PSICOTERAPIE: scuole
Orientarsi tra le scuole di p. è fondamentale per chi si avvicina ad esse, sia in qualità di apprendista che di fruitore o paziente. D’altra parte, l’evoluzione continua che i vari modelli psicoterapici hanno subito e continuano a subire non rende facile questa impresa. Si cercherà qui di fornire un quadro di riferimento storico-evolutivo delle varie scuole: gli approcci principali verranno considerati nel loro nascere come anche nella loro articolazione successiva. Si rimanderà invece alle voci specifiche per un’analisi dettagliata dei contenuti.
1. La psicoanalisi e i modelli psicoanalitici. Fu fondata alla fine dell’800 da S. → Freud e fu da lui sviluppata in quasi cinquanta anni di ricerca. Nata come una teoria unitaria, e mantenuta coerente a se stessa per qualche decennio dalla personalità sintetica del fondatore, si suddivise presto in una grande varietà di scuole e di indirizzi. Già → Adler intorno al 1910 sviluppò una teoria della nevrosi che divergeva da quella freudiana, in quanto in luogo della libido sessuale egli postulava la «volontà di potenza» come forza direttiva della vita umana. → Jung vide l’inconscio non come un insieme di tensioni istintuali in contraddizione tra loro, ma come un insieme di potenzialità dotato di una certa struttura e di una finalità di compensazione dell’eventuale unilateralità della coscienza. Per Jung, inoltre, l’inconscio non consiste solo di precipitati di esperienze infantili, ma anche di profili innati di attività (archetipi), che costituirebbero il deposito di esperienze ancestrali, perché comuni a tutti gli individui in tutte le culture (inconscio collettivo). Uno dei contributi fondamentali di Jung alla metodologia terapeutica è certamente l’elaborazione del concetto di controtransfert, come chiarificazione del significato che la persona del paziente riveste per l’inconscio terapeutico. Jung diede così all’analista la possibilità di scoprire in se stesso un potente strumento terapeutico. O. Rank, con la sua teoria sul trauma della nascita, è da considerarsi come il pioniere di tutte le teorie pregenitali del disagio psichico e come colui che per primo ha focalizzato l’importanza del rapporto madre-bambino nella prima infanzia. Inoltre, la sua considerazione della volontà autonoma del soggetto lo condusse a stabilire uno dei capisaldi della terapia moderna: l’importanza che il paziente faccia nel transfert nuove esperienze affettive, e non soltanto si limiti a ricordare e riconoscere. Anche Rank, come Adler e Jung, limitò il valore dato da Freud alla sessualità infantile e considerò la nevrosi come un iperadattamento a un contesto sociale patologico che rende difficile l’espressione della volontà autonoma e della creatività artistica del soggetto. W. Reich, come si dirà, è il padre delle terapie corporee e lo scopritore della «nevrosi del carattere», una forma di nevrosi che, a differenza della psiconevrosi, non è caratterizzata da sintomi specifici (come ossessioni, fobie, conversioni isteriche), ma da disturbi del carattere. Egli fu tra i primi a reagire alla teoria freudiana dell’istinto di morte e a sostenere la necessità che la psicoanalisi liberasse dalla repressione sessuale sociale (tesi sostenuta da Reich nel suo rapporto su «La prevenzione sociale delle nevrosi» con tale forza da provocare la risposta freudiana ne «Il disagio della civiltà»). Alcuni seguaci di Freud, come Horney, → Fromm e Sullivan, influenzati dalla teoria adleriana, diedero maggiore rilevanza al conflitto attuale e, di conseguenza, ottennero che nella terapia si prestasse attenzione non tanto al passato quanto al presente. La loro scuola è conosciuta come Neoanalisi. Per l’accento posto sull’adattamento alle condizioni sociali vigenti, e per aver limitato l’obiettivo del processo terapeutico ad una conoscenza di sé appena sufficiente per adattarsi alle situazioni conflittuali, i neoanalisti furono accusati di conformismo dai freudiani ortodossi. Negli anni Cinquanta del XX sec. lo sviluppo della psicoanalisi è legato al cosiddetto «gruppo di New York», che, soprattutto attraverso H. Hartman, E. Kris, R. Loewenstein, diede importanti contributi alla psicologia dell’Io ed evidenziò, specie con Hartman, il ruolo della intenzionalità. I meccanismi di difesa non furono visti soltanto in termini patologici, ma anche come normali stadi del processo di sviluppo. Molti altri autori si sono distinti negli ultimi anni. Citiamo, tra gli altri, Reik, Federn, Alexander e Lacan. A sua volta la Terapia psicoanalitica delle relazioni oggettuali, sviluppatasi negli ultimi trent’anni, considera i conflitti come una manifestazione di strutture psichiche interne, definite relazioni oggettuali. La nascita di questo approccio non trova collocazione in un’opera specifica, in quanto avvenne in maniera progressiva, dall’elaborazione di alcuni aspetti della teoria di M. Klein (in particolare gli studi sulla fase pre-edipica dello sviluppo del bambino) e di alcuni spunti forniti da H. Hartman. Si possono fare risalire gli inizi di questa scuola a due movimenti di ricerca sviluppatisi parallelamente: quello di Winnicott (che in Inghilterra aveva fondato la «terza scuola» psicoanalitica, dopo le due antagoniste di M. Klein e di A. Freud) e quello rappresentato dalla Mahler e da Jacobson negli Stati Uniti. Attualmente, l’autore fondamentale di questa scuola è Kernberg, mentre Kohut è considerato in parte l’esponente di un pensiero autonomo. La terapia delle relazioni oggettuali, parallelamente ad altri modelli contemporanei, ha consentito di affrontare nuove patologie quali la sindrome borderline e il narcisismo.
2. Le terapie corporee. Le terapie corporee si prefiggono l’obiettivo di cambiare il vissuto e il comportamento della persona agendo sul corpo. Tutte si rifanno al parallelismo messo in luce da W. Reich tra tensioni psichiche e tensioni corporee, e sottolineano l’importanza di liberare l’uomo dalle repressioni culturali per riportarlo allo stato di funzionalità primordiale. Esse si sono sviluppate in due articolazioni fondamentali: gli approcci elaborati dai diretti allievi di Reich e i modelli che si prefiggono di raggiungere il cambiamento della persona attraverso un’attività di rilassamento, di ampliamento della consapevolezza del corpo e d’integrazione tra corpo e mente o tra corpo, mente e spirito (Schützenberger-Sauret, 1978). A questo secondo gruppo appartengono tutte le tecniche di rilassamento, più o meno corrispondenti a una articolata elaborazione teorica, dal → training autogeno di Schultz, all’eutonia di G. Alexander, al metodo Feldenkrais, al rebirthing, all’urlo primario, ecc. Al primo gruppo appartengono invece fondamentalmente la bioenergetica di A. Lowen, che sviluppa l’analisi del carattere di Reich in termini clinici strutturati, e la teoria psicosomatica di S. Keleman.
3. L’approccio cognitivo-comportamentale. Per quanto riguarda il comportamentismo rimandiamo alla voce specifica su questo dizionario. Le scuole cognitive nacquero negli anni sessanta dallo sviluppo degli studi sulle cognizioni e sui pensieri dell’individuo come fonte principale dei disturbi psicologici. Come le terapie comportamentali, esse assumono che l’individuo impara dall’esperienza passata e usa tale apprendimento come guida per il comportamento futuro, che risulta dettato quindi dalla rappresentazione cognitiva formatasi nel soggetto riguardo alle situazioni interpersonali e fisiche e alle prospettive ipotizzabili. La terapia cognitiva si propose pertanto di modificare sentimenti e comportamenti del paziente modificandone i pensieri e si inserì in maniera originale rispetto alle terapie emozionali nel quadro culturale e filosofico di metà secolo, dove si sentiva forte la necessità di rafforzare l’Io. Anche se possiamo rintracciare una connotazione «cognitiva» negli orientamenti terapeutici più tradizionali (come la psicoanalisi), la terapia cognitiva ha una sua autonomia di definizione in quanto si concentra sui sintomi evidenti, presta meno attenzione all’infanzia del paziente e al processo transferale. Attualmente i tre orientamenti rappresentativi della terapia cognitiva sono: la terapia razionale-emotiva di Ellis, la terapia cognitiva per la depressione di Beck e i costrutti personali di Kelly. Le teorie cognitive e quelle comportamentali sono state di recente integrate nella forma di interventi terapeutici cognitivo-comportamentali e cognitivo-costruttivisti (Kendall-Hollon, 1979; Meichenbaum, 1977). Tale integrazione parte dal presupposto che l’organismo umano reagisce alla rappresentazione cognitiva dell’ambiente, non all’ambiente in sé, che queste rappresentazioni cognitive sono correlate ai processi di apprendimento, che la maggior parte dell’apprendimento umano è mediato da strutture cognitive e che pensieri, sentimenti e comportamenti interagiscono tra di loro in modo causale (Mahoney, 1974). Tra i vari approcci, citiamo la tecnica della vaccinazione allo stress di Meichenbaum, la tecnica della ristrutturazione razionale sistematica, una strategia simile alla RET, i metodi autoistruttivi con i bambini e infine la teoria dell’efficacia personale di Bandura.
4. L’approccio esistenziale. Intorno al 1930 si sviluppò, fondamentalmente in Europa, un approccio filosofico e psicoterapico che si opponeva al dominio del razionalismo e delle scienze empiriche. Mentre la scienza, infatti, guarda all’individuo in quanto sostanza o meccanismo, questo approccio sostiene che l’uomo deve essere capito in quanto esistenza (nel significato letterale di ex-sistere). Influenzata dalla fenomenologia di Husserl e radicata nel pensiero di Kierkegaard, la filosofia esistenziale nasce con Heidegger e si sviluppa poi nel pensiero di Sartre, di → Buber, di Jaspers e di altri. Essa è stata applicata al campo clinico da alcuni psichiatri europei, per es. Binswanger, → Frankl, Boss, e da Rollo May negli Stati Uniti. Più che un approccio psicoterapico, l’esistenzialismo rappresenta un orientamento verso la comprensione della natura e del significato dell’esistenza umana. Secondo questo approccio la p. è essenzialmente un incontro. Il terapeuta deve essere capace di relazionarsi al paziente, come ha sottolineato Binswanger, come «un’esistenza che comunica con un’altra». L’ideale dell’incontro autentico è espresso nei termini di Buber come «io-tu». È una relazione fondata sull’apertura fiduciosa e sul rispetto per la soggettività dell’altro. Il terapeuta, vedendo il paziente come un partner esistenziale piuttosto che come un oggetto di ricerca, gli dà la possibilità di non percepirsi più come un oggetto controllato da forze esterne. L’obiettivo ultimo della p. è far sì che il paziente sperimenti il limite imposto dalla realtà della propria esistenza come ciò che lo definisce, lo concretizza e lo arricchisce.
5. Le p. umanistiche. Si comprendono con questa denominazione alcune scuole di p. sorte sotto l’ispirazione di un movimento culturale degli anni Cinquanta, il Movimento per lo Sviluppo del Potenziale Umano. Esso fu costituito da molti analisti e professionisti colti del tempo (in gran parte europei emigrati durante la Seconda Guerra Mondiale negli Stati Uniti), che facevano riferimento dal punto di vista antropologico alle idee di Martin Buber, e si collocavano nello sfondo epistemologico delle terapie esistenziali. Il nascere delle terapie umanistiche è caratterizzato anche dal fenomeno degli incontri di gruppo che emerse per esigenze legate alla Seconda Guerra Mondiale e al Dopoguerra e divenne poi molto comune in quegli anni. Le attività di gruppo si diffusero in vari campi clinici ed educativi, da gruppi di psicotici a gruppi di crescita per nevrotici, ai gruppi autogestiti per alcolisti, ai T-groups, ai sensitivity groups, ai gruppi terapeutici. Non si possono considerare qui le innumerevoli tecniche e gli approcci psicoterapici nati in quegli anni. Rimandiamo alle voci relative alle tre scuole fondamentali che si inserirono in questo movimento con un corpo teorico e una metodologia della prassi strutturati: la terapia centrata sul cliente fondata da C. → Rogers; la p. della → Gestalt fondata da F. Perls; l’ → analisi transazionale, fondata da E. Berne.
6. La terapia della famiglia. Negli ultimi trent’anni si è assistito ad un crescente interesse per la terapia familiare. Essa è stata oggetto di considerazione da parte di un movimento che si avviò contemporaneamente in diverse parti degli Stati Uniti, ad opera di terapeuti di notevole prestigio, in un clima (quello degli anni a cavallo tra il ’50 e il ’60) di grande fermento di studi sperimentali sul modo di affrontare i problemi psichiatrici dei pazienti adulti come anche i problemi di adattamento sociale dei bambini immigrati o appartenenti a strati sociali emarginati. Una particolarità della nascita di questo movimento, che ne influenzò certamente i contenuti e la metodologia, fu il fatto che i suoi fondatori erano per lo più accademici, antropologi e filosofi (come G. Bateson), o psichiatri impegnati nella cura di pazienti gravi (come N. Ackerman). Ciò consentì alla terapia familiare di affrontare problemi gravi, spesso considerati insolubili, in maniera nuova dal punto di vista epistemologico e con quel coraggioso atteggiamento sperimentale che le situazioni difficili a volte stimolano. La pubblicazione della rivista «Family Process», nel 1962, segna la nascita ufficiale della terapia familiare. I fondatori furono N. Ackerman, uno psichiatra infantile fondatore dell’Istituto di New York e D. Jackson, uno degli psichiatri dell’Istituto di Palo Alto. Tra gli autori fondamentali di questo approccio citiamo Murray Bowen, uno psichiatra specializzato nel trattamento di bambini psicotici che focalizzò il proprio interesse sui processi di simbiosi (massificazione) e di differenziazione (individuazione) all’interno della famiglia; C. Whithaker, il più stravagante tra i fondatori, che estese la definizione clinica della famiglia fino a comprendervi la terza generazione; G. Bateson, che ispirò uno dei gruppi più importanti per la nascita della terapia familiare, quello di Palo Alto, e che attraverso lo studio degli aspetti paradossali della comunicazione e delle gerarchie di tipi logici aveva notato come questo tipo di comunicazione è alla base dell’umorismo, dell’ipnosi e delle verbalizzazioni apparentemente assurde degli schizofrenici. Nel 1956 Bateson, assieme a J. Haley, un esperto di comunicazione, e J. Weakland, un ingegnere chimico che si interessava di antropologia, e a D. Jackson, pubblicò un articolo che sarebbe divenuto storico, Toward a theory of schizophrenia, in cui gli autori introducevano il concetto di doppio legame. Un altro importante gruppo di questo approccio è il Mental Research Institute, fondato da D. Jackson nel 1959 a cui si associò V. Satir che, pur essendo fortemente influenzata dal gruppo di Palo Alto, nel corso degli anni se ne distaccò per coinvolgersi sempre di più nel Movimento per lo Sviluppo del Potenziale Umano. Anche il gruppo del Family Institute of Philadelphia contribuì in modo rilevante alla fondazione della Terapia Familiare. Al suo interno lavorarono L. Boszormenyi-Nagy, uno psichiatra, e i suoi collaboratori, tra cui J. Framo e G. Zuk. Essi organizzarono il primo programma strutturato di formazione in Europa e formarono migliaia di professionisti. Tra il 1960 e il 1980 nacquero numerosi centri di formazione ed è impossibile rendere giustizia a tutti i programmi e a tutte le personalità che emersero in questo periodo (Gurman-Kniskern, 1995). Originariamente centrate solo sulla prospettiva sistemico-relazionale del disagio psichico, le terapie familiari tendono oggi a integrare competenze sulle dinamiche psicologiche individuali, affinché il terapeuta riesca a orientarsi sia tra i vissuti dei membri della famiglia che tra i propri.
Bibliografia
Mahoney M. J., Cognition and behavior modification, Cambridge, Mass., Ballinger, 1974; Meichenbaum D., Cognitive-behavior modification: an integrative approach, New York, Plenum, 1977; Schutzenberger A. A. - M. J. Sauret, Il corpo e il gruppo, Roma, Astrolabio, 1978; Kendall P. C. - S. D. Hollon (Edd.), Cognitive-behavioral interventions: theory, research, and procedures, New York, Academic Press, 1979; Horner A. J., Relazioni oggettuali. Teoria e trattamento, Milano, Cortina, 1993; Gurman S. - D. P. Kniskern (Edd.), Manuale di terapia della famiglia, Torino, Bollati Boringhieri, 1995; Nuzzo M. L. (Ed.), Costruttivismo e p. Cinque scuole a confronto, Ancona, Pequod, 2002.
M. Spagnuolo Lobb