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PIAGET Jean

 

PIAGET Jean

n. a Neuchâtel nel 1896 - m. a Ginevra nel 1980, psicopedagogista svizzero.

1.​​ Gli inizi.​​ Dopo un precoce interesse pelle scienze naturali (a dieci anni pubblica il suo primo articolo scientifico sul passero albino, si laurea in zoologia a venticinque anni e nel 1918 si specializza con una tesi sui molluschi), P. sviluppa progressivamente un crescente interesse per la psichiatria e la psicologia. Frequenta così a Zurigo l’ospedale psichiatrico diretto da E. Bleuler, inizia la lettura delle opere di​​ ​​ Freud, segue i seminari di​​ ​​ Jung e per alcuni mesi è in analisi con S. Spielrein. I suoi forti interessi di tipo speculativo lo portano poi, tra il 1919 e il 1921, a Parigi dove segue alla Sorbona le lezioni di G. Dumas e di H. Piéron. Prendendo spunto dal pensiero del filosofo francese H. Bergson, P. si propone di utilizzare gli strumenti della scienza sperimentale per studiare le forme successive di elaborazione della ragione nell’ontogenesi delle condotte umane. Inizia così, mettendo a punto presso il laboratorio di​​ ​​ Binet un metodo per la standardizzazione dei​​ ​​ test mentali per bambini di​​ ​​ Burt, a prestare particolare attenzione alle strategie seguite dal bambino per giungere alla soluzione dei problemi e nel 1921 accetta il posto di direttore di ricerca presso l’Institut J. J. Rousseau, offertogli da​​ ​​ Claparède.

2.​​ Le ricerche sistematiche e gli incarichi internazionali.​​ Si trasferisce definitivamente a Ginevra e inizia le sue ricerche sistematiche sullo sviluppo infantile occupandosi sperimentalmente e teoricamente della strutturazione del pensiero nel bambino e nell’adolescente. Ne studierà dunque le prime attività percettive e motorie, il costituirsi di un mondo oggettivo e le prime manifestazioni, tra il primo e il secondo anno di vita, dell’intelligenza senso-motoria e quindi dell’attività rappresentativa. Successivamente prenderà in esame l’attività imitativa, il gioco simbolico e il linguaggio verbale, e giungerà a delineare un quadro e un’analisi complessiva della rappresentazione del mondo nel bambino, caratterizzata dall’egocentrismo, dal realismo, dalla non reversibilità delle operazioni di pensiero. In seguito, sulla base di una serie di osservazioni sistematiche condotte con il metodo clinico, analizzerà lo sviluppo del pensiero dai quattro agli otto anni, il comparire della reversibilità, il formarsi delle principali nozioni di quantità, numero, movimento, spazio. Porterà infine a termine, in collaborazione con B. Inhelder, una serie di studi sull’evoluzione dell’intelligenza sino ai quindici-sedici anni (processo ipotetico deduttivo, processo di induzione, concetto di probabilità). Nel 1929 viene nominato direttore del Bureau International de l’Éducation e nel 1940, alla morte di Claparède, direttore dell’Istituto J. J. Rousseau e professore di psicologia sperimentale a Ginevra. Dirige inoltre gli «Archives de Psychologie», che si caratterizzeranno sempre più come il periodico della scuola piagetiana. Al termine della II Guerra Mondiale ricopre importanti incarichi all’Unesco e insegna a Ginevra storia della scienza e alla Sorbona di Parigi, come successore di Merleau-Ponty, psicologia genetica (1952-1963). Nel 1954 fonda a Ginevra un Centro Internazionale di Epistemologia genetica con impianto interdisciplinare (psicologia, logica ed epistemologia) e prende posizione contro il metodo filosofico-speculativo rapportandolo criticamente al metodo scientifico. Si occupa inoltre dei problemi dello strutturalismo cercando di mettere in luce un punto di vista metodologico comune ai diversi campi di ricerca.

3.​​ Lo sviluppo mentale del bambino.​​ Sin dall’inizio, l’interesse principale di P. per lo​​ ​​ sviluppo infantile si è incentrato sulla genesi della capacità logica, da lui definita «l’assiomatica della ragione». Individuato nella psicologia dell’intelligenza il centro dei propri interessi teorici e sperimentali, P. ha teso a dare un’esatta interpretazione psicologica dei concetti e delle operazioni logiche (concetto di spazio, tempo, ecc.; operazioni di disgiunzione, congiunzione, esclusione) studiandone la genesi e lo sviluppo e utilizzando un metodo, l’analisi genetica dei processi, che postula un parallelismo tra l’acquisizione individuale e l’acquisizione storica. Secondo P. la capacità di ragionamento logico non è innata nel bambino ma si costituisce progressivamente, presentandosi sotto forma di strutture operative, in connessione con il linguaggio e i rapporti sociali: l’atto logico consiste nell’operare, nell’agire sulle cose o sugli altri. È necessario dunque, se si vuole comprendere come si costruisce l’apparato concettuale di cui il pensiero si avvale, seguire il soggetto nella sua attività nell’ambiente che lo circonda. Sulla base di queste premesse la condotta intelligente, l’adattamento, possono venir descritti con una dialettica funzionale di due processi: quello di assimilazione e quello di accomodamento, dove, secondo P., anche i riflessi elementari (ad es. il riflesso della suzione nel neonato) contengono già elementi di assimilazione e dove il pensiero logico astratto, quale il ragionamento matematico, è definibile come un comportamento interiorizzato e concettualizzato. Secondo P., lo sviluppo mentale del bambino, dall’infanzia all’adolescenza, può essere descritto come un lungo percorso che conduce alla acquisizione di modalità adulte di conoscere il mondo e di entrare in relazione con gli altri. In questo percorso è possibile identificare una serie di stadi, ognuno dei quali svolge un ruolo fondamentale e ineliminabile. In esso possono essere identificati due periodi principali: il periodo senso-motorio (dalla nascita ai primi due anni di vita) e il periodo concettuale (dai 2 anni ai 15 anni). Questi due periodi sono a loro volta suddivisibili in stadi. Nel periodo senso-motorio il bambino sviluppa progressivamente le proprie modalità di interazione con l’ambiente, passando dall’uso esclusivo dei riflessi alle coordinazioni visuo-motorie. Impara cioè a coordinare percezione e movimento e raggiunge, tra i 4 e gli 8 mesi, la «permanenza della persona» e la «permanenza dell’oggetto»: apprende cioè che le persone e gli oggetti sono entità separate da lui che mantengono la propria esistenza anche se scompaiono dal suo campo visivo. Alla fine del periodo senso-motorio il bambino è in grado di formarsi delle immagini mentali e può iniziare a operare con le rappresentazioni interne che non richiedono la presenza immediata di oggetti o persone. Il periodo concettuale è suddiviso in tre momenti: lo stadio preoperatorio (dai 2 ai 7 anni), lo stadio delle operazioni concrete (dai 7 agli 11 anni) e lo stadio delle operazioni formali (dagli 11 ai 15 anni). Nello stadio preparatorio si assiste allo sviluppo delle rappresentazioni esterne (fase preconcettuale) e delle operazioni mentali di classificazione e seriazione degli oggetti (fase del pensiero intuitivo). Nello stadio delle operazioni concrete il bambino acquisisce progressivamente la capacità di compiere operazioni mentali facendo riferimento a oggetti concreti, cose o persone e inizia a utilizzare i concetti di numero, peso e volume. Lo sviluppo mentale giunge a termine nello stadio delle operazioni formali, caratterizzato dalla acquisizione della capacità di compiere operazioni mentali utilizzando esclusivamente simboli, e dal conseguente accesso al metodo ipotetico-deduttivo nella soluzione di problemi logico-matematici.

4.​​ L’epistemologia genetica.​​ La via che porta alla elaborazione dell’epistemologia genetica parte dunque dallo studio dello sviluppo psicologico del bambino. Essa è intesa da P. come «scienza separata dalla filosofia ma legata a tutte le scienze umane e alla biologia», volta a rintracciare la genesi dei concetti di spazio, di tempo, causalità o numero e classe che a loro volta si formano per successivi adattamenti e che permettono la concettualizzazione dello sviluppo mentale nei termini di un adattamento via via più preciso alla realtà. In quanto tale, l’epistemologia genetica «è in grado di affrontare questioni fino a quel momento esclusivamente filosofiche in una maniera risolutamente sperimentale». Le considerazioni epistemologiche di P. si basano dunque sulla ricerca sperimentale, sia psicologica sia biologica, e sul ricorso a un metodo strutturale che procede per approssimazioni successive. Le sue affermazioni sullo sviluppo mentale del bambino, le sue conclusioni riguardo al tipo di acquisizioni logiche, affettive, percettive dei diversi stadi dello sviluppo medesimo, sono corredate da un complesso di dati di osservazioni e elaborazioni statistiche tali da consentire una verifica della loro validità e sono ricche di implicazioni da un punto di vista didattico e pedagogico, sottolineando l’esigenza di adeguare i metodi e i contenuti dell’insegnamento ai diversi stadi dello sviluppo cognitivo, affettivo e morale del bambino.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ tra le opere di P. trad. in it.:​​ Giudizio e ragionamento nel bambino, Firenze, La Nuova Italia, 1958;​​ Il linguaggio e il pensiero nel fanciullo, Firenze, Giunti-Barbera, 1965;​​ La nascita dell’intelligenza, Firenze, La Nuova Italia, 1968;​​ Il giudizio morale nel fanciullo, Firenze, Giunti-Barbera, 1972;​​ Dove va l’educazione, Roma, Armando, 1978. b)​​ Studi:​​ Filograsso N.,​​ J.P. e l’educazione,​​ Urbino, Argalìa, 1974; Hers R. H.,​​ Promoting moral growth: from P. to Kohlberg,​​ New York / London, Longman, 1979; Evans R. I.,​​ Cos’è la psicologia: lo sviluppo della mente umana,​​ l’educazione,​​ i meccanismi dell’apprendimento spiegati dal più grande studioso di processi cognitivi: J.P., Milano, Mondolibri, 2002; Taroni P.,​​ Introduzione a P., Urbino, Quattroventi, 2005; Gardner H.,​​ Riscoperta del pensiero e movimento strutturalista. P. e Lévi-Strauss, Roma, Armando, 2006; Filograsso N. - R. Travaglini (Edd.),​​ P. e l’educazione della mente, Milano, Angeli, 2007.

F. Ortu - N. Dazzi




PIANIFICAZIONE DELL’EDUCAZIONE

 

PIANIFICAZIONE​​ DELL’EDUCAZIONE

È l’organizzazione, secondo una scansione temporale, dello sviluppo del​​ ​​ sistema formativo o di una sua parte.

1. Benché una qualche p.d.e. ci sia sempre stata, è solo dopo la seconda guerra mondiale che si parla comunemente di piani e si diffondono nei ministeri le strutture di p.d.e. Per prima l’Unione Sovietica le attribuisce un posto di rilievo: l’impostazione è caratterizzata da centralizzazione, unità gerarchica di comando, controllo ideologico del curricolo e stretta integrazione fra scuola ed extrascuola, educazione dei giovani e degli adulti, p.d.e. e p. economica. Nei Paesi capitalisti, nonostante la fiducia nelle capacità di autoregolazione del mercato, si riscontra una notevole presenza della p.d.e. dato l’interesse degli Stati a sviluppare l’educazione. La p.d.e. si qualifica per la natura indicativa dei piani, per la tendenza al decentramento, per la preferenza verso gli incentivi. Nei Paesi in via di sviluppo la p.d.e. ha occupato dagli inizi un posto centrale sia per l’influsso delle organizzazioni internazionali, sia per convinzione propria perché, a motivo anche del successo apparente negli Stati comunisti, la p.d.e. si presentava come uno strumento essenziale per distribuire in modo efficace le scarse risorse disponibili. I risultati modesti della p.d.e. e il crollo del blocco comunista hanno creato alla fine degli anni ’80 del XX sec. confusione e incertezza da cui si è usciti attraverso l’adozione di approcci più qualitativi, decentrati e partecipativi.

2. Attualmente​​ si pensa che la p.d.e., pur implicando notevoli aspetti tecnici, non possa essere considerata un’attività prettamente tecnica, ma sia invece intrinsecamente politica perché incide sul futuro del sistema formativo. Di fronte alla scarsa efficacia dell’impostazione centralistica ci si orienta verso una decentrata, partecipativa e aperta; tuttavia, rimane l’esigenza del coordinamento tra le diverse strutture che consenta di valorizzare i rapporti di complementarità esistenti e di realizzare sinergie generali. Quanto ai modelli economici di riferimento, ha perso terreno l’approccio della «mano d’opera» per la difficoltà di prevedere nel lungo periodo le esigenze di forza lavoro; invece, guadagnano consensi la formula della domanda sociale, che punta ad identificare i bisogni dei cittadini, e l’analisi costi-benefici che valuta i vantaggi e gli svantaggi delle alternative proposte allo scopo di determinare la più efficace. Le relazioni tra istruzione e formazione da una parte e crescita economica dall’altra non si possono basare solo sulla domanda di lavoro, ma bisogna anche tenere conto della qualità dell’offerta; si richiede pertanto un monitoraggio costante della domanda e dell’offerta al fine di elaborare strategie concertate. Tale approccio andrebbe realizzato nel quadro di un modello personalista che ponga al centro la persona e non il sistema economico.

Bibliografia

Rizzi F., «P.d.e.», in M. Laeng (Ed.),​​ Enciclopedia pedagogica,​​ vol. V, Brescia, La Scuola, 1992, 9058-9061; Farrel J. P., «Planning education: Overview», in T. Husen - T. N. Postlethwaite (Edd.),​​ The international encyclopedia of education,​​ Oxford, Pergamon Press,​​ 21994, 4499-4510; Lodigiani R.,​​ La formazione come risorsa, in «Studi di Sociologia» 37 (1999) 3, 345-368; Bertrand O.,​​ Planning human resources: Methods,​​ experiences,​​ and practices, Paris, Unesco, 2004; Cecchini A. - A. Plaisant,​​ Analisi e modelli per la p., Milano, Angeli, 2005; Bertagna G.,​​ Il pensiero manuale, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2006.

G. Malizia




PIANO DELL’OFFERTA FORMATIVA

 

OFFERTA FORMATIVA: PIANO DELLA

1.​​ Il Piano dell’o.f. (Pof) nella normativa. Art. 3 del Dpr. 275 / 99: «1. Ogni istituzione scolastica predispone, con la partecipazione di tutte le sue componenti, il piano dell’o.f. Il piano è il documento fondamentale costitutivo dell’identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche ed esplicita la progettazione curricolare, extracurricolare, educativa ed organizzativa che le singole scuole adottano nell’ambito della loro autonomia. 2. Il piano dell’o.f. è coerente con gli obiettivi generali ed educativi dei diversi tipi di indirizzi di studi determinati a livello nazionale a norma dell’articolo 8 e riflette le esigenze del contesto culturale, sociale ed economico della realtà locale, tenendo conto della programmazione territoriale dell’o.f. Esso comprende e riconosce le diverse opzioni metodologiche, anche di gruppi minoritari, e valorizza le corrispondenti professionalità». Commi 1 e 2 dell’art. 9 del Dpr. 275 / 99: si parla di «ampliamenti dell’o.f. che tengano conto delle esigenze del contesto culturale, sociale ed economico delle realtà locali. I predetti ampliamenti consistono in ogni iniziativa coerente con le proprie finalità, in favore dei propri alunni e, coordinandosi con eventuali iniziative promosse dagli enti locali, in favore della popolazione giovanile e degli adulti. I curricoli determinati a norma dell’articolo 8 possono essere arricchiti con discipline e attività facoltative che, per la realizzazione di percorsi formativi integrati, le istituzioni scolastiche programmano sulla base di accordi con le regioni e gli enti locali».

2.​​ Il Pof in un’ottica statalista. Per ragioni storiche, quando, nel nostro Paese, si impiega l’espressione «ottica statalista», si intendono richiamare due qualificazioni. La prima presuppone legittimo e doveroso un sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione costituito in maniera monopolistica o quasi-monopolistica da istituzioni scolastiche statali. La seconda ritiene che tale sistema possa funzionare bene, garantendo equità e qualità a livello nazionale, soltanto se organizzato al proprio interno in maniera piramidale, gerarchica e centralista (gli storici dicono ‘napoleonica’). Questa modalità organizzativa si riferisce sia ad una burocrazia statale (centrale, regionale, provinciale, di scuola) che «obbedisca» alle direttive di metodo e di contenuto emanate dal vertice, il Ministro della P.I., sia ad una burocrazia locale, di scuola, fondata su un «potere» gerarchico dei «dirigenti sui dipendenti» o, comunque, di gruppi elitari sull’insieme dei docenti, degli studenti e delle famiglie.

2.1.​​ Redigere il Pof in quest’ottica,​​ significa, dunque, da un lato, costruirlo con il metodo della «modularità aggiuntiva». Il centro detta sia il curricolo nazionale, quello uguale per tutte le scuole della Repubblica (art. 8 del Dpr. 275 / 99), sia i limiti formali del suo possibile adattamento alla realtà locale (per es., affidare il 20% delle ore del curricolo nazionale all’autonomia delle singole istituzioni scolastiche). Ogni scuola, sulla base delle «esigenze del contesto culturale, sociale ed economico della realtà locale» e «tenendo conto della programmazione territoriale dell’o.f.» deliberata dagli enti locali, nonché delle eventuali risorse aggiuntive messe a disposizione da questi ultimi, stabilisce successivamente: a) la parte del curricolo nazionale obbligatorio, che non modifica; b) gli adattamenti locali al curricolo nazionale obbligatorio, nella misura autorizzata dalle norme nazionali; c) l’eventuale integrazione locale del curricolo nazionale con attività opzionali obbligatorie o facoltative; d) le modalità organizzative (tempi, luoghi, risorse) con cui intende concretizzare i punti precedenti.

2.2.​​ Dall’altro lato,​​ redigere il Pof nell’ottica statalista significa, inoltre, attribuire a questo documento il ruolo e la funzione che un tempo erano svolti dai Programmi di insegnamento ministeriali e dalle disposizioni emanate dal Ministero per attuarli. Così come studenti, docenti e famiglie dovevano «obbedire» alle norme ministeriali romane, analogamente essi dovrebbero ora «obbedire» alle disposizioni contenute nel Pof. Per quanto il Pof «vada​​ costruito​​ nella scuola» e per quanto «tale costruzione debba permettere l’accordo tra istanza centrale, normativa e unitaria, ed istanza locale, pragmatica e flessibile» non viene meno il fatto che si tratti comunque di un prodotto elaborato in maniera elitaria e verticistica, sottratto alla negoziazione diretta e cooperativa degli attori poi direttamente coinvolti nella sua pretesa azione formativa in situazione (i concreti studenti di un gruppo classe, i loro concreti genitori, i docenti realmente presenti con loro).

3.​​ Il Pof in un’ottica sussidiaria. Ben altre caratteristiche assume il Pof se, superando le inerzie della logica statalista, si inserisce nell’ottica della sussidiarietà e dell’autonomia (L. n. 59 / 97, Dpr. 275 / 99, L. n. 62 / 2000; riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, L. n. 53 / 03). In questo caso, esso, anzitutto, implica un sistema educativo nazionale composto da istituzioni scolastiche statali e non statali, in regime di equipollenza e di parità anche economica. In quanto documento «costitutivo dell’identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche», diventa, perciò, lo strumento che garantisce alle famiglie (art. 21, L. n. 59 / 97; L. n. 62 / 2000, L. n. 53 / 03) la libertà di scegliere, per i figli, una scuola nella quale, fatti salvi i comuni valori costituzionali, si professino comunque processi educativi e didattici, con relative ricadute organizzative, coerenti con le convinzioni condivise dai genitori. In secondo luogo, il Pof non è più il risultato di una costruzione modulare aggiuntiva, con il centro responsabile della predisposizione del nucleo curricolare da riproporre poi uguale in tutto il Paese e la periferia incaricata sia di adattare in parte tale nucleo uniforme, sia di arricchirlo con eventuali addizioni. Diventa piuttosto, in tutte le sue parti, il prodotto di una progettualità pedagogica che coinvolge cooperativamente e protagonisticamente tutti i soggetti concreti del processo educativo che si promuove in una scuola, e per la sua intera durata. Ciò è possibile, da un lato, se il centro non pretende più di interpretare il dispositivo dell’art. 8 del Dpr. 275 / 99 come una variabile dei vecchi Programmi di insegnamento, ma ragiona solo per norme generali sull’istruzione e livelli essenziali di prestazione sull’istruzione e formazione professionale, cioè per vincoli da assegnare all’autonoma e responsabile azione progettuale dei docenti e delle scuole (art. 33 della Costituzione e L. n. 53 / 53). Dall’altro, se anche a livello di scuola si procede allo stesso modo: non più, quindi, confezionare prima dell’inizio dell’anno un Pof che i docenti e le famiglie sono poi tenuti ad applicare e, quindi, a considerare alla stregua dei vecchi Programmi di insegnamento, ma attribuire al Pof la funzione di precisare i vincoli di risorsa e di risultato che docenti, studenti e famiglie dovranno considerare per progettare ed attuare, in autonomia e responsabilità, i contenuti, i metodi, i tempi ecc. della propria azione educativa. In questa prospettiva, come peraltro ricorda l’art. 3, comma 2 del DPR 275 / 99, il Pof diventa davvero lo strumento che «comprende e riconosce le​​ diverse opzioni metodologiche, anche di gruppi minoritari» che lavorano nella scuola e favorisce, di conseguenza, i processi di continua presa in carico personale dei compiti di insegnamento e apprendimento da parte di tutti gli attori dei processi educativi, in ogni momento della vita della scuola.

Bibliografia

Bertagna G. - S. Govi - M. Pavone,​​ Pof. Autonomia delle scuole e o.f., Brescia, La Scuola, 2001; Bertagna G.,​​ Valutare tutti,​​ valutare ciascuno. Una prospettiva pedagogica, Ibid., 2004; Id.,​​ Pensiero manuale. La scommessa di un sistema di istruzione e di formazione di pari dignità, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2006 (parte II e conclusioni); Id., «La figura del docente nella riforma», in CSSC-Centro Studi per la Scuola Cattolica,​​ Il ruolo degli insegnanti nella scuola cattolica. Scuola cattolica in Italia,​​ Ottavo Rapporto, Brescia, La Scuola, 2006.

G. Bertagna




PIANO DI STUDI

 

PIANO DI STUDI

Per p.d.s. s’intende generalmente, almeno nella lingua it., l’insieme / elenco delle materie di studio corrispondenti ad un determinato titolo di studio. Perciò ogni grado e ordine scolastico ha il suo p.d.s. previsto per rispondere al raggiungimento di determinate finalità. L’espressione p.d.s., utilizzata anche a livello universitario, s’identifica spesso con il cosiddetto «curricolo di studi» rispondente alla specializzazione scelta, perseguito secondo un certo ordine, a volte scelto personalmente dallo studente e concordato con le autorità responsabili.

1. Non sempre tale termine viene utilizzato con una distinzione chiara nei confronti di​​ ​​ programmi scolastici e curricoli, perché, a seconda dei Paesi, variano leggermente la denominazione e la prassi secondo il sistema dell’amministrazione scolastica. Tuttavia, nella maggioranza dei casi, ogni p.d.s., se riferito ai gradi e agli ordini scolastici, assume un carattere di riferimento e di guida del sistema scolastico nazionale, in quanto giustifica ed esige l’elaborazione dei programmi scolastici nazionali e dei curricoli a livello locale della singola scuola come applicazione-adeguamento dei programmi ufficiali alla situazione concreta.

2. A seconda del tipo di sistema amministrativo adottato dai Paesi può essere lasciato un certo margine di libertà alle singole scuole di scegliere il p.d.s. che si ritiene opportuno. È in gioco l’autonomia o meno della scuola a livello non solo didattico, ma anche organizzativo, gestionale, economico e finanziario. Il problema è complesso e solo pochi Paesi l’hanno risolto, globalmente o parzialmente. Anche il p.d.s., come i programmi scolastici, va rivisto periodicamente in rapporto non solo allo sviluppo epistemologico e alla considerazione pedagogico-didattica delle singole discipline di studio nei confronti dei soggetti in formazione, ma anche in relazione alle nuove esigenze della società. Basti pensare all’introduzione, in tanti Paesi, della lingua straniera come materia obbligatoria anche nella scuola primaria, dell’informatica nei diversi gradi scolastici, alla soppressione della lingua latina, ecc.

Bibliografia

Unesco,​​ Programmes d’études et éducation permanente,​​ Paris, Unesco, 1979; Porter J.,​​ Le concept de troncs communs de formation appliqué à des situations complexes d’apprentissage,​​ Ibid., 1983; Petracca C.,​​ Progettare per competenze. Verso i piani di studio personalizzati, Milano, Elmedi, 2003.

H.-C. A. Chang