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PENSIERO CRITICO

 

PENSIERO CRITICO

Il p.c. è parte integrante della più vasta area dell’attività cognitiva relativa ai processi del riflettere, pensare e inventare.

1. Negli ultimi anni l’argomento ha suscitato un notevole interesse sia perché molti studenti, pur avendo molte più informazioni che nel passato, si adattano a ciò che vedono o sentono senza sottomettere ad analisi e a ponderata valutazione idee o opinioni, sia perché oggi è più che mai necessario rispondere con prontezza alle continue trasformazioni del mondo del lavoro e della società in generale. In proposito si possono individuare due orientamenti della ricerca. R. H. Ennis definisce il​​ critical thinking:​​ «una riflessione ragionevole focalizzata sul decidere che cosa credere o fare» (Ennis, 1987, 10). Secondo questo autore il p.c. richiede in primo luogo di saper chiarificare, sapersi focalizzare su un problema, saper analizzare gli argomenti, saper porre domande e risposte stimolanti; e ad un livello più elevato saper definire concetti e valutare definizioni in base alla forma in cui si presentano, saper utilizzare strategie adatte per definire un contenuto, identificare assunzioni, decidere azioni da intraprendere, interagire con altri. In secondo luogo il p.c. significa saper dare il giusto peso al proprio argomentare, saper giudicare la credibilità di una fonte, saper osservare e giudicare le osservazioni che vengono presentate. Infine esso vuol dire saper fare inferenze corrette, saper fare e valutare le deduzioni, saper indurre e svolgere corrette induzioni, esprimere giudizi di valore. Tutte le abilità e le disposizioni conseguenti sono interdipendenti e interattive tra di loro. R. Paul (1990) invece connette il p.c. con la consapevolezza del radicamento del p. in strutture e sistemi linguistici e culturali. Il p.c. è quindi pigliar coscienza del fondamento multilogico dei propri p.; è prendere in seria considerazione le alternative che si presentano; entrare in contatto empatico con un modo di pensare diverso dalle proprie prospettive. Ciò suppone di essere capaci di porsi «domande socratiche», portare alla luce le caratteristiche salienti del proprio p., analizzare e valutare concetti o termini problematici, ricostruire i punti di vista alternativi, ragionare da diverse prospettive e razionalmente identificare e considerare la forza e la debolezza di ognuna di esse.

2. Pur nella varietà delle posizioni, alcuni punti sembrano tuttavia abbastanza chiari: a) l’educazione al p.c. è un’abilità molto complessa perché non si limita all’educazione di processi mentali, ma include anche altri tratti e atteggiamenti della mente e della persona. Ad es. Paul (1990) parla anche di umiltà, coraggio, empatia, integrità, perseveranza, fiducia nella ragione e imparzialità rispetto ai punti di vista; b) l’educazione al p.c. richiede il possesso e il corretto uso di abilità e processi mentali di alto livello, soprattutto delle capacità logiche, di​​ ​​ problem solving​​ e creative; c) il p.c. richiede strategie di pianificazione, di direzione, di controllo e di valutazione; d) un’educazione al p.c. non sembra avvenire attraverso un aumento della quantità dei contenuti, né si tratta di una materia scolastica specifica. È invece importante che ogni insegnante nell’ambito della sua materia sappia insegnare a pensare in modo critico e prima ancora che sia egli stesso capace di p.c.

Bibliografia

Ennis R. H., «A taxonomy of critical thinking dispositions and abilities», in B. Baron - R. J. Sternberg (Edd.),​​ Teaching thinking skills: theory and practice,​​ New York, Freeman and Company, 1987, 9-26; Paul R. W., «Critical and reflective thinking: a philosophical perspective», in B. F. Jones - L. Idol (Edd.),​​ Dimensions of thinking and cognitive instruction,​​ Hillsdale, Erlbaum, 1990, 445-494; Boncori G.,​​ Educare la capacità critica,​​ Roma, CRISP, 1995; Center for Critical Thinking,​​ Critical thinking workshop handbook,​​ Santa Rosa, Foundation for Critical Thinking,​​ 1996; Valletta J.,​​ P.c. e azione educativa, Lecce, Pensa Multimedia, 2007.

M. Comoglio




PERCEZIONE

 

PERCEZIONE

Rispetto alla​​ ​​ sensazione, con cui è intimamente connessa e da cui è difficilmente distinguibile dopo le prime settimane di vita, la p. da un punto di vista psicologico-evolutivo è una funzione psichica che, attraverso gli organi di senso interni ed esterni, permette all’organismo psicofisico di recepire ed elaborare impressioni ed informazioni circa oggetti, qualità ed eventi del mondo esterno. Non appartengono alla p. le rappresentazioni e le immagini mentali che non sono provocate direttamente da impressioni sensoriali.

1.​​ Precisazioni.​​ La p. è fondamentale nella teoria della conoscenza perché, per mezzo di essa, il soggetto entra in rapporto con l’ambiente e con la realtà. Essa è connotata da oggettività perché apprende il reale ma insieme da selettività o soggettività, in quanto il soggetto può filtrare e decodificare il mondo esterno solo in parte o in certi suoi aspetti a seconda delle condizioni e caratteristiche personali in cui avviene il processo di p. (di qui il detto della filosofia scolastica:​​ quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur).​​ Quando la p. coglie gli stimoli non in modo isolato ma globale, in un contesto fondato sulla totalità dell’esperienza, viene detta appercezione. Il prodotto della p. è detto percetto o p. (visiva, uditiva, tattile, gustativa, olfattiva, cenestesica, ecc.). È anche da ricordare la p. subliminale, riferita al riconoscimento degli stimoli presentati al di sotto della soglia percettiva. L’individuo non ne è consapevole, ma l’esito della p. così indotta si rileverebbe attraverso modificazioni comportamentali (si vedano le applicazioni nel campo della propaganda, con il ricorso alla persuasione occulta). La valutazione di tali esiti richiede tuttavia rigore, onde evitare affrettate generalizzazioni.

2.​​ Sviluppo storico e teorie sulla p.​​ La p. è stata una delle funzioni psichiche più studiate dalla psicologia sperimentale, soprattutto ai suoi inizi. Sul piano teorico si pongono ancora oggi dei quesiti sul rapporto tra p. e altre funzioni psichiche, come le rappresentazioni cognitive, la​​ ​​ memoria, la risonanza emotiva, l’apprendimento, la motivazione, ecc. In particolare, la psicologia della​​ ​​ Gestalt ne ha fornito un quadro interpretativo ampiamente fondato, pervenendo al concetto di forme, intese come p. di elementi o parti, ma colte nella loro totalità. Di qui le leggi di globalità, struttura, costanza e pregnanza.​​ ​​ Lewin, con la teoria del campo percettivo, ha raccordato la p. con le dinamiche ambientali interagenti (psicologia topologica). Anche la p., come del resto le altre funzioni psichiche, è segnata storicamente dal tipo di approccio teorico che viene assunto, per cui ritroviamo posizioni divergenti e talora antitetiche a riguardo del modo di interpretarne la natura e il funzionamento (teorie genetiche e costruttivistiche,​​ ​​ cognitivismo, behaviorismo,​​ ​​ analisi transazionale, approccio sistemico, ecc.). Si ha l’impressione, a tutt’oggi, che le varie teorie escogitate in più di cent’anni di psicologia restino molto lontane da un approccio interpretativo adeguato e attendibile sul modo con cui avviene la conoscenza e, più in genere, sul porsi stesso del rapporto tra l’organismo psicofisico e l’ambiente.

3.​​ Alcuni aspetti della fenomenologia della p.​​ Sembrano particolarmente rilevanti alcuni aspetti del fenomeno della p., in ordine soprattutto ai risvolti pedagogici e sociali che vi sono connessi. A titolo esemplificativo accenniamo ai seguenti: a) la​​ p. sensoriale​​ propriamente detta, che coglie il reale attraverso il sensorio normale e​​ quella extrasensoriale​​ (ESP), che nella parapsicologia si rapporta con il mondo dell’occulto e anche delle esperienze di alterazione e amplificazione prodotte da sostanze allucinogene (droghe e affini); b) la​​ p. delle immagini,​​ a seguito dello sviluppo assunto dai mass media, con i mutamenti intervenuti nelle mappe cognitive delle nuove generazioni (si parla, ad es., di recupero dell’emisfero destro sul sinistro); c) la​​ distorsione percettiva,​​ indotta dai condizionamenti socio-culturali, in ordine a stereotipi razziali o a pregiudizi; d) l’importanza di una corretta p. di sé (autopercezione),​​ come base dell’equilibrio psichico e della sicurezza psicologica in ordine alla prospettiva temporale e alla progettualità.

4.​​ Rilevanza pedagogica di una corretta formazione del processo percettivo.​​ Sotto il profilo pedagogico sembrano opportune alcune attenzioni e strategie per una corretta formazione dell’attività percettiva: a) si pone anzitutto il problema della​​ riabilitazione percettiva​​ in tutte le forme di handicap in cui la p. viene compromessa (ricorso alle funzioni vicarie, stimolazione e recupero funzionale, ecc.); b) centrale è poi l’esigenza della​​ formazione all’oggettività​​ nella p. della realtà e l’accesso allo spirito critico per contrastare i condizionamenti percettivi e socio-culturali, soprattutto quelli veicolati da una troppo diffusa sottocultura massmediale; c) la​​ formazione del concetto di sé​​ attraverso una corretta autopercezione che integri, nell’immagine di sé, aspetti positivi e desiderabili con quelli negativi e problematici; d) il​​ contrasto alle distorsioni percettive​​ (psicopatologia della p.), ravvisabili nelle varie forme di paranoia, di pregiudizio e, più in genere, degli stereotipi (sessuali, razziali, sociali, culturali, religiosi, ecc.).

Bibliografia

Cesa- Bianchi M. - R. Masini - F. Perussia, «Dalla psicologia della p. alla psicologia ambientale: alcune recenti tendenze», in P. Di Blasio - L. Venini (Edd.),​​ Competenze cognitive e sociali: Processi di interazione e modelli di sviluppo, Milano, Vita e Pensiero, 1992, 17-31; Cicogna P. C. (Ed.),​​ Psicologia generale,​​ Roma, Carocci, 1999 (capitolo sulla p. di Massironi); Wilson J. - P. Rookes,​​ La p., Bologna, Il Mulino, 2002; Delle Fave A. et al.,​​ Psicologia Generale,​​ Bologna, Monduzzi, 2005.

S. De Pieri




PERCORSO FORMATIVO

 

PERCORSO FORMATIVO

Il p.f. si può intendere in due accezioni: una, di senso lato, che si riferisce all’itinerario che un qualsiasi soggetto in formazione segue lungo la sua scolarità, quindi indicativa sia dei gradi / ordini / tipi di scuola frequentata, sia delle altre agenzie educative (famiglia, associazionismo dentro e fuori della scuola e degli ambienti religiosi, ecc. in cui è inserito); l’altra, di significato ristretto, riferita cioè al cammino specifico che si segue per giungere ad una determinata qualificazione professionale, cosicché si parlerà, ad es., del p.f. degli insegnanti di scuola dell’infanzia, o primaria, o secondaria di I e di II grado, così via, indicando non solo la durata di ciascun grado e ordine della scuola ma anche il tipo di formazione specifica seguita. Oggi, con il riconosciuto principio della​​ ​​ formazione permanente, il p.f. si estende a tutta la vita.

1. Circa la prima accezione, il p. dell’obbligatorietà scolastica varia a seconda dei Paesi. La scuola primaria (pure di varia durata) è obbligatoria ormai in tutti i Paesi e rarissimamente differenziata; la scuola secondaria è variamente strutturata a seconda dei Paesi, con una differenziazione maggiore a livello del II grado. L’​​ ​​ obbligo di istruzione in molti Paesi include anche la secondaria inferiore e in alcuni anche quella superiore giungendo cioè fino a 18 anni di età. La tendenza generale è quella di prolungare la durata dell’obbligo, ma i problemi di grande attualità riguardano sia la struttura della secondaria di II grado – che esige un equilibrio tra la differenziazione precoce e la massima comprensività –, sia il raccordo tra scuola e centri di formazione professionale di durata più breve, come anche l’alternanza scuola e lavoro.

2. Al problema del raccordo si collega la seconda accezione di p.f. poiché è in gioco la​​ ​​ formazione professionale entro e / o al di fuori del sistema scolastico formale, problema che diventa complesso se connesso con quello del prolungamento dell’obbligo scolastico.

Bibliografia

OCDE,​​ L’enseignement obligatoire face à l’é­volution de la société,​​ Paris, Ocde,​​ 1983; Palomba D. - N. Bertin (Edd.),​​ Insegnare in Europa. Comparazione di sistemi formativi e pedagogia degli scambi interculturali,​​ Milano, Angeli, 1993; CERI-OCSE,​​ Apprendere a tutte le età. Le politiche educative e formative per il XXI secolo, Roma, Armando, 1997.

H.-C. A. Chang




PERDONO

 

PERDONO

La risposta misericordiosa nei confronti di una persona o di un gruppo che ha fatto del male o ha offeso ingiustamente un’altra persona o un gruppo.

1. Nell’atto del p., la persona sostituisce affetti (odio o rancore), conoscenze (giudizi duri) e comportamenti (vendetta o rappresaglia) nei confronti dell’offensore, sebbene in sé giustificati, con sentimenti, giudizi e atti positivi di rispetto, di accettazione e di comprensione che passano sopra, almeno a livello di atteggiamento persona le, l’ingiustizia e il disagio subiti. Il p. si distingue dalla giustizia per il fatto che costituisce un dono incondizionato e non necessariamente reciproco verso una persona che non lo merita. Il p. non nega l’ingiustizia né la dimentica ma smette di giudicare la persona esclusivamente in termini di quello che ha fatto. Non è dunque né mancanza di coraggio e di forza né una forma di debolezza morale. L’atto del p., al contrario, richiede una forma considerevole di coraggio (e magari dovrà lasciare che la giustizia sociale segua il suo corso). Di origine religiosa, il p. è stato un valore molto sottolineato nei sistemi educativi tradizionali che facevano capo alla tradizione giudaica e soprattutto a quella cristiana. Ultimamente il suo valore terapeutico e risanatore è stato scoperto nell’ambito delle scienze sociali. Per i suoi aspetti positivi (stima di sé, capacità relazionali, speranza nel futuro, riduzione dell’angoscia) è sembrato significativo riconsiderare, ormai sulla base più sicura di ricerche empiriche nonché di nuovi approfondimenti provenienti dalle scienze umane, filosofiche e teologiche, il valore specificamente umano del p.

2. Per quanto compito della famiglia, della scuola o di altre istanze educative, l’educazione al p. si colloca ormai in una formazione etica allargata. Sotto questo aspetto l’educazione etica, spesso dominata dalla psicologia conoscitiva e genetica di​​ ​​ Kohlberg, va riconsiderata in diversi sensi. Infatti una visione più completa di moralità comprende, oltre l’aspetto della giustizia, quello della misericordia e del p. che, diversamente dalla giustizia, non richiedono reciprocità. In tal senso la coscienza morale ben formata comporta qualcosa di più dello sviluppo del giudizio morale nel senso della psicologia cognitiva. Più che con l’apprendimento, l’interiorizzazione del principio etico del p. si realizza attraverso l’identificazione con persone che presentano il comportamento del p., che si ammira e che si fa proprio. Oltre a ciò l’uomo religioso sarà incline al p. nella misura in cui abbia assimilato la benevolenza divina nei suoi confronti. Modelli concreti (genitori, educatori, insegnanti, animatori) e figure ideali (eroi, santi, Gesù Cristo...) dovranno necessariamente mediare la virtù del p. con i loro atteggiamenti specifici. Tuttavia si deve sottolineare anche la necessità di presentare a livello teorico il senso e il valore del p. con i vari motivi pro e contro questa virtù. Programmi educativi e catechistici a livello didattico, esperienziale e comportamentale costituiscono i fattori educativi in grado di promuovere lo sviluppo etico della capacità del p.

Bibliografia

Floristán C. - C. Duquoc (Edd.),​​ Il p.,​​ in «Concilium» 22 (1986) 2 (n. monogr.);​​ Enright R. D. - E. A. Gassin - C. U. Wu,​​ Forgiveness: a developmental view,​​ in «Journal of Moral Education» 21 (1992) 2, 99-114; Chauvet L. M. - P. de​​ Clerck (Edd.),​​ Le sacrement du pardon entre hier et demain,​​ Paris, Desclée, 1993; Lambert J. et al.,​​ Pardonner,​​ Bruxelles, Facultés Universitaires Saint-Louis,​​ 1994; Giulianini A.,​​ La capacità di perdonare, Milano, San Paolo, 2005.

J. Schepens




PERENNIALISMO PEDAGOGICO

 

PERENNIALISMO PEDAGOGICO

Espressione e teoria che deriva dalla filosofia rinascimentale (A. Steuchus la usò per la prima volta nel 1540: «filosofia perenne» nella sua​​ De perenni philosophia libri X),​​ che si sforza di dimostrare che i principi educativi fondamentali sono già presenti nelle opere e negli avvenimenti dell’Antichità e che si vanno trasmettendo attraverso la storia.

1. Si tratterebbe dell’insieme di verità fondamentali, leggi del pensiero e dell’opera educativa che, a partire dagli antichi scrittori ed educatori greci e latini, i santi Padri, i dottori della Chiesa, i teorici dell’educazione e gli educatori, hanno raccolto, accresciuto e valorizzato empiricamente o scientificamente, sottoponendole alla critica del filosofo dell’educazione. Fondamentalmente il p.p. coincide con l’​​ ​​ essenzialismo pedagogico, senza giungere ad identificarvisi. In realtà i grandi pensatori che aderiscono all’essenzialismo attribuiscono una grande autorità estrinseca alla teoria del p. Uno degli autori moderni che segue questa dottrina, ma che amplia il campo del p.p. è​​ ​​ Willmann.

2. Il possibile errore in cui può incorrere il p.p. è quello di non riuscire a depurare le nuove conoscenze per incorporarle nel pensiero tradizionale o di riferirsi a principi ritenuti immutabili e che in realtà non lo sono. La causa principale degli attacchi alla cosiddetta scuola tradizionale (ripetitiva, immobilista, alessandrinista) deriva da una cattiva comprensione o da una prassi equivocata del p.p. L’errore nel p.p. è direttamente proporzionale all’intellettualismo che può manifestarsi nella scuola mentre il successo educativo è proporzionato all’apertura della mente.

3. Tutte le metodologie e le pratiche educative basate sulle filosofie fenomenologistiche, pragmatistiche, esistenzialistiche, si oppongono nettamente a quelle derivate dal p., per cui un’educazione basata su una delle due concezioni si distingue dall’altra per la sua maggiore o minore versatilità. «Fattore fondamentale nel programma educativo fu l’insegnamento delle lingue classiche e la conoscenza della cultura antica. Più tardi si dovette rinnovare questo programma conservando, tuttavia, il suo carattere basato sempre sui cosiddetti “valori perenni”, cosa che spiega il nome di p. che gli hanno dato negli Stati Uniti» (Suchodolski, 1971, 171).

Bibliografia

Barion J.,​​ Philosophia perennis als Problem und als Aufgabe,​​ 1936;​​ Truyol Serra A.,​​ La situación filosófica actual y la idea de la filosofía perenne,​​ in «Anales de la Universidad de Murcia» (1947-48) 343-366; Suchodolski B.,​​ Tratado de pedagogía,​​ Barcelona, Península, 1971.

V. Faubell




PERSONA

 

PERSONA

L’essere umano, in quanto radicalmente capace di autonomia, libertà, responsabilità ed auto-trascendenza.

1. Il termine lat.​​ persona​​ originariamente traduceva quello gr.​​ prósopon​​ (maschera, personaggio che gioca un ruolo in un’opera teatrale). Analogamente gli stoici parlano di p. ad indicare che l’uomo ha da giocare nel mondo il ruolo assegnatogli dal destino. Ma nel corso delle controversie teologiche sulla Trinità e sull’incarnazione del Verbo, durante i primi secoli del Cristianesimo, p. venne ad essere identificata anche con il termine​​ hypóstasis​​ (supporto, soggetto, sostanza). In questa linea si pone la classica definizione di p. data da Boezio («sostanza individuale di natura razionale»), ricalcata poi da Tommaso d’Aquino («ogni individuo dotato di natura razionale»), che però evidenziò anche l’originario aspetto di relazione e di operare nel mondo, contenuto nel termine. Nel diritto romano p. indica chi è soggetto di diritti, in contrapposizione a chi è schiavo, agli animali o alle cose. Nell’età moderna p. è assimilata all’io, alla coscienza morale, soggetto di imputabilità e di responsabilità del proprio operare. È con il sec. XX che il concetto di p. è diventato basilare, dando luogo a svariate forme di personalismo, tra cui sono da segnalare quello di​​ ​​ Mounier, di M. Scheler, di​​ ​​ Guardini, di​​ ​​ Stefanini o dello stesso​​ ​​ Maritain.

2. Con p. si vuole significare che l’essere umano manifesta nell’operare qualcosa che lo fa apparire come «eccezionale», «diverso», «altro», pur nell’innegabile somiglianza, continuità e comunanza con altri esseri umani e con gli animali o le cose. In particolare si intende mettere in luce che l’uomo è un «essere-in-sé», soggetto, non mai riducibile completamente ad oggetto da nessuno. Nel rapporto con gli altri nel mondo, nell’amicizia e nell’amore o magari nella tensione e nel conflitto inter-individuale e collettivo, riconosce gli altri come «altri sé» ed è riconosciuto da loro come «se stesso». Peraltro l’uomo, in quanto p., grazie alla sua corporeità e spiritualità, si mostra come essere aperto agli altri («esse-ad»), «essere di comunione», che si realizza nel rapporto con il mondo (nel lavoro), con gli altri (nei rapporti interpersonali e nella vita comunitaria), con Dio (nella religione e nella comunione di fede). In queste sue modalità di essere si fa risiedere la sua dignità ed assolutezza di fine e di valore («esse per se»), non mai riducibile totalmente a mezzo o a strumento, come l’umanesimo moderno, con​​ ​​ Kant e lo stesso Marx, ha imparato a recitare (​​ diritti umani).

3. Nella pedagogia contemporanea la p. reale è vista come la pietra di paragone e l’obiettivo orientante di ogni progettazione e di ogni intervento educativo. Ma questa stessa affermazione abbisogna di essere ben compresa e posta nel suo retto contesto, pena di dare adito ad orientamenti educativi fuorvianti, esposti al rischio di spiritualismo, d’intellettualismo astratto o di individualismo, che mal si combinerebbero con prospettive comuni alla concezione di p., vista come spirito incarnato, esistenza incarnata, realtà comunitaria, impegnata nel mondo e nella storia. Oggi, a motivo delle possibilità di interventi tecnologici sul soma e sulla psiche umana, è da esplorare pure il termine​​ ​​ personalità e di​​ ​​ personalizzazione, anche per calibrare meglio l’intervento educativo.

Bibliografia

Rigobello A. (Ed.),​​ Lessico della p. umana,​​ Roma, Studium, 1986; Milano A. - A. Pavan (Edd.),​​ P. e personalismi,​​ Napoli, Dehoniane, 1988; Flores d’Arcais G. (Ed.),​​ Pedagogie personalistiche e / o pedagogia della p.,​​ Brescia, La Scuola, 1994; Spaemann R.,​​ Persone. Sulla differenza tra «qualcosa» e «qualcuno», Roma / Bari, Laterza, 2005; Peroli E.,​​ Essere p.​​ Le origini di un’idea tra grecità e cristianesimo, Brescia, Morcelliana, 2007.

C. Nanni




PERSONALISMO PEDAGOGICO

 

PERSONALISMO PEDAGOGICO

Indirizzo di pensiero in cui, sulla scorta della concezione dell’​​ ​​ uomo come soggetto libero, responsabile dei suoi atti, aperto agli altri, orientato al vero e proteso al bene, si configura l’educazione quale opera promozionale della​​ ​​ persona, considerata nella totalità delle sue funzioni, nella concretezza dei suoi processi evolutivi e nella fattualità del suo radicamento sociale.

1.​​ Storia e identità del p.​​ Come fenomeno storico e culturale il p. nasce in Francia, con​​ ​​ Mounier e la rivista «Esprit», da lui fondata nell’ottobre del 1932, insieme ad alcuni amici intellettuali di varia provenienza ideologica. Siamo in un periodo di diffuse inquietudini etico-politiche connesse all’affermazione dei totalitarismi di destra (in Italia, in Germania, in Spagna) e al consolidamento della dittatura sovietica. Nel riflettere sulla vicenda del p.,​​ ​​ Stefanini, pur non escludendone origini risalenti addirittura alla filosofia greca, là dove, come per i​​ ​​ Sofisti e​​ ​​ Socrate, si registra, nonostante il persistente «intellettualismo», l’«inclinazione» a ricondurre il pensiero-parola alla sua fonte personale, osserva che il terreno proprio in cui si pongono i semi per lo sviluppo di quest’indirizzo è, nella scia dell’orizzonte antropo-teologico dischiuso dall’ebraismo, il cristianesimo. Sempre per lo Stefanini, il p. costituisce il​​ deus absconditus​​ che agita in profondità tutto il pensiero moderno, senza riuscire veramente, salvo qualche caso (ad es., Pascal, Kierkegaard, Jacobi, Schiller, Schleiermacher, Maine de Biran, Gioberti,​​ ​​ Rosmini), a emergere in superficie. Dal razionalismo cartesiano all’empirismo, dal panlogicismo immanentistico hegeliano al materialismo storicistico marx-engelsiano si snoda un itinerario speculativo in cui la persona, sia pure per ragioni diverse, stenta ad essere riconosciuta nelle sue costitutive dimensioni di singolarità, profondità, libertà e trascendenza. È comunque tra Otto e Novecento, specialmente per merito degli spiritualisti francesi (si pensi a E. Boutroux, H. Bergson, M. Blondel,​​ ​​ Laberthonnière), che si delineano prospettive di pensiero in varia misura anticipatrici del vero e proprio p. L’attribuzione di questa denominazione a un sistema filosofico si deve, per primo, a Ch. Renouvier, il quale, nell’opera​​ Le personnalisme,​​ del 1903, presentava la dottrina della personalità come l’ultima definizione del suo criticismo. In realtà, Laberthonnière probabilmente già dal 1894 aveva redatto un​​ Esquisse du système personnaliste,​​ che a causa di sospetti di natura dottrinale fu pubblicato postumo, nel 1942. Particolari espressioni del p. si ebbero, all’inizio del Novecento, negli Stati Uniti, ad opera di studiosi come B. P. Bowne, W. E. Hocking, intenti a una revisione dell’astratta dialettica idealistica, al fine di riscattare, in alcuni casi secondo un’ottica cristiana, la concretezza del principio individuale-personale. Nel 1919 fu anche promossa la rivista​​ The Personalist.​​ Il p. di Mounier, debitore, per quanto concerne i contemporanei, di vari influssi (da Bergson a Blondel, da Scheler a Marcel, da Berdjaev a Le Senne), intendeva essere «filosofia», ma non «sistema». Avverso a ogni forma d’ideologia, esso si proponeva come pensiero aperto, dinamico, critico, disponibile al confronto, orientato al cambiamento. Il «progetto» mounieriano si dispiegava in un disegno di ampio respiro che, muovendo dal riconoscimento della centralità della persona, investigata nelle sue fondamentali dimensioni d’«incarnazione», di «comunicazione» e di «vocazione», prefigurava, contro il «disordine stabilito» del XX sec. e le «derive» sia del capitalismo sia dei totalitarismi, un modello di organizzazione socio-politica di forte impronta «comunitaria». Fede democratica, tensione utopica e carica profetica alimentavano questa prospettiva «rivoluzionaria» orientata alla progressiva edificazione di una «comunità di persone», in cui i diritti di ciascuno andavano armonizzati con gli interessi del bene comune. Il movimento personalistico di «Esprit» manifestò al suo interno diverse tendenze, di cui, sul piano specificamente filosofico, si resero interpreti studiosi come J. Lacroix, P. Landsberg, M. Nédoncelle, P. Ricoeur. Subito dopo la seconda guerra mondiale, il p., che nell’ambito della filosofia socio-politica aveva intanto registrato, fra gli altri, il contributo di Maritain (all’inizio collaboratore della rivista di Mounier), conobbe anche fuori della Francia feconda fioritura. Un discorso a sé merita il p. italiano. Alla stregua di quanto verificatosi per i personalisti americani d’inizio secolo, pure da noi la maturazione del p. si produsse nel confronto con l’idealismo, precisamente nella formulazione attualistica. Se A. Carlini tentò di uscire dall’attualismo attraverso un processo di «esistenzializzazione del trascendentale», sulla scorta dell’esigenza di recuperare la concretezza individuale del soggetto considerato nel suo intrinseco rapporto con l’Assoluto, Stefanini, anch’egli sensibile al fascino spiritualistico della filosofia gentiliana, senza tuttavia acconsentire mai con essa, approdò nella fase matura della sua ricerca a una «metafisica della persona», premessa e fondamento di un programma di «summa​​ personalistica», con sviluppi sui versanti etico, sociale, estetico e pedagogico. Per impulso dello Stefanini e, in seguito, di alcuni suoi allievi (​​ Flores d’Arcais, A. Rigobello, G. Santinello) l’Università di Padova divenne dagli anni cinquanta il maggiore centro d’irradiazione del p. in Italia. Intorno al problema dell’identità del p., le posizioni degli studiosi appaiono diversificate. Già nel 1946 Maritain era indotto a considerarlo non come «una​​ scuola» o «una​​ dottrina», ma piuttosto come un «fenomeno di reazione [...] inevitabilmente molto misto» contro gli opposti errori del totalitarismo e dell’individualismo (La persona e il bene comune,​​ Brescia, Morcelliana, 1963, 8). All’inizio degli anni settanta J. Lacroix, in sostanza, confermava la tesi precedente. Egli infatti reputava il p. non una vera e propria filosofia, né una sorta di orientamento ideologico, bensì un’«anti-ideologia», ovverossia un’aspirazione speculativa e un atteggiamento di spiccata rilevanza esistenziale, fortemente connessi con l’attività pratica. Da queste valutazioni dissente però A. Rigobello, il quale, riallacciandosi a una distinzione dello Stefanini, propone intanto una duplice accezione di p. In​​ senso stretto​​ esso designa una filosofia il cui centro teoretico è costituito dall’intuizione originaria della persona, colta nel complesso dei suoi valori e significati essenziali. Ne consegue, come ulteriore compito di ricerca per questo indirizzo, l’approfondimento in chiave fenomenologico-esistenziale di quella primaria intuizione, con costante riguardo ai contesti storico-ambientali di riferimento e alle relative implicanze socio-culturali. In​​ senso ampio​​ il p. indica una posizione speculativa e un complesso di atteggiamenti pratici, morali, sociali, politici contraddistinti dal riconoscimento del primato della persona, che postula il rifiuto di qualsivoglia forma di strumentalizzazione della medesima. Però il quadro teoretico o metafisico in cui la figura dell’essere personale si situa e trova giustificazione va ricercato altrove: per es., nel pensiero scolastico o in indirizzi di vario tenore umanistico o, ancora, nel sistema esistenzialistico. Autori come Mounier e Stefanini appartengono alla prima posizione, altri come Maritain alla seconda. Il Rigobello conviene poi con chi ravvisa nel p., sotto il profilo storico, un «fenomeno di reazione». Ma, a suo giudizio, sul piano speculativo, l’indirizzo in questione risulta riduttivamente interpretato se lo si presenta come semplice «anti-ideologia». Ciò, perché il tema della persona appare di tale pregnanza teoretica da essere, oltre che centrale nella ricerca filosofica, capace anche di porre il problema dell’identità della filosofia stessa.

2.​​ Dal p. filosofico al p.p.​​ Il p.p. trova collocazione storica e culturale in quanto sin qui detto. Anch’esso, come «applicazione» e sviluppo interno della riflessione personalistica, rappresenta un fenomeno tipico del Novecento e, in special modo, del secondo dopoguerra. Anticipazioni se ne possono però reperire nell’intera storia della pedagogia occidentale, precisamente là dove l’educazione è concepita come opera promozionale di un soggetto libero, responsabile delle proprie azioni, fonte di dignità incoercibile, teso alla ricerca della verità e del bene. Da Socrate ad​​ ​​ Agostino, da​​ ​​ Tommaso d’Aquino a​​ ​​ Vittorino da Feltre ed​​ ​​ Erasmo da Rotterdam, da​​ ​​ Comenio e​​ ​​ Pestalozzi agli spiritualisti del Risorgimento (Gioberti, Rosmini,​​ ​​ Lambruschini,​​ ​​ Capponi, Tommaseo) si presenta una galleria di autori, i quali, pur nella varietà degli indirizzi, convergono intorno alla prospettiva pedagogica sopra indicata. A motivo di ciò possiamo allora parlare di una sorta di p.p.​​ perennis​​ che si snoda dall’antichità al Novecento, emergendo però in questo secolo con espressioni di particolare consistenza. Circa il problema dell’identità di tale indirizzo, conviene ricordare un’annotazione dello Stefanini. Egli denominava personalistica «una pedagogia la quale s’accentri sul concetto di persona e la persona umana definisca come una sostanza spirituale, razionale, singolare, libera, responsabile, incarnata, mondanizzata» (Il p.p.,​​ in «La Scuola e l’Uomo», 1957, 3, 3). Senza negare a questa definizione il pregio della chiarezza, è però opportuno avere presente l’invito di A.​​ ​​ Agazzi a non attribuire al p.p. un significato troppo limitativo, tale cioè da ridurne l’estensione alla sola pedagogia cattolica o addirittura alla sua corrente «spiritualistica». Questo, perché, anche in prospettive antropologico-pedagogiche «laiche», quando s’introducono, seppur in maniera più o meno surrettizia, riferimenti tipici della dimensione spirituale dell’uomo, si finisce, volenti o nolenti, con l’accedere alle tesi degli spiritualisti / personalisti. Alla luce di simili osservazioni, sembra allora plausibile tenere viva la distinzione tra p.p.​​ in senso stretto​​ e​​ in senso ampio.​​ Il primo concerne pedagogie che, sulla scorta di antropologie in grado di fornire un’interpretazione realisticamente adeguata dell’uomo, reputano l’educando come persona da promuovere nell’armonica integralità del suo essere bio-psichico, sociale, spirituale, nonché nella pienezza della vocazione storica e metatemporale; il secondo riguarda indirizzi educativi che, sebbene tributari di visioni antropologiche per qualche aspetto carenti, risultano nondimeno attenti ai principali bisogni di crescita del soggetto e alla tutela del medesimo rispetto a qualsiasi manipolazione di carattere ideologico, politico, tecnocratico. Limitatamente al Novecento, nell’una o nell’altra categoria vanno iscritti numerosi pedagogisti o comunque studiosi dei problemi dell’educazione. Citiamo, per es., i nomi di Laberthonnière,​​ ​​ Montessori,​​ ​​ Spranger,​​ ​​ Förster,​​ ​​ Dévaud,​​ ​​ Willmann, Schneider,​​ ​​ Guardini, Meylan,​​ ​​ Freire. Anche in Mounier, il capitolo relativo ai problemi educativi e scolastici assume notevole rilievo. L’educazione vi appare come processo teso ad autenticare la vocazione personale nel contesto di una specifica appartenenza comunitaria. Persona e comunità risultano i due poli indissolubili di un «progetto educativo» in cui la promozione della libertà, dell’intelligenza, della volontà, dello spirito dialogico, del senso di responsabilità prende forma entro una prospettiva di realistica attenzione all’incidenza dei vincoli posti al singolo dalla dimensione bio-psichica e dall’ambiente. Sul versante istituzionale e scolastico il disegno si configura poi secondo una proposta di scuola aperta alla totalità dei bisogni formativi dell’alunno, pluralistica, laica e partecipata. Con Mounier l’altro autore, anch’egli non pedagogista di professione, che contribuì al progressivo delinearsi del p.p. contemporaneo fu Maritain. Nell’orizzonte di un’antropologia incisivamente espressa con la formula dell’«umanesimo integrale», il pensatore neo-tomista andò suggerendo un modello educativo avente come fine lo sviluppo del soggetto secondo un’articolazione armonica di tutte le sue dimensioni (spirito e corpo, intelligenza e sentimento, amore e volontà, libertà e grazia). In àmbito scolastico, il progetto si condensava nell’idea dell’«educazione liberale per tutti», attenta non solo ai valori delle culture classica e scientifica, ma anche alle istanze della preparazione pratico-professionale, nonché nella sottolineatura dell’urgenza dell’insegnamento della «carta democratica». Mounier e forse ancor più Maritain incisero sullo sviluppo del p.p. tanto in Europa quanto in America. Eco notevole del loro contributo si ebbe pure in Italia dopo la fine della seconda guerra mondiale. Da noi però fu sempre lo Stefanini ad assumere un ruolo di spicco per la crescita di un movimento pedagogico di marca personalistica. Nella riflessione a cavallo tra gli anni quaranta e cinquanta egli giungeva a prospettare l’idea di educazione come «maieutica della persona». Da lì traeva sviluppo un’ampia prospettiva di «personalizzazione» dei processi, delle istituzioni (in ispecie la scuola) e dei contesti educativi, in cui si fondevano equilibratamente motivi d’ispirazione pedagogico-cristiana, istanze della migliore tradizione umanistica, suggerimenti della lezione attivistica. Tutto ciò in un quadro interpretativo e prospettico dei rapporti tra persona e società espresso con la formula del «socialitarismo personalistico». Insieme con altri colleghi (​​ Casotti, Calò, Agazzi,​​ ​​ Nosengo), lo Stefanini, nel 1954, fu all’origine di​​ Scholé,​​ il Centro di Studi Pedagogici fra i docenti universitari cristiani, promosso con il sostegno dell’Editrice La Scuola di Brescia. Esso divenne l’ambito dove i pedagogisti cattolici andarono via via approfondendo fondamenti e orientamenti di una pedagogia che, per quanto modulata secondo differenti sensibilità teoriche (dal neo-tomismo al realismo, dallo spiritualismo rosminiano al p.), intendeva proporsi con coerenza rispetto all’idea di persona, unanimemente considerata come principio ispiratore di ogni programma di educazione. Tra i partecipanti della prima ora, oltre ai citati promotori, ricordiamo gli italiani Agosti, Baroni, Bongioanni, Braido, Catalfamo,​​ ​​ Corallo, Gianola,​​ ​​ Laeng, Peretti, Petrini, Petruzzellis, Santomauro, Zavalloni e gli stranieri Barbey,​​ ​​ Buyse, García Hoz, Muñoz Alonso, Planchard.

3.​​ Recenti riflessioni sul p.p.​​ All’inizio degli anni settanta il problema dell’identità del p.p. riemerse con un certo vigore in Italia. Ne furono principali protagonisti G. Catalfamo e M. Peretti. Il primo, fautore di un «p. senza dogmi», maturato sulla scorta di una revisione «critica» della pedagogia cattolico-personalistica, a suo giudizio incapace di esprimere sino in fondo le istanze problematiche e storico-progettuali proprie di una visione «aperta» dell’educazione; il secondo, propugnatore di un «p. senza equivoci», rigorosamente fondato sul piano metafisico e ancorato all’universo dei «perenni» princì­pi / valori cristiani, anche se sensibile alle necessarie mediazioni / innovazioni storico-culturali, di cui deve rendersi interprete ogni proposta educativa. L’esito del dibattito valse a confermare per lo stesso settore pedagogico la compresenza di una pluralità d’indirizzi personalistici, la cui obiettiva diversificazione sul piano dei presupposti teoretici non pregiudicava, ad ogni buon conto, la convergenza intorno al concetto centrale dell’educazione come processo pienamente promozionale della persona. Negli ultimi tempi, l’interesse per il p. è andato crescendo. P. Ricoeur ha però messo in guardia dal rischio di dare vita a una sorta di «archeologia personalistica», perché, a suo dire, «il p. è più davanti a noi che dietro» (cit. da A. Danese,​​ Prospettive neopersonaliste,​​ in «Prospettiva Persona» [1992] 1-2, 5). L’osservazione si applica anche a quello pedagogico. Pure in questo settore occorre non tanto «ripetere» quanto piuttosto «svolgere» creativamente e con adeguatezza storica il «messaggio» di un’esperienza culturale ricca di elaborazioni teoriche e di proposte operative. Solo così il p.p. può disporsi ad affrontare con credibilità le impegnative sollecitazioni dell’attuale temperie di pensiero postmoderno e a misurarsi in modo efficace con le «sfide» educative poste dalla società «complessa», mass-mediale e multietnica. Vanno in questa direzione le recenti prese di posizione a favore di una prospettiva «neo-personalistica», rispetto alla cui elaborazione è anche da registrare un promettente avvio di dialogo tra pedagogisti d’ispirazione cristiana e di orientamento laico. La ricorrenza del centenario della nascita di Mounier (1905-2005), celebrata anche in Italia con particolare risalto, è stata occasione di ripresa della questione personalistica in tutta la sua estensione, compresi, quindi, gli aspetti pedagogici e educativi. Quanto a questi ultimi si può dire che dalle riflessioni emerse in tale circostanza si è avuta conferma della validità di un p. «aperto» e «dialogico», capace, pertanto, di misurarsi senza prevenzioni con i problemi posti all’educazione dall’odierna società globalizzata, multietnica e tecnologico-informatica.

Bibliografia

per il paragrafo 1: Rigobello A. (Ed.),​​ Il p.,​​ Roma, Città Nuova, 1975;​​ Ricoeur P.,​​ Meurt le personnalisme,​​ revient la personne...​​ in «Esprit»​​ (1983) 1. 113-119; Nepi P., «Persona, personalità, p.», in A. Rigobello (Ed.),​​ Lessico della persona umana,​​ Roma, Studium, 1986, 177-210; Id., «Il p. e la crisi della soggettività», in A. Rigobello (Ed.),​​ Soggetto e persona. Ricerche sull’autenticità dell’esperienza morale,​​ Roma, Anicia, 1988; Pavan A. - A. Milano (Edd.),​​ Persona e personalismi,​​ Milano / Napoli, Dehoniane, 1987; Melchiorre V. (Ed.),​​ L’idea di persona, Milano, Vita e Pensiero, 1996. Per i paragrafi 2 e 3: Catalfamo G.,​​ I fondamenti del p.p.,​​ Roma, Armando, 1966; Peretti M.,​​ Breve saggio di una pedagogia personalistica,​​ Brescia, La Scuola, 1978; Manno M.,​​ Nuove ricerche sul p.,​​ Ibid., 1982; Macchietti S. S. (Ed.),​​ Pedagogia del p. italiano,​​ Roma, Città Nuova, 1982; Guardini R.,​​ Persona e libertà​​ (trad. dal ted.), Brescia, La Scuola, 1987; Flores d’Arcais G.,​​ Le «ragioni» di una teoria personalistica dell’educazione,​​ Ibid., 1987; Galino Á. - J. M. Prellezo - Á.​​ Del Valle,​​ Personalización educativa. Génesis y estado actual, Madrid, Rialp,​​ 1991; Musaio M.,​​ Il p.p. italiano nel secondo Novecento, Milano, Vita e Pensiero, 2001; Chiosso G.,​​ Profilo storico della pedagogia cristiana in Italia (XIX e XX sec.),​​ Brescia, La Scuola, 2001; Toso M. - Z. Formella - A. Danese (Edd.),​​ Emmanuel Mounier. Persona e umanesimo relazionale nel centenario della nascita (1905-2005),​​ 2 voll., Roma, LAS, 2005-2006.

L. Caimi




PERSONALITÀ

 

PERSONALITÀ

Già​​ ​​ Allport ai suoi tempi diceva che esistevano circa cento definizioni di p., tutte diverse tra loro. A queste si potrebbero aggiungere altrettante definizioni date da altri ricercatori negli anni a seguire. Per evitare di creare una nuova definizione, ci limitiamo a trattare della p., avendo presente: ciò che caratterizza l’individualità nella sua singolarità; i fattori che contribuiscono alla formazione delle singole variabili di p.; la formazione della p. La disciplina che studia queste questioni è detta psicologia della p.

1.​​ La caratterizzazione tipologica.​​ Un primo modo di descrivere la p. individuale è quello della​​ caratterizzazione tipologica.​​ Essa si è sviluppata, in particolare, in modo sistematico nella psicologia differenziale e nella psicologia della p., con l’impegno di elaborare gruppi di caratteristiche che hanno tra altro, come criterio di varianza individuale, l’appartenenza ad un determinato sesso, ad una razza specifica, ad una particolare costituzione somatica o ad un tipico stile cognitivo. Rilevanti per la descrizione tipologica sono i tipi costituzionali e gli stili cognitivi. Le tipologie costituzionali riguardano l’esistenza di una relazione tra determinate caratteristiche fisiche e specifiche caratteristiche psichiche. Così Kretschmer (1953) osservando i pazienti nella clinica in cui lavorava, avanzò l’idea che i disturbi mentali rientranti nel quadro della schizofrenia, degli stati maniaco-depressivi e dell’epilessia, fossero collegati a ben precisi tipi di costituzione somatica che egli denominò picnico (basso e rotondo), astenico (alto e sottile), atletico (ben proporzionato) e displastico, quanto non rientrava in alcun tipo puro. Sheldon (1940; 1942) introdusse l’idea di variabili continue con cui è possibile caratterizzare più realisticamente il fisico di un individuo, e inoltre affermò che esiste un rapporto tra la struttura biologica dell’individuo (somatotipo) e la dinamica della sua p.

2.​​ La descrizione della p. secondo i tratti.​​ Altri, per descrivere la p. si rifanno al costrutto dei​​ tratti.​​ Essi, secondo Carr-Kingsbury (1937-38), possono essere interpretati come tendenze dedotte dal comportamento individuale che predispongono o rendono idonei gli individui a comportamenti uguali e consistenti. Per quanto riguarda l’elaborazione e la classificazione dei tratti, Lersch (1966) e Allport (1969) si limitano a semplici teorizzazioni, mentre Cattell (1957) e Eysenck (1947) usano tecniche statistiche allo scopo di trovare quei fattori che possono rappresentare unità descrittive. Guilford (1959) è piuttosto critico a riguardo della ricerca degli elementi ultimi della p. e propone uno studio dei tratti che consideri l’aspetto qualitativo dei comportamenti e che sia capace di trovare le caratteristiche diverse (per es. morfologiche, motorie). Nell’elaborare i tratti, gli studiosi spesso non partono dalla totalità dell’individuo come fonte di avvenimenti comportamentali da considerare, ma si servono principalmente di quei fatti psichici isolati che possono essere osservati e misurati in situazioni controllabili (questionari, situazioni sperimentali, ecc.). Tra le variabili da considerarsi maggiormente rappresentative al fine di caratterizzare le differenze individuali figurano le seguenti quattro dimensioni: estroversione-introversione, adattamento emozionale, accentuazione emozionale ed autonomia nella formazione dei giudizi.

3.​​ L’approccio situazionale.​​ Rispetto a coloro che credono che i tratti intrapsichici siano fondamentali per descrivere e predire il comportamento individuale, l’approccio situazionale​​ considera le differenze individuali come risultanti da fattori situazionali. Secondo questo approccio i comportamenti individuali sono da ricercarsi nei diversi legami stimolo (S) - risposta (R) che condizionano il comportamento della persona nelle diverse situazioni di vita. In particolare per conoscere le differenze individuali, che aderiscono al situazionalismo propongono di osservare anzitutto​​ che​​ cosa​​ una persona fa nelle diverse situazioni, per poi rilevarne le reazioni (R) alle condizioni specifiche (S) del suo ambiente. Tali comportamenti vengono dai behavioristi chiamati abiti. Quindi, mentre i sostenitori del modello intrapsichico della p. interpretano le variabili di p. come cause del comportamento individuale, i behavioristi considerano gli abiti come unità specifiche del comportamento individuale. Mentre i behavioristi concordano in linea di massima sulle variabili da loro elaborate, esistono delle divergenze nell’interpretare l’attuazione di un determinato abito. Per alcuni il comportamento individuale costituisce una reazione a uno o più stimoli, per altri le singole reazioni sono risposte a stimoli incondizionati e a stimoli condizionati.

4.​​ Approccio interazionale.​​ Come si è visto il modello intrapsichico ritiene che i fattori responsabili delle differenze individuali siano fondamentalmente all’interno della p., mentre l’approccio situazionale afferma che la fonte di tali differenze è legata alle condizioni ambientali. Secondo l’approccio interazionale la persona va vista piuttosto in relazione al suo mondo, per cui il comportamento individuale è il risultato dell’interazione tra persona-situazione. Fondamentalmente si possono distinguere tre indirizzi, ognuno con una diversa interpretazione degli aspetti dell’interazione individuo-ambiente: l’interazionismo statico o lineare, l’interazionismo come interdipendenza cognitivo-dinamica e l’interazionismo come transazione. a)​​ L’interazionismo statico o lineare.​​ Considera il comportamento individuale come il risultato a cui contribuiscono simultaneamente le variabili indipendenti della persona e dell’ambiente. Tra le variabili indipendenti possono esistere delle relazioni causali o funzionali; comunque queste due categorie di variabili sono definite indipendentemente una dall’altra. Il comportamento che risulta dalle condizioni personali e ambientali non produce effetti sulla persona e sull’ambiente. Un esempio tipico di tale interazione si può trovare nel modello di Murray (1938, 61), quando interpreta il comportamento individuale in funzione dei bisogni (needs)​​ e delle tendenze o forze appartenenti al campo oggettivo o ambientale. b) Per​​ l’interazionismo cognitivo-dinamico​​ il comportamento umano è il risultato della dinamica cognitiva individuale che, a sua volta, dipende sostanzialmente dall’apprendimento della persona nel relazionarsi al suo mondo, lungo l’intero arco della vita. Questo apprendimento è interpretato diversamente dalla corrente comportamentista ad orientamento cognitivo, dalla corrente fenomenologica e dall’interazionismo sociale. Tra i​​ comportamentisti di orientamento cognitivo​​ si accetta comunemente la tesi secondo cui il comportamento umano non viene controllato semplicemente attraverso proprietà personali e stimoli ambientali, ma viene condizionato in particolar modo dalla dinamica cognitiva dell’individuo, che trasforma l’interazione persona-ambiente in una situazione soggettiva. Come rappresentante di questo approccio ricordiamo Mischel (1976, 182). Per altri studiosi (Rogers, 1951) il comportamento individuale non risulta dall’interpretazione cognitiva della realtà attuata dalla persona, ma dipende da come la persona la​​ comprende​​ e da come la​​ sperimenta.​​ In questo senso possiamo dire che secondo l’approccio cognitivo di tipo fenomenologico,​​ l’individuo non agisce in relazione alla realtà soggettiva, ma al modo in cui essa è percepita e sperimentata soggettivamente. Un terzo modo di interpretare il comportamento individuale in senso cognitivo è quello​​ compreso come agire sociale.​​ In tal caso il comportamento individuale è fondato sull’interpretazione e sulla concordanza delle aspettative nella comunicazione interpersonale. Questo modo si contraddistingue da tutte le altre correnti in quanto mette in evidenza il significato come base fondamentale del comportamento umano. Questa corrente sostiene inoltre che i significati-simboli vengono appresi e modificati progressivamente dagli individui nelle loro interazioni sociali. Al centro viene posto il problema dell’identità personale e dell’identità sociale. c)​​ L’approccio transazionale.​​ Secondo Pervin (1976) esso si basa su tre proprietà principali: «a) nessuna parte del sistema resta indipendente sia dalle altre parti del sistema, sia dalla totalità del sistema; b) una parte del sistema non agisce semplicemente sulle altre parti del sistema, ma tra di loro esiste una relazione reciproca nella quale la natura della relazione non è di tipo causa-effetto, ma transazionale; c) l’azione di una parte del sistema ha delle conseguenze anche sulle altre parti del sistema». Secondo questa visione l’interazione individuo-ambiente non può essere di tipo lineare statico, in quanto non è una semplice interdipendenza tra variabili personali e variabili ambientali, né esprime un rapporto di causa-conseguenza tra esse. L’interazione come transazione si presenta, invece, come una relazione complessa, per cui il comportamento è il risultato delle azioni reciproche della persona e dell’ambiente e delle reazioni reciproche che queste azioni provocano. Il caratterizzarsi della transazione attraverso azioni e reazioni reciproche viene riferito soltanto all’aspetto formale dell’interazione individuo-ambiente. Argyle (1977) nel suo modello generativo interpreta l’agire individuale come risultato della reciproca definizione di abilità, di aspettative e di norme della comunicazione delle persone in interazione; Lantermann (1980) invece propone un modello eclettico: il comportamento di una persona in un ambiente attuale è in funzione di un condizionamento interdipendente dei fattori personali ed ambientali.

5.​​ Salute-malattia della p.​​ Dal punto di vista pedagogico è interessante studiare la genesi e la formazione della p. Oggi un modo di farlo è quello di considerare la p. secondo la categoria salute-malattia. Volendo esaminare le diverse accezioni terminologiche riferite alla salute-malattia della p., si può facilmente rimanere impressionati dai numerosi costrutti utilizzati per descriverla. Tra questi vi sono: adattamento, maturità, autorealizzazione, competenza, identità, integrità, controllo, benessere, normalità, ecc. La diversità nell’uso di questi costrutti è indicativa del fatto che esistono divergenze nell’interpretare lo stato di salute-malattia della persona. Le diverse definizioni si possono raggruppare nelle seguenti categorie: a)​​ Normalità come assenza di malattia.​​ Secondo la prassi tradizionale lo stato psichico dell’individuo viene considerato normale quando dall’esame clinico non emergono sintomi di interesse psicopatologico. b)​​ Normalità e salute come media statistica.​​ Attualmente nella psicologia clinica, il criterio di assenza di stati patologici rilevanti viene considerato come condizione necessaria, ma non basilare per valutare la persona sana o integrale. Per coloro che definiscono la normalità in riferimento a criteri di tipo statistico, la p. è da considerarsi sana se, oltre all’assenza di sintomi patologici, possiede qualità processuali (come per es. abilità, tratti stilistici) tipiche di un soggetto medio del gruppo di riferimento. Anche in questo modo di interpretare la salute si sono riscontrati notevoli limiti per il fatto che il «soggetto-tipo» non soltanto è molto difficile da definire, ma anche per il fatto che la salute-malattia stabilite con criteri statistici non sono rappresentative per descrivere le persone (perché per es. appartengono a diversi strati sociali o hanno avuto diversi influssi culturali). c)​​ Salute come concetto ideale-utopico.​​ Un altro modo per definire la normalità fa riferimento alla p. ottimale. Contributi in questo senso sono stati offerti dai diversi modelli terapeutici (per es. Io forte, Sé), dalle ricerche su individui particolarmente validi e su persone che si distinguono per la loro biografia. Pur essendo interessante per conoscere i punti di arrivo, in questo approccio rimane aperta la questione circa la normalità delle persone. d)​​ Salute-malattia come equilibrio dinamico della totalità individuale.​​ Nella psicologia attuale si prende progressivamente atto del ruolo attivo che l’individuo ha nei confronti del suo mondo e sempre più viene posta l’enfasi sulle risorse a cui questi può attingere per far fronte alle richieste che incontra nel relazionarsi al mondo. Nell’esaminare i fattori responsabili dell’adattamento dell’individuo, si tende ad assumere non più una visione statica, ma processuale e d’insieme (olistica).

6.​​ Il​​ coping.​​ A questo riguardo è molto rilevante il costrutto di​​ coping.​​ Esso costituisce attualmente un importante oggetto di studio nella psicologia ed è stato definito in modi diversi. Le varie definizioni, tuttavia, hanno in comune il fatto di considerare il​​ coping​​ come un processo mediante il quale le persone cercano di gestire la discrepanza percepita tra le richieste loro poste da una situazione stressante e le proprie risorse. Tra le​​ qualità processuali​​ caratterizzanti il​​ coping​​ possiamo distinguere: meccanismi o strategie intrapsichiche, risorse personali e risorse sociali, modalità interazionali cognitive e comportamentali. È di qualche interesse la questione circa quali forme del​​ coping​​ siano maggiormente funzionali per l’individuo nel relazionarsi alle specifiche situazioni del suo interagire. In genere gli individui che dispongono di meccanismi o strategie intrapsichiche di tipo proattivo, o che possiedono risorse personali e risorse sociali, o che possiedono buone modalità cognitive e comportamentali, sono più in grado di percepire e valutare il loro interagire col mondo e di utilizzare comportamenti convenienti e funzionali alle specifiche situazioni. Vero è che la salute-malattia costituisce, anche se non è sempre ammesso, una dimensione unica. In questo caso la persona può, sempre fino ad un certo punto, essere sana e malata. Di maggiore attualità nell’interpretare in senso olistico l’interagire della persona, si rivelano i modelli «bio-psico-sociali-spirituali», che mettono in particolare rilievo il rapporto tra salute e «come si pensa il mondo».

7.​​ Psicologia clinica e salute-malattia.​​ Tra i modelli che interpretano la salute-malattia in senso olistico, vi sono quelli in cui prevale la prospettiva centrata sulla persona, quelli secondo cui domina la prospettiva ambientale ed, infine, quelli in cui vale la prospettiva della corrispondenza persona-ambiente. Tipici modelli in cui prevalgono le attività delle persone sono riscontrabili per es. in Engel (1962; 1979) e in Hurrelmann (1989; 1991). Per Engel la totalità biopsicosociale è costituita da un sistema integrato composto in una struttura gerarchica formata da tanti altri sottosistemi. Ogni sistema costituisce una parte integrativa dell’immediato sistema gerarchico superiore ed è attraverso scambi di informazione che avviene il legame con tutti gli altri sistemi della totalità biopsicosociale. Per Hurrelmann la salute-malattia è interpretata in riferimento ai contributi raggiunti dalle ricerche realizzate sotto il paradigma stress-salute. Secondo questo modello il bios individuale è visto nella sua totalità biopsicosociale e la salute-malattia è investigata alla luce dei recenti principi teorici della socializzazione. La salute è, secondo questo modello, interpretata in riferimento al grado di riuscita della socializzazione dell’individuo nel relazionarsi al suo mondo. Modelli olistici della salute-malattia che rientrano nella prospettiva​​ ambientale​​ sono quelli che danno rilevante importanza ad influssi socioculturali, politici, ecologici ecc. Diversamente sono interpretati i fattori e i processi secondo i modelli olistici che riferiscono la salute-malattia al criterio della corrispondenza persona-ambiente. Secondo questi modelli il rapporto salute-malattia è riferito al raggiungimento dell’equilibrio persona-ambiente. L’equilibrio della dinamica persona-ambiente è interpretato, per es., da Kaplan (1983) e da Lauth (1982) in riferimento al rapporto tra aspettative e competenze individuali e tra esigenze psicofisiche ed esigenze ambientali. In ogni caso la salute-malattia resta una questione della vita personale nella sua globalità: ad essa la terapia, la prevenzione, l’educazione e l’istruzione dovranno necessariamente, comunque e sempre, ultimamente riferirsi.

Bibliografia

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H. Franta




PERSONALIZZAZIONE

 

PERSONALIZZAZIONE

In ambito pedagogico la p. si riferisce all’attività educativa finalizzata alla valorizzazione di ogni persona concreta, con le sue caratteristiche peculiari, con la sua originalità, con il suo bisogno fondamentale di comunicazione e di condivisione.

1. Il movimento delle​​ ​​ scuole nuove, all’inizio del XX sec., introdusse il concetto di insegnamento individualizzato per reagire ad una prassi scolastica che offriva lo stesso tipo di insegnamento a tutti gli alunni e pretendeva da tutti gli stessi risultati. Ben presto si vide che se a scuola si poneva attenzione solo agli aspetti individuali della formazione degli alunni, trascurando quelli sociali, i risultati non erano soddisfacenti. La capacità relazionale degli alunni non veniva infatti adeguatamente coltivata. Nacquero così le prime realizzazioni parziali di quella che V. García Hoz definì «educazione personalizzata», una espressione da lui coniata verso la metà degli anni sessanta del XX sec., quando costruì un sistema che ha avuto applicazioni pratiche, prima nelle scuole spagnole e poi in alcune scuole italiane non statali, abbondantemente documentate da pubblicazioni scientifiche. Dall’estate del 2002 alla primavera del 2006 il sostantivo «p.» e l’aggettivo «personalizzato» si ritrovano spesso anche nei documenti ufficiali del Ministero dell’Istruzione.

2. Quando i pedagogisti affermano che l’essere umano è una persona intendono sottolineare che non è semplicemente un organismo che reagisce agli stimoli dell’ambiente, ma un essere attivo che si interroga, osserva, modifica l’ambiente in cui vive e si lascia modificare da esso: un essere che è principio delle proprie azioni e che è naturalmente aperto alle relazioni. Nel concetto di persona sono racchiuse le due dimensioni​​ ​​ individuale e sociale​​ ​​ dell’essere umano, da considerare sempre insieme; mentre invece quando si pone esclusivamente l’accento solo su una di esse si finisce inevitabilmente nel riduzionismo pedagogico, nei suoi due estremi dell’individualismo o del collettivismo.

3. Le note distintive di un’attività didattica personalizzata sono: la presenza, nella progettazione, di obiettivi e quindi di attività sia comuni che individuali; la ricerca di una forma di eccellenza personale per ogni alunno; la contemporanea attenzione alle dimensioni di socievolezza-comunicazione e di unicità-originalità dell’alunno; la progettazione sia di attività obbligatorie che di attività facoltative / opzionali e quindi una certa partecipazione degli alunni nella scelta delle loro attività di apprendimento; l’uso di un apparato progettuale che tenda alla formazione nell’alunno di una visione unitaria del sapere; lo svolgimento delle unità di apprendimento, evidenziandone la significatività soggettiva, problematizzando i contenuti, facendo riferimento all’esperienza dell’alunno, ricollegando le nuove conoscenze a quelle già possedute; la valutazione criteriale effettuata sulla base della diagnosi iniziale e della previsione dei risultati possibili per l’alunno; la valutazione della personalità scolastica, nelle due dimensioni del comportamento scolastico e del comportamento di lavoro; la valutazione delle competenze piuttosto che delle singole prestazioni; il coinvolgimento attivo dell’alunno nella sua valutazione; la comunicazione degli esiti delle valutazioni mediante l’uso di giudizi articolati, o almeno di profili, piuttosto che di aggettivi o numeri, che inevitabilmente finiscono per appiattire e per uniformare in modo generico; la periodica sintesi educativa effettuata dall’insegnante per il singolo alunno e la conseguente riprogettazione condivisa del suo lavoro scolastico. Nell’educazione personalizzata l’insegnante ha una funzione di guida, capace di orientare, stimolare e motivare gli alunni all’impegno per raggiungere gli obiettivi previsti sia comuni che individuali.

Bibliografia

Bernal Guerrero A.,​​ Análisis del tratado de educación personalizada. Génesis y aportaciones, in «Revista Española de Pedagogía»​​ (1999) 212, 16-49; García Hoz V. et. al.,​​ Dal fine agli obiettivi dell’educazione personalizzata, Palumbo, Palermo,​​ 32002;​​ Bertagna G.,​​ Valutare tutti valutare ciascuno,​​ Brescia, La Scuola, 2004; Martinelli M.,​​ La p. didattica, Ibid., 2004; García Hoz V.,​​ L’educazione personalizzata, Ibid., 2005 (tit. orig.:​​ Educación personalizada, Madrid, Rialp,​​ 81988); La Marca A.,​​ Educazione del carattere e p. educativa a scuola, Ibid., 2005; Id.,​​ La p. tra famiglia e scuola, Ibid., 2006.

G. Zanniello




PESTALOZZI Johann Heinrich

 

PESTALOZZI Johann Heinrich

n. a Zurigo nel 1746 - m. a Brugg nel 1827, educatore e pedagogista svizzero.

1.​​ Vita e opere.​​ All’età di cinque anni rimane orfano di padre. Viene educato, con il fratello e la sorella, dalla madre e dalla domestica in un clima di intenso affetto. Conosce molto presto la realtà sociale in cui vive, perché trascorre le vacanze presso il nonno paterno, pastore evangelico in una parrocchia vicino a Zurigo, o presso lo zio materno, medico di professione. Rimane fortemente colpito dalla povertà e ignoranza dei contadini, ma ancor più dal cambiamento che subiscono i fanciulli quando iniziano la scuola e il lavoro: dal loro volto spariscono gioia e spensieratezza. Forse è da cercare in quest’esperienza la volontà di P. di dedicarsi con tutte le forze e per tutta la vita all’educazione del popolo. Frequenta la scuola pubblica. Al​​ Collegium Carolinum​​ si entusiasma per la politica e per le teorie fisiocratiche. Nel 1769 sposa Anna Schulthess e con lei si stabilisce presso Birr, dove ha comperato una vasta estensione di terreno incolto. Chiama la proprietà agricola Neuhof e ne fa un istituto educativo per fanciulli poveri. Nel 1770 nasce Jacqueli, l’unico figlio, così chiamato in onore di​​ ​​ Rousseau di cui P. condivide le idee. L’azienda agricola fallisce e nel 1779 P. deve chiudere l’istituto, che ospita una cinquantina di ragazzi. Segue un periodo di riflessione e di pubblicazioni, di cui si segnalano le principali:​​ La veglia di un solitario​​ (1780);​​ Sulla legislazione e l’infanticidio​​ (1783);​​ Leonardo e Geltrude​​ (1781-1787), romanzo d’ambiente che ha molto successo e fa conoscere P. al grande pubblico;​​ Le mie ricerche sul corso della natura nello sviluppo del genere umano​​ (1797). Scoppiata la Rivoluzione fr. P. aderisce ai suoi ideali e ottiene la cittadinanza francese onoraria. Tuttavia, dopo la violenta repressione delle truppe francesi entrate in Svizzera, prende le distanze dall’azione rivoluzionaria e apre una scuola per orfani di guerra a Stans (1798). Vi rimane per cinque mesi progettando e sperimentando il suo metodo, come si legge in​​ Lettera a un amico sul proprio soggiorno a Stans​​ (1800). Lasciata la scuola di Stans, perché adibita ad ospedale militare, si porta a Burgdorf, vicino a Berna. Qui organizza meglio la scuola ed elabora compiutamente le sue dottrine metodologiche, che trovano spazio in alcuni scritti:​​ Il​​ metodo​​ (1800), sviluppato poi in​​ Come Geltrude istruisce i suoi figli​​ (1801);​​ L’A B C dell’intuizione​​ (1801);​​ Libro delle madri​​ (1803). Lasciata anche Burgdorf, perché il castello diventa sede della prefettura, P. accetta l’offerta di aprire un istituto a Yverdon (1805), che ben presto acquista fama mondiale, grazie al perfezionamento del suo metodo e all’aiuto di validi collaboratori. L’istituto è chiuso nel 1825 in seguito a forti contrasti interni, che P. non riesce a sanare. Si ritira amareggiato e ormai ottantenne a Neuhof, dove scrive​​ Il canto del cigno,​​ sintesi delle sue esperienze educative e teorie pedagogiche, e suo testamento spirituale.

2. Pensiero pedagogico.​​ P. non ha elaborato una teoria pedagogica sistematica, perché le sue opere nascono dall’esperienza e dalla sua passione per l’educazione del popolo. Tuttavia è possibile enucleare da esse quegli elementi che risultano fondamentali per una corretta impostazione dell’azione educativa. Per P. l’educazione è un processo che, rispettoso delle leggi della natura umana, abilita l’uomo all’uso di tutte le sue facoltà per raggiungere la perfezione etica. P. si distacca dall’iniziale e acritica accettazione della concezione roussouiana dell’uomo e imposta l’educazione come sviluppo simultaneo, armonico e integrale di tutte le facoltà che sono tipiche dell’uomo.

3. Metodo educativo.​​ La lunga esperienza educativa porta P. a puntare sul metodo naturale. Si tratta di scoprire l’ordinamento psicologicamente elementare e graduale dell’educazione per guidare lo sviluppo integrale del soggetto senza incaute anticipazioni o dannosi ritardi. L’educazione deve perciò avere i caratteri dell’elementarità, gradualità, integralità, senza dimenticare il ruolo che in essa ha l’intuizione.​​ ​​ Girard, nella sua​​ Relazione​​ del 1810 stesa in seguito alla visita compiuta all’istituto pestalozziano di Yverdon, così riassume il metodo di P.: «Circondare la gioventù di idee sensibili, vive e chiare, far risalire l’insegnamento a’ suoi primi elementi, elevarsi di là passo passo, in una gradazione misurata e lenta, dare all’attività spontanea del fanciullo tutto lo slancio possibile, formare in lui l’uomo, senza trascurare tuttavia differenze che l’individuo e la sua vocazione particolare presentano: ecco le regole fondamentali di questo sistema di educazione conosciuto in Europa sotto il nome di​​ Metodo del P.».

4.​​ Ambienti educativi.​​ In consonanza con il metodo naturale, l’ambiente educativo che ha maggior incidenza nell’educazione del fanciullo è la famiglia. Diversamente da Rousseau, che «sequestra» il bambino dal suo ambiente naturale – la famiglia –, P. ne esalta le funzioni educative: «È assodato che il focolare domestico riunisce i fattori essenziali di ogni verace educazione umana in tutta la loro estensione» (Discorsi alla mia casa).​​ Nell’ambiente familiare la madre ha un ruolo fondamentale in ordine all’educazione, perché attraverso di lei si sviluppano nel bambino i germi dell’amore, della fiducia, della riconoscenza, della socialità, della sicurezza. La famiglia è perciò il luogo delle relazioni essenziali ed esemplari dell’esistenza; è il luogo dello sviluppo infantile animato dall’amore, è il luogo dove «la vita educa». Dopo la famiglia la scuola è un ambiente educativo perché continua il processo iniziato nella casa domestica e permette al fanciullo di ampliare e arricchire le sue esperienze di vita. Tuttavia la scuola è educativa solo ad una condizione: se non si contrappone all’educazione familiare, ma se la continua e la integra.

5.​​ Influsso.​​ L’esperienza educativa di P. ha influito su tutti gli educatori e pedagogisti del periodo romantico. Anche se non tutto della sua opera e dei suoi scritti può essere ritenuto valido, tuttavia gli siamo debitori nel nostro modo di concepire l’educazione e la scuola. Inoltre gli si riconosce la profonda sensibilità con cui affronta temi e problemi sempre attuali: l’importanza dei primi anni di vita nella formazione della personalità equilibrata e completa; l’importanza della relazione madre-bambino e dei rapporti familiari; il ruolo dell’amore nel processo educativo.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ J. H. P.,​​ Sämtliche Werke,​​ ediz. critica delle opere di P. curata da A. Buchenau, H. Stettbacher e E. Spranger, Berlin / Zürich, W. de Gruyter / Fuessli, 1927-1976, 28 voll.;​​ Sämtliche Briefe,​​ epistolario completo in 13 voll., Zürich, Fuessli, 1949-1976. b)​​ Studi:​​ Meylan L.,​​ L’attualità di P.,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1962; Delekkat F.,​​ P.: l’uomo,​​ il filosofo,​​ l’educatore, Ibid., 1967; Genco A.,​​ Il pensiero di G.E.P.,​​ Padova, Liviana, 1968; Silber K.,​​ P.: L’uomo e la sua opera,​​ Brescia, La Scuola, 1971;​​ Soëtard M.,​​ P. ou la naissance de l’éducateur: étude sur l’évolution de la pensée et de l’action du pédagogue suisse​​ (1746-1827),​​ Frankfurt, Lang, 1981; Id.,​​ P.,​​ Paris, PUF, 1995.

R. Lanfranchi