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POSITIVISMO E EDUCAZIONE

 

POSITIVISMO E EDUCAZIONE

1.​​ Il P. come movimento culturale.​​ Il complesso movimento culturale che si è soliti definire con il termine di P. si sviluppò a partire dai primi decenni del XIX sec. in Francia, in Inghilterra, in Germania e infine anche in Italia, riflettendo e intrecciandosi con i processi di modernizzazione che stavano trasformando in modo radicale la vita produttiva e sociale. Si trattò di un’epoca complessivamente pacifica sul piano dei conflitti militari e segnata da importanti scoperte in campo scientifico e tecnologico che determinarono un forte rinnovamento e incremento della produzione, dall’ampliamento dei mercati e il potenziamento dei trasporti, dal moltiplicarsi del fenomeno dell’urbanesimo, dai progressi in campo medico che debellarono antichi flagelli e migliorarono le condizioni di vita specie dei ceti popolari. Questi importanti mutamenti socio-economici si accompagnarono alla definitiva affermazione della borghesia imprenditoriale sia sul piano politico sia sul piano del costume e dei valori.

1.1.​​ Sotto il profilo teorico​​ alcuni tratti di fondo comuni consentono l’identificazione del P. come movimento culturale. Il primo carattere è rappresentato dal primato assegnato al «fatto» inteso come unica esperienza verificabile: ciò che è, è ciò che appare come osservabile. La realtà non è che un tessuto di fatti, cioè di accadimenti verificabili. Ne consegue che il modello di conoscenza sperimentale basato sulla capacità di previsione secondo leggi scientifiche costituisce il modello positivo di tutto il sapere (non solo, dunque, delle scienze naturali, ma valido anche per lo studio dell’individuo e della società). Si profila così la possibilità di una nuova era storica e di una nuova società organizzata secondo il modello scientifico-sperimentale concepito come alternativo e, dunque, incompatibile con altri modelli culturali e sociali di tipo, per es., religioso o metafisico (Saint-Simon, Comte). Il secondo tratto caratteristico è dato dalla concezione evolutiva a base naturalistica dei fenomeni umani e sociali. La storia dell’uomo e della società non sarebbe che un ininterrotto processo evolutivo che è via via passato da forme di vita e di organizzazione sociale più semplici a forme via via sempre più complesse (Spencer, Darwin). L’età positivistica è pervasa da un ottimismo generalizzato che scaturisce dalla convinzione di un progresso inarrestabile (talvolta pensato come frutto dell’ingegnosità umana, talaltra come necessità automatica) verso condizioni di benessere diffuso in una società pacifica e percorsa dal principio della solidarietà. Salvo qualche eccezione (per es. Stuart Mill), il P. è dunque segnato da una fiducia spesso acritica, sbrigativa e superficiale nella stabilità e nella crescita senza ostacoli governata dalla scienza.

1.2.​​ Al​​ ​​ naturalismo evolutivo​​ corrispondono sul piano etico-sociale istanze antimetafisiche ed anti-confessionali, fortemente critiche e liberistiche, ma che tuttavia non sfuggono, a loro volta, a esiti deterministici (​​ Ardigò, Lombroso). L’uomo è visto quasi come un epifenomeno della natura. L’etica è ridotta per lo più a socialità, ovvero alla disposizione a seguire le leggi che governano la società e a viverle come dovere (​​ Durkheim). Sul versante politico la cultura positivista manifesta aspetti non meno ambivalenti, d’un lato valorizzando gli ideali umanitari e progressisti tipici della democrazia e, dall’altro, imprimendo nei fatti alla società liberale uno sviluppo condizionato dagli interessi della borghesia produttiva, per lo più di sentimenti moderati e conservatori.

2.​​ Il​​ P. come movimento pedagogico.​​ Nel P. si coglie un forte interesse per l’educazione e la pedagogia e molti dei suoi più autorevoli esponenti si occupano di tematiche formative (Spencer, Durkheim, Bain, Ardigò). La pedagogia è concepita come scienza sociale per eccellenza ed è reputata come una delle forme scientifiche della trasformazione sociale nella misura in cui essa sa ristrutturarsi in senso positivo e sperimentale. La scuola, a sua volta, è considerata in maniera strettamente funzionale con l’organizzazione della società ed è perciò vista come lo strumento attraverso cui è possibile promuovere i processi di modernizzazione sia sul piano della mentalità individuale sia a livello di comportamenti collettivi. L’analisi pedagogica non si svolge tuttavia in quelle forme lineari che l’adozione del metodo sperimentale e i protagonisti stessi potrebbero far ritenere, ma si articola sul piano teorico in forme alquanto complesse, oscillando tra tendenze dogmatiche e istanze critiche. Anche in sede pedagogica si registrano due linee di sviluppo della pedagogia positivistica: una linea dogmatica in cui prevale l’identificazione della scientificità con la scienza evolutiva, intesa come unico criterio di verità, con la congruente riproposizione di una nuova metafisica al posto di quella che si voleva combattere (per quanto riguarda l’Italia all’interno di questo orizzonte culturale si collocano autori come Ardigò, Angiulli, De Dominicis, Siciliani). Un’altra linea di sviluppo privilegia invece il metodo critico, la dimensione sperimentale, il confronto con la realtà in vista dello sviluppo dell’uomo e della società e non per la scienza presa per se stessa, con un approccio, dunque, più umanistico e storico (​​ Gabelli, Marchesini, Pasquali,​​ ​​ Villari) e meno condizionato da pregiudiziali di tipo ideologico. Gli studi e le ricerche più recenti individuano in questa seconda linea di sviluppo l’esito più significativo e produttivo del P. pedagogico sul piano storico.

3.​​ La valutazione storiografica del P.​​ È opportuno, a questo punto, aprire una breve parentesi per accennare al fatto che in campo storiografico la valutazione del P. sia come fenomeno culturale sia, più specificamente, come movimento pedagogico è stata a lungo controversa ed è ancora oggi motivo di discussioni. Su di esso sono pesati il giudizio di netta e complessiva condanna dell’​​ ​​ idealismo, le riserve del​​ ​​ marxismo che lo ha a lungo guardato con diffidenza in quanto ideologia tipicamente borghese (anche se non sono mancate venature positiveggianti più che significative nei movimenti socialisti europei) e, infine, le critiche ad una visione spesso acritica della scienza e del metodo scientifico avanzate negli ambienti scientifici del primo Novecento ben più scaltriti dei positivisti tardo-ottocenteschi sul piano epistemologico. Né hanno giovato sul piano della ricostruzione e dell’analisi storica, a loro volta, i tentativi compiuti da una parte della storiografia di formazione tardo-positivista volti ad una acritica e un po’ scontata difesa del movimento. Il graduale stemperarsi delle polemiche anche contingenti e il moltiplicarsi delle ricerche su singoli aspetti hanno contribuito, con il trascorrere del tempo, a sgombrare il campo da molti fraintendimenti e sospetti e, soprattutto, hanno consentito una migliore conoscenza del P. non solo in quanto pura teoria, ma nei suoi vari apporti specifici in campo sociale, giuridico, medico, pedagogico e così via. Ciò ha permesso una valutazione più serena dei risultati effettivamente raggiunti e, dunque, meno condizionata da pregiudizi di parte. Anche per quanto riguarda il campo dell’educazione e della scuola gli studiosi sono concordi nel rilevare che gli apporti più significativi sono venuti non tanto sul piano dall’elaborazione teorica (spesso esposta a tendenze dottrinarie) quanto dall’individuazione e dall’approfondimento di alcuni nuovi ambiti di ricerca che hanno consentito alle prassi educative di compiere significativi progressi. In primo luogo va ricordato che le ricerche sperimentali in medicina e in psicologia applicate all’educazione hanno, per es., permesso di aprire la strada ad una conoscenza più puntuale e meno approssimativa del fanciullo, dal funzionamento della sua intelligenza ai meccanismi di apprendimento. Se certe semplificazioni e riduzioni delle funzioni intellettive ci sembrano oggi sconcertanti e improponibili, non si può dimenticare che i fondamentali apporti della scuola psico-pedagogica di​​ ​​ Binet,​​ ​​ Claparède,​​ ​​ Decroly e, più tardi,​​ ​​ Piaget non sarebbero stati possibili se non avessero potuto avvalersi dei risultati raggiunti per via sperimentale nell’ultimo Ottocento in campo neuro-fisiologico. Per restare ancora sulla conoscenza del fanciullo, va inoltre richiamato come la cultura positivista abbia opportunamente valorizzato la dimensione che oggi diremmo della corporeità promuovendo, da un lato, migliori pratiche igieniche, maggiori cure alimentari, una più avvertita attenzione alla salute fisica (in sostanza una concezione più sana dell’esistenza) e, dall’altro, sostenendo con grande vigore (in ciò aiutata da una visione militar-nazionalista del quadro politico complessivo) l’introduzione dell’educazione fisica nella scuola, giudicata necessaria integrazione dell’educazione intellettuale e morale. Sul piano dei metodi didattici la valorizzazione delle pratiche induttive promosse una visione meno libresca e mnemonistica della scuola, più vicina alle «cose» e meno basata sulle parole e sul ragionamento astratto, andando oltre le consuetudini didattiche di metà Ottocento ancora in larga misura affidate alla ripetizione e alla memorizzazione. Occorre peraltro avvertire che non tutte le realizzazioni furono all’altezza delle affermazioni di principio e delle esperienze dei maestri più esperti e competenti. Non a torto​​ ​​ Lombardo-Radice avrebbe denunciato agli inizi del nuovo secolo una diffusa mentalità «pedagogistica», incapace di alzarsi al di sopra della semplicità dell’esperienza, polemicamente contrapposta alla mentalità «pedagogica» capace invece di misurarsi anche con la riflessione teorica. L’ottimismo progressista del P. congiunto con le scoperte mediche e quelle psicologiche consentirono, infine, un approccio scientificamente più corretto e articolato al problema dell’handicap mentale e fisico e una visione meno punitiva e più rieducativa (anche se l’esperienza pratica non andò oltre il perfezionamento delle forme di segregazione) della devianza infantile e giovanile.

4.​​ L’interesse per la scuola.​​ Resta da richiamare un’ultima questione e cioè il forte interesse che la cultura positivista manifestò in genere per il problema scolastico. La ragione va ricercata in alcuni dati storici: le trasformazioni tecnologiche e produttive che sollecitavano una manodopera più istruita; la sempre maggiore circolazione della cultura scritta; le spinte emancipative (spesso di matrice anarchica e socialista) che agitavano, talora in modo disordinato, i ceti popolari; le resistenze della Chiesa alla modernità laica giudicata come un pericolo per la fede religiosa; il bisogno di stabilità della società borghese impegnata nell’espansionismo coloniale; la legittimazione dei valori borghesi come valori sociali egemoni. La scuola fu prospettata sia come potente occasione di modernizzazione sia come strumento di socializzazione politica collettiva e, dunque, nel medesimo tempo fattore di progresso, emancipazione e di controllo sociale. L’analisi del​​ ​​ funzionalismo sociologico si può considerare a tal riguardo esemplare: attraverso la scuola, opportunamente ristrutturata su basi scientifiche, era possibile orientare e guidare i comportamenti individuali e sociali liberandoli da quegli atteggiamenti e sentimenti che non risultavano funzionali alla civiltà moderna (ignoranza, superstizioni, senso fatalistico della vita) e promuovendo quelli che ne erano invece elemento costitutivo (fiducia nel progresso, disponibilità al nuovo, iniziativa personale). Alla scuola era inoltre fatto carico di sostenere i sentimenti di lealtà, ordine e disciplina necessari per lo sviluppo ordinato della società borghese sia mediante la circolazione e interiorizzazione dei valori nazionali (con il passaggio dalla fedeltà al gruppo, al clan, alla famiglia alla fedeltà alla nazione) e sia attraverso la promozione di quei codici di comportamento anche individuali che la borghesia liberale aveva posto a base del suo accreditamento come classe egemone (lealtà, rispetto delle apparenze, laicità nel modo di guardare all’esistenza, paternalismo). Da queste premesse scaturirono le politiche scolastiche del secondo Ottocento destinate a segnare un tornante significativo nella storia sociale e civile dei paesi europei e anglosassoni: affermazione e generalizzazione dell’​​ ​​ obbligo scolastico inteso come «minimo garantito» di sapere per ciascun cittadino; netta distinzione tra la scuola per tutti e la scuola destinata alle élites dirigenti; diretto intervento dello Stato in campo scolastico (con la creazione, in alcuni casi, di veri e propri sistemi scolastici statali, come in Francia e in Italia); laicizzazione dei programmi; potenziamento del sapere scientifico pur in un quadro di perdurante primato ancora assegnato alla cultura classica.

Bibliografia

Spirito U.,​​ Il pensiero pedagogico del P.,​​ Firenze, Giuntine-Sansoni, 1956; Bertoni-Jovine D. - R. Tisato (Edd.),​​ P. pedagogico italiano,​​ 2​​ voll., Torino, UTET, 1973-1976; Cambi F.,​​ La pedagogia borghese nell’Italia contemporanea,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1974; Santucci A. (Ed.),​​ Scienza e filosofia nella cultura positivistica,​​ Milano, Feltrinelli, 1982; Papa E. R. (Ed.),​​ Il​​ P. e la cultura italiana,​​ Milano, Angeli, 1985; Chiosso G., «La questione scolastica in Italia: l’istruzione popolare», in R. Lill - F. Traniello (Edd.),​​ Il​​ «Kulturkampf» in Italia e nei paesi di lingua tedesca,​​ Bologna, Il Mulino, 1992, 335-388.

G. Chiosso




POSTMODERNO / POSTMODERNITÀ

 

POSTMODERNO /​​ POSTMODERNITÀ

Più che una delimitazione cronologica, sia l’aggettivo sostantivato che il sostantivo astratto, starebbero ad indicare una situazione, uno stato, una condizione, una sensibilità letteraria, artistica, filosofica e culturale in genere che si va distanziando dalla​​ ​​ modernità.

1. Il condizionale è d’obbligo, in quanto si ha a che fare con un termine, carico di emozionalità contrapposta, quasi una parola d’ordine, di indubbia presa sui mass media e sull’immaginario collettivo, a cui vengono assegnati significati diversi fino all’ambiguità. Usato già in saggi letterari spagnoli e statunitensi di critica letteraria degli anni ’30-40 e dallo storico A. Toynbee nel 1947 in​​ A study of history,​​ per indicare una nuova fase storica successiva all’età moderna, il termine ha avuto fortuna con il saggio del filosofo francese J.-F. Lyotard (La condition postmoderne,​​ 1979) e in sede letteraria con il saggio del critico statunitense I. Hassan (The question of post-modernism,​​ 1981).

2. Secondo i teorici del p. la cultura moderna, vale a dire la visione del mondo e della vita, tipica della vicenda storica delle società dell’Occidente post-medioevale, sarebbe giunta al suo tramonto. La condizione postmoderna renderebbe manifesti i limiti e le sue configurazioni culturali ispirate all’umanesimo antropocentrico, che ha nella scienza e nella tecnica le sue massime espressioni di razionalità e nella capacità di trasformazione industriale e di azione politica le vie per costruire il proprio destino storico ed intramondano; ed evidenzierebbe la non assolutezza delle sue grandi narrazioni («meta-racconti» nella terminologia di Lyotard), specie quelli dell’​​ ​​ illuminismo, dell’idealismo, del positivismo e del marxismo, che a loro modo legittimavano filosoficamente, eticamente e politicamente l’egemonia culturale dell’Occidente. O perlomeno metterebbe in risalto che, rispetto a una «modernità solida», con le sue strutture consolidate, prevarrebbe una «modernità liquida», caratterizzata dai flussi, dai processi, dalla costante innovazione, conseguente all’irrompere delle tecnologie informatizzate, dalla globalizzazione dell’esistenza e del mercato e culturalmente dal declino della metafisica. Il sapere risulterebbe irrimediabilmente frammentato, ipotetico, situato, costituzionalmente​​ in itinere,​​ insormontabilmente storico-culturale. Contenutisticamente assisteremmo alla motiplicazione delle​​ Weltanschauung​​ e delle fedi, che danno spettacolo di sé e che diventano piuttosto merce di consumo massmediologico, senza che nessuna possa di diritto imporsi alle altre come più vera. Al massimo può trovare pragmaticamente maggior accoglienza rispetto alle altre. Più che un sapere che definisce, avremmo a che fare con un sapere che parla, narra, racconta delle cose-eventi o di sé, che interpreta e produce nuove o rinnovate comprensioni (che «sfondano» le comprensioni precedenti, più che «fondare» posizioni) o semplicemente che opera «tecnologicamente» sul reale o lo «simula virtualmente».

3. Considerato da Habermas come segno della crisi in cui versa il progetto emancipativo della modernità, esaltato o bollato come «pensiero debole» (che si appoggia ed oltrepassa la critica culturale di Nietzsche e Heidegger), tacciato di rimettere in corso posizioni pre-moderne o reazionarie, il p. esprime a suo modo il vasto​​ ​​ pluralismo e la complessità sociale contemporanea. In tal senso costituisce un utile termine di confronto per la pratica educativa e la ricerca pedagogica, chiamata oggi, sempre più, a non fermarsi a soluzioni tecniche, ma a ripensare globalmente la cultura formativa.

Bibliografia

Lyotard J.-F.,​​ La condizione postmoderna,​​ Milano, Feltrinelli, 1981; Vattimo G. - P. A. Rovatti (Edd.),​​ Il pensiero debole,​​ Ibid., 1983; Vattimo G.,​​ La fine della modernità,​​ Milano, Garzanti, 1985; Habermas L,​​ Il discorso filosofico della modernità,​​ Roma / Bari, Laterza, 1987; Bauman Z.,​​ Modernità​​ Liquida, Ibid., 2002; Chiurazzi G.,​​ Il p., Milano, Mondadori, 2002; Ambrosi E.,​​ Il bello del relativismo, Venezia, Marsilio, 2005; Bauman Z.,​​ Il disagio della p., Milano, Mondadori, 2007.

C. Nanni