunga livelli qualitativi e usufruisca di risorse e strumenti (sia sul piano umano sia su quello materiale) oggettivamente uguali o quanto meno equiparabili in ordine al risultato di istruzione che si prevede di ottenere ed alle garanzie di realizzazione dei diritti cui si intende dare attuazione. All’interno delle «norme generali sull’istruzione» (e verificati i requisiti e le condizioni da esse posti) non è possibile giuridicamente individuare alcuna differenziazione tra scuole statali e non statali, che non sia fondata su ragioni e differenziazioni di contenuto e di progetto educativo. Ma ogni discriminazione di tal fatta è esplicitamente negata in nome della libertà ed uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge da ogni costituzione democratica e da tutti i documenti, dichiarazioni e convenzioni internazionali sul riconoscimento e sulla salvaguardia dei diritti fondamentali dell’uomo e dei popoli.

3. Il Parlamento Europeo, con una risoluzione votata a grande maggioranza il 14 marzo 1984 ha affermato che «il diritto alla libertà d’insegnamento implica per sua natura l’obbligo per gli Stati membri di rendere possibile l’esercizio di tale diritto anche sotto il profilo finanziario e di accordare alle scuole le sovvenzioni pubbliche necessarie allo svolgimento dei loro compiti e all’adempimento dei loro obblighi in condizioni eguali a quelle di cui beneficiano gli istituti pubblici corrispondenti senza discriminazioni nei confronti degli organizzatori, dei genitori, degli alunni e del personale». Viene così in luce l’aspetto più problematico​​ ​​ per lo meno per alcuni (come in Italia)​​ ​​ della questione: il problema del finanziamento delle scuole pubbliche non statali. Esso è stato da tempo risolto da molti ordinamenti democratici prendendo come base dell’intervento perequativo della mano pubblica e della sua graduazione la maggiore o minore adesione ai requisiti ed alle condizioni poste dalle «norme generali sull’istruzione». Essi riguardano: l’apertura delle scuole non statali a tutti, senza discriminazioni; il possesso da parte dei docenti dei medesimi requisiti culturali e professionali; l’equipollenza dei programmi scolastici con quelli stabiliti dalle pubbliche autorità, pur tenendo conto che si va diffondendo una sempre più ampia autonomia didattica e programmatica​​ anche​​ per le scuole statali; la partecipazione delle scuole non statali alla programmazione territoriale del sistema di istruzione; l’attivazione di strutture ed organismi di partecipazione con attenzione al coinvolgimento delle famiglie nella gestione dell’istruzione dei figli; la mancanza di scopo di lucro (no-profit)​​ e la pubblicità dei rendiconti relativi all’utilizzazione dei finanziamenti (o la pubblicità dei bilanci); l’idoneità delle strutture edilizie e delle dotazioni strumentali secondo gli​​ standard​​ previsti dalle particolari normative, valide per tutte le scuole, statali e non statali. La maggiore o minore adesione a questi requisiti e caratteristiche, decide del maggiore o minore inserimento​​ ​​ salva sempre la libertà di istruzione​​ ​​ e decide altresì della possibilità delle istituzioni non statali di accedere al finanziamento pubblico del servizio da loro reso. Recentemente la L. n. 62 / 2000 ha introdotto in Italia il principio di un sistema nazionale di istruzione che non si identifica con la sola scuola dello Stato e degli Enti locali, ma del quale sono parte integrante scuola statale e scuola non statale paritaria, riconoscendo il servizio pubblico svolto dalle scuole paritarie, private e degli Enti locali.

Bibliografia

Pototschnig U.,​​ Insegnamento istruzione scuola,​​ Milano, Giuffrè, 1961; Garancini G.,​​ La scuola cattolica in Italia - tra parità ed uguaglianza e tradizione e cambiamento,​​ in «Aggiornamenti Sociali» 44 (1993) 272-292; Malizia G., «La legge 62 / 2000 e la libertà di educazione. Quali prospettive?», in Cssc-Centro Studi Per La Scuola Cattolica,​​ A confronto con le riforme: problemi e prospettive. Scuola cattolica in Italia. Quarto Rapporto, Brescia, La Scuola, 2002, 57-72; Palma A.,​​ Sussidiarietà e formazione in Italia: profili giuridici, in S. Versari (Ed.),​​ La scuola nella società civile tra Stato e mercato, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002, 59-87;​​ Relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della Legge 10 marzo 2000,​​ n. 62, Roma, Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, 2004.

G. Garancini

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