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PREADOLESCENZA

 

PREADOLESCENZA

L’età situata tra la fine della fanciullezza (​​ fanciullo) e l’inizio dell’​​ ​​ adolescenza vera e propria è una fase di transizione particolare che presenta aspetti di difficile interpretazione e pone soprattutto problemi educativi e sociali di notevole rilevanza.

1.​​ Il​​ segmento p. nell’arco evolutivo.​​ Non più bambini e non ancora adolescenti: ecco la condizione dei ragazzi dai 10 ai 14 anni. Su di loro è concentrata una mole di interventi educativi che è senza pari in qualsiasi altra fase dell’intero arco evolutivo. Eppure il mondo psicologico della p. appare ancora un «continente sommerso». La p. infatti, usualmente poco nota come periodo a se stante, sembra indicare una fascia d’anni piuttosto fugace, un’età dai confini incerti e con «crescite» più nascoste che appariscenti. In concomitanza con l’evoluzione puberale, si assiste (lungo il breve volgere di 3-4 anni) ad un susseguirsi di profonde e rapide trasformazioni fisiche, psicologiche e sociali che segnano in modo globale e irreversibile lo sviluppo della personalità. È l’età delle grandi «migrazioni». Tra esse ricordiamo: l’addio al corpo del bambino, con lo sviluppo fisico e puberale; l’uscita dalla famiglia e l’entrata nel mondo dei coetanei; la crisi della «religione di chiesa», con la caduta di appartenenza e l’avvio ad una religiosità più soggettiva e personalizzata; la «presa delle distanze» dalla scuola, con crescente aumento (per ampie fasce di soggetti) della demotivazione all’apprendimento; il passaggio lento e graduale dalla logica operativa a quella formale; il transito dalle identificazioni ad un primo avvio verso l’identità personale e sociale.

2.​​ La configurazione attuale della p.​​ La p. oggi sembra delinearsi per le seguenti caratteristiche: è un’età caratterizzata da un movimento di uscita dalla famiglia e da uno di «entrata nel mondo sociale»; è una nuova età di scoperta; rappresenta una fase di nuova relazionalità amicale; è ancora un’età di multiforme dipendenza; si configura come «transito dalle identificazioni verso l’identità»; in essa la progettualità è in un timido avvio; lo​​ ​​ sviluppo morale​​ appare ancora in bilico fra eteronomia ed autonomia. Il preadolescente pone problemi alla società e alle istituzioni perché dispone di una identità frammentata e disarmonica. È un soggetto disarmonico in quanto le principali dimensioni dello sviluppo sono anticipate o posticipate rispetto all’età cronologica. La crescita non arriva cioè in modo sincronico, ma si instaura in una disparità di tempi, in una «asincronicità» tra aspetti dello sviluppo. In questa disarmonia evolutiva appaiono precoci o anticipate le dimensioni dello sviluppo percettivo, psicomotorio, sociale e affettivo-sessuale, mentre risultano in ritardo alcuni aspetti dello sviluppo logico, in particolare lo spirito critico, e quello morale e religioso. Tuttavia in forza di un sistema di accomodamento dinamico, tipico di tutte le situazioni in forte crescita, il preadolescente dispone di un notevole potere di recupero e adattamento. Un’età come questa godeva tradizionalmente di «buona salute». Oggi, per una certa percentuale di soggetti, essa è esposta al rischio di molteplici forme di disadattamento. Il mancato adattamento inizia in famiglia, prosegue nella scuola, si accentua nei gruppi sociali di riferimento e può confluire in forme di devianza che aumenteranno durante l’adolescenza. È per questa ragione che l’accompagnamento educativo a questa età deve essere mirato ed accurato, avere obiettivi specifici e disporre di metodologie atte alla​​ ​​ prevenzione e al​​ ​​ recupero.

3.​​ Le «domande» dei preadolescenti alle​​ ​​ istituzioni educative.​​ Indagini psico-sociologiche indicano che i preadolescenti chiedono alla famiglia: dialogo educativo più ampio e profondo; spinta all’autonomia, non iper-protezione o negazione delle energie e risorse dei ragazzi; educazione affettiva e sessuale e non silenzio o trascuratezza; guida spirituale nel cammino della crescita e non solo soddisfacimento dei bisogni puramente materiali; orientamento nelle scelte non solo scolastiche ma culturali ed esistenziali. Alla scuola i preadolescenti chiedono: ambiente di vita e di educazione, non solo luogo dove si può fare istruzione; accoglienza di tutte le esigenze della crescita; un insegnante autorevole, educatore, modello di riferimento; stimolo alla creatività e non solo acquiescenza ripetitiva di apprendimenti codificati; educazione sessuale vera e propria e non solo parziale e sporadica informazione; valorizzazione positiva della persona e non valutazione del rendimento scolastico; orientamento scolastico e professionale continuato e strutturato, e non solo episodico e frammentato, in vista delle «preiscrizioni». Similmente alla comunità ecclesiale (​​ Chiesa) i preadolescenti chiedono un’iniziazione cristiana «vitale» e non formale o ritualistica; protagonismo effettivo, con assunzione di compiti e responsabilità compatibili con l’età e non solo passività e dipendenza; una catechesi esperienziale che inserisca il vangelo e i sacramenti nella vita; un inserimento comunitario che faccia sentire i ragazzi parte importante e viva dell’intera comunità. Agli animatori dei gruppi i preadolescenti chiedono: guida educativa vera e propria e non solo assistenza passiva o stimolo esteriore; sostegno affettivo, cioè sentirsi amati, stimati, incoraggiati a livello profondo, come persone in una delicata fase della vita; creatività per superare la routine dell’ambiente materialistico e consumistico di vita e per affrontare prospettive di sviluppo secondo le doti e le inclinazioni di ciascuno; coinvolgimento operativo e non pura e semplice esecutività, stimolando l’autonomia, lo spirito di iniziativa e di partecipazione a progetti elaborati insieme. Nei confronti della comunità civile i preadolescenti avanzano richieste di attenzione e ascolto alle proprie aspirazioni e inclinazioni di ragazzi; di prevenzione sociale delle forme di degrado ambientale e del disadattamento sociale; di uso educativo e non solo consumistico dei mass media, con iniziative mirate specificamente alle esigenze della formazione integrale; di spazi per lo sport e l’espressività ludica e sociale; di centri educativi per incrementare le forme associative e rispondere ai bisogni non solo del recupero ma soprattutto dell’educazione sociale.

4.​​ Per una pedagogia della p.​​ Nel contesto culturale e pedagogico attuale è necessario accogliere la p. come età specifica, distinta dalla fanciullezza e dall’adolescenza e connotata di caratteristiche evolutive proprie. Non più dunque «età negata», ma riconosciuta, valorizzata e incrementata secondo i compiti di sviluppo tipici di una importante e fondamentale stagione della vita. Nella comunità e nelle istituzioni occorre considerare e valorizzare i preadolescenti come soggetti sociali importanti e attivi, dando loro la parola, accogliendo le loro richieste, stimolando iniziative che possono essere affrontate e compiute anche da loro a favore della comunità. Alla disarmonia e frammentazione dell’età deve far fronte un progetto educativo unitario e unificante, per facilitare un cammino meno disagiato e rischioso nella costruzione dell’incipiente identità. Educare, a questa età, vuol dire il più delle volte animare, far cioè crescere stimolando l’interesse, la partecipazione e il coinvolgimento dei ragazzi stessi, in modo che non siano concepiti come soggetti passivi, bensì come attori e in molti casi anche protagonisti del loro divenire. Infine occorre tenere vigile e sostenere la dimensione dell’orientamento: è un’età infatti che prefigura il futuro della persona, età di intuizioni e di desideri, in cui non si chiede di decidere il futuro personale, professionale, esistenziale, ma di mettere le basi (i «prerequisiti») per le scelte future attraverso le piccole decisioni di ogni giorno.

Bibliografia

Cospes (Ed.),​​ L’età negata,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1986; De Pieri S. - G. Tonolo,​​ P. Le crescite nascoste,​​ Roma, Armando, 1990; Tonolo G. - S. De Pieri,​​ Educare i preadolescenti,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1990; De Pieri S.,​​ Preadolescenti tra domanda e risposta,​​ in «Note di Pastorale Giovanile» 26 (1992) 4, 72-80; Secchiaroli G. - T. Mancini,​​ Percorsi di crescita e processi di cambiamento. Spazi di vita,​​ di relazione e di formazione dell’identità dei preadolescenti,​​ Milano, Angeli, 1996; Della​​ giulia A. - P. Gambini,​​ L’influenza delle relazioni familiari sull’avvio della costruzione dell’identità,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 52 (2005) 951-974; Maggiolini A. (Ed.),​​ P. e antisocialità. Prevenzione e intervento nella scuola media inferiore,​​ Milano, Angeli, 2005; D’Alessio M. - R. Baiocco - F. Laghi F.,​​ I modelli in tv: quale influenza sui preadolescenti?​​ Congresso Nazionale della Sezione di Psicologia dello Sviluppo, AIP, Verona, 15-17 settembre 2006;​​ Televisioni e minori. Benefici e rischi. Valutazioni giuridiche,​​ mediche,​​ psicologiche, Roma, Società Italiana di Pediatria, 2007; D’Alessio M. - F. Laghi,​​ La p. Identità in transizione tra rischi e risorse, Padova, Piccin-Nuova Libreria, 2007; Gambini P.,​​ La sfida educativa dei preadolescenti, in «Pedagogia e Vita» (2007) 2, 89-110.

S. De Pieri




PREGIUDIZIO

 

PREGIUDIZIO

In senso filosofico p., specie dopo la fenomenologia e l’ermeneutica, è venuto a significare il mondo delle conoscenze previe, spesso allo stato di ovvietà, che precedono la presa di coscienza o la categorizzazione concettuale e con cui partiamo a «leggere» e «comprendere» la realtà, i fatti, gli eventi e le persone. In senso comune tuttavia il p. è un’immagine mentale con connotazioni affettive di segno negativo verso un gruppo o una persona esterna fondato sugli​​ stereotipi​​ o immagini che ognuno si fa nella propria mente di persone e gruppi. Dai p. possono derivare dei modi di agire particolari non desiderati dalle persone e gruppi; a questi modi di agire viene dato il nome di​​ discriminazioni.​​ Quando i p. non riflettono né le capacità e i meriti individuali né i comportamenti di persone o gruppi specifici, allora sfociano in attività discriminatorie che negano ai gruppi e alle persone la parità di trattamento e diventano strumenti di incomprensione, di divisione e di conflitto.

1.​​ Origine dei p.​​ Secondo le teorie coercitive i p. deriverebbero da processi di competizione tra i gruppi a causa della scarsezza di risorse (Campbell, 1965; Sherif, 1967); la minaccia esterna nei riguardi delle risorse disponibili avrebbe l’effetto di potenziare la solidarietà del gruppo o della persona minacciata. Altri sostengono che i processi di discriminazione dovuti ai p. potrebbero sorgere anche nella completa assenza di conflitto e conseguente coercizione: lo​​ ​​ status del gruppo di appartenenza sarebbe uno strumento importante per l’attuazione e il mantenimento dell’identità sociale. Quindi si attuerebbero processi di p. per fuggire dai gruppi di basso status e di rafforzamento dello status dei gruppi accettati. I favoritismi verso il proprio gruppo d’identificazione aiuterebbero ad operare appropriate differenziazioni dal gruppo esterno. Il denaro disponibile potrebbe essere una dimensione importante per il confronto tra i gruppi. Secondo le teorie dell’apprendimento sociale i p. sarebbero il risultato di​​ ​​ apprendimento, di effettiva osservazione di ruoli e differenze presenti nei gruppi o derivanti da influenze di mass media, della scuola, dei genitori e dei coetanei. A queste spiegazioni interpersonali si possono contrapporre o aggiungere spiegazioni intrapersonali di natura psicologica. Secondo le teorie psicodinamiche, che danno peso agli aspetti motivazionali, il p. e quindi lo stereotipo, sarebbe il risultato di conflitti e di disadattamento nella psiche della persona; e pertanto rappresenterebbe il sintomo di profondi conflitti di personalità. Ad es. secondo la teoria del capro espiatorio, l’aggressività verso il gruppo esterno, sarebbe uno spostamento dell’aggressività da un frustratore potente, una fantasia dentro la mente, verso un inerme gruppo minoritario. Le teorie cognitiviste danno maggiore importanza alla limitatezza della mente umana a gestire i processi informativi. Tali limiti provocano fallimenti in ambito percettivo e cognitivo e quindi valutazioni errate dei fatti. Di qui nascerebbero correlazioni illusorie, cioè il vedere coincidenze tra particolari caratteristiche visibili perché sono meno comuni. Ad es. sarebbero particolarmente visibili i comportamenti negativi rispetto a quelli positivi o i gruppi minoritari rispetto ai gruppi di maggioranza; per cui più facilmente si attribuirebbero ai gruppi minoritari le caratteristiche negative. Secondo un modello di categorizzazione-individuazione le persone si formerebbero delle impressioni partendo da categorizzazioni sommarie per allargarle poi muovendosi lungo un continuo che va verso il reperimento di informazioni individuanti che permettono maggiori distinzioni. Gli aspetti referenziali usati per creare le impressioni di partenza, che servono per definire e organizzare gli altri attributi, costituiscono l’etichetta categoriale; gli altri aspetti referenziali costituiscono gli attributi. L’etichetta​​ richiamerebbe dalla memoria caratteristiche con essa collegate e influenzerebbe in modo sproporzionato il processo di formazione delle impressioni prima ancora che si abbiano informazioni specifiche sulle persone e sui gruppi. Di tali modalità e processualità si avrebbe cospicua espressione nell’etichettamento​​ di una persona, «bollata» ad es. come deviante, tossicodipendente, contestatrice, «bastian contraria». Secondo la teoria della congruenza dei valori e delle convinzioni, i membri dei gruppi esterni sarebbero discriminati e rifiutati non sulla base della presenza di convinzioni e atteggiamenti e valori diversi o in disaccordo con i propri. Secondo questo modo di vedere, il p., e poi la discriminazione, sarebbero una derivazione abbastanza diretta degli stereotipi. L’assenza di certi valori, o profonde diversità nella gerarchizzazione dei valori, porterebbe alla delegittimazione di persone o gruppi fino al punto di considerarli non più umani e quindi non più meritevoli di essere trattati come tali.

2.​​ P. e intervento educativo.​​ Secondo le teorie cognitive sembrerebbe che un intervento correttivo per attutire le conseguenze negative del p. richiede di​​ informare,​​ perché alla base delle tensioni tra gruppi e persone ci sono gli stereotipi causati soprattutto dall’ignoranza e dalla disinformazione. Una condizione necessaria per generare comprensione e valutazione positiva tra i gruppi è che i membri di essi capiscano le reciproche caratteristiche culturali attraverso un’adeguata informazione, soprattutto con l’aiuto dei mezzi di comunicazione di massa e del sistema educativo. Altri ritengono che l’approccio informativo sia insufficiente e che sia importante tener conto dei modelli di apprendimento diretto attraverso il​​ contatto​​ e l’incontro​​ per conoscersi e capirsi (Allport, 1954). Dalle concezioni psicodinamiche il correttivo deriverebbe dall’affrontare sistematicamente nelle persone i conflitti intrapsichici e quindi occorrerebbe presentare programmi per raggiungere l’obiettivo di cambiare le persone nel loro mondo psichico attraverso la comprensione di se stessi e della propria mentalità; strumenti importanti sarebbero la​​ ​​ psicoterapia e i gruppi di formazione. Le teorie coercitive infine presuppongono un correttivo attraverso l’attuazione della giustizia sociale.

Bibliografia

Allport G. W.,​​ The nature of prejudice,​​ Reading, Addison Wesley, 1954; Campbell D. T., «Ethnocentric and other altruistic motives», in D. Levine (Ed.),​​ Symposium on motivation,​​ Lincoln, University of Nebraska Press, 1965; Sherif M.,​​ Group conflict and cooperation,​​ London, Routledge and Kegan, 1967; Schwartz S. H. - N. Struch,​​ «Values, stereotypes, and intergroup antagonism», in D. Bar-Tal et al.​​ (Edd.),​​ Stereotyping and​​ prejudice: Changing conceptions,​​ New York, Springer, 1989; Scilligo P., «L’incontro tra persone e gruppi: aperture e barriere», in C. Nanni (Ed.),​​ Intolleranza,​​ p. e educazione alla solidarietà,​​ Roma, LAS, 1991; De Caroli E.,​​ Categorizzazione sociale e costruzione del p., Milano, Angeli, 2005.

P. Scilligo




PREMI

 

PREMI

Insieme ai​​ ​​ castighi, entrano nei​​ ​​ mezzi educativi come binomio classico per motivare o rinforzare il consenso educativo, promuovere maggiore impegno, generalmente in stretto riferimento con i​​ ​​ valori educativi. Tale rapporto è indebolito oggi in molta educazione, specie in quella familiare, per il largo uso di incentivi legati al consumo, all’edonismo, al piacere, nel migliore dei casi al successo, ma per lo più alla richiesta di prestazioni «dovute»: spesso in sostituzione di reale vicinanza e​​ ​​ impegno educativo genitoriale.

1. Il p. può essere un’aggiunta a sorpresa; può essere una gratificazione abbinata al conseguimento di un risultato che viene voluto in relazione al p. Esso può costituire il motivo del fare, può semplicemente evidenziarne, sostenerne, dichiararne il valore. Il massimo potenziale educativo viene liberato quando la stessa attuazione assume la qualifica di p. per averlo eseguito o conseguito con e per il suo stesso valore intrinseco, oggettivo, soggettivo, personale. Ma, come si è accennato, se inflazionato ed estrinseco, può non aiutare a penetrare e fissare il valore dell’impegno educativo, anzi può risultare fuorviante e riduttivo se non eticamente e educativamente negativo. La stessa critica vale anche se la tensione premiante è concentrata su contenuti e fini diretti, quando questi rispondono a una concezione gretta di sé e della vita, individualistica e privatistica, materialista, consumista, di potenza e dominio, di emergenza fatua.

2. La pedagogia del p. rientra all’interno di un’antropologia generale, vale a dire di una visione globale della vita e della condotta, e all’interno di essa, di che cosa è educativo della persona. P. collaterali di natura piacevole, utile, affettiva, concessiva, possono essere ammessi se iniziali, ma transitori e parziali rispetto alla promozione di un’esperienza motivante di p. connessa con il conseguimento degli esiti validi e vitali personali, sociali, culturali, etici, religiosi, unica connessione sostanzialmente educante. È educativo premiare anche l’intenzione e l’impegno, riconoscendo che il valore personale non è unicamente limitato all’esito. Sono p. educanti il riconoscimento e la lode, il dono di stima, fiducia, responsabilità a chi fa qualsiasi cosa buona. Si può tacere il biasimo, mai la lode. Al di là dell’utopia del dovere puro, la pedagogia cristiana accetta i p. del risultato, del compimento di sé, del riconoscimento sociale, della soddisfazione personale. Anche in rapporto ai p. è importante essere educatori coerenti, costanti, giusti nella distribuzione.

Bibliografia

Froidure E.,​​ P. e castighi nell’educazione giovanile,​​ Torino, SEI, 1963;​​ Zulliger H.,​​ Helfen und Strafel,​​ Stuttgart, Klett,​​ 1965; Ducati A.,​​ P. e castighi, Milano, Anonima Edizioni Viola, [s.d.].

P. Gianola




PREVENZIONE

 

PREVENZIONE

La p. è un aspetto della metodologia educativa che tende a preservare le giovani generazioni da carenze rilevanti sul piano della strutturazione della personalità e della socializzazione e che inoltre mira ad individuare eventuali fattori di rischio nello sviluppo evolutivo del soggetto al fine di evitare l’insorgere di comportamenti disadattanti, come l’assunzione di droghe e alcool, atti di vandalismo, abbandono scolastico (​​ dispersione scolastica), passività nei confronti dei​​ ​​ mass-media, disturbi psichici, condotte suicidarie (​​ suicidio). Etimologicamente il termine​​ pre-venio​​ può assumere più significati. In questo contesto, facciamo riferimento a due di essi in particolare: 1) arrivo prima; 2) anticipo, impedisco, ostacolo, evito qualcosa che ritengo comunque negativo e pericoloso. La p. si colloca in una dimensione temporale di tipo lineare e, specie nella seconda accezione, sembra nascere da finalità negative esplicitandosi attraverso azioni di controffensiva, di sfida contro qualcosa o qualcuno che non è manifesto ma di cui si ipotizzano scenari futuri.

1.​​ Riferimenti storici.​​ La p. affonda le sue radici nell’origine stessa del Cristianesimo, il cui influsso si è esteso, soprattutto nella cultura occidentale, nel corso dei secoli. È però nell’Ottocento che, sia a causa della traumatica esperienza della Rivoluzione francese e sia a motivo del sovvertimento dell’ordine antico causato da Napoleone, l’Europa sembra orientarsi con decisione verso l’idea «preventiva». E la p. investe il campo​​ politico​​ come orientamento a restaurare l’antico, conservando però quanto di positivo avevano portato i tempi nuovi; entra nel tessuto​​ sociale,​​ esprimendosi in una molteplicità di interventi a favore dei poveri (ospedali, istituti per vecchi, vedove, orfani...); propone in campo​​ penale​​ principi e sensibilità nuove (si pensi ad es. a C. Beccaria per il quale è meglio prevenire i delitti che punirli...). Ma in modo ancor più chiaro la p. tende a identificarsi con l’idea stessa di​​ ​​ educazione che è p. prima ancora della modalità di approccio metodologico: preventivo appunto o repressivo. In questo contesto la​​ ​​ religione che da sempre, almeno come tensione ideale, aveva fatto suo questo approccio, viene identificata come mezzo privilegiato di p. personale e sociale, garanzia di ordine e di pace. Don​​ ​​ Bosco ne diventa uno dei rappresentanti più significativi, sia per la sua personalità che per la sua attività. Emblematico il suo scritto sul​​ ​​ sistema preventivo.

2.​​ Attività e obiettivi.​​ L’attività preventiva in campo educativo si esplica attraverso opere di informazione e divulgazione scientifica ma soprattutto di carattere formativo (intendendo con ciò l’instaurarsi di un rapporto tra individuo-individuo o individuo-oggetto che si influenzano reciprocamente interagendo in un determinato contesto storico ed ambientale). In tal senso la p. deve essere intesa come un atto che si fa «con» i destinatari dell’intervento e non «per» loro (da una concezione lineare della p. ad una circolare o processuale); nella p., pertanto, l’azione deve essere sinergica e non è pensabile la delega. Gli obiettivi verso i quali agire (individuazione ed integrazione degli indicatori di rischio, dei fattori protettivi, miglioramento della qualità di vita) devono essere esplicitamente condivisi dai soggetti che vi partecipano (giovani educatori, utenti, operatori, collettività); obiettivo ultimo è il miglioramento della condizione esistenziale dei giovani nella prospettiva di un loro maggior benessere ma, a differenza del concetto di cura, il benessere perseguito nell’ambito dell’educazione è simultaneamente di due destinatari diversi: la persona bisognosa e la collettività. L’idea di​​ ​​ benessere sottesa infatti considera la persona nella sua globalità e interezza, non nella parte malata da curare. Nel contempo si prefigge di evitare che altri membri della collettività si possano trovare in simili situazioni di disagio o possano, in qualche misura, avere ricadute negative, incappare in condizioni sfavorevoli determinate dall’azione del soggetto in difficoltà.

3.​​ Livelli di p.​​ La ricerca di indicatori di rischio capaci di offrire elementi utili ad una classificazione e definizione di possibili percorsi preventivi, pone in evidenza la necessità di operare una distinzione terminologica e di contenuto di diversi possibili livelli entro i quali collocare un progetto mirato. A ciascun livello corrispondono obiettivi, caratteristiche, metodologie e destinatari diversi che ne determinano il segno e l’andamento, pur non dovendoli considerare in maniera statica e chiusa.

3.1.​​ Primo livello: p. potenziale o promozione.​​ In esso si colloca ogni tipo di intervento capace di influire in modo positivo sulla qualità della vita giovanile promuovendo salute, cultura, socializzazione. Entra in gioco la definizione di un quadro di riferimento di più ampio respiro rispetto a quello della pura p.: la promozione. Promuovere vuol dire infatti un andare da qualche parte, probabilmente attraverso cammini sconosciuti, un fare per, ma anche un fare con, orientato alla costruzione di qualcosa che non è preesistente. Nel «promuovere» restano ostacoli e il problema di trovare delle vie per affrontarli o aggirarli; ma diventa importante il di-venire, da dove e in che modo si arriva a certi appuntamenti: il «pro» diviene premessa e orientamento. Rientrano in questa categoria le attività di carattere sportivo, ricreativo, culturale o di socializzazione generica rivolte a minori e / o giovani, e i problemi di aggiornamento generale rivolti ad adulti che rivestono un ruolo educativo.

3.2.​​ Secondo livello: p. specifica del disadattamento.​​ Ad esso corrispondono interventi legati a progetti mirati su fattori di disagio personale e / o sociale che possono favorire l’instaurarsi di situazioni di disadattamento e devianza giovanile. Appartengono a questa categoria servizi e interventi volti ad alleviare condizioni di deprivazione culturale, affettiva e sociale e ad orientare la persona in fasi e momenti di cambiamento cruciale.

3.3.​​ Terzo livello: p. specifica primaria.​​ In essa si collocano interventi centrati su fattori-rischio tipici dei fenomeni di dipendenza giovanile. A questa categoria appartengono i progetti di educazione alla salute, di sensibilizzazione e formazione orientati all’uso di sostanze, alla manipolazione del corpo, ecc., promuovendo nell’individuo senso critico, maturità affettiva, autonomia di pensiero e azione, ecc.

3.3.​​ Quarto livello: p. specifica secondaria.​​ In essa si situano interventi rivolti direttamente a soggetti già coinvolti, in diverso grado, in situazioni ormai compromesse, in qualche «subcultura deviante» (es. consumatori o ex-consumatori di droghe, consumatori di alcool, attori di episodi legati alla microcriminalità, ecc.). Fanno capo a questa categoria attività di carattere psicologico come il​​ ​​ counseling, il sostegno psicopedagogico, la risocializzazione, la psicoterapia breve, e attività di carattere sociale volte a prevenire processi di stigmatizzazione ed emarginazione, come ad es. il reinserimento lavorativo e le iniziative di aggregazione.

4.​​ I​​ modelli.​​ Se nell’ambito della p. sanitaria è possibile individuare un buon livello di elaborazione teorica ed una specifica identificazione di differenti procedure metodologiche, non altrettanto è possibile fare a proposito del tema p. nell’ambito delle scienze sociali e dell’educazione. In esso, infatti, l’introduzione di tale concetto e la conseguente metodologia sono di recente concezione e definizione; come sostiene Colecchia (1995), la ricerca in campo psicosociale non ha ancora raggiunto livelli di definizione chiara circa le tipologie dei comportamenti a rischio che possono provocare, a breve o a lungo termine, effetti nocivi per il soggetto che li metta in atto. La natura stessa del periodo evolutivo in cui sono coinvolti i soggetti a cui è rivolta l’attività di p., è all’origine delle difficoltà di definizione esatta non solo dei comportamenti indicatori di disagio, ma anche delle relative strategie preventive attuabili. I modelli interpretativi dei fenomeni di disagio giovanile e le corrispondenti strategie preventive, possono essere tanti quanti i potenziali destinatari per cui occorre fondamentalmente creare chiarezza intorno all’approccio teorico che si intende utilizzare. Generalmente contemplano al loro interno differenti prospettive ed approcci. È da pensare ad una​​ prospettiva medico-biologica​​ entro l’apporto specifico dell’istituzione scolastica con attenzione puntata sull’individuazione precoce e di recupero dei casi più conclamati. Così pure occorre certamente un​​ approccio psicologico,​​ in cui l’attenzione è centrata sulla ricerca di meccanismi che si trovano alla base dei rapporti distorti fra l’individuo e la collettività, l’individuo e le cose, gli oggetti di consumo, l’individuo e le figure genitoriali ecc. L’indagine è cioè portata più che sugli agenti manifesti del disagio, sulle latenti disfunzioni psichiche cui è andato incontro il soggetto. Né si può trascurare un​​ approccio sociologico,​​ in cui l’attenzione è volta alla ricerca delle motivazioni e dei disagi individuali posti in relazione con il contesto sociale e culturale all’interno del quale l’individuo si colloca. Anche se in genere a ciascun approccio corrisponde un modello di p., non si dimostra di alcuna efficacia il considerarli come interpretazioni contrastanti o escludentesi. Appare invece meno riduttivo utilizzare alcune categorie concettuali capaci di offrire letture più integrali ed integrate dell’idea di p. e della sua possibile progettualità. Ciò comporta aver chiari: in primo luogo la rappresentazione che si ha dell’oggetto verso il quale si intende volgere la propria attenzione (droga, dispersione scolastica, microcriminalità, televisione, ecc.); in secondo luogo l’area d’intervento verso cui si vuole orientare la propria iniziativa (il singolo, la comunità ecc.); in terzo luogo i contenuti dell’intervento (promozione di cambiamenti di ordine culturale, psicologico, sociale); in quarto luogo le finalità «negative» (evitare i processi di emarginazione sociale, intervenire precocemente su fattori che potrebbero dar luogo a comportamenti autodistruttivi); infine le finalità «positive» (creazione di opportunità più consone ai bisogni dei giovani e capaci di favorirne una più concreta ed attiva integrazione nella società adulta). I più recenti orientamenti preferiscono puntare sugli elementi positivi attraverso il rinforzo delle doti e competenze dell’individuo (empowerment,​​ coping, autoefficacia, ecc.), favorendo un ambiente positivo che favorisca lo sviluppo di tali capacità. Pertanto, anche a livello metodologico, la p. richiede che, accanto ai fattori di rischio, da combattere o contenere, si sviluppi una corrispondente analisi dei fattori protettivi, su cui far leva per migliorare la situazione. Ciò significa sostenere la prosocialità più che combattere l’antisocialità. Da una filosofia che tende a contenere e gestire i rischi ad una che vuole promuovere e migliorare le condizioni di partenza e le risorse iniziali del ragazzo, che guarda con favore alle potenzialità attuali che il ragazzo possiede.

5.​​ La metodologia.​​ In tal senso l’obiettivo ultimo di una p. davvero efficace dovrebbe essere quello di produrre un​​ cambiamento​​ sia a livello individuale che sociale in cui i punti di riferimento costanti siano: la dimensione temporale (perché un progetto di p. sia davvero tale occorre un lasso di tempo mediamente lungo, seppur delimitato, capace di garantire la piena attuazione e di consentire l’operare di opportune verifiche in tappe intermedie); la dimensione della consapevolezza (ogni progetto mirato di p. deve avere chiari e definiti gli obiettivi che intende perseguire, deve sforzarsi di conoscere al meglio la realtà su cui intende intervenire ma soprattutto non deve considerare «oggetto passivo» coloro verso e per i quali il progetto è studiato); e la dimensione della coerenza (verso se stessi, verso il giovane e verso il progetto). D’altro canto lo stesso termine p. richiama ad una idea concreta centrata sul​​ fare,​​ sulla pratica attiva, sul coinvolgimento e l’interazione tra colui che propone (educatore) e colui che indica la strada sulla quale immettersi per raggiungerlo in maniera reale e totale (educando), in un continuo​​ feedback​​ fatto di regressioni e avanzamenti, di aggiustamenti e ripensamenti che ne garantiscono la qualità e l’autenticità. Ogni progetto di p. / promozione si prefigge di combattere un nemico che sa di non poter sconfiggere totalmente ma che spera di indebolire attraverso il «rinforzo», inteso come l’elaborazione di strategie non distruttive e di soluzione dei problemi, che può offrire al giovane in fase evolutiva. Potremmo perciò concludere affermando che​​ proprium​​ della pedagogia è la p. in quanto coincidente con l’azione educativa, cioè con il «venire prima», e con l’essere efficace attraverso una connotazione positiva che offra al giovane l’opportunità di realizzare il più compiutamente possibile il suo progetto di vita.

Bibliografia

Braido P.,​​ Breve storia del «sistema preventivo»,​​ Roma, LAS, 1993; Regoliosi L.,​​ La p. del disagio giovanile, Roma, NIS, 1994; Id.,​​ La p. possibile,​​ Milano, Cortina, 1995; Colecchia N. (Ed.),​​ Adolescenti e p.,​​ Roma, Il Pensiero Scientifico, 1995; Braido P.,​​ Prevenire non reprimere. Il sistema educativo di don Bosco,​​ Roma, LAS, 2000; Milan G.,​​ Il disagio giovanile e strategie educative, Roma, Città Nuova, 2001; Cusson D. P. M.,​​ Prévenir la délinquance. Les méthodes efficaces, Paris, PUF, 2002; Farrington D. P. - J. W. Coid (Edd.),​​ Early prevention of adult antisocial behavior, Cambridge, CUP, 2003; Nizzoli U. - C. Colli (Edd.),​​ Giovani che rischiano la vita.​​ Capire e trattare i comportamenti a rischio negli adolescenti,​​ Milano, McGraw-Hill, 2004; Barbagli G. - U. Gatti,​​ Prevenire la criminalità, Bologna, Il Mulino, 2005.

D. Castelli - G. Vettorato