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PEDAGOGIA

 

PEDAGOGIA

Comunemente il termine è riferito alla disciplina scientifica relativa all’​​ ​​ educazione. Ma più largamente è applicato a qualsiasi riflessione, studio, ricerca scientifica e non scientifica, su e per l’educazione, la​​ ​​ formazione, l’​​ ​​ istruzione.

1.​​ Etimologia e usi storici.​​ Come suggerisce l’etimologia (dal gr.​​ pais,​​ fanciullo, e​​ agogós,​​ guida, custode), dalla​​ funzione del paidagogós,​​ schiavo o liberto incaricato di accompagnare i fanciulli a scuola o in palestra, e successivamente dalla funzione dello schiavo o liberto preposto all’educazione dei giovani aristocratici, il termine è passato ad indicare, in senso figurato, il fatto, l’attività dell’educazione, specie quella morale. Ma ancora​​ ​​ Clemente Alessandrino (ca. 150 - ca. 215) indicava Cristo come «pedagogo». Tradotto in lat. con​​ disciplina,​​ institutio,​​ il termine ritorna in uso alla fine del sec. XV e lo si trova nell’Institutio Christiana​​ di Calvino (1536), che parla di una p. divina, ad indicare la cura misericordiosa e provvidenziale con cui Dio guida l’umanità, come padre e maestro. Verso la fine del sec. XVIII viene usato per indicare​​ anche il sapere​​ riguardante l’educazione, la teoria e la scienza dell’educazione. In it. è quasi del tutto scomparsa la distinzione tra la​​ p.​​ (l’educazione) e la​​ pedagogica​​ (la teoria dell’educazione). In ingl.​​ education​​ è usato sia per il fatto che per la dottrina dell’educazione; ma per la teoria dell’educazione sta entrando nell’uso, soprattutto a livello internazionale, il termine​​ pedagogy​​ (e un po’ meno il termine​​ educalogy).​​ In ted. si ha​​ Pädagogie​​ (Erziehung:​​ prassi educativa), e​​ Pädagogik​​ (Erziehungslehre:​​ dottrina dell’educazione); ma anche​​ Erziehungswissenschaft​​ (scienza dell’educazione). In rapporto allo sviluppo dell’educazione permanente si è proposto, ma senza troppo successo, di sostituire il termine p. con quello di​​ andragogia​​ (oltretutto tacciato di «maschilismo»).

2.​​ P. non scientifica e p. scientifica.​​ Norme, precetti, esortazioni, ammonimenti, sentenze o pensieri sull’educazione, si riscontrano nelle diverse culture. Idee pedagogiche sono espresse in forma letteraria, artistica, filmica, televisiva nelle diverse letterature nazionali e nella produzione culturale mondiale; fanno inoltre parte delle ideologie, dei programmi politici, come delle concezioni religiose (e degli scritti delle grandi religioni). L’arte di educare si alimenta delle tradizioni e delle innovazioni educative apportate lungo i secoli dai grandi educatori o da interventi politici per la formazione sociale. Il discorso sull’educazione si dà sotto forma di trattazione storica o di investigazione scientifica di vario tipo (biologico, psicologico, sociologico, antropologico, linguistico); o anche sotto forma di riflessione di tipo filosofico e teologico; o ancora di ricerca e progettazione di tipo metodologico, tecnologico, didattico. A mezza via tra il letterario e lo scientifico, tra intuizione e rigore logico, tra analisi fattuale e prospettiva utopica, si pongono i​​ saggi​​ a carattere pedagogico. In tal senso si può parlare di p. come​​ ambito culturale​​ (dell’area umanistica) e in particolare​​ scientifico​​ (tra le scienze umane), che ha cominciato ad avere un suo specifico assetto disciplinare tra la fine del sec. XVIII e la prima metà del XIX.

3.​​ Antecedenti e genesi della p. come disciplina.​​ Il miglioramento dei metodi e delle tecniche educative è stato sempre un fatto pratico, «artistico», oltre che teorico. Lungo il corso di molti secoli la riflessione su e per l’educazione non ha avuto una sua organizzazione disciplinare propria. Essa è stata sviluppata all’interno del problema e del discorso sull’uomo e il suo agire o più spesso all’interno delle concezioni filosofiche sulla vita politica e l’organizzazione dello Stato, come ad es. è in​​ ​​ Platone ed​​ ​​ Aristotele ed in genere nel mondo greco-romano. Nel periodo patristico e medioevale la p. è più che altro un capitolo della morale teologica, vale a dire della riflessione volta a interpretare il senso dell’agire umano alla luce dell’evento del Cristo, Signore risorto e Verbo di Dio; oppure come problema catechetico, vale a dire relativo alla trasmissione, all’insegnamento e alla comprensione dei contenuti di fede (come è ad es. in​​ ​​ Agostino e​​ ​​ Tommaso d’Aquino). Ma nel corso del​​ ​​ Medioevo si sviluppa pure un’ampia precettistica per l’educazione di chi ha da svolgere funzioni particolari (come i re, i principi, i nobili, i chierici, i monaci, ecc.). Essa perdurerà anche nell’età moderna allargandosi ad altre categorie di persone: alle dame, alle donne, ai gentiluomini, ai semplici cristiani, ai giovani. Lo spirito umanistico-religioso ha reso sensibili all’educazione di ragazzi e ragazze dei ceti popolari. La preoccupazione tipicamente moderna per le scienze della natura e il metodo scientifico, hanno fatto ricercare anche in sede educativa «il metodo naturale», colto nella natura delle cose (​​ Comenio), nella natura dell’intelligenza umana e nella peculiarità delle lingue e delle arti (​​ Ratke) o nella natura psicologica dell’educando, come insisteranno più tardi​​ ​​ Rousseau o​​ ​​ Pestalozzi. La p. tende ad essere piuttosto vista come​​ ​​ metodologia e​​ ​​ didattica. Con i nuovi modi di produzione legati a quella che è stata detta la «rivoluzione industriale» dalla fine del sec. XVIII in poi, con l’emergenza della borghesia e con le istanze politiche liberal-democratiche a seguito della rivoluzione francese, con l’enfasi sull’istruzione tipica dello spirito illuministico, e successivamente con l’esaltazione romantica della fanciullezza, si è venuta a creare una vasta domanda di formazione che ha spinto verso una diffusa scolarizzazione «scientifica», pubblica e tendenzialmente di massa; ha richiesto una nuova cultura per la conoscenza del bambino e per la professione di​​ ​​ maestro o di insegnante. In tal senso ha fatto sorgere il bisogno di una disciplina apposita, la p., che come, auspicava lo stesso​​ ​​ Kant, trattasse razionalmente i problemi educativi.

4.​​ La ricerca dell’identità disciplinare.​​ Pur con tutte le critiche, il ruolo di Rousseau è stato certamente fondamentale: nel suo​​ Émile​​ la proposizione di una nuova educazione, che non corrompesse l’originario buono stato di natura dell’uomo, chiedeva di essere collegata alla critica socio-culturale e all’utopia politica. Dall’Illuminismo in poi, una certa vena pedagogica ha pervaso la mentalità comune, le costruzioni di pensiero più diverse e le diverse scienze umane che si sono venute affermando in questi ultimi due secoli, per eccellenza considerate scienze dell’emancipazione e della liberazione. Ma ciò ha giocato a svantaggio della p., che è rimasta esposta alla predominanza di forme disciplinari più forti. Nella prima metà dell’800​​ ​​ Herbart si augurava che la p. riflettesse di più sulle proprie idee e coltivasse maggiormente un suo pensiero indipendente non facendosi colonizzare da nessuno. Invece di fatto continuò largamente la dipendenza della p. dalla filosofia di varia denominazione (idealismo, realismo, positivismo, attualismo, storicismo, pragmatismo, neo-kantismo, marxismo, spiritualismo, personalismo, neo-scolasticismo, ecc.), fino ad essere identificata come «scienza filosofica» da​​ ​​ Gentile. D’altra parte il prevalere della parabola positivistica ha avvicinato o ha subordinato la p. al biologismo evolutivo, al sapere medico e psichiatrico, alla sociologia o alla psicologia, dietro la richiesta pressante di una p. quale «scienza dell’educazione»: assimilata ad una psicopedagogia da parte degli autori del movimento delle​​ ​​ Scuole Nuove; o ad una sociologia dell’educazione da parte di​​ ​​ Durkheim (che per questo distingueva scienza dell’educazione da teoria dell’educazione e da p. pratica). Negli ambienti tedeschi, tra le due guerre si prese ad avanzare la proposta di una p. intesa come «scienza dello spirito», centrata su una riflessione di tipo ermeneutico della relazione educativa e finalizzata ad una solida formazione culturale. In tempi più vicini a noi è da segnalare anche un accostamento della p. alle scienze del comportamento e della comunicazione (antropologia culturale, etologia, linguistica, semiologia, ecc.). Tuttavia questa stessa «scienza dell’educazione» è stata radicalmente messa in questione dalla ventata della contestazione culturale che tra la fine degli anni sessanta e nel corso degli anni settanta ha investito le scienze umane in genere, considerate irrimediabilmente ideologicamente inquinate e subordinate al potere sociale dominante. La crisi ha per un verso ridimensionato e per altro verso stimolato le scienze umane a ricomprendersi, a trovare spessore e validità conoscitiva razionale, oltre le tradizionali angustie disciplinari e le rigidità metodologiche peculiari, affrontando tematiche culturalmente ed esistenzialmente significative. In sede pedagogica, se in un primo tempo ha prevalso la critica alle ideologie pedagogiche, dietro l’influsso della psicoanalisi, del marxismo libertario, della sociologia critica, dello strutturalismo, successivamente sono state particolarmente ascoltate influenze derivanti dall’organizzazione e dalla programmazione economico-sociale, dalle nuove tecnologie informatiche e dagli studi sulle intelligenze artificiali, sui processi cognitivi e sulla comunicazione interpersonale e sociale.

5.​​ La situazione attuale.​​ Il travaglio – o secondo altri lo sviluppo – della p. come disciplina scientifica è a tutt’oggi in atto. Per ciò che concerne l’assetto disciplinare si discute se essa debba intendersi come​​ disciplina specifica ed unitaria​​ o piuttosto debba risolversi come​​ ambito scientifico multidisciplinare​​ globalmente denominato​​ ​​ scienze dell’educazione; o se debba intendersi come​​ momento «generale» e sintetico​​ della riflessione, delle teorie, delle ricerche, delle tecnologie e delle pratiche educative; o piuttosto come​​ disciplina scientifica dell’organizzazione del sapere e dell’intervento educativo,​​ tra le cosiddette «scienze pratiche», attorno a cui si fanno ruotare le specificazioni educative delle scienze umane (come la biologia dell’educazione, la psicologia dell’educazione e dello sviluppo, la sociologia dell’educazione, l’antropologia educativa, ecc.), la storia delle idee e delle pratiche e delle istituzioni educative, la didattica e le didattiche disciplinari o le diverse educazioni (educazione fisica, morale, alla cittadinanza, ecc.), la​​ ​​ tecnologia dell’educazione, e magari anche una​​ ​​ filosofia dell’educazione: tutte viste come discipline ausiliarie o contestuali della p. In tal senso la p. è assimilata ad una​​ ingegneria,​​ ad una​​ clinica​​ dell’educazione, ad una​​ metateoria​​ del discorso educativo, ad una​​ logica​​ o ad una​​ sistemica​​ dell’azione educativa.

6.​​ I nodi problematici.​​ La ricerca dell’identità disciplinare della p. non è un puro fatto accademico o epistemologico, ma è collegata con le istanze che vengono dal mondo dell’educazione, con il modo di intendere la scienza e il sapere sociale, con le esigenze provenienti dalla vicenda storico-culturale cui ci si riferisce. Finora la p. per la maggior parte è stata quasi solo – come insinua l’etimologia – rivolta all’età evolutiva e al mondo della scuola e degli insegnanti. Ora invece la dilatazione della formazione a tutte le età della vita (​​ educazione permanente) e a tutte le situazioni vitali dell’esistenza personale e comunitaria, il moltiplicarsi delle figure e delle istituzioni a valenza educativa, il complessificarsi della domanda sociale di formazione richiedono anche una cultura ed un sapere pedagogico ben più variegato e specializzato che non quello tradizionale. Allo stesso modo il carattere misto del sapere pedagogico, che fondamentalmente è visto come un «conoscere per educare», richiede oltre l’indagine empirico-positiva, anche uno sforzo teorico e progettuale e una valutazione critica dei modelli operativi utilizzabili negli interventi e nelle varie situazioni educative. In tal senso si parla di «scienza pratica», che coniuga razionalità scientifica con razionalità pratica e tecnologica, logica dimostrativa con argomentazione retorica e dialettica. Più ampiamente, la scienza pedagogica dovrà connettersi con le «buone pratiche» educative, con l’arte dell’educazione, con la politica educativa, con le teorie educative, con il complesso mondo dell’industria culturale e della comunicazione mass-mediale e new-mediale. Infine è da dire che la p. – come del resto le altre scienze umane – è oggi messa in questione dai profondi processi di mutamento culturale, di innovazione tecnologica, di pluralismo e del muticulturalismo apportato dalla​​ ​​ globalizzazione della produzione economica e della esistenza sociale.

7.​​ Per una nuova paideia.​​ Più o meno coscientemente si avvertono i limiti di tanti modi di pensare e di prospettare la vita e l’educazione. Sicché la p. è oggi chiamata non solo a fornire informazioni, idee, modelli​​ per​​ l’educazione, ma anche a dover​​ ripensare globalmente​​ l’educazione, la formazione, l’istruzione. Oltre la produzione di condizioni facilitanti l’apprendimento e la maturazione personale è richiesta di essere​​ critica e ricerca di una paideia,​​ vale a dire di una «cultura formativa», di un’humanitas​​ degna di essere intenzionalmente ed impegnativamente perseguita nella differenza della vita personale e nella complessità dell’organizzazione socio-economico-politica; e nella prospettiva di una migliore qualità della vita di tutti ed ognuno, dei singoli e delle comunità. In tale contesto storico-culturale si fanno più evidenti il senso e la legittimità del pluralismo e della differenziazione degli approcci e delle impostazioni, ma anche la necessità del confronto e del dialogo interdisciplinare e sociale sui problemi della vita e dell’esistenza personale e comunitaria. In ciò consiste la «sfida» della p., che pure oggi è «sfidata», fino all’esautorazione, dalla vicenda culturale contemporanea: aiutare a ripensare la vicenda umana nella sua globalità, a prospettarne uno sviluppo «dal volto umano», e quindi a porre le basi e provare prospettive, modelli, sperimentazioni per un aiuto sociale, competente, responsabile e solidale, per la buona qualità della vita di tutti, piccoli e grandi, persone e comunità. È peraltro da notare che la limpidezza teorica ha da fare i conti con i compromessi e le carenze della pratica sociale ed istituzionale, delle procedure giuridiche ed accademiche, dei finanziamenti economici e delle iniziative politiche, che limitano in modo più o meno grave l’investigazione e la ricerca, al di là delle buone volontà personali e delle competenze scientifico-professionali.

Bibliografia

De Giacinto S.,​​ L’educazione come sistema,​​ Brescia, La Scuola, 1977; Riverso E.,​​ La p. come ricerca scientifica,​​ Cassino, Garigliano, 1979; Visalberghi A. - R. Maragliano - B. Vertecchi,​​ P. e scienze dell’educazione,​​ Milano, Mondadori, 1979; Brezinka W.,​​ Metateoria dell’educazione,​​ Roma, Armando, 1980; Volpi C.,​​ La p. come sapere progettuale,​​ Roma, Bulzoni, 1982; Massa R.,​​ Le tecniche e i corpi. Verso una scienza dell’educazione,​​ Milano, Unicopli, 1985; Nanni C.,​​ Educazione e scienze dell’educazione,​​ Roma, LAS, 1986; Dalle Fratte G. (Ed.),​​ Teoria e modello in p.,​​ Roma, Armando, 1986; Borrelli M. (Ed.),​​ La p. italiana contemporanea, 2​​ voll., Cosenza, Pellegrini, 1995; Corsi M.,​​ Come pensare l’educazione, Brescia, La Scuola, 1997; Bertagna G.,​​ Avvio alla riflessione pedagogica, Ibid., 2000; Cambi F. et al.,​​ P. generale, Firenze, La Nuova Italia, 2001; Tarozzi M.,​​ P. generale, Milano, Guerini, 2001; Granese A.,​​ Istituzioni di p. generale. Principia educationis, Padova, CEDAM, 2003; Bertolini P.,​​ Ad armi pari. La p. a confronto con le altre scienze sociali, Torino, UTET, 2005; Laneve C. - C. Gemma (Edd.),​​ L’identità della p. oggi, Lecce, Pensa MultiMedia, 2005.

C. Nanni




PEDAGOGIA CRISTIANA

 

PEDAGOGIA CRISTIANA

È indubbia la presenza nel​​ ​​ Cristianesimo di riflessioni pedagogiche, costruite sul fondamento o nell’orizzonte di una visione cristiana dell’uomo e del mondo. Si possono rintracciare già nella​​ ​​ Bibbia e negli scritti dei Padri, ma anche in opere di teologi e di pedagogisti cristiani delle varie epoche. Gli storici della p. sono soliti collocarle sotto la categoria generica ma significativa di p.c., indipendentemente dalla loro scientificità.

1.​​ Parola di Dio e pluralismo delle p.c.​​ Dallo studio della Parola di Dio sull’educazione emerge una conclusione un po’ sconcertante per chi crede di poter ricavare la p.c. direttamente dalla Rivelazione. La Bibbia e la Tradizione della​​ ​​ Chiesa, infatti, non contengono una p. rivelata in senso stretto, valida per tutti i tempi i luoghi e le culture. Già nella Bibbia, ma molto più nella tradizione cristiana, sono rintracciabili differenti concetti di educazione, molteplici proposte o modelli di umanesimo e di maturità umana, tutti pensati o come esigenze della Parola di Dio o almeno come compatibili con essa. Inoltre tutto questo insieme di materiale pedagogico è «datato», cioè si trova inserito e condizionato dal tipo di​​ ​​ cultura nel quale la Parola di Dio si è manifestata o è stata interpretata dalla comunità dei credenti lungo i secoli. Ciò che invece possiamo ricavare dalla Bibbia e dalla Tradizione della Chiesa come esigenze irrinunciabili della Parola di Dio in campo educativo e pedagogico, sono solo alcuni principi fondamentali di tipo antropologico e teleologico, a partire dai quali e ispirandosi ad essi, le comunità cristiane sono chiamate ad impostare non solo la loro prassi educativa ma anche le loro teorie pedagogiche nei differenti contesti culturali in cui devono vivere la loro fede. La più fondamentale di queste esigenze, quella che in certo senso le riassume tutte, si trova nelle «tavole domestiche» della lettera agli Efesini (Ef 6,4). Il Cristo-Kyrios e il suo Vangelo (che interpreta autorevolmente la Torah anticotestamentaria e la completa), costituiscono il fondamento ultimo e il criterio. Tuttavia l’adesione incondizionata alla Parola di Dio mediante la fede non dispensa il credente dalla ricerca di quella saggezza umana che deve guidarlo nella sua attività educativa e dall’utilizzazione delle conquiste umane sia nel campo del sapere pedagogico che in quello delle istituzioni educative. Quindi è legittimo affermare che la ricerca circa la natura, i contenuti, la meta dell’educazione, cioè la maturità, lo studio dei metodi e dei mezzi adatti per raggiungerla, la configurazione delle istituzioni educative, quali la famiglia e la scuola, in una parola, la p., tutto questo è lasciato da Dio all’inventiva delle generazioni cristiane, operanti nelle diverse culture. Questo spiega perché, nell’ambito dell’unica fede cristiana, di fatto siano esistite e di diritto possano continuare ad esistere autentiche teorie pedagogiche, differenti tra loro e tuttavia compatibili con la suprema saggezza del Vangelo, quindi tali da potersi legittimamente qualificare come​​ cristiane.

2.​​ Condizioni fondamentali perché una p. possa dirsi cristiana.​​ La legittimità, all’interno dell’unica fede, di una pluralità di p.c. non esclude tuttavia la possibilità di tensioni e contrasti tra le p. cresciute al di fuori della rivelazione e i contenuti della fede. È necessario pertanto definire le condizioni per cui una p. possa dirsi cristiana. La p.c. dovrà anzitutto essere autentica p., cioè rispettare e promuovere il lavoro della ragione in campo educativo, costruendo o optando per teorie pedagogiche valide e aggiornate. Però, a causa dell’adesione incondizionata alla Parola di Dio di chi la costruisce, essa dovrà essere sempre vigilante verso quelle teorie educative e progettazioni pedagogico-didattiche in contrasto con i contenuti della rivelazione, esercitando nei loro confronti una funzione critica. In secondo luogo la p.c., mentre da una parte, con ricerche sempre più approfondite, tenta di definire, all’interno delle diverse culture, le mete dei processi educativi e il complesso di tutti quei valori di autentica crescita umana e di progresso sociale che esse comportano, dall’altra, a motivo e alla luce dei contenuti della fede che essa suppone, dovrà sempre pensare e progettare tali mete in funzione di quella finalità superiore, che è la «perfezione cristiana» o «santità». È compito pertanto della p.c. tracciare itinerari di autentica maturazione umana all’interno di processi di​​ ​​ conversione e crescita cristiana (​​ educazione cristiana). In terzo luogo, quando la p.c. progetta e promuove, nell’orizzonte della fede, processi educativi di crescita e maturazione umano-cristiana a livello personale e comunitario, dovrà sempre farlo in una prospettiva escatologica, utopica per i non credenti ma reale per i cristiani, la prospettiva cioè dei «nuovi cieli e della nuova terra» (Ap 21), preannunciata dalla resurrezione di Cristo.

3.​​ Natura e scientificità della p.c.​​ Circa la natura e la scientificità della p.c. sono sorte in passato ed esistono ancora attualmente opinioni differenti e antitetiche, determinate da precomprensioni riguardanti sia la natura della p. (è scienza o arte? quale tipo di scienza: normativa? ermeneutica? sperimentale? scienza unica o pluralità di scienze?) sia le condizioni per cui un sapere possa essere detto scientifico (autonomia? criticità?). Soprattutto il disaccordo circa la questione se la p. sia scienza unica e, in questo caso, di che tipo, oppure indichi una pluralità di scienze, incide fortemente sulla natura e scientificità della p.c. Tra coloro che ritengono la p. scienza unica del fatto educativo, c’è chi la concepisce come​​ filosofia,​​ chi come scienza​​ normativa,​​ chi la pensa come scienza​​ ermeneutica​​ e chi ne fa una scienza​​ empirico-sperimentale.​​ All’interno di questo gruppo eterogeneo, già nella prima metà del sec. scorso, soprattutto in ambiente tedesco, la natura e la scientificità della p.c. divenne oggetto di contesa. Si discuteva se fosse legittimo da un punto di vista epistemologico unire insieme scientificità e dipendenza da una fede. Un problema analogo veniva posto per la filosofia cristiana. La maggior parte dei pedagogisti di estrazione cattolica, almeno fino al Concilio Vaticano II, dava a questo problema una risposta affermativa. Questa posizione era condizionata dalla certezza che la p. fosse una scienza​​ normativa​​ dei processi educativi e quindi dovesse fondarsi su una visione del mondo, cioè su una metafisica e un’antropologia, ricavabili sia da una filosofia che da una fede (nel caso nostro, dalla fede cristiana), senza tuttavia perdere, in quest’ultimo caso, l’autonomia propria delle scienze normative. Rispondevano invece negativamente quasi tutti gli altri pedagogisti, molti dei quali appartenevano all’area evangelica. Erano convinti che il far dipendere la p. da una visione del mondo ricavata da una fede, significava vanificarne l’autonomia (dote questa ritenuta, da tutta la modernità, essenziale per la scienza) e, per di più, ideologizzare la fede. A partire dagli anni Settanta, però, anche un numero notevole di pedagogisti cattolici (non solo dell’area tedesca) rinuncia sia alla concezione della p. come scienza normativa sia alla proposta del​​ ​​ Willmann di pensare la p.c. come «scienza cristiana dell’educazione» e opta, generalmente, per una concezione della p. come scienza ermeneutica. Per conseguenza la p.c. o viene relegata nell’ambito delle​​ Erziehungslehren​​ (precettistiche pedagogiche), prive di dignità scientifica, oppure viene collocata all’interno della teologia (Schilling, 1974). Però, già a partire dagli anni Cinquanta, emerse e si affermò, non solo in Italia, la posizione di coloro che ritengono la p. il nome collettivo di una pluralità di scienze differenti, unificate però dal fatto di avere un campo comune di indagine, l’educazione, sebbene poi ciascuna di esse la studi da un punto di vista diverso da quello delle altre scienze dell’educazione. In questo contesto furono fatte nuove proposte circa la natura e la scientificità della p.c. Per​​ L. da Silva essa consta di tre gruppi distinti di principi: p. di ordine​​ scientifico-sperimentale​​ (sono le «conclusioni» delle tre scienze sperimentali dell’educazione: la biologia, la psicologia e la sociologia); p. di ordine​​ filosofico​​ (conclusioni della filosofia dell’educazione); e infine p. di ordine​​ teologico​​ (conclusioni della teologia dell’educazione). Tutti questi principi, nonostante la loro eterogeneità genetica (derivano da scienze diverse), polarizzandosi tutti attorno ad un unico oggetto formale, l’educabilità umana, danno origine ad un’unica scienza, la p.c, concepita come scienza integrale dell’educazione umana. Anche G.​​ ​​ Corallo ritiene la p.c. un tipo di sapere complesso, perché risulta dalla collaborazione tra scienze diverse: una filosofia dell’educazione aperta alla rivelazione cristiana; una teologia dell’educazione con la funzione di integrare le conquiste valide ma parziali della filosofia dell’educazione; e infine una metodologia pedagogica che dipenda, oltre che dalla filosofia, anche dalla teologia. In una prospettiva analoga a quella di G. Corallo sono da collocarsi anche P. Braido e V. Miano per quanto riguarda la natura della p.c. Oggi la trasformazione della p. in scienze dell’educazione può considerarsi un fatto compiuto, anche se non è inteso da tutti allo stesso modo. L’unico tipo di conciliazione possibile tra queste esigenze antitetiche sembra essere l’​​ ​​ interdisciplinarità. Essa però è intesa in modi diversi e contrapposti. È evidente che, in questa prospettiva epistemologica, il problema della natura e della scientitificità della p.c. si debba porre in modo nuovo rispetto al passato. A noi sembra impraticabile la scorciatoia di chi vorrebbe trasformare il sintagma «p.c.» in quello di «Scienze cristiane dell’educazione». Indipendentemente dalla possibilità di una sua interpretazione corretta dal punto di vista epistemologico, riteniamo questa soluzione, oggi soprattutto, fonte di equivoci senza fine. Escludiamo inoltre che la p.c. possa identificarsi con la teologia dell’educazione. L’unica formula che, a nostro parere, potrebbe salvare, da una parte la scientificità dei contributi di ciascuna delle scienze dell’educazione e, dall’altra, la possibilità di una loro effettiva collaborazione interdisciplinare è l’appartenenza di tutte le teorie che vi partecipano a una comune «tradizione di ricerca» (​​ epistemologia pedagogica), compatibile con la Parola di Dio. Ai convegni di Scholé (Brescia), che raduna pedagogisti cristiani italiani, va il merito di tenere aperto un dibattito sulla p.c. a partire dal 1954. Gli Atti sono editi da La Scuola di Brescia.

Bibliografia

Schilling H.,​​ Teologia e scienze dell’educazione. Problemi epistemologici,​​ Roma, Armando, 1974; Scholé (Ed.),​​ Teologia e scienze dell’educazione.​​ Atti del XXVIII Convegno di Scholé, Brescia, La Scuola, 1990; Groppo G.,​​ Teologia dell’educazione. Origine identità compiti,​​ Roma, LAS, 1991; Mari G.,​​ P.c. come p. dell’essere, Brescia, La Scuola, 2001; Chiosso G.,​​ Profilo storico della p.c. in Italia (XIX e XX secolo), Ibid., 2001; Sagramola O.,​​ Alle radici della p.c.: educazione,​​ cultura e scuola nel cristianesimo dei primi secoli, Manziana, Vecchiarelli, 2003; Bissoli C.,​​ Il dibattito sulla p.c. Alcune puntualizzazioni, in «Orientamenti Pedagogici» 54 (2007) 357-368.

G. Groppo




pedagogia dell’ERRORE

 

ERRORE: pedagogia dell’

Si può intendere per e. l’affermazione di una proposizione falsa e per pedagogia dell’e. lo studio delle strategie di gestione dell’e. destinate alla formazione culturale ed educativa del ragazzo.

1.​​ E. ed​​ ​​ apprendimento.​​ Nella prima metà del ’900, Brueckner ed altri, basandosi sull’analisi dei compiti e su una scomposizione logica delle difficoltà del calcolo elementare, avevano costituito liste di «occasione d’e.» e «prove diagnostiche», utili per un esame sistematico dell’apprendimento. Altri, come Fernald, hanno sostenuto i vantaggi del dare sistematicità e analiticità al recupero​​ e costruito strumenti e schede per facilitarlo. I coniugi Schonell hanno realizzato qualcosa di analogo per il calcolo delle quattro operazioni aritmetiche e per l’ortografia. I tentativi citati danno rilievo agli e. e alle possibili occasioni di e., ma non partono da un modello di apprendimento tipico, unitario;​​ ​​ Piaget invece ha cercato di descrivere gli e. come esiti degli stadi di sviluppo del pensiero e i «piagetian’s test», tratti dalle sue opere da studiosi inglesi, sono stati proposti come strumenti di diagnosi dello sviluppo. È stata così data espressione all’intuizione della scuola attiva (​​ Scuole Nuove) che oppone l’itinerario logico (secondo la logica adulta) a quello psicologico (che riflette anche gli apparenti zig zag dello sviluppo). Secondo tale prospettiva l’e. è visto come un manifestarsi della logica infantile rispetto a quella adulta. In questa linea Bruner asserisce che gli e. sono sovente solo un procedere secondo vocabolario e grammatica tipici dello stadio di sviluppo. Questi autori interpretano dunque l’e. come un momento fisiologico della crescita. La psicologia cognitiva ha studiato, più recentemente, le «misconcezioni» o preconcezioni, cioè quelle concezioni spontanee, avallate spesso dall’esperienza percettiva, che sono nettamente distinte dalla conoscenza scientifica (per es. la concezione tolemaica contrapposta a quella galileiana) e che permangono spesso, anche dopo anni di studio.

2.​​ L’e. nel modello della valutazione formativa.​​ Il filone di studi che va sotto il nome di valutazione formativa ha dato rilevanza all’e. Secondo questo modello, bisogna elaborare degli iter personalizzati per portare l’alunno ad una base comune (gli​​ ​​ standards), distinguendo tra e. vero e proprio, livello di maturazione e stile cognitivo. Dalle ricerche sul​​ ​​ problem solving​​ si vede che ogni ragazzo procede per vie personali, che vanno rispettate, seguite o rettificate. Gli e. allora sono importanti per interpretare e anche per riprogrammare. Recentemente è stata studiata la natura anche emozionale dell’e.

Bibliografia

Wertheimer M.,​​ Productive thinking,​​ New York, Harper, 1959; Bruner J. S. - R. R. Olver - P. M. Greenfield,​​ Lo sviluppo cognitivo,​​ Roma, Armando, 1973; Czerwinsky Domenis L.,​​ Un e. utile: trasformare gli sbagli in opportunità di apprendimento, Gardolo (TN), Erickson, 2005;​​ Astolfi J.-P.,​​ L’erreur,​​ un outil pour enseigner, Issy-les-Moulineaux, ESF, 2006; Fiard J. - E. Auriac,​​ L’erreur à l’école: petite didactique de l’erreur scolaire, Paris, L’Harmattan, 2006.

C. Coggi




PEDAGOGIA ISTITUZIONALE

 

PEDAGOGIA ISTITUZIONALE

Indica una corrente contemporanea della p. francese che rifiuta una concezione autoritaria della scuola e si schiera, invece, a sostegno dell’autogestione pedagogica.

1. La p.i. nasce nel clima antistituzionale che caratterizza gli anni intorno al ’68, come punto di coagulo di una serie di tendenze: l’educazione attiva e cooperativa di​​ ​​ Freinet, la non direttività di​​ ​​ Rogers, le teorie psicodinamiche di​​ ​​ Lewin e le posizioni della psicoterapia istituzionale. Essa contesta la p. tradizionale, considerata astratta, teorica e burocratizzata, che crea solo conformità, passività, inibizione del desiderio e dell’iniziativa, e che, pertanto, non è in grado di cambiare la scuola e, in ultima analisi, la società anche perché sono le strutture sociali a condizionare il sistema educativo. Al contrario, la strada per una riforma passa attraverso il rigetto dell’«istituito», cioè dell’organizzazione imposta dall’alto a servizio degli interessi dominanti, e l’assunzione di un atteggiamento «istituente», cioè controistituzionale, che si concretizza nell’autogestione​​ di persone e gruppi.

2. Nella scuola quest’ultima significa che l’insegnante interviene non più a partire dai contenuti precostituiti nei curricoli, ma dalle domande della classe, e lascia che siano gli alunni a decidere i metodi e i programmi. Il funzionamento del gruppo di autogestione è guidato dai principi della soddisfazione di tutti i suoi membri, dell’aggiustamento continuo ai loro desideri e dell’accesso al confronto con la società. Il compito dell’insegnante consiste nel ruolo di facilitatore dell’apprendimento, di analista, di tecnico dell’organizzazione. All’interno della p.i. convivono​​ tre tendenze:​​ una direttiva, di ispirazione marxista, secondo cui l’insegnante propone modelli di autogestione; una semi-direttiva, di origine freinetiana, nella quale la proposizione di modelli lascia ampio spazio all’autoformazione personale; una non-direttiva, di influsso rogersiano, che concepisce l’insegnante come puro consulente. La p.i., dopo il successo della fine degli anni ’60, è stata messa in discussione e viene​​ criticata​​ sia per la sua pretesa di realizzare le riforme basandosi solo sul microsociale, sia per la proposta di un’autogestione che manca di finalità e di motivazioni chiare. Al tempo stesso le va riconosciuto il merito di aver fornito un contribuito prezioso all’analisi delle istituzioni e allo sviluppo dell’approccio sistemico. Attualmente in Francia la p.i. è impegnata ad allargare l’analisi istituzionale dalla singola classe all’intero istituto.

Bibliografia

Lapassade G.,​​ L’autogestion pédagogique,​​ Paris, Gauthier-Villars, 1971; Lobrot M.,​​ A quoi sert l’école?,​​ Paris, Colin, 1992; Ardoino J. - R. Loureau,​​ Les pédagogies institutionnelles,​​ Paris, PUF, 1994; Meirieu P. - F. Oury,​​ Y a-t-il une autre loi possible dans la classe?, Mouans-Sartoux, PEMF, 2001; Oury F. - A. Vasquez,​​ Vers une pédagogie institutionnelle?, Vigneux, Matrice, 2001; Imbert F. - Le Grpi,​​ La pédagogie institutionnelle pour quoi? pour qui?, Ibid., 2004; Laffitte R.,​​ Essais de pédagogie institutionnelle, Nîmes, Champ Social, 2006.

G. Malizia




PEDAGOGIA SOCIALE

 

PEDAGOGIA SOCIALE

La p.s. è una scienza pratica, sociale e educativa non formale che giustifica e comprende in termini più ampi il compito della​​ ​​ socializzazione, e in modo particolare la​​ ​​ prevenzione e il​​ ​​ recupero nell’ambito delle deficienze della socializzazione e della mancata soddisfazione dei​​ ​​ bisogni fondamentali.

1. Si possono identificare quattro principali approcci alla p.s. Un primo la concepisce come scienza dell’educazione sociale dell’individuo, il quale ha bisogno di maturare la responsabilità sociale e la capacità di contribuire al bene comune: questo compito spetta alla p.s. Un secondo approccio la intende come dottrina dell’educazione politica e nazionalista dell’individuo: soggetto dell’educazione diventa quindi lo Stato, a cui i fini e gli obbiettivi dell’individuo devono conformarsi e sintonizzarsi. La p.s. così intesa diventa p. nazionalista, rivolta alla formazione civica della gioventù. Una terza concezione la vede come p. della società, nel senso che deve guidare quest’ultima nella formazione dei suoi membri. Tale influsso educativo della società avviene più che nei rapporti individuali (genitori, maestri, gruppo dei pari) nella cultura del gruppo sociale, dell’ambiente sociale, dei mezzi di comunicazione e dell’educazione informale. In questo senso, il mezzo più valido per la socializzazione non è una società indistinta, ma i corpi intermedi, la comunità o le istituzioni che la compongono (ad es. la famiglia, la chiesa, il sindacato, le comunità di recupero). Un quarto approccio accentua l’intervento preventivo e di ricupero nei casi in cui viene a mancare un’adeguata socializzazione. Tale intervento è stato inizialmente concepito come educazione dell’infanzia e della gioventù disagiata, per poi espandersi all’educazione degli adulti, degli anziani e delle famiglie a rischio. Si tratta particolarmente dell’educazione non formale, e si riferisce spesso all’ambito dei​​ ​​ servizi sociali, purché essi abbiano anche una funzione educativa e non soltanto assistenziale (Quintana Cabanas, 1984).

2. I precursori della p.s. si possono rinvenire nell’azione caritativa del cristianesimo, e in pedagogisti come​​ ​​ Pestalozzi e​​ ​​ Fröebel, prima ancora che essa venisse sistematizzata come disciplina. L’azione socio-educativa supera l’ambito delle istituzioni caritative e passa a svilupparsi all’interno delle politiche assistenziali e sociali. Il termine è di origine tedesca ed è stato utilizzato inizialmente da K. F. Magwer nel 1844, nella​​ «Pädagogische Revue»,​​ e in seguito da A. Diesterweg (1850) e​​ ​​ Natorp (1898), che l’analizza come disciplina pedagogica. Sono state le problematiche sociali emerse dall’industrializzazione a partire della metà del sec. XIX, soprattutto in Germania, a spingere la sistematizzazione della p.s. come scienza e disciplina.

3. Attualmente la p.s. sembra orientarsi sempre di più verso la realizzazione pratica della educabilità umana rivolta a persone che si trovano in condizioni sociali sfavorevoli. Il lavoro dell’educatore sociale emerge quindi come una necessità della società industrializzata, in quanto in essa si sviluppano situazioni di disagio che si manifestano in forme di povertà, di​​ ​​ emarginazione, di consumo di​​ ​​ droga, di abbandono e di mancata partecipazione sociale. La p.s. si realizza particolarmente all’interno degli interventi educativi intenzionali e non formali, ed è organizzata al di fuori delle normali agenzie educative come quella scolastica e familiare. Si differenzia quindi dall’educazione formale che si svolge direttamente nella famiglia e nella scuola, e da quella informale, caratterizzata dalla mancanza di intenzionalità educativa e che si sviluppa attraverso la convivenza familiare, del gruppo dei pari, e dei mezzi di comunicazione.

Bibliografia

Agazzi A. (Ed.),​​ Educazione e società nel mondo contemporaneo,​​ Brescia, La Scuola, 1965;​​ Quintana Cabanas J. M.,​​ Pedagogía social,​​ Madrid, Dykinson, 1984; Fermoso P.,​​ Pedagogía social. Fundamentación científica,​​ Barcelona,​​ Herder, 1994; Quintana Cabanas J. M.,​​ Textos​​ clásicos de pedagogía social,​​ Valencia, Nau Llibres, 1999; Romans M. - A. Petrus - J. Trilla,​​ Profissão: educador social, Porto Alegre, ARTMED, 2003.

G. Caliman




PEDAGOGIA SPERIMENTALE

 

PEDAGOGIA SPERIMENTALE

Con tale denominazione viene designato sia il complesso sistematico delle norme metodologiche da usarsi per lo studio positivo-sperimentale dei fatti educativi e didattici, sia l’insieme organico dei risultati, delle conclusioni raggiunte utilizzando un’appropriata metodologia sperimentale. Questa duplice concezione si riflette nelle denominazioni diversamente usate dai vari autori e nelle diverse lingue.

1.​​ Origine e sviluppo.​​ ​​ Herbart riteneva che la p. si appoggiasse sulle conclusioni della filosofia e della psicologia, ma costituisse un sapere indipendente e scientifico, basato anche su fatti rigorosamente accertati. Le origini della p.s. si legano a quelle della sperimentazione in psicologia. È stato​​ ​​ Wundt a dare origine a quest’ultima. I suoi studi e i suoi esperimenti non hanno riguardato il fatto educativo e neppure fatti psicologici rilevanti per un educatore. I suoi allievi invece si sono occupati di psicologia scolastica, di controllo dei risultati dell’apprendimento, di strumenti per la misura delle attitudini e dei prodotti del conoscere, attivando laboratori di p.s. e pubblicando monografie e manuali. Tra questi si possono ricordare E. Meumann, che collaborò con W. Lay in Germania, V. Mercante in Argentina, M. Schuyten in Belgio, W.H. Winch in Inghilterra, il gruppo degli allievi americani, tra cui J.M. Rice. Il sorgere e lo svilupparsi della p.s. è dipeso da vari motivi oltre che da una tendenza allo sviluppo delle scienze sperimentali presente un po’ ovunque. È stato però anche oggetto di polemiche, di riserve, di incertezze. In Germania Dilthey, allievo di Herbart, contrapponeva a una scienza che voleva «spiegare» i fatti (erklären)​​ una conoscenza che voleva comprenderli (verstehen),​​ più consona alla peculiarità di una scienza umana; dava così origine a una corrente di pensiero destinata a riemergere (​​ ricerca educativa). Una tradizione che risale a​​ ​​ Rousseau aveva posto il fanciullo al centro delle cure educative, insistendo sull’utilità di creargli attorno un ambiente naturale, appropriato, formativo ma gaio. Da questo filone erano maturate iniziative di vario genere: quelle che traevano indicazioni per l’educazione dalla medicina, dalla psicologia e insistevano perché i problemi della crescita infantile fruissero delle conquiste scientifiche. Il metodo scientifico cui diceva d’ispirarsi​​ ​​ Montessori può esserne un esempio; le polemiche e le proposte fatte dalla p. scientifica (recensite da​​ ​​ Buyse nella​​ Expérimentation en pédagogie​​ e da Fornaca e Di Pol in​​ La p. scientifica)​​ sono altri esempi di questa tendenza. Anche la p. nuova, quella attiva, quella funzionale (per quanto queste denominazioni possano designare movimenti distinti) avevano la preoccupazione di adeguarsi ai progressi della p., della psicologia e della medicina. Non c’era però, nei più, l’estensione, formalmente intesa, della​​ ​​ sperimentazione vera e propria ai fatti educativi. Buyse, per sottolineare questa realtà, contrapponeva la p.​​ expérienciée​​ a quella​​ expérimentale,​​ da lui propugnata. In vari studiosi di​​ ​​ pedologia e psicotecnica, come essi stessi si denominavano, la divaricazione tra innovazione attivistica e ricerca in educazione era meno accentuata.​​ ​​ Binet,​​ ​​ Claparède,​​ ​​ Decroly, ognuno con la propria fisionomia, cercavano d’introdurre nella scuola la ricerca, si occupavano molto degli anormali, trasferendo i metodi diagnostici della psicologia allo studio di questi allievi e inserendo nella didattica abituale il materiale e le iniziative prima predisposti per i ragazzi in difficoltà. Studiosi come Binet si consideravano (ed erano considerati) psicologi, ma effettuavano ricerche scolastiche che interessavano la didattica e la p. (Les idées modernes sur les enfants,​​ 1911). Agli inizi del secolo cominciarono ad apparire negli USA, oltre alle molte ricerche, manuali bilancio per la misurazione dei risultati nella scuola e per la sperimentazione (W. McCall,​​ How to experiment,​​ 1924). In Francia Th. Simon, collaboratore di Binet, pubblicò nel 1922​​ La pédagogie expérimentale​​ e accolse, sul bollettino della​​ Société Binet,​​ i contributi per una «scuola su misura». Claparède fece il bilancio dei metodi della p.s. (Psychologie de l’enfant et pédagogie expérimentale).​​ In Belgio R. Buyse, allievo di O. Decroly, tracciò una storia del metodo sperimentale, illustrò una serie di piani d’esperimento e raccolse ricerche modello (L’expérimentation en pédagogie,​​ 1935). La ricerca nomotetica in p. aveva raggiunto così lo stato adulto. Le opere citate ignoravano per lo più i problemi epistemologici ed offrivano invece considerazioni su come condurre di fatto le ricerche. Tracciando un bilancio della produzione americana ed europea in p.s., si rilevano ricerche poderose per numero ma non sempre altrettanto per rilevanza teoretica e pratica. Già Binet sottolineava, a suo modo, l’abbondanza di ricerche conoscitive, condotte senza una teoria interpretativa, protese a rilevare fatti limitati, senza compiere il ciclo che dalle constatazioni risale a modelli interpretativi più generali e più profondi, per poter offrire indicazioni utili a chi opera nel campo scolastico.

2.​​ Positivismo e ricerca positiva.​​ L’ambiente culturale in cui si è sviluppata la p.s. è, in senso largo, il​​ ​​ positivismo, espresso anche in varie forme come il sociologismo, il pragmatismo, lo scientismo. Per i positivisti l’unico metodo veramente scientifico è quello induttivo, fondato sull’osservazione e sull’esperimento, che si applica indistintamente a tutti i fenomeni, naturali, culturali, sociali, educativi. Si pensa anche a una «metafisica induttiva» che non vuol però arrivare ad alcun assoluto, ma è simile a un’etica sociale, espressione delle esigenze storiche di una società. Il positivismo ha ispirato e giustificato lo studio osservativo e sperimentale dei fatti positivi e l’incidenza della p.s. sull’organizzazione scolastica e nel trattamento dei meno dotati e dei disabili. L’Italia, fino all’affermazione e al prevalere dell’idealismo, era un esempio di questo fervore di iniziative. Gli studi di p.s. hanno ripreso a svilupparsi a metà del XX sec., nell’ultima decade si sono istituite le prime cattedre universitarie. La p.s. ha trovato e trova giustificazione in un quadro filosofico diverso dal quello del positivismo, come avviene per il metodo sperimentale usato nelle scienze e quale è andato formulandosi con sempre maggior precisione e rigore, da Bacone a Galileo, a Descartes. Per parecchi studiosi è appunto questo il metodo da usare anche, in modo analogico, nella p.s., mutuandolo appunto dalla ricerca scientifica.​​ è​​ quindi storicamente e teoricamente inesatto qualificare come positivistico ogni metodo sperimentale. Il determinismo che stava dietro alle posizioni positiviste è stato progressivamente superato dalle teorie più recenti, che si rifanno al realismo critico, che arriva ad asserti probabilistici con cui si interpretano le regolarità. Dunque diversi paradigmi epistemologici dal positivismo in poi hanno fondato i metodi di ricerca quantitativa (ricerca educativa). Il filone ermeneutico e fenomenologico sono invece il quadro di riferimento dei metodi qualitativi.

3.​​ Diffusione della p.s.​​ L’opera di Buyse è rimasta per anni un apporto isolato in Europa; altrettanto è da dire per le molte e interessanti ricerche sviluppate presso l’Università di Lovanio, soprattutto sotto forma di tesi di licenza o di dottorato. Buyse esclude dalla ricerca pedagogica i «fatti morali» e quindi la limita al settore tecnico e alla didattica. Così penserà anche E. Planchard, discepolo di Buyse e docente a Coimbra, che si è dedicato soprattutto alla divulgazione del metodo sperimentale e degli strumenti per la rilevazione. Lo studioso belga, e gli altri che lo hanno seguito, hanno posto queste restrizioni perché ritenevano scarsamente compatibile una ricerca sperimentale, formalmente intesa, con la filosofia professata allora da molti cattolici. Questa posizione è stata superata dai contributi dei pedagogisti italiani. In proposito va sottolineato che l’Italia è arrivata tardi alla ricerca sperimentale in educazione, ma ha insistito sul problema epistemologico. Dopo la seconda guerra mondiale, in Europa l’esempio di Buyse ha avuto più seguito. Oltre all’Università di Lovanio,​​ ​​ Dottrens a Ginevra, G. Mialaret a Caen,​​ ​​ Calonghi all’Università Salesiana in Italia, V. García Hoz a Madrid sono stati, con le loro ricerche e gli studi da loro ispirati, i rianimatori di questo tipo di ricerca. In molte nazioni la sperimentazione in didattica e in p. ha assunto proporzioni sempre maggiori e si è data un’organizzazione efficiente. Presso le università sono state istituite cattedre e sezioni apposite; si sono creati mezzi di espressione e di confronto con riviste specializzate e convegni. Sono apparse le rassegne periodiche delle ricerche come l’Encyclopedia of educational research,​​ i bilanci inglesi (Educational research in Britain,​​ editi periodicamente dalla University of London Press), quelli statunitensi (Review of research in education,​​ editi a cura dell’A.E.R.A.), gli ampi manuali di ricerca sull’insegnamento (Handbook of research on teaching), che continuano con aggiornamenti e completamenti curati da specialisti. Il progresso riguarda anche aspetti meno estrinseci e concerne in particolare questioni edumetriche: nella rilevazione è stata superata un’angusta concezione della misura dei fatti in favore della loro valutazione; le tecniche statistiche si sono arricchite e affinate per sfruttare le possibilità dei computer, per adeguarsi così meglio alla complessità delle situazioni. L’elaborazione di dati non metrici e non parametrici, i nuovi piani d’esperimento, la campionatura e la pianificazione delle ricerche, lo studio e la verifica delle loro condizioni di validità, sono state oggetto di sforzi più intensi e di più consapevoli impostazioni, anche epistemologiche. Da studi quasi esclusivamente didattici e piuttosto frammentari, si è passati a verificare l’efficacia di interventi educativi, a dare più rilievo al quadro teorico e all’incidenza dei fattori sociali, allo studio dei problemi visti nella loro complessità, includendo le variabili legate alle caratteristiche personali e quelle meno facilmente quantificabili.

4.​​ Conclusione.​​ Già all’origine, ma ancor più dopo le articolazioni assunte dalla ricerca educativa e didattica, la denominazione p.s. appare inadeguata. Privilegia, apparentemente, l’aspetto sperimentale su quello osservativo; sembra ritenere esaustivo il metodo sperimentale, mentre non è l’unica prospettiva da adottare per lo studio empirico dei fatti educativi. Non include inoltre i metodi qualitativi di ricerca che si sono diffusi sempre più, ad integrazione dell’approccio quantitativo sperimentale della ricerca. Oggi si privilegia inoltre la distinzione tra gli aspetti metodologici e gli esiti conseguiti con gli stessi.

Bibliografia

Richard G.,​​ Pédagogie expérimentale,​​ Paris, Doin,​​ 1911;​​ Rusk R.,​​ Introduction to experimental education,​​ London, Longman, 1912; Freeman F.N.,​​ Experimental education.​​ Laboratory manual and tipical results,​​ Boston, Houghton Mifflin, 1916;​​ Zuza F.,​​ Alfred Binet et la pédagogie expérimentale,​​ Louvain, Nauwelaerts, 1943; Drese P.O.,​​ La didactique expérimentale de W.A. Lay,​​ Ibid., 1956; Montealegre A.,​​ Formation de la méthode expérimentale et son utilisation en pé­dagogie,​​ Ibid., 1959; Becchi E.,​​ Problemi di sperimentalismo educativo,​​ Roma, Armando, 1969; Coggi C. - L. Calonghi,​​ Ricerca e scuola,​​ Teramo, Giunti, 1990; Viganò R.,​​ P. e sperimentazione. Metodi e strumenti per la ricerca educativa, Milano, Vita e Pensiero, 2002; Burton D. - S. Bartlett,​​ Practitioner research for teachers, Thousand Oaks, Sage, 2005.

L. Calonghi - C. Coggi




PEDAGOGISTA

 

PEDAGOGISTA

È un termine di recente invenzione, non presente in molte lingue. Il suo significato, tuttora non univoco, si è venuto precisando, grosso modo, durante l’ultimo sec., con l’affermarsi della​​ ​​ pedagogia come scienza e i relativi problemi di ordine epistemologico.

1. Fin dall’antichità (e in qualche lingua è rimasto con il senso di p.) era usata la parola «pedagogo», per indicare chi si prendeva cura dei minori per istruirli e prepararli alla vita sociale. A poco a poco, l’interesse per questo impegno si è venuto amplificando, soprattutto con il diffondersi delle scuole, e, gradualmente, ha preso corpo l’esigenza di sviluppare una «scienza», che se ne occupasse. Ciò è avvenuto, nella prima metà del sec. XIX, soprattutto con​​ ​​ Herbart, il quale ha riconosciuto specifiche connotazioni a tale scienza e una sua particolare collocazione in rapporto alle altre. Da allora si è avviato un discorso epistemologico nei confronti della «pedagogia» (che dura tuttora) e si sono creati spazi per coloro che si dedicavano a un approfondimento teorico non solo sulla natura di tale scienza, ma, parallelamente, del suo oggetto e dei problemi che ne derivavano sui vari fronti, in cui l’educazione poteva aver luogo: dalla famiglia, alla scuola, ai più svariati raggruppamenti umani. A costoro, che come Herbart, non rifuggivano anche da tentativi pratici è stato dato il nome di p. Successivamente però e, in specie, in questi ultimi decenni, con l’articolarsi della pedagogia nelle «scienze dell’educazione» e degli impegni educativi in ambienti nuovi ed eterogenei rispetto ai tradizionali (comunità terapeutiche, luoghi di lavoro...), si è utilizzato il termine p. in un senso più ristretto, distinguendo all’interno delle funzioni, che si erano ritenute proprie di quell’unica figura, altre competenze specifiche (come quella didattica, tecnologica, storica, per i diversamente abili...), che, un tempo, erano gestite in modo unitario dal professore di «pedagogia», nei limiti della loro emergenza.

2. Oggi si tende pertanto a chiamare p. più propriamente colui che si dedica alla riflessione teorico-critica sulla natura della scienza pedagogica dell’educazione (o «pedagogia»), che ne è l’oggetto, dei fattori e agenti che vi contribuiscono, in una parola, su tutto ciò che ne costituisce la problematica. Infatti, su questo piano, più ancora che su quello operativo, non esiste a tutt’oggi un consenso (cosa peraltro difficile anche in altri campi, nella prospettiva teorica), soprattutto da quando si è venuta rivendicando un’autonomia dall’onnicomprensiva «pedagogia» di un tempo, a una​​ ​​ filosofia, a una​​ ​​ metodologia e, persino, a una​​ ​​ teologia dell’educazione. D’altronde, a complicare il discorso, si sono venute affiancando al p., al didatta, allo storico della «pedagogia», ai docenti universitari insomma, e agli insegnanti e educatori, in genere, altre figure, come l’operatore pedagogico, colui che si impegna in interventi educativi organici in situazioni definite, al quale si attribuisce e si richiede anche una preparazione teorica specifica, ma che resterebbe comunque connotato prioritariamente dalla sua azione sul campo, a costui taluni attribuiscono la denominazione di p. pratico. Non sembra tuttavia, come già accennato all’inizio, che esista, in merito, un’unanimità di opinioni, anzi la discussione continua su riviste e pubblicazioni varie.

Bibliografia

Braido P.,​​ La teoria dell’educazione e i suoi problemi,​​ Roma, LAS, 1968; Cambi F.,​​ Il congegno del discorso pedagogico,​​ Bologna, CLUEB, 1986; Nanni C.,​​ Educazione e scienze dell’educazione,​​ Roma, LAS, 1986; Granese A. (Ed.),​​ Destinazione pedagogia,​​ Pisa, Giardini Editori, 1986; Bertolini P.,​​ L’esistere pedagogico,​​ Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1988; Medina​​ Rivilla A.,​​ La formación práctica del educador social, del pedagogo y del psicopedagogo, Madrid, UNED, 2005.

B. A. Bellerate




PEDOFILIA

 

PEDOFILIA

Il​​ Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali​​ (IV-TR) colloca la p. tra le parafilie, in passato denominate perversioni. La p. consiste in un’attrazione sessuale incontrollabile da parte di soggetti adulti, uomini o donne esterni alla cerchia familiare, nei confronti di bambini dell’uno e dell’altro sesso, i quali, proprio perché tali sono costretti a vivere una relazione asimmetrica dominante-dominato, dove essi non sono affatto in grado di dare un consenso responsabile al contatto sessuale in cui vengono coinvolti.

1. Relativamente all’abuso sessuale sui minori, è opportuno distinguere tra​​ incesto​​ e​​ p. Anche se tra i due fenomeni ci sono delle analogie (entrambi annullano la differenza tra le generazioni), i contesti sono diversi. In particolare, essi rimandano a due differenti tipi di relazioni. Subire un abuso sessuale da un proprio familiare, soprattutto se genitore da cui il bambino dipende in maniera totale e da cui si aspetta protezione e conferma di sé, è ben più grave rispetto all’abuso perpetrato da un non familiare o addirittura da un estraneo. Il termine p. è quanto mai improprio e ambiguo per indicare l’abuso sessuale sui minori, poiché, derivando etimologicamente da​​ paidòs​​ (fanciullo) e​​ filia​​ (amore), esso significa​​ amore per il bambino.​​ Ciò che non è. Sarebbe quindi più opportuno sostituirlo con l’espressione​​ abuso sessuale extrafamiliare all’infanzia.​​ Va inoltre sottolineato che la p. è un fenomeno quanto mai complesso e variegato che rimanda, a seconda dei casi, a condotte di soggetti con strutture di personalità differenti: nevrotica, psicotica o perversa. È dunque più corretto parlare di pedofilie e non di p. Tale distinzione si rivela particolarmente utile in sede d’intervento psicoterapeutico, sia sul versante dell’abusato che dell’abusante.

2. La p. non va confusa con l’​​ ​​ omosessualità e non riguarda solo soggetti di sesso maschile. Il pedofilo può essere maschio o femmina, eterosessuale o omosessuale o bisessuale. Inoltre, non risulta correlato a particolari parametri socio-culturali, economici o geografici. Può appartenere a qualsiasi classe sociale e a qualsiasi livello di istruzione. È quasi sempre un soggetto insospettabile, con una buona capacità di adattamento alle regole sociali. È un immaturo, rimasto fissato a schemi relazionali di tipo pre-edipico. Da ciò il suo modo confuso di vivere la dimensione affettivo-sessuale che finisce per disorientare gravemente il minore. È un egocentrico, sostanzialmente ripiegato su se stesso e quindi privo di capacità empatica, per cui non si rende pienamente conto dei danni inferti all’abusato. Tende anzi a negarli o comunque a minimizzarli. Ciò spiega la resistenza del pedofilo ad accettare un trattamento psicoterapeutico. Ignora i bisogni e le esigenze affettive del bambino. Attraverso il meccanismo della proiezione, nel rivolgersi a lui, non mira altro che a soddisfare la sua fame di amore e di potenza. Esistono diversi tipi di pedofili: i​​ regrediti, i​​ fissati, i​​ latenti, gli​​ occasionali, coloro che denunciano una​​ prevalente componente erotica​​ (la cosiddetta «p. dolce») e coloro che denotano una​​ prevalente componente sadica.​​ Attualmente, stanno prendendo piede nuove modalità di condotte pedofile quali, ad es., la​​ pedopornografia,​​ cyberpedofilia​​ e il​​ turismo sessuale, il​​ satanismo.

3. Abitualmente, se si escludono i casi di costrizione violenta ed improvvisa, i bambini più a rischio di abuso sessuale da parte del pedofilo sono quelli che denunciano un grande bisogno di affetto, dal momento che in famiglia non lo hanno trovato o non lo trovano. Sono spesso bambini soli, rifiutati, abbandonati a se stessi e maltrattati e quindi psichicamente molto fragili, con scarsa autostima e fiducia in se stessi. La gravità delle ripercussioni sull’equilibrio psichico del bambino che subisce un atto pedofilo dipende: dall’età della vittima, dalle sue risorse psichiche e da quelle del suo ambiente familiare, dalla modalità, dalla frequenza e dalla durata dell’abuso, dal legame di dipendenza fisica e affettiva, più o meno forte, della vittima con l’abusante, dalla struttura di personalità del pedofilo, dal prestigio o meno che il pedofilo gode nella vita dell’abusato, dal tipo di reazione (solidale o accusatoria) che i genitori e l’ambiente socio-educativo assumono allorché l’abuso viene rivelato o scoperto, dall’attivazione tempestiva o meno di un intervento psicoterapeutico.

Bibliografia

Oliverio Ferraris A. - B. Graziosi,​​ P. Per saperne di più, Bari, Laterza, 2001;​​ Schinaia C.,​​ P. pedofilie. La psicoanalisi e il mondo del pedofilo, Torino, Bollati Boringhieri, 2001;​​ Picozzi M. - M. Maggi (Edd.),​​ P. Non chiamatelo amore, Milano, Guerini e Associati, 2003; Castellazzi V. L.,​​ L’abuso sessuale all’infanzia, Roma, LAS, 2007.

V. L. Castellazzi




PEDOLOGIA

 

PEDOLOGIA

Il termine p. (discorso - scienza del bambino) è stato introdotto nel linguaggio psicopedagogico alla fine del sec. scorso (1893) da O. Chrisman, in Germania. Questa «scienza» ha per oggetto il bambino, normale e no, con il compito di coordinare tutti i dati delle altre scienze, che lo riguardano, in modo da offrirne una​​ comprensione​​ possibilmente​​ globale,​​ in funzione educativa, secondo indicazioni già di​​ ​​ Herbart.

1. La p., in un primo momento, si è sviluppata all’interno della psicologia, come una sua branca (in essa, poi, ignorata); successivamente ha assunto più rilievo l’interesse pedagogico, tanto da identificarne l’oggetto nella stessa educabilità del bambino. Per questo la p. si è venuta esprimendo con diverse connotazioni nei vari Paesi. Trasferitosi Chrisman negli Usa, la p. vi trovò immediatamente grande risonanza, dando luogo ad ampie discussioni su contenuti e metodi. La diffusione in Europa (dalla Spagna alla Russia, dove aveva avuto in​​ ​​ Tolstoj un dissodatore del terreno) avvenne soprattutto grazie allo stimolo del francese E. Blum. I principali sviluppi e applicazioni hanno riguardato la preparazione di test (​​ Binet), problemi della scuola (in Francia), degli anormali (in Belgio:​​ ​​ Decroly), dell’adolescenza (Usa: St. Hall), di pedagogia sperimentale (in Germania: Lay e​​ ​​ Meumann) e di rapporti con l’antropologia (in Italia: Sergi,​​ ​​ Montessori).

2. La p. però ha goduto di particolare attenzione in Urss fino al 1936, quando fu ufficialmente proscritta. A parte gli orientamenti tolstojani, nei primi anni dopo la rivoluzione, quando la psicologia si sviluppò intensamente e quando si cercava una linea educativa che potesse entrare in sintonia con il marxismo, la p., inserendosi su movimenti preesistenti in cerca di armonizzazione tra «scienze» in senso stretto ed esigenze educative del bambino, fu vista come la teoria portante, grazie, in particolare, a​​ ​​ Blonskij e alla​​ ​​ Krupskaja, che se ne fecero paladini. Proprio per questo in Urss poté sopravvivere al disfacimento che colpì la p. negli altri Paesi, nel corso e dopo la prima guerra mondiale, per crollare in seguito al rigetto dei suddetti, suoi principali sostenitori.

Bibliografia

Chrisman O.,​​ Paidologie - Entwurf zur einer Wissenschaft des Kindes,​​ Jena, Vopelius, 1896;​​ Blum E.,​​ La pédologie: l’idée,​​ le mot,​​ la chose,​​ in «Année Psychologique»​​ 5 (1899) 229-231; Becchi E.,​​ Problemi di sperimentalismo educativo,​​ Roma, Armando, 1969; Laeng M.,​​ La pedagogia sperimentale,​​ Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1992.

B. A. Bellerate




PENSIERO

 

PENSIERO

In psicologia il termine p. viene utilizzato per designare tanto l’insieme dei fatti psichici quanto l’attività intellettuale-razionale dell’​​ ​​ uomo. Esso abbraccia cioè tutta una serie di processi cognitivi e attività psichiche superiori, spesso non facilmente descrivibili in modo sufficientemente preciso.

1. Con p. dunque si indica un’attività, o una serie di attività mentali, volte a stabilire la comunicazione con il mondo esterno, con se stessi e con gli altri e a costruire ipotesi sul mondo e sul nostro modo di pensare. Le diverse concettualizzazioni, definizioni e interpretazioni proposte per la natura e l’attività del p., strettamente dipendenti dagli orientamenti teorici e dalle metodiche di ricerca adottate dalle diverse scuole psicologiche, sono riassumibili nella contrapposizione tra​​ p.​​ razionale,​​ caratterizzato dall’impiego di procedimenti di tipo deduttivo-induttivo, e​​ p. intuitivo,​​ che procederebbe attraverso la riorganizzazione, vissuta come non mediata, del campo problematico; tra​​ p. creativo​​ e​​ p.​​ tradizionalmente ancorato o​​ rigido o stereotipato;​​ tra​​ p.​​ «produttivo»​​ e​​ p. cieco,​​ che procede cioè secondo il classico schema per «tentativi ed errori»; tra​​ p.​​ autistico,​​ dominato dai bisogni e dalle aspirazioni del soggetto e​​ p.​​ realistico,​​ teso a soddisfare le domande di realtà.

2. L’interpretazione proposta dagli associazionisti, che prendendo in considerazione i processi elementari di p. avevano sottolineato i legami tra le impressioni sensoriali e la componente immaginativa, viene pienamente adottata dalla psicologia scientifica di fine Ottocento. La psicologia wundtiana, nella sua definizione di scienza della coscienza o della esperienza interna immediata, utilizzando «l’introspezione sperimentale», aveva programmaticamente limitato la propria indagine alla «percezione interna» degli eventi esterni, e si era concentrata sulle sensazioni e rappresentazioni immediatamente presenti alla coscienza, riducendo inoltre il p. ad una combinazione di elementi psichici. Per B. E. Titchener, ad es., che nega decisamente l’esistenza di un «p. senza immagini», i processi di p. vengono immediatamente ricondotti a sensazioni, immagini e affetti. L’applicazione dell’indagine scientifica alle attività intellettuali superiori riceverà un impulso fondamentale dalle investigazioni sui processi di apprendimento e di memorizzazione portate avanti da Ebbinghaus e dai ricercatori della scuola di Würzburg, che porranno il problema della natura e delle caratteristiche del p. – considerato un processo dinamico dotato di proprietà specifiche – in termini completamente differenti da quelli prospettati in chiave elementista e associazionista dalla scuola di Lipsia. Secondo O. Külpe (che dopo essere stato assistente di​​ ​​ Wundt fonda a Würzburg nel 1896 un laboratorio di psicologia),​​ ​​ Bühler (che affronta il problema della formazione dei concetti nel bambino e quello dei rapporti tra p. e linguaggio), N. Ach (che concettualizza la formazione dei concetti come un processo dinamico, non riducibile ad una semplice catena associativa tra sensazioni, idee e immagini), O. Seltz (che propone una concezione del p. come processualità e produttività) e A. Messer (che svolge una serie di ricerche di psicologia sperimentale sul p.), le leggi delle operazioni del p., implicando un determinismo particolare, sono totalmente differenti da quelle che regolano i processi sensoriali e immaginativi. È dunque pienamente plausibile fondare le attività volte alla soluzione di compiti mentali su un p. privo di immagini. Il funzionalismo studia il p., concettualizzato come un flusso continuo non scomponibile in immagini mentali, essenzialmente nella sua funzione adattativa, mettendone in luce le relazioni con la percezione, la motivazione e l’apprendimento. Per Carr, ad es., che considera le idee come sostituti di stimoli percettivi, il p. è determinante nel permettere all’organismo di adattarsi all’ambiente circostante. Nella sua formulazione watsoniana, il​​ ​​ comportamentismo, che rinuncia ad avvalersi dei dati di coscienza in quanto non indagabili sperimentalmente, riduce il p. – considerato da​​ ​​ Watson come «linguaggio rimasto allo stato subvocale a causa dell’insufficienza degli organi fonatori», come «null’altro che un parlare a noi stessi» – ad un fenomeno muscolare localizzato nell’area laringea, ad un «abito laringeo». Per il comportamentismo dunque lo studio del p. coincide con quello del linguaggio e viene quindi inteso come una risposta alla stimolazione ambientale. La scuola della​​ ​​ Gestalt, al contrario, considera il p. soprattutto dal punto di vista di un’attività volta alla soluzione dei problemi; ne mette in risalto gli aspetti creativi e le implicazioni percettive, rifiutando decisamente la prospettiva associazionistica ed empiristica, in favore di una concezione «globalistica» dei processi in gioco (M. Wertheimer, K. Duncker). Nella soluzione dei problemi – fortemente influenzata dai fattori motivazionali e da elementi derivanti dalle esperienze passate del soggetto – è cioè possibile schematizzare alcune fasi principali, che consistono innanzitutto nella riorganizzazione percettiva, gerarchicamente ordinata, del campo in esame, in processi di centramento e di ricerca di rappresentazioni migliori, e nella trasformazione del campo percettivo stesso che consente «una nuova visione della situazione più profonda che comporta cambiamenti nel significato funzionale degli elementi» (Wertheimer, 1960). I processi cognitivi implicati nell’attività di soluzione dei problemi sono stati oggetto di indagine da parte di J. S. Bruner, J. L. Goodnow e G. A. Austin (A study of thinking,​​ 1956), e​​ ​​ Piaget, J. Baldwin,​​ ​​ Lewin e​​ ​​ Vygotskij, seppure in prospettive teoriche differenti, riproponendo il problema della genesi della conoscenza, del rapporto tra la mente e il mondo esterno, nonché di quello tra p. e linguaggio. È comunque il​​ ​​ cognitivismo la corrente psicologica che in modo più significativo ha rivisitato le teorie tradizionali, nate in ambito filosofico, circa le procedure di astrazione, la verifica delle ipotesi, i processi deduttivi e induttivi attraverso cui il p. trova la sua articolazione. Partendo dal presupposto che la mente non si limita a registrare informazioni, ma le filtra e le elabora intervenendo in modo attivo, il cognitivismo ritiene: a) che i concetti non sono il prodotto dell’astrazione ma l’espressione del modo in cui l’esperienza è stata organizzata: essi sono dunque predittivi, nel senso che consentono di trattare gli eventi futuri se il soggetto li organizza con lo stesso stile di esperienza; b) che l’esperienza prende le mosse da un costrutto personale il quale funziona o da sistema chiuso che impedisce l’arricchirsi dell’esperienza stessa o da schema aperto che riduce la sua componente schematica man mano che accoglie i contenuti empirici bisognosi di una continua ristrutturazione della esperienza stessa; c) che i fattori emotivi influenzano le procedure logiche e d) che nella comunicazione il messaggio può essere alterato dal contesto comunicativo con conseguenti fraintendimenti e misconoscimenti che la logica utilizzata per la programmazione dei computer rende evidenti (H. Lindsay - D. A. Norman,​​ Human information processing,​​ 1972).

3. Una nuova impostazione negli studi sul p. è stata proposta da quegli indirizzi di ricerca che fanno riferimento alla​​ teoria dell’informazione.​​ Utilizzando la simulazione su calcolatore e l’elaborazione di appositi modelli, questa prospettiva di ricerca sostiene l’analogia tra il funzionamento mentale e il funzionamento dei calcolatori elettronici e vede nel p. uno «strumento per l’elaborazione dell’informazione». Il comportamento quindi dipende da un programma che si organizza a partire da un insieme di processi di informazione elementare e che è sotteso da una serie di piani specifici, intendendo per piano «qualunque tipo di processo gerarchico nell’ambito dell’organismo in grado di controllare l’ordine in cui va eseguita una sequenza di operazioni» (G. A. Miller, K. H. Pribram, E. Galanter). In tal senso A. Newell e H. Simon (A human problem solving,​​ 1972) portano avanti lo studio delle strategie utilizzate nella soluzione di problemi ricorrendo ai resoconti verbali forniti dai soggetti relativamente ai loro processi mentali, aprendo così la via ad un nuovo filone di ricerche intorno ai processi metacognitivi, e cioè al complesso di idee e credenze che ogni individuo sviluppa nel corso della propria vita intorno ai propri processi cognitivi. Lo studio dei processi di p., condotto secondo «categorie naturali», impiegate dai soggetti in situazioni concrete, mette in luce l’organizzazione gerarchica dei concetti all’interno di una rete semantica, composta da reti e nodi concettuali studiabili sperimentalmente (J. Anderson,​​ Language,​​ memory and thought,​​ 1976). Particolare sviluppo ha avuto negli ultimi anni lo studio delle strategie di​​ ​​ problem solving​​ e di ragionamento (D. Kahneman e D. Tversky,​​ Judgment under uncertainty,​​ 1974), non senza ricadute nella didattica e nella messa in opera di strategie dell’apprendimento.

Bibliografia

Geymonat L.,​​ Storia del p. filosofico e scientifico,​​ Milano, Garzanti, 1976; Neisser U.,​​ Psicologia cognitivista,​​ Firenze, Martello-Giunti, 1976; Johnson-Laird P. N.,​​ La mente e il computer,​​ Bologna, Il Mulino, 1990; Kanizsa G.,​​ Vedere e pensare,​​ Ibid., 1991; Danzinger K.,​​ La costruzione del soggetto,​​ Roma / Bari, Laterza, 1995; Sternberg R. J. - E. E. Smith,​​ La psicologia del p. umano, Roma, Armando, 2000; Casadio C.,​​ Logica e psicologia del p., Roma, Carocci, 2006; Sacchi S.,​​ Psicologia del p., Ibid., 2007.

F. Ortu - N. Dazzi