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PSICOPEDAGOGISTA

 

PSICOPEDAGOGISTA

Di recente formazione, questa figura professionale si è precisata con l’affermarsi della​​ ​​ pedagogia come scienza e sua relativa epistemologia. Le funzioni dello p. sono svolte in diversi servizi sociali, scolastici e socio-sanitari pubblici e privati, nonché in libera professione. Nel campo sanitario «il Pedagogista è equiparato allo Psicologo», come da Sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, 13 luglio 1994, n. 763. «Le posizioni funzionali di pedagogista, p. e simili, sono equiparate al profilo professionale dello psicologo di cui all’art. 2 del D.P.R. 20 dicembre 1979 n. 761». I soggetti che le rivestono devono essere in possesso della laurea, acquisita nelle Facoltà Universitarie che ne hanno predisposto i curricoli.

1. Fin dall’antichità la parola «pedagogo» indicava chi si prendeva cura dei minori per istruirli ed educarli. A poco a poco, l’interesse per tale impegno si è amplificato con il diffondersi delle scuole, e, gradualmente, ha preso corpo l’esigenza di sviluppare una «scienza», appunto​​ ​​ la psicopedagogia che se ne occupasse. Ha iniziato il pedagogista​​ ​​ Herbart, nella prima metà del sec. XX, riconoscendole specifiche connotazioni; si è quindi avviato un discorso epistemologico in continua ricerca nei confronti della «pedagogia», dando la possibilità di creare spazi per chi si dedica a un approfondimento teorico ed ai problemi che ne derivano sui fronti dell’educazione (famiglia, scuola, gruppi, ambienti sociosanitari, formazione, reclutamento, orientamento di risorse umane, affido, adozione, sport e tempo libero, cultura, servizi all’infanzia e alla terza età…).

2. Poi con l’articolarsi della pedagogia in «scienze dell’educazione» e impegni educativi in ambienti nuovi (comunità terapeutiche, luoghi di lavoro...), si è utilizzato il termine p. in un senso più comprensivo, con funzioni proprie e competenze specifiche (di pedagogia, psicologia, didattica, tecnologia educativa), che appartenevano al pedagogista. Oggi, lo p. è colui che si dedica alla riflessione teorico-critica sulla natura della scienza pedagogica e sui fattori personali ed ambientali che vi contribuiscono. Il suo ruolo, negli ambienti educativi non è «solitario», ma, pur con qualche difficoltà, deve essere affiancato da un’équipe di altri competenti. Egli in modo particolare ha il compito di predisporre un intervento analitico e progettuale da affidare agli operatori diretti (insegnanti, genitori, operatori pedagogici). A lui compete la preparazione di un progetto organico personalizzato, in situazioni definite, dove si colloca il suo ruolo di figura specialistica.

Bibliografia

Auriemma O.,​​ Nuove figure professionali nella scuola, in «Prospettiva Educazione Permanente» 1-2 (1993) 32-38; Tomisch M.,​​ La funzione dell’operatore psicopedagogico nella scuola: area ponte dell’organizzazione, Atti del Seminario di studio dell’IRRSAE Lombardia, Milano, IRRSAE, 1995; Provveditorato agli Studi di Bergamo,​​ Il servizio psicopedagogico, Bergamo, Provincia di Bergamo, 2000; Trisciuzzi L. (Ed.),​​ Le nuove attività della funzione docente nella scuola della riforma, Firenze, La Nuova Italia, 2001.

G. Morante




PSICOSI

 

PSICOSI

Disturbo psichico caratterizzato da una massiccia regressione dell’Io con conseguente grave disorganizzazione della personalità, per cui viene perduta la capacità dell’esame di realtà. Attualmente, con il termine p. ci si riferisce ad un quadro patologico piuttosto vasto ed articolato. Esso comprende tutta una gamma di disturbi mentali che vanno dalle sindromi cerebrali, alla schizofrenia, agli stati paranoidi, alle p. maniaco-depressive.

1.​​ Cenni storici.​​ Il termine p. viene usato per la prima volta verso la metà del XIX sec. da parte di E.V. Feuchtersleben (1845). È comunque E. Kraepelin (1883) a fornire i primi contributi significativi. Egli sostiene che esiste un disturbo psichico, da lui denominato​​ p. endogena,​​ causato da fattori genetico-costituzionali e non invece da una lesione cerebrale dimostrabile, da un agente tossico-chimico o da disturbi metabolici e ormonali. La​​ p. endogena​​ a sua volta è suddivisa in​​ dementia praecox​​ e in​​ p. maniaco-depressiva.​​ Secondo Kraepelin, e di riflesso secondo la psichiatria classica, tale patologia ha come conseguenza il deterioramento fatale della personalità dell’individuo, per cui non sono possibili interventi terapeutici. L’unica soluzione rimane il ricovero definitivo nell’ospedale psichiatrico. E. Bleuler (1911) suggerisce di sostituire il termine​​ dementia praecox​​ con il termine​​ schizofrenia​​ (dal gr.​​ schizein​​ = dividere e​​ phrén​​ = mente), poiché esso mette meglio in evidenza le caratteristiche della malattia ed in particolare l’azione del meccanismo della scissione. Bleuler inoltre, diversamente da Kraepelin, ipotizza una base psicodinamica del disturbo psicotico. Determinante al riguardo è poi il contributo di S.​​ ​​ Freud. Egli mette in evidenza una sostanziale unità tra i processi psichici della p. e della​​ ​​ nevrosi, senza tuttavia trascurare le notevoli differenze tra i due tipi di patologia. In​​ Nevrosi e p.​​ (1923) egli afferma che mentre la nevrosi è il risultato di un conflitto tra l’Io e l’Es, la p. rappresenta l’analogo esito di un perturbamento nei rapporti tra Io e mondo esterno. Più precisamente, mentre nella nevrosi l’Io, avendo a che fare con pulsioni avvertite come angoscianti, perché disapprovate dal Super-Io, finisce per porsi a servizio del Super-Io e della realtà, nella p. invece, restando in balia dell’Es e in parte del Super-Io, esso perde gravemente i contatti con la realtà e, attraverso il delirio, giunge alla costruzione di una nuova realtà e di un nuovo mondo interno. Diversamente dalla nevrosi, dove è presente la rimozione delle pulsioni ed il ritorno di esse in forma distorta (formazione del sintomo), la p. comporta un disinvestimento dalla realtà ed un successivo tentativo di riguadagnare il senso perduto di essa. Inoltre, mentre nella nevrosi l’Io è cosciente del suo conflitto e lo vive a livello di compromesso con la realtà, nella p. invece non tollera la negoziazione, per cui lavora contro il conflitto e cerca di espellerlo dalla psiche attraverso i​​ ​​ meccanismi di difesa della scissione, della negazione e della proiezione. La conseguenza è l’assenza di coscienza della situazione conflittuale, la perdita dell’esame di realtà e la distruzione delle strutture fondamentali dell’ordine simbolico. Secondo l’ottica freudiana la p. non è considerata accessibile al trattamento psicoterapeutico e ciò a causa della presenza di disordini narcisistici che impediscono al paziente di vivere il transfert. Successivamente i contributi fondamentali di​​ ​​ Klein sulla genesi delle p., collocata nel primo anno di vita, gettano una nuova luce sulla comprensione e sulla curabilità dei disturbi psicotici. La Klein sostiene che oltre ad un transfert nevrotico, esiste un transfert psicotico, su cui è possibile agire. In particolare, sottolinea che alla base della schizofrenia e della paranoia c’è un non adeguato superamento della posizione schizo-paranoide, che il bambino sperimenta nei primi mesi di vita, mentre la genesi della depressione psicotica va individuata nella fissazione alla posizione maniaco-depressiva, propria della seconda parte del primo anno di vita.

2.​​ Nosografia.​​ Abitualmente viene posta la distinzione tra​​ p. organiche,​​ derivanti da una qualche lesione o disfunzione fisica, specie cerebrale, e​​ p. funzionali.​​ Tra quest’ultime sono da segnalare la​​ depressione maniaco-depressiva,​​ la​​ schizofrenia​​ e gli​​ stati paranoidi.

3.​​ Sintomi.​​ I sintomi generali più significativi della p. sono: a) grave distorsione percettiva della realtà (deliri, allucinazioni) e quindi perdita dell’esame di realtà; b) rapporto non efficace con la realtà o ritiro massiccio da essa (appiattimento affettivo, comportamenti catatonici, chiusura sociale); c) regressione a stati narcisistici primitivi; d) netta prevalenza del processo primario su quello secondario e quindi dominanza del pensiero irrazionale su quello razionale (discorso bizzarro, pensiero magico); e) ricorso alla scissione dell’Io e dell’oggetto; f) proiezione di proprie parti «cattive» nell’oggetto e relativa identificazione con esso; g) assenza di autocritica; h) annullamento dei confini tra il Sé e il non-Sé e quindi negazione dell’alterità; i) confusione tra l’immaginario e il reale, tra il mondo interno ed il mondo esterno; l) irrequietezza motoria; m) comportamento eccentrico; n) depressione con idee suicidarie; o) ipocondria.

4.​​ Eziologia.​​ Circa le cause della p. esistono diverse posizioni teoriche. Alcuni insistono di più sui fattori organici, altri su quelli ambientali. Per un chiarimento si rimanda a quanto detto alla voce​​ ​​ psicopatologia.

Bibliografia

Freud S., «Nevrosi e p.», in​​ Opere,​​ vol. 9, Torino, Bollati Boringhieri, 1977, 611-615; Racamier P. C,​​ Gli schizofrenici,​​ Milano, Cortina, 1983; Klein M.,​​ Scritti 1921-1958,​​ Torino, Bollati Boringhieri, 1986; Feinsilver D. B. (Ed.),​​ Un modello comprensivo dei disturbi schizofrenici,​​ Milano, Cortina, 1990; Castellazzi V. L.,​​ Psicopatologia dell’infanzia e dell’adolescenza: Le p.,​​ Roma, LAS, 1991; Lenzenweger M. F. - R. H. Dworkin,​​ Le origini e lo sviluppo della schizofrenia, Roma, CIC Edizioni Internazionali, 2001; Ballerini A.,​​ Patologia di un eremitaggio. Uno studio sull’autismo schizofrenico, Torino, Bollati Boringhieri, 2002;​​ Borgna E.,​​ Come se finisse il mondo. Il senso dell’esperienza schizofrenica, Milano, Feltrinelli, 2002;​​ Resnik S.,​​ Clinica psichiatrica della p. Seminari padovani, Milano, Angeli, 2005;​​ Lorenzi P. - A. Pazzagli,​​ Le p. bianche, Ibid., 2006; De Masi F.,​​ Vulnerabilità della p., Milano, Cortina, 2006.

V. L. Castellazzi




PSICOSOMATICA

 

PSICOSOMATICA

Il termine p. sostanzialmente sta a sottolineare il rapporto strettissimo tra emozioni e malattia. In senso più largo sottolinea l’interconnessione tra psiche e soma che formano un’unità strutturale e funzionale con evidente influenza reciproca. Da ciò deriva la considerazione che qualsiasi fenomeno psichico, cosciente o inconscio, ha delle inevitabili ripercussioni sulla componente somatica e viceversa; questo sia in situazione normale che patologica. La situazione normale spiegherebbe come un buon funzionamento organico può dare sensazioni di benessere psichico e viceversa; mentre la situazione patologica ci spiegherebbe come conflitti psichici possano provocare disfunzioni o danni organici e viceversa.

1.​​ Cenni storici.​​ Sembra che il termine sia stato coniato dal poeta, filosofo e drammaturgo inglese S.T. Coleridge verso il 1790. In medicina però è stato introdotto da psichiatri, abbastanza orientati in senso psicoanalitico, nel 1930, ma alcuni anni prima la dottoressa Flanders Dunbar aveva trattato diffusamente l’argomento. Nel 1932 F. Alexander fondò il​​ Chicago Institute for Psychoanalysis​​ e con i suoi collaboratori condusse approfondite indagini psicoanalitiche sui pazienti fisicamente malati. Erano del parere che tutti i​​ pazienti psicosomatici​​ presentino conflitti relativi alla dipendenza. Nel 1939 è stata fondata la rivista «Psychosomatic Medicine» e all’inizio degli anni ’40 l’American Psychosomatic Society.​​ Oggi mentre alcuni medici vorrebbero non usare questo termine o perché convinti che ogni malattia ha una causa organica o perché convinti che in molte malattie la psiche viene comunque coinvolta, si va facendo sempre più strada la teoria della causalità multipla almeno per molte malattie. Numerosi sono gli psicologi propensi a mantenere la terminologia p. in quanto valida e significativa.

2.​​ Premesse teoriche.​​ Possiamo distinguere tre principali posizioni teoriche a questo riguardo. Una prima posizione identifica l’Io con il proprio soma, quindi i disturbi psichiatrici di qualunque tipo sono disturbi cerebrali e non si fa distinzione tra somatico e psichico. Una seconda considera il somatico e lo psichico come due aspetti della stessa realtà, come due versanti della stessa struttura, quindi si può usare una terminologia diversa per ognuno di essi, tenendo però presente che non si tratta di realtà diverse. Una terza posizione li considera invece come realtà diverse ma così ben armonizzate da costituire una realtà unica: «Homo sapiens». Si deve usare allora terminologia diversa e trattamento differenziato ma complementare. A queste differenti premesse antropologiche conseguono modi differenti di accostamento psicologico e psicoterapeutico. Qualsiasi medico o psicologo o psicoterapeuta ha una sua visione antropologica che implicitamente o esplicitamente è presente nei suoi rapporti con se stesso, con gli altri e in particolare con i pazienti.

3.​​ Uso di tecniche.​​ Quanto all’uso delle tecniche, l’antropologia ha un ruolo molto più secondario che non nella scelta di esse per cui tutto dipende dall’abilità di chi le impiega e anche dalla scuola che segue.

4.​​ Conclusioni.​​ Si potrebbe rapidamente concludere che al momento attuale conviene distinguere: malattie in cui la preponderanza diagnostica e terapeutica è decisamente medica e il contributo dello psicologo, semmai, è di appoggio soltanto; disturbi in cui il ruolo dello psicologo è primario e quello farmacologico è accessorio; forme miste in cui la collaborazione degli specialisti è indispensabile. A quest’ultima categoria appartengono le cosiddette malattie psicosomatiche, fra cui classiche: l’ulcera peptica, in cui bisogna tener conto della presenza dell’Helyco Bacter; l’asma bronchiale; l’artrite reumatoide; l’ipertensione essenziale; la colite ulcerosa; le neurodermatiti e forse alcune forme di cancro. Col progredire degli studi certamente si chiariranno tanti particolari ancora non ben definiti e si potrà offrire un aiuto più consistente ai sofferenti di tali disturbi.

Bibliografia

Alexander F.,​​ Medicina p.,​​ Firenze, Giunti-Barbera, 1972; Deutsch F.,​​ Il misterioso salto dalla mente al corpo,​​ Firenze, Martinelli, 1975; Anochin P. K.,​​ Biologia e neurofisiologia del riflesso condizionato,​​ Roma, Bulzoni, 1975; Ammon G.,​​ P.,​​ Roma, Borla, 1977; Pancheri P.,​​ Stress,​​ emozioni,​​ malattia,​​ Milano, Mondadori, 1980; Guyton A. C.,​​ Neurofisiologia umana.​​ Roma, Il Pensiero Scientifico, 1984; Oliverio A.,​​ Biologia e comportamento,​​ Bologna, Zanichelli, 1986; Ruggieri V.,​​ Semeiotica dei processi psicofisiologici e psicosomatici,​​ Ibid., 1987; Taylor G.,​​ Medicina p. e psicanalisi contemporanea,​​ Roma, Astrolabio, 1993; Pastore L. (Ed.),​​ P. e salute,​​ Roma, Di Renzo, 2001.

V. Polizzi




PSICOTERAPEUTA

 

PSICOTERAPEUTA

Si definisce tale colui che esercita la​​ ​​ psicoterapia. Il termine è entrato nell’uso comune solo da qualche decennio e il suo significato rimanda al complesso dibattito che negli ultimi cinquanta anni si è svolto attorno al concetto stesso di psicoterapia.

1. La figura dello p., dotata di ruolo e formazione professionale propri, inizia a delinearsi alla fine dell’800, parallelamente allo sviluppo della psicoterapia. Già agli inizi del ’900, accanto ad una figura di p. che segue il tradizionale approccio medicalistico – secondo cui il paziente è visto come portatore passivo della malattia, mentre il dottore è l’autorità che esamina «scientificamente» il disturbo e interviene per «controllarlo» – troviamo una figura di p. che, grazie al cambiamento di prospettiva operato dalla​​ ​​ psicoanalisi, orienta la propria attenzione sulla vita interiore del paziente, sulle fantasie e sulle resistenze da lui prodotte, ne interpreta il transfert e le libere associazioni. Dagli studi sull’apprendimento, inoltre, emerge una figura di p. che «addestra» il paziente a usare comportamenti socialmente adeguati. Comunque, in ambedue questi modelli non ci si accosta più alla malattia col rigido distacco della tradizione psichiatrica, ma si cerca di evidenziare nella personalità del paziente le formazioni nevrotiche, allo scopo di convogliarle in attività socialmente più adeguate, con la funzionale collaborazione dell’Io maturo del paziente. In epoca successiva, sotto l’influsso dei fermenti culturali e dell’intenso dibattito filosofico propri della prima metà di questo secolo, lo p. si ispira ai principali assunti dell’esistenzialismo. Considerando la psicoanalisi troppo neutra e passiva, troppo focalizzata sulle fantasie e sugli elementi sessuali, poco attenta alla realtà, ai valori e ai rapporti sociali, lo p. degli anni Cinquanta è interessato più al significato dell’esistenza del paziente, che alla canalizzazione in attività adeguate degli impulsi che producono conflitti sociali. Libero da preconcetti diagnostici o da mirate aspettative terapeutiche, egli partecipa con profonda intensità ai sentimenti del paziente, al suo «esserci», non avendo altro obiettivo se non quello di stargli accanto come un compagno di viaggio. Negli anni Sessanta, poi, gli studi sulla comunicazione umana e sui sistemi relazionali fanno sì che l’interesse dello p. si allarghi dal disagio del singolo paziente al disagio dell’intero contesto relazionale in cui egli è inserito. Accanto all’obiettivo di guardare alla vita interiore del paziente e di aiutarlo a trovare un significato soddisfacente per la sua esistenza, lo p. si pone anche l’obiettivo di migliorarne la qualità delle relazioni.

2. Al di là dell’evoluzione del ruolo dello p. rimangono a tutt’oggi numerose questioni aperte attorno al significato stesso di questa attività professionale. Qual è il compito dello p. nella società del terzo millennio? È quello di proteggere la società dalla presenza inquietante del diverso? O, al contrario, di difendere il singolo individuo di fronte all’azione «normalizzante» prodotta dalla società? In altre parole, il ponte che lega la funzione dello p. come operatore di cambiamento nel microsistema (individuo, famiglia, gruppo, ecc.) alla funzione dello p. come operatore del cambiamento sociale (nel macrosistema) non sempre viene esplicitato nei vari modelli di psicoterapia, col rischio di banalizzare o considerare meccanico il compito di questo professionista, rendendolo così funzionale al sistema sociale e non alla salute del singolo e della comunità. A questi interrogativi lo p. non può fare a meno di rispondere, pena il rischio di manipolare inconsapevolmente, sul piano sociale e politico, l’irriducibile diversità del singolo. La definizione del ruolo e delle qualità proprie dello p., è pertanto inevitabilmente legata al modello teorico di riferimento, e quindi alle relative teorie della personalità e dello sviluppo. Questo problema aperto porta ad un altro aspetto cruciale del compito dello p., che è la diagnosi (e quindi la definizione) di normalità / patologia. È diventata sempre più accreditata, dagli anni ’50 del sec. scorso in poi, la convinzione che non esiste un unico modello di salute / maturità psichica, dato che tale definizione è in effetti influenzata da fattori socio-culturali del peculiare periodo storico a cui ci si riferisce e dai tentativi individuali del paziente di far fronte alle difficoltà. Ciò che invece è unanimemente accettato oggi (anche in seguito alle normative in merito che vanno delineandosi nei vari Paesi europei) è la necessità di un iter di formazione personale e professionale dello p., che da una parte lo renda consapevole delle dinamiche proprie e altrui, connesse ai vari temi della vita e al proprio potere, e dall’altra gli assicuri quelle abilità indispensabili per svolgere adeguatamente la propria professione.

Bibliografia

Giorda R.,​​ Come dovrebbe essere lo p.?,​​ Roma, Città Nuova, 1981; Lewis J. M.,​​ Fare il terapista. Come si insegna,​​ come si impara,​​ Firenze, Martinelli, 1981; Batacchi M. W., «Problemi di identità e di formazione in psicologia clinica», in P. C. Kendall - J. D. Norton-Ford,​​ Psicologia clinica,​​ Bologna, Il Mulino, 1986; De Silvestri C.,​​ Il mestiere dello p., Roma, Astrolabio, 1999.

P. Cavaleri




PSICOTERAPIA

 

PSICOTERAPIA

I vari tentativi di definizione unanime della p. (Bazzi, 1970; Cancrini, 1982) sono andati da un estremo che tende a comprendere in modo ampio qualsiasi processo d’induzione intenzionale di cambiamento del vissuto e del comportamento della persona (dal consiglio dell’amico all’esperienza di estasi) a definizioni più restrittive, limitate alla reale esistenza di un​​ setting​​ terapeutico.

1. Riferendoci a questa seconda impostazione, possiamo dire che occorrono almeno​​ tre condizioni​​ perché un intervento di modificazione del vissuto e del comportamento possa essere definito p.: innanzitutto la domanda da parte del soggetto di modificare qualcosa di sé; secondo, la scelta da parte del soggetto di raggiungere tale scopo con l’aiuto professionale di uno​​ ​​ psicoterapeuta; terzo, il consenso del terapeuta designato ad aiutare il soggetto in quest’impresa, consenso che in genere si accorda all’interno di un quadro normativo di riferimento, specificato nel contratto terapeutico (tempi, luogo, periodicità degli incontri, gestione delle assenze, ecc.). Quando esistono queste condizioni, esiste anche una relazione terapeutica e quindi esiste la p. Potremmo dire pertanto che la p. è una crescita della persona all’interno di una relazione, a prescindere dal modello di riferimento usato per gestire terapeuticamente questa relazione. In tutti quei casi in cui, per qualsiasi motivo, non può esistere questa particolare relazione così definita (anche implicitamente) non ci si può riferire a un intervento psicoterapeutico. Nei casi di invalidazione grave delle capacità relazionali del soggetto non si può impostare un intervento psicoterapeutico su di lui, perché la p. ha bisogno di basarsi su un contratto tra due o più persone, da cui si evinca la volontà condivisa di perseguire gli obiettivi terapeutici.

2. Il concetto di p. si è evoluto dalla fine dell’800, periodo in cui si cominciò a concepire l’idea della psiche, a oggi. A cavallo del secolo, infatti, abbiamo due grandi prospettive sulla cura psicologica, complementari tra loro ma rispondenti allo stesso paradigma culturale: la psicoanalisi e il comportamentismo. Il paradigma culturale era quello di un insanabile conflitto tra spontaneità dello sviluppo individuale ed esigenze del vivere sociale. Mentre per la psicoanalisi la cura del disagio consisteva in una presa d’atto della sua irrisolvibilità, con il conseguente passaggio, necessario allo sviluppo della civiltà, dal principio di piacere al principio di realtà, per il comportamentismo la p. era una forma di apprendimento più o meno attivo delle regole sociali. Tali modi di pensare il rapporto individuo / società, e quindi la cura del disagio psicologico, videro la propria crisi nei primi decenni del ’900. Ciò che accadde fu l’inizio di un pensiero nuovo, il dubbio lancinante che la realtà non fosse una norma da rispettare ma una costruzione percettiva e quindi, come tale, potesse anche essere destrutturata e ricomposta. Il senso stesso della prassi psicoterapica veniva profondamente toccato da problemi di questo tipo. Era infatti il concetto di normalità in sé a essere messo in discussione, insieme con la plausibilità di ogni pretesa definizione oggettiva del reale. La crisi di prescrittività della norma conduceva ad un modo nuovo di guardare il vissuto e la storia personale del paziente. Quest’ultimo reclamava ora dignità di significato e di valore indipendentemente dalla capacità di adeguarsi a parametri precostituiti, mentre diveniva a mano a mano inaccettabile l’idea che la cura dovesse consistere nell’adeguarsi acriticamente a un modello univoco di salute. La p. non poteva più proporsi come strumento di normalizzazione del disagio psichico, ma al contrario diventava il mezzo di una sua valorizzazione, di attribuzione ad esso di un significato quasi salvifico per l’essere umano che, rifiutando di appiattirsi nella routine dell’adattamento sociale, crea un disturbo. La p. diventa ricerca di un’espressione socializzata del disturbo (si pensi al movimento dell’anti-psichiatria e alla chiusura dei manicomi); il vivere sociale non può essere impostato soltanto su criteri di adattamento alle norme prestabilite. ma deve anche basarsi su di un tentativo di comprendere ciò che appare incomprensibile, ciò che non è socializzato. La p., in particolare l’insieme delle p. umanistiche, negli anni Sessanta assunse questo compito quasi «sacerdotale» di innalzamento, traduzione e collocazione sociale della diversità.

3. Passato il fervore di quegli anni, vediamo oggi i frutti, sia positivi che negativi, di una prospettiva sulla cura psicologica che dava estrema centralità ai valori dell’autonomia, al fare esperienza in sé e per sé, alle infinite possibilità dell’essere (non a caso si è parlato di società narcisistica: Larsch, 1981), a scapito dei valori dell’appartenenza, del limite, dell’esserci, dello stare fino in fondo nei ruoli sociali, della rinuncia insita in ogni scelta. È nata così l’esigenza di ricollocare il vissuto psicologico all’interno dei suoi confini spazio-temporali, in prospettiva sincronica (la relazione a cui appartiene) e in prospettiva diacronica (la storia in cui è inserito). La p. è vista allora come un modo di ripristinare una spontaneità di crescita interrotta, come un sostegno specifico da dare alla persona che attraversa una crisi di passaggio da una fase evolutiva all’altra, e che affronta questa crisi con modalità disfunzionali. L’idea è che la p. debba inserirsi nella vita della persona in un momento in cui questa ha bisogno di un sostegno ambientale per ritrovare la propria capacità, momentaneamente perduta, di orientarsi nel mondo e prendere da esso ciò che le serve per vivere, dando al contempo il proprio contributo originale e creativo. Questa concezione della p. non toglie dignità alla vita (siamo ben lontani dal pessimismo freudiano circa il dualismo insanabile tra esigenze individuali ed esigenze sociali), né al significato esistenziale insito in ogni sintomo, come sottolineato negli anni Sessanta, e inoltre attribuisce al disagio psichico una intenzionalità di contatto con il mondo che va appunto ripristinata attraverso una relazione, la relazione terapeutica. Potremmo dire che la p., alla fine del suo percorso, sostituisce la funzione che i riti avevano nelle società tribali: concludere una fase evolutiva ormai passata, sancire l’inizio di nuove competenze relazionali, accogliere nel gruppo sociale la persona che ha saputo assimilare la novità di una crescita (in questo senso la p. è anche momento socializzante per chi vi ricorre).

Bibliografia

Bazzi T.,​​ Le p.,​​ Milano, Rizzoli, 1970; Larsch C.,​​ La cultura del narcisismo,​​ Milano, Bompiani, 1981; Cancrini L.,​​ Guida alla p.,​​ Roma, Editori Riuniti, 1982; Temerari Bari A.,​​ Storia,​​ teorie e tecniche della p.​​ cognitiva, Bari, Laterza, 2004.

M. Spagnuolo Lobb




PSICOTERAPIE scuole

 

PSICOTERAPIE: scuole

Orientarsi tra le scuole di p. è fondamentale per chi si avvicina ad esse, sia in qualità di apprendista che di fruitore o paziente. D’altra parte, l’evoluzione continua che i vari modelli psicoterapici hanno subito e continuano a subire non rende facile questa impresa. Si cercherà qui di fornire un quadro di riferimento storico-evolutivo delle varie scuole: gli approcci principali verranno considerati nel loro nascere come anche nella loro articolazione successiva. Si rimanderà invece alle voci specifiche per un’analisi dettagliata dei contenuti.

1.​​ La psicoanalisi e i modelli psicoanalitici.​​ Fu fondata alla fine dell’800 da S.​​ ​​ Freud e fu da lui sviluppata in quasi cinquanta anni di ricerca. Nata come una teoria unitaria, e mantenuta coerente a se stessa per qualche decennio dalla personalità sintetica del fondatore, si suddivise presto in una grande varietà di scuole e di indirizzi. Già​​ ​​ Adler intorno al 1910 sviluppò una teoria della nevrosi che divergeva da quella freudiana, in quanto in luogo della libido sessuale egli postulava la «volontà di potenza» come forza direttiva della vita umana.​​ ​​ Jung vide l’inconscio non come un insieme di tensioni istintuali in contraddizione tra loro, ma come un insieme di potenzialità dotato di una certa struttura e di una finalità di compensazione dell’eventuale unilateralità della coscienza. Per Jung, inoltre, l’inconscio non consiste solo di precipitati di esperienze infantili, ma anche di profili innati di attività (archetipi), che costituirebbero il deposito di esperienze ancestrali, perché comuni a tutti gli individui in tutte le culture (inconscio collettivo). Uno dei contributi fondamentali di Jung alla metodologia terapeutica è certamente l’elaborazione del concetto di controtransfert, come chiarificazione del significato che la persona del paziente riveste per l’inconscio terapeutico. Jung diede così all’analista la possibilità di scoprire in se stesso un potente strumento terapeutico. O. Rank, con la sua teoria sul trauma della nascita, è da considerarsi come il pioniere di tutte le teorie pregenitali del disagio psichico e come colui che per primo ha focalizzato l’importanza del rapporto madre-bambino nella prima infanzia. Inoltre, la sua considerazione della volontà autonoma del soggetto lo condusse a stabilire uno dei capisaldi della terapia moderna: l’importanza che il paziente faccia nel transfert nuove esperienze affettive, e non soltanto si limiti a ricordare e riconoscere. Anche Rank, come Adler e Jung, limitò il valore dato da Freud alla sessualità infantile e considerò la nevrosi come un iperadattamento a un contesto sociale patologico che rende difficile l’espressione della volontà autonoma e della creatività artistica del soggetto. W. Reich, come si dirà, è il padre delle terapie corporee e lo scopritore della «nevrosi del carattere», una forma di nevrosi che, a differenza della psiconevrosi, non è caratterizzata da sintomi specifici (come ossessioni, fobie, conversioni isteriche), ma da disturbi del carattere. Egli fu tra i primi a reagire alla teoria freudiana dell’istinto di morte e a sostenere la necessità che la psicoanalisi liberasse dalla repressione sessuale sociale (tesi sostenuta da Reich nel suo rapporto su «La prevenzione sociale delle nevrosi» con tale forza da provocare la risposta freudiana ne «Il disagio della civiltà»). Alcuni seguaci di Freud, come Horney,​​ ​​ Fromm e Sullivan, influenzati dalla teoria adleriana, diedero maggiore rilevanza al conflitto attuale e, di conseguenza, ottennero che nella terapia si prestasse attenzione non tanto al passato quanto al presente. La loro scuola è conosciuta come​​ Neoanalisi.​​ Per l’accento posto sull’adattamento alle condizioni sociali vigenti, e per aver limitato l’obiettivo del processo terapeutico ad una conoscenza di sé appena sufficiente per adattarsi alle situazioni conflittuali, i neoanalisti furono accusati di conformismo dai freudiani ortodossi. Negli anni Cinquanta del XX sec. lo sviluppo della psicoanalisi è legato al cosiddetto «gruppo di New York», che, soprattutto attraverso H. Hartman, E. Kris, R. Loewenstein, diede importanti contributi alla psicologia dell’Io ed evidenziò, specie con Hartman, il ruolo della​​ intenzionalità.​​ I meccanismi di difesa non furono visti soltanto in termini patologici, ma anche come normali stadi del processo di sviluppo. Molti altri autori si sono distinti negli ultimi anni. Citiamo, tra gli altri, Reik, Federn, Alexander e Lacan. A sua volta la​​ Terapia psicoanalitica delle relazioni oggettuali,​​ sviluppatasi negli ultimi trent’anni, considera i conflitti come una manifestazione di strutture psichiche interne, definite relazioni oggettuali. La nascita di questo approccio non trova collocazione in un’opera specifica, in quanto avvenne in maniera progressiva, dall’elaborazione di alcuni aspetti della teoria di M. Klein (in particolare gli studi sulla fase pre-edipica dello sviluppo del bambino) e di alcuni spunti forniti da H. Hartman. Si possono fare risalire gli inizi di questa scuola a due movimenti di ricerca sviluppatisi parallelamente: quello di Winnicott (che in Inghilterra aveva fondato la «terza scuola» psicoanalitica, dopo le due antagoniste di M. Klein e di A. Freud) e quello rappresentato dalla Mahler e da Jacobson negli Stati Uniti. Attualmente, l’autore fondamentale di questa scuola è Kernberg, mentre Kohut è considerato in parte l’esponente di un pensiero autonomo. La terapia delle relazioni oggettuali, parallelamente ad altri modelli contemporanei, ha consentito di affrontare nuove patologie quali la sindrome borderline e il narcisismo.

2. Le terapie corporee.​​ Le terapie corporee si prefiggono l’obiettivo di cambiare il vissuto e il comportamento della persona agendo sul corpo. Tutte si rifanno al parallelismo messo in luce da W. Reich tra tensioni psichiche e tensioni corporee, e sottolineano l’importanza di liberare l’uomo dalle repressioni culturali per riportarlo allo stato di funzionalità primordiale. Esse si sono sviluppate in due articolazioni fondamentali: gli approcci elaborati dai diretti allievi di Reich e i modelli che si prefiggono di raggiungere il cambiamento della persona attraverso un’attività di rilassamento, di ampliamento della consapevolezza del corpo e d’integrazione tra corpo e mente o tra corpo, mente e spirito (Schützenberger-Sauret, 1978). A questo secondo gruppo appartengono tutte le tecniche di rilassamento, più o meno corrispondenti a una articolata elaborazione teorica, dal​​ ​​ training autogeno​​ di Schultz, all’eutonia​​ di G. Alexander, al​​ metodo Feldenkrais,​​ al​​ rebirthing,​​ all’urlo primario,​​ ecc. Al primo gruppo appartengono invece fondamentalmente la bioenergetica di A. Lowen, che sviluppa l’analisi del carattere di Reich in termini clinici strutturati, e la teoria psicosomatica di S. Keleman.

3.​​ L’approccio cognitivo-comportamentale.​​ Per quanto riguarda il comportamentismo rimandiamo alla voce specifica su questo dizionario. Le scuole cognitive nacquero negli anni sessanta dallo sviluppo degli studi sulle cognizioni e sui pensieri dell’individuo come fonte principale dei disturbi psicologici. Come le terapie comportamentali, esse assumono che l’individuo impara dall’esperienza passata e usa tale apprendimento come guida per il comportamento futuro, che risulta dettato quindi dalla rappresentazione cognitiva formatasi nel soggetto riguardo alle situazioni interpersonali e fisiche e alle prospettive ipotizzabili. La terapia cognitiva si propose pertanto di modificare sentimenti e comportamenti del paziente modificandone i pensieri e si inserì​​ ​​ in maniera originale rispetto alle terapie emozionali​​ ​​ nel quadro culturale e filosofico di metà secolo, dove si sentiva forte la necessità di rafforzare l’Io. Anche se possiamo rintracciare una connotazione «cognitiva» negli orientamenti terapeutici più tradizionali (come la psicoanalisi), la terapia cognitiva ha una sua autonomia di definizione in quanto si concentra sui sintomi evidenti, presta meno attenzione all’infanzia del paziente e al processo transferale. Attualmente i tre orientamenti rappresentativi della terapia cognitiva sono: la​​ terapia razionale-emotiva​​ di Ellis, la​​ terapia cognitiva per la depressione​​ di Beck e i​​ costrutti personali​​ di Kelly. Le teorie cognitive e quelle comportamentali sono state di recente integrate nella forma di interventi terapeutici cognitivo-comportamentali e cognitivo-costruttivisti (Kendall-Hollon, 1979;​​ Meichenbaum, 1977). Tale integrazione parte dal presupposto che l’organismo umano reagisce alla rappresentazione cognitiva dell’ambiente, non all’ambiente in sé, che queste rappresentazioni cognitive sono correlate ai processi di apprendimento, che la maggior parte dell’apprendimento umano è mediato da strutture cognitive e che pensieri, sentimenti e comportamenti interagiscono tra di loro in modo causale (Mahoney, 1974). Tra i vari approcci, citiamo la tecnica della​​ vaccinazione allo stress​​ di Meichenbaum, la tecnica della​​ ristrutturazione razionale sistematica,​​ una strategia simile alla RET, i​​ metodi autoistruttivi​​ con i bambini e infine la teoria dell’efficacia personale​​ di Bandura.

4.​​ L’approccio esistenziale.​​ Intorno al 1930 si sviluppò, fondamentalmente in Europa, un approccio filosofico e psicoterapico che si opponeva al dominio del razionalismo e delle scienze empiriche. Mentre la scienza, infatti, guarda all’individuo in quanto sostanza o meccanismo, questo approccio sostiene che l’uomo deve essere capito in quanto​​ esistenza​​ (nel significato letterale di​​ ex-sistere).​​ Influenzata dalla fenomenologia di Husserl e radicata nel pensiero di Kierkegaard, la filosofia esistenziale nasce con Heidegger e si sviluppa poi nel pensiero di Sartre, di​​ ​​ Buber, di Jaspers e di altri. Essa è stata applicata al campo clinico da alcuni psichiatri europei, per es. Binswanger,​​ ​​ Frankl, Boss, e da Rollo May negli Stati Uniti. Più che un approccio psicoterapico, l’esistenzialismo rappresenta un orientamento verso la comprensione della natura e del significato dell’esistenza umana. Secondo questo approccio la p. è essenzialmente un incontro. Il terapeuta deve essere capace di relazionarsi al paziente, come ha sottolineato Binswanger, come «un’esistenza che comunica con un’altra». L’ideale dell’incontro autentico è espresso nei termini di Buber come «io-tu». È una relazione fondata sull’apertura fiduciosa e sul rispetto per la soggettività dell’altro. Il terapeuta, vedendo il paziente come un partner esistenziale piuttosto che come un oggetto di ricerca, gli dà la possibilità di non percepirsi più come un oggetto controllato da forze esterne. L’obiettivo ultimo della p. è far sì che il paziente sperimenti il limite imposto dalla realtà della propria esistenza come ciò che lo definisce, lo concretizza e lo arricchisce.

5.​​ Le p. umanistiche.​​ Si comprendono con questa denominazione alcune scuole di p. sorte sotto l’ispirazione di un movimento culturale degli anni Cinquanta, il Movimento per lo Sviluppo del Potenziale Umano. Esso fu costituito da molti analisti e professionisti colti del tempo (in gran parte europei emigrati durante la Seconda Guerra Mondiale negli Stati Uniti), che facevano riferimento dal punto di vista antropologico alle idee di Martin Buber, e si collocavano nello sfondo epistemologico delle terapie esistenziali. Il nascere delle terapie umanistiche è caratterizzato anche dal fenomeno degli incontri di gruppo che emerse per esigenze legate alla Seconda Guerra Mondiale e al Dopoguerra e divenne poi molto comune in quegli anni. Le attività di gruppo si diffusero in vari campi clinici ed educativi, da gruppi di psicotici a gruppi di crescita per nevrotici, ai gruppi autogestiti per alcolisti, ai​​ T-groups,​​ ai​​ sensitivity groups,​​ ai gruppi terapeutici. Non si possono considerare qui le innumerevoli tecniche e gli approcci psicoterapici nati in quegli anni. Rimandiamo alle voci relative alle tre scuole fondamentali che si inserirono in questo movimento con un corpo teorico e una metodologia della prassi strutturati: la​​ terapia centrata sul cliente​​ fondata da C.​​ ​​ Rogers; la​​ p.​​ della​​ ​​ Gestalt​​ fondata da F. Perls;​​ l’​​ ​​ analisi transazionale,​​ fondata da E. Berne.

6.​​ La terapia della famiglia.​​ Negli ultimi trent’anni si è assistito ad un crescente interesse per la terapia familiare. Essa è stata oggetto di considerazione da parte di un movimento che si avviò contemporaneamente in diverse parti degli Stati Uniti, ad opera di terapeuti di notevole prestigio, in un clima (quello degli anni a cavallo tra il ’50 e il ’60) di grande fermento di studi sperimentali sul modo di affrontare i problemi psichiatrici dei pazienti adulti come anche i problemi di adattamento sociale dei bambini immigrati o appartenenti a strati sociali emarginati. Una particolarità della nascita di questo movimento, che ne influenzò certamente i contenuti e la metodologia, fu il fatto che i suoi fondatori erano per lo più accademici, antropologi e filosofi (come G. Bateson), o psichiatri impegnati nella cura di pazienti gravi (come N. Ackerman). Ciò consentì alla terapia familiare di affrontare problemi gravi, spesso considerati insolubili, in maniera nuova dal punto di vista epistemologico e con quel coraggioso atteggiamento sperimentale che le situazioni difficili a volte stimolano. La pubblicazione della rivista «Family Process», nel 1962, segna la nascita ufficiale della terapia familiare. I fondatori furono N. Ackerman, uno psichiatra infantile fondatore dell’Istituto di New York e D. Jackson, uno degli psichiatri dell’Istituto di Palo Alto. Tra gli autori fondamentali di questo approccio citiamo Murray Bowen, uno psichiatra specializzato nel trattamento di bambini psicotici che focalizzò il proprio interesse sui processi di simbiosi (massificazione) e di differenziazione (individuazione) all’interno della famiglia; C. Whithaker, il più stravagante tra i fondatori, che estese la definizione clinica della famiglia fino a comprendervi la terza generazione; G. Bateson, che ispirò uno dei gruppi più importanti per la nascita della terapia familiare, quello di Palo Alto, e che attraverso lo studio degli aspetti paradossali della comunicazione e delle gerarchie di tipi logici aveva notato come questo tipo di comunicazione è alla base dell’umorismo, dell’ipnosi e delle verbalizzazioni apparentemente assurde degli schizofrenici. Nel 1956 Bateson, assieme a J. Haley, un esperto di comunicazione, e J. Weakland, un ingegnere chimico che si interessava di antropologia, e a D. Jackson, pubblicò un articolo che sarebbe divenuto storico,​​ Toward a theory of schizophrenia,​​ in cui gli autori introducevano il concetto di doppio legame. Un altro importante gruppo di questo approccio è il​​ Mental Research Institute,​​ fondato da D. Jackson nel 1959 a cui si associò V. Satir che, pur essendo fortemente influenzata dal gruppo di Palo Alto, nel corso degli anni se ne distaccò per coinvolgersi sempre di più nel Movimento per lo Sviluppo del Potenziale Umano. Anche il gruppo del Family Institute of Philadelphia contribuì in modo rilevante alla fondazione della Terapia Familiare. Al suo interno lavorarono L. Boszormenyi-Nagy, uno psichiatra, e i suoi collaboratori, tra cui J. Framo e G. Zuk. Essi organizzarono il primo programma strutturato di formazione in Europa e formarono migliaia di professionisti. Tra il 1960 e il 1980 nacquero numerosi centri di formazione ed è impossibile rendere giustizia a tutti i programmi e a tutte le personalità che emersero in questo periodo (Gurman-Kniskern, 1995). Originariamente centrate solo sulla prospettiva sistemico-relazionale del disagio psichico, le terapie familiari tendono oggi a integrare competenze sulle dinamiche psicologiche individuali, affinché il terapeuta riesca a orientarsi sia tra i vissuti dei membri della famiglia che tra i propri.

Bibliografia

Mahoney M. J.,​​ Cognition and behavior modification,​​ Cambridge, Mass., Ballinger, 1974; Meichenbaum D.,​​ Cognitive-behavior modification: an integrative approach,​​ New York, Plenum, 1977; Schutzenberger A. A. - M. J. Sauret,​​ Il​​ corpo e il gruppo,​​ Roma, Astrolabio, 1978; Kendall P. C. - S. D. Hollon (Edd.),​​ Cognitive-behavioral interventions: theory,​​ research,​​ and procedures,​​ New York, Academic Press, 1979; Horner A. J.,​​ Relazioni oggettuali. Teoria e trattamento,​​ Milano, Cortina, 1993; Gurman S. - D. P. Kniskern (Edd.),​​ Manuale di terapia della famiglia,​​ Torino, Bollati Boringhieri, 1995; Nuzzo M. L. (Ed.),​​ Costruttivismo e p. Cinque scuole a confronto, Ancona, Pequod, 2002.

M. Spagnuolo Lobb