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PROSSEMICA

 

PROSSEMICA

Il termine p., coniato da E.T. Hall, indica quell’area del​​ ​​ comportamento umano (e la disciplina relativa) che ha per oggetto il modo secondo cui si percepisce e si struttura lo spazio.

1. In particolare le ricerche hanno messo in luce le differenze esistenti in proposito nelle diverse culture. La p. evidenzia il «prospettivismo dei fenomeni», vale a dire una sorta di centramento psicologico del mondo a partire dal punto di vista, dall’ubicazione e dal sentire soggettivo, preso a termine di riferimento percettivo, emotivo, valoriale; generalmente con una valorizzazione del vicino (del «prossimo») a detrimento del distante (del «lontano»).

2. Un ambito particolare della p. è quello che riguarda le relazioni interpersonali. Esso indaga specificamente i modi con cui le persone si relazionano fisicamente con gli altri, vale a dire come vivono e strutturano i contatti, la vicinanza, la distanza nel corso delle interrelazioni faccia a faccia con altre persone, attribuendo significati a tali relazioni e risentendone psicologicamente in maniera più o meno positiva o negativa. In tal senso essa contribuisce alla comprensione della​​ ​​ comunicazione e in particolare del​​ ​​ rapporto educativo, ma è rilevante nello studio dell’habitat, della pianificazione urbana e nel sistema della comunicazione sociale.

Bibliografia

Hall E. T.,​​ Il​​ linguaggio silenzioso,​​ Milano, Bompiani, 1969; Watson O. M.,​​ Comportamento prossemico,​​ Ibid., 1972.

C. Nanni




PROTESTANTESIMO

 

PROTESTANTESIMO

La connessione storica e sistematica, intenzionale e funzionale tra P. ed educazione comprende sia l’educazione religiosa sia in generale l’educazione sotto la responsabilità evangelica, specificamente in rapporto con la Chiesa, la società e l’individuo. Perciò vi appartengono anche i compiti particolari che a seconda del caso si chiamano catechesi, insegnamento cristiano, educazione religiosa familiare, educazione della coscienza, formazione del carattere, educazione etica, ecc.

1. La connessione tra P. ed educazione è già fondata in modo permanente nella Riforma del XVI sec. Nell’epoca moderna e nell’Illuminismo subisce però una trasformazione, che conduce alla sua forma attuale. Il riformatore e teologo tedesco Martin Lutero (1483-1546) sottolinea assai presto il significato che spetta all’educazione nel crescente rinnovamento della fede e della vita a partire dal Vangelo. Una educazione​​ alla​​ fede è esclusa, mentre una educazione​​ alla luce​​ della fede appare una conseguenza necessaria della coscienza liberata in forza del Vangelo. Da un lato Lutero si impegna per l’insegnamento cristiano di​​ tutti,​​ specificamente con l’aiuto di catechismi e di esami catechistici; dall’altro richiede la fondazione di scuole, che servono per il mantenimento della pace e della giustizia nello Stato e nella società. Ambedue le forme di educazione scaturiscono a suo parere dalla volontà di Dio. Lutero le interpreta nella loro distinzione e connessione ricorrendo all’immagine di due poteri di Dio (mondano / spirituale), da distinguersi secondo il modello della Legge e del Vangelo. La Chiesa, lo Stato e la famiglia sono considerati in uguale misura responsabili dell’educazione. Nell’epoca della Riforma la fondazione cristiana dell’educazione da parte di Lutero era largamente condivisa da parte protestante. Anche i riformatori significativi a livello internazionale, cioè Ulrich Zwingli (1484-1531) a Zurigo e Jean Calvin (1509-1564) a Ginevra seguono la medesima linea. Calvino comunque sottolinea più fortemente la connessione diretta tra Vangelo ed educazione. La trasformazione nell’epoca moderna si prepara nel XVII sec. Contro le distruzioni della guerra dei trent’anni si reagisce con un grandioso progetto di riforma dell’educazione e della società; per es. da parte del teologo ceco​​ ​​ Comenio, ma anche da parte del​​ ​​ Pietismo e soprattutto da parte del teologo e pedagogista tedesco​​ ​​ Francke e del riformatore austriaco-tedesco, più rilevante a livello internazionale, Nikolaus Ludwig Graf von Zinzendorf (1700-1760, fondatore dei Fratelli Moravi di Herrnhut) provengono impulsi per un’educazione al servizio della conversione e del rinnovamento. Anche se il motivo della conversione svolge un ruolo notevole, ulteriormente accentuato nei movimenti di rinnovamento spirituale degli Stati Uniti, alla fine risultano tuttavia le sfide connesse con l’Illuminismo (Inghilterra:​​ ​​ Locke; Francia:​​ ​​ Rousseau; Germania:​​ ​​ Kant) quelle che conducono a una profonda trasformazione del pensiero educazionale protestante. In forma esemplare tale trasformazione diventa visibile nel teologo e pedagogista tedesco Friedrich Schleiermacher (1768-1834), il quale ricollega l’educazione religiosa allo sviluppo della soggettività. Nello stesso tempo egli ritiene che la religione cristiana sia fondamento della formazione di una mentalità. L’educazione religiosa comprende, accanto alla sua dimensione ecclesiale, una dimensione culturale altrettanto rilevante, che irradia molto al di là della Chiesa. Da allora, soprattutto nel XIX sec. la connessione di P. ed educazione trova il suo centro nella «formazione etico-religiosa» della «personalità», di modo che educazione e scuola possano essere considerate nel loro insieme come espressione di educazione cristiana. Accanto ad essa a partire dal XIX sec. guadagnano in importanza istituzioni di tipo diaconale e sociale-pedagogico (case di rifugio per la gioventù, giardini d’infanzia). Allo scadere del XIX sec. si formano associazioni religiose giovanili, che spesso rappresentano un P. non legato alla Chiesa. Il P. ha bisogno del mondo della formazione ed è esso stesso un potente motivo per dedicarsi alla formazione. Anche laddove c’è separazione tra Chiesa e Stato il duplice orientamento del P. sulla Chiesa e sullo Stato rimane intatto. In Paesi come la Germania, dove l’insegnamento della religione nelle scuole statali è di tipo confessionale, ciò documenta l’idea di un cristianesimo culturale; in Paesi dove non c’è l’insegnamento religioso scolastico, soprattutto negli Stati Uniti, la rilevanza dell’educazione religiosa per la cultura e la società viene assicurata da parte della Chiesa (scuole domenicali). Nello stesso tempo la pedagogia religiosa che è orientata su compiti culturali manifesta sovente una specie di tendenza autonomista dalla Chiesa e dalla catechetica.

2. La sintesi pedagogica tra cultura e cristianesimo è stata messa in questione da sistemi politici ostili alla religione, ma anche nell’ambito della teologia da parte di una determinata teologia della rivelazione. Da allora il rapporto tra cristianesimo e cultura si pone giustamente in chiave maggiormente critica, senza che il P. nelle sue correnti principali abbia tuttavia rinunciato all’apertura culturale. L’atteggiamento critico di fronte alla modernità – oggi il postmoderno – al più tardi a partire da Schleiermacher, appartiene alle caratteristiche fondamentali del rapporto tra P. ed educazione. Comunque di fronte alle crisi della modernità appare progressivamente più difficile garantire la connessione tra cristianesimo culturale ed ecclesiale ed in generale tra​​ ​​ cultura e​​ ​​ religione. Lo stretto collegamento tra P. e formazione generale o pedagogia (scientifica), tipico nella storia del P. è progressivamente scomparso; infatti discussioni parallele in Europa e negli Stati Uniti mettono in luce le sfide rivolte al P. da parte dei processi di secolarizzazione culturale e religiosa. Dalla possibilità di superare questi processi dipende in modo decisivo il futuro di un’educazione protestante nella pluralità.

Bibliografia

Asheim I.,​​ Glaube und Erziehung bei Luther. Ein Beitrag zur Geschichte des Verhältnisses von Theologie und Pädagogik, Heidelberg, Quelle und Meyer,​​ 1961; Hull J.,​​ Studies in religion and education,​​ London / New York, Falmer, 1984;​​ Nipkow K. E.,​​ Bildung als Lebensbegleitung und Erneuerung, Gütersloh, Gütersloher Verlagshaus,​​ 1990; Osmer R.,​​ R.,​​ A Teachable Spirit. Recovering the teaching office in the Church,​​ Louisville, Kentucky, Westminster / John Knox, 1990; Francis L. J. - A. Tachter (Edd.),​​ Christian perspectives for education, Leominster, Fowler Wright, 1990;​​ Nipkow K. E. - F. Schweitzer (Edd.),​​ Religions-pädagogik. Texte zur evangelischen Erziehungs und Bildungsverantwortung seit der Reformation, München / Gütersloh, Kaiser / Gütersloher Verlagshaus, 1991-1994, 3 voll.;​​ Ploeger A. K.,​​ Inleiding in de godsdienstpedagogiek,​​ Kampen, Kok,​​ 1993; Canotto P.,​​ Cattolicesimo,​​ p.​​ e capitalismo: dottrina cristiana ed etica del lavoro, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2005.

F. Schweitzer




PROVE OGGETTIVE

 

PROVE OGGETTIVE

Strumenti per la​​ ​​ valutazione del profitto scolastico costruiti secondo la metodologia dei​​ ​​ test (test di profitto).

1. All’inizio del sec. XX gli studi critici sulla scarsa oggettività e validità degli strumenti tradizionali per la valutazione del profitto (interrogazioni, «saggi», problemi...) stimolarono l’introduzione nel sistema scolastico di strumenti più «oggettivi», cioè tali che potessero essere usati da qualsiasi operatore producendo costantemente gli stessi risultati. Gli accorgimenti usati per ottenere oggettività di valutazione, all’inizio, erano solo la parcellizzazione dei contenuti, la preferenza per i quesiti corredati da risposte «a scelta multipla», l’adozione di «griglie di correzione» a cui vincolare tutti gli utenti, l’adozione di un sistema di assegnazione del punteggio uguale per tutti gli operatori. Successivamente, il riferimento alla metodologia generale dei test indusse l’uso di metodologie statistiche standard (per es. l’analisi degli item) e pose il problema della verifica empirica della validità e del riferimento a norme statistiche.

2. La preoccupazione della «validità di contenuto», fondamentale per i test utilizzati in ambito educativo e didattico, indusse prima a segnalare la necessità che le p.o. esplicitassero analiticamente i contenuti disciplinari esaminati e successivamente, in connessione con gli sviluppi della didattica, fu segnalata la necessità di esplicitare gli obiettivi didattici e le metodologie didattiche di riferimento.

3. In Italia le p.o. sono state costruite e proposte agli insegnanti da un limitato numero di centri di ricerca universitaria, individuabili dalla bibliografia. Attualmente, si preferisce il termine​​ test di profitto,​​ anche se gli strumenti così denominati non sembrano più sofisticati psicometricamente delle vecchie p.o. Le prove di «competenza minima» e di «cultura generale» usate nelle procedure selettive sono simili tecnicamente alle p.o., ma ne differiscono in quanto non si basano su un intervento didattico definito a cui ancorare la validità del contenuto.

Bibliografia

Visalberghi A.,​​ Misurazione e valutazione nel processo educativo,​​ Milano, Edizioni di Comunità, 1955; Calonghi L.,​​ Test e esperimenti,​​ Torino, PAS, 1956; Id.,​​ Sussidi per la conoscenza dell’alunno,​​ Zürich, PAS-Verlag, 1963;​​ id., «I test di acquisizione e di profitto», in C. Scarpellini - E. Strologo (Edd.),​​ L’orientamento. Aspetti teorici e metodi operativi,​​ Brescia, La Scuola, 1976, 767-840; Boncori L.,​​ Teoria e tecniche dei test,​​ Torino, Bollati Boringhieri, 1993; Id.,​​ I test in psicologia, Bologna, Il Mulino, 2006.

L. Boncori




PRUDENZA

 

PRUDENZA

Si chiama in causa il termine p. nella misura in cui la pedagogia e la sua storia vi fanno riferimento. Tanto più che sembra in atto un volenteroso ricupero del sistema delle​​ ​​ virtù e con esse della p. [1].

1. Né il tema, né le sue variazioni possono passare per specificamente cristiani. Allorché Ambrogio nel suo​​ De officiis​​ (I, 24; I, 27) propone come​​ cardinali​​ le​​ virtù primarie​​ della riflessione stoica, lo fa ispirandosi al modello ciceroniano. Il ricupero di Macrobio lungo il sec. XII ha fornito al sistema nuovi assetti, riesumandone le remote ascendenze platoniche e stoiche [2]. I libri IX e X dell’imponente​​ Speculum universale​​ di Randolfo Ardens rappresentano di cotali tradizioni la più esuberante rivalutazione. P., giustizia, fortezza e temperanza, sono, con la fede, virtù​​ discretivae,​​ diverse dalle virtù​​ oditivae​​ e da quelle​​ contemplativae.​​ Come tale la p. resta pericolosamente sostanziata di conoscenza:​​ memoria,​​ dispositio​​ e​​ providentia​​ sono le sue parti, e la​​ sapientia,​​ la​​ intelligentia​​ e la​​ scientia,​​ le sue specie. È ancora virtù morale? [3]. Anche Alberto Magno, prima di leggere​​ ​​ Aristotele, fa della p. una virtù discretiva e ne riassume la dinamica nei termini adusti del sillogismo:​​ «Omne bonum est faciendum. Sed hoc est bonum. Ergo est faciendum»​​ [4]. Certo esso esprime discrezione sentenziale; ma come farne un esercizio di virtù morale?

2. L’acquisizione, lungo il sec. XIII, dell’Etica​​ Nicomachea​​ di Aristotele [5] reca meticolosa precisione semantica e inedite ispirazioni. Lo studio della virtù comincia con il c. 13 del L. I, in cui il filosofo avverte che, essendo la virtù qualità dell’anima, non si può dirne adeguatamente senza prima conoscere quella. Orbene l’anima ha costituzione complessa. In parte è razionale e in parte no; e la quota irrazionale è in parte principio di passioni, voglie e suscettibilità, e in parte fermento di mero metabolismo. Ora è ovvio che mentre quest’ultima quota risulta radicalmente indisponibile, l’altra, per la complessiva sostanziale contiguità con la parte razionale, non può non riuscire suscettibile di discrezione: tra l’eccesso e il difetto può essere di caso in caso ricondotta alla misura espediente. L’appetito è disciplinabile, e la p. ne è la disciplina [6].​​ ​​ Tommaso d’Aquino dispone di Aristotele fin dagli esordii del proprio impegno, però nel suo tacito ma sicuro itinerare non può non esprimere assestamenti differenziati [7]. Convenzionalmente si accredita alla​​ Summa theologiae​​ la decantazione definitiva. Per quel che immediatamente ci interessa, mentre proprio l’Etica Nicomachea​​ ricusa all’anima umana ogni sopravvivenza, Tommaso ne sostiene pervicacemente l’assoluto buon diritto, integrando, nella virtualità di un unico principio, le​​ parti​​ cui Aristotele accredita certa rilevanza; intelligenza compresa. Unica​​ forma​​ del sinolo umano, l’anima, immateriale, concorre dialetticamente, in unità sostanziale, con la potenzialità erosiva della​​ materia.​​ Gli è che l’uomo non sussiste come valore assoluto, ma si realizza, frantumato e disperso, in tempo e spazio, nella molteplicità del numero. Della specie, per ciò stesso, il singolo è come uno scarto, o come tecnicamente si dice, una parte soggettiva. E ciò sia per l’essere, sia conseguentemente per l’agire: a nessun singolo il mestiere d’uomo può riuscire pervio per natura (Ia IIae, q. LXIII, a. 1; IIa IIae, q. LXVII, a. 15). I suoi dinamismi restano, tutti e ciascuno, un avvio avventurato; costituiranno promettente espressione solo se concorrenti in indole e misura. Disciplinare le propensioni è però, della p., compito preliminare (IIa IIae, q. XLVII, a. 6); non può di fatto esaurirne l’impegno. Ponderata, infatti, in funzione della esecuzione espediente, la disciplina in parola deve consecutivamente sostenere codesta promessa fino ad esecuzione consumata: «Prudentia est recta ratio agibilium, unde oportet quod ille sit praecipuus actus prudentiae qui est praecipuus actus rationis agibilium.​​ Cuius quidem sunt tres actus. Quorum primus est consiliari, quod pertinet ad inventionem, nam consiliari est quaerere. Secundus actus est iudicare de inventis; et hic sistit speculativa ratio. Sed practica ratio, quae ordinatur ad opus, procedit ulterius, et est tertius actus eius praecipere. Qui quidem actus consistit in applicatione consiliatorum et iudicatorum ad operandum; et quia iste actus est propinquior fini rationis practicae, unde est quod iste est principalis actus rationis practicae et per consequens prudentiae»​​ (IIa IIae, q. XLVII, a. 8).

3. L’idea d’una virtù che cavalca le propensioni, onde imporre ad esse misura, e definitiva rettitudine alla loro complessiva concorrenza nell’esercizio terminale che insieme esprimono, non è di facile assimilazione [8]. Così la p. di invenzione tomistica cede tosto l’onore della successiva cronistoria ad accezioni meno intrepide e sicuramente arruffate; quella dantesca ad es.: «Bene si pone p., cioè senno, per molti essere morale virtù; ma Aristotele dinumera quella intra le intellettuali, avvegnaché​​ essa sia conduttrice delle morali virtù e mostri la via per che elle si compongono e senza quella essere non possono» (Conv.​​ IV,17). Nella sua originale elaborazione, la p., per quanto ardua, costituisce alea indeclinabile per chi vuol correre con qualche degna speranza l’avventura umana [9]. Una straordinaria provocazione per ogni pedagogia. Vi si trova, questa, sollecitata e ad attenzioni assolutamente personalizzate, vista la perentoria originalità d’ogni singolo, e a inesauste persistenti cure, vista la fatale estenuazione del suo beneficiario tra nascita e morte.

Bibliografia

[1] Nelson D. M.,​​ The priority of prudence. Virtue and natural law in Thomas Aquinas and the​​ implications for modem ethics,​​ Park, 1992; [2] Lapidge M., «The stoic inheritance» (in​​ A history of Twelft-Century western philosophy,​​ Ed. P. Dronke), Cambridge, 1988; [3]​​ Grundel J.,​​ Die Lehre des Randulfus Ardens der Verstandestugenden auf dem Hintergrund seiner Seelenlehre,​​ München,​​ 1976; [4] Payer P. J.,​​ Prudence and the principles of natural law. A medieval development​​ (in «Speculum» LIV, 1979, 55-70); [5] Gauthier R. A., «Ethica Nicomachea» (in​​ Aristoteles Latinus,​​ 26, 1-3, vol.​​ I:​​ Praefatio),​​ Leiden, 1974; [6] Westberg D.,​​ Right practical reason. Aristotle,​​ action,​​ and prudence in Aquinas,​​ Oxford, 1994; [7] Abbà G.,​​ Lex et virtus.​​ Studi sull’evoluzione della dottrina morale di S. Tommaso d’Aquino,​​ Roma, 1983; [8] Pinckaers S., in «Bulletin Thomiste» IX, 1955, 345-362; [9] Buehler W. J.,​​ The rote of prudence in education,​​ Washington, 1950.

P. T. Stella