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PRAGMATISMO

 

PRAGMATISMO

Il termine fu coniato nella seconda metà dell’Ottocento, ed è principalmente associato alla filosofia degli americani Peirce,​​ ​​ James e​​ ​​ Dewey, anche se pensatori come l’inglese Schiller, gli spagnoli​​ ​​ Unamuno e​​ ​​ Ortega y Gasset, i francesi Bergson e Le Roy, il tedesco Vaihinger e gli italiani Papini, Aliotta, Vailati e Calderoni sono stati a vario titolo partecipi del movimento di idee che ha questo nome. A introdurre il termine P. fu appunto Peirce col saggio del 1878​​ How to moke our ideas clear​​ e fu successivamente James, con modalità che Peirce vivacemente disapprovò, a diffonderlo (cfr. il vol.​​ Pragmatism,​​ a new name for some old ways of thinking,​​ del 1907, preceduto da​​ The will to believe​​ del 1886).​​ Fu principalmente con Dewey, che ne propose la versione «strumentalistica», che il P. assunse rilevanza pedagogica, ponendosi mediatamente a fondamento dell’attivismo e contribuendo a stabilire i presupposti teorici della scuola «progressiva» (​​ Scuole Nuove).

1. In una sua accezione tecnica e ristretta, molto spesso fraintesa, il P. indica una concezione dei metodi e degli statuti conoscitivi che pone l’accento non solo sulla​​ funzione​​ pratica del conoscere ma anche – e in un certo senso preminentemente – sulla sua legittimazione​​ pratica.​​ La tesi, molto criticata e spesso fraintesa (per es. da Bertrand Russell, per il quale essa era soprattutto in armonia con l’industrialismo e con lo spirito di intrapresa americano, interpretazione a cui Dewey reagì vivacemente), che il valore della conoscenza deriva dalla sua utilità e che il vero si identifica, appunto, con ciò che è utile e conveniente, ne è l’espressione estrema e più esplicita. La figura concettuale jamesiana della «volontà di credere» la esemplifica, seppure in modo rovesciato, assai chiaramente. Il credere è volitivo e non constatativo ed in quanto è voluto sottostà a regole pratiche, più che logiche o epistemologiche. Un’idea è vera in quanto il crederla è «utile» e «conveniente» e produce effetti positivi per la vita individuale e associata. In una accezione più larga il P. riprende motivi della cultura e del pensiero filosofico occidentale maturati e riproposti nel corso dei secoli, e riconducibili alle posizioni dottrinali nel cui ambito si afferma il primato della​​ voluntas,​​ della​​ caritas​​ ecc. sulle determinazioni della razionalità conoscitiva, da quelle di Paolo di Tarso a quelle agostiniane giù giù fino ai francescani del tardo​​ ​​ Medioevo, e in particolare a Duns Scoto a cui il pragmatista Peirce si riferiva come a un antesignano e a un maestro.

2. Non c’è da stupirsi che il P. abbia contribuito a generare un particolare tipo, molto significativo e influente, di filosofia dell’educazione. In realtà il P. era un modello di filosofia pedagogica e tale si rivelò, in anni più recenti, nella sua versione strumentalistica, proposta e argomentata da Dewey. Tale strumentalismo non aveva a che fare, ovviamente, con la mediocre e banale strumentalità dell’operare motivato da interessi pratici immediati, ma poneva l’accento sulla posizione sovraordinata della prassi umana complessivamente assunta rispetto alle varie e settoriali pratiche teoriche. Le formule di rivisitazione e di riabilitazione del P. (cfr. R. Rorty,​​ The relevance of pragmatism)​​ proposte negli ultimi decenni, costituiscono una conferma diretta o indiretta delle origini di questo orientamento filosofico e delle sue caratteristiche più intrinseche ed autentiche, al di là di una caratterizzazione – simpatetica o critica – in termini di concetto d’epoca, maturato sullo sfondo della scientificità moderno-contemporanea, e connesso a esigenze di produttività materiale con mezzi tecnici. Va anzi rilevato che molto dello spirito del P. è da porre in relazione all’opposta esigenza di dare alla strumentalità razionale e tecnica il più ampio respiro di una ricerca sul senso ultimo e radicale dell’agire umano.

Bibliografia

Papini G.,​​ P.,​​ Firenze, Vallecchi, 1920; Ayer A. J.,​​ The origins of pragmatism. Studies in the philosophy of C.S. Peirce and W. James,​​ San Francisco, Freeman, 1958; Bosco N.,​​ La filosofia pragmatica di C.S. Peirce,​​ Torino, Edizioni di Filosofia, 1959; Santucci A.,​​ Il​​ P. in Italia,​​ Bologna, Il Mulino, 1963; Roggerone G. A.,​​ W. James e la crisi della coscienza contemporanea,​​ Milano, Marzorati,​​ 21967; Santucci A. (Ed.),​​ Il​​ P.,​​ Torino, UTET, 1970; Sini C.,​​ Il P. americano,​​ Bari, Laterza, 1972; Murphy J. P.,​​ Il p., Bologna, Il Mulino, 2001.

A. Granese




PRATICHE EDUCATIVE

 

PRATICHE EDUCATIVE

Le p.e. sono forme coerenti e complesse di p. umana collaborativa, attuate in un contesto sociale, caratterizzate da specifica intenzionalità formativa. Una p.e. è di conseguenza guidata teoreticamente, storicamente e culturalmente da ideali di bene da perseguire in favore di coloro ai quali è rivolta (Pellerey, 1999) e si distingue da p. umane di altro tipo per la coerenza che segue rispetto alla definizione di​​ ​​ educazione dalla quale trae ispirazione.

1. Le p.e. possono descrivere il senso della cultura civile di un gruppo, di una società, di una popolazione, di una nazione. Ad es., P. Freire (2004) sottolinea come la p.e. esige dei saperi necessari e obbliga a rivisitare l’etica e l’estetica dell’insegnamento, l’«agire» educativo, il rigore metodologico, la ricerca, il rispetto delle diversità etniche e culturali, l’accettazione della novità e della critica… per affermare che questi aspetti si ritrovano nella fase di osservazione della p.e. stessa. In altre parole, più semplicemente, l’espressione «p.e.» si usa in senso generale per indicare l’attività in quanto insieme di azioni e di influenze di insegnamento, condotta da un insegnante a favore di studenti in un luogo per un certo periodo di tempo, al fine di promuovere lo sviluppo e la crescita di abilità, comportamenti, conoscenze.

2. Spesso le buone p.e. seguono modelli (sistemi o metodi) educativi di riferimento all’interno dei quali si possono individuare concetti e principi che riguardano livelli logici differenti che coinvolgono il piano scientifico, quello operativo o progettuale, ecc. Tra le espressioni che possono assumere un significato analogo a p.e. si trovano il «fare educativo» o il «fatto educativo». Inoltre non è infrequente sentire trattare di p.e. quando una istituzione scolastica indica le prassi, le consuetudini, le tradizioni e le innovazioni che la caratterizzano. In tal contesto si producono p.e. nel significato di documentazione di qualità che spesso una istituzione di tipo scolastico o formativo ritiene importante ai fini della propria certificazione, autovalutazione o promozione.

3. In ultima analisi l’espressione «p.e.» per alcuni può essere impropriamente usata per descrivere e presentare esperienze didattiche o metodologie che rispondono a requisiti di qualità svolte in un contesto istituzionale. Questo significato negli ultimi anni è stato talvolta anche attribuito all’espressione «buone prassi», o «buone p.» (best practices), che soprattutto all’interno di una struttura pone un accento particolare agli aspetti più di cultura organizzativa, di collaborazione tra esperti in didattica o in metodologica di successo.

Bibliografia

MacIntyre A.,​​ After virtue.​​ A study in moral Theory,​​ Notre Dame, University of Notre Dame Press, 1981; Guardini R.,​​ Le età della vita. Loro significato educativo e morale, Milano, Vita e Pensiero, 1986; Pellerey M.,​​ L’agire educativo. La p. pedagogica tra modernità e postmodernità, Roma, LAS, 1988;​​ Meirieu P.,​​ Le choix d’éduquer, Paris,​​ ESF, 1991; Macario L.,​​ Imparare a vivere da uomo adulto. Note di metodologia dell’educazione, Roma, LAS, 1993; Meirieu P.,​​ La pédagogie entre le dire et le faire, Paris, ESF, 1995; Lombardo P.,​​ Educare ai valori, Verona, Vita Nuova, 1996; Pellerey M.,​​ Educare. Manuale di pedagogia come scienza pratico-progettuale, Roma, LAS, 1999; Milani L.,​​ Competenza pedagogica e progettualità educativa, Brescia, La Scuola, 2000; Freire P.,​​ Pedagogia dell’autonomia,​​ Torino, Ega, 2004.

M. Bay