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PAIDEIA

 

PAIDEIA

Caratteristica della cultura greca (​​ Grecia: educazione) è stata la scoperta e la celebrazione del valore dell’uomo nella sua individualità e nell’insieme delle sue capacità. La sua​​ formazione​​ è designata con il termine p. Esso, pur derivando dalla radice​​ pais​​ (ragazzo), più che il processo e gli interventi educativi attraverso cui il giovane giunge alla maturità e alla perfezione dell’uomo, indica l’ideale stesso della formazione dell’uomo greco, cioè la realizzazione di quel valore umano che, con altro termine, i greci chiamavano​​ areté.

1. Il termine p., per indicare la ricchezza del suo contenuto e le caratteristiche particolari in determinate fasi dello sviluppo della cultura greca, è associato ad altri termini, indicativi di aspetti integranti dell’idealità che esprime. Così i due concetti di​​ kalòs​​ (bello) e​​ agathòs​​ (buono) sono usati per qualificare chi ha raggiunto la formazione ideale dell’uomo. Fin dall’antichità colui che ha realizzato il​​ valore umano​​ è designato con il termine​​ anèr agathòs​​ (letteralmente: uomo buono);​​ agathòi​​ sono chiamati gli aristocratici, in tempi in cui l’areté​​ è ritenuta retaggio dell’aristocrazia. Ma anche il termine​​ kalòs,​​ pur indicando direttamente la bellezza fisica, cui il greco è molto sensibile, è assunto a connotare più integralmente l’ideale della formazione dell’uomo anche nella sua interiorità. I due termini vengono, perciò, fusi insieme, per esprimere più compiutamente nella sua globalità l’ideale di​​ areté,​​ comprensivo della formazione fisica e della formazione civica / etica / culturale. Si parla così, in particolare per l’educazione ateniese, di una​​ p. della kalokagathìa​​ (sintesi di​​ kalòs kai agathòs).

2. Il termine p. è più usato nell’epoca ellenistica (dalla fine del sec. IV a.C.) e risente delle caratteristiche proprie della formazione greca in tale periodo. In esso si ha una rapida e universale diffusione della scuola. Si afferma maggiormente, sulla scia di​​ ​​ Isocrate, il tipo di formazione ispirato all’ideale retorico, in cui predomina l’indirizzo letterario, che, con lo studio degli Autori, congloba i vari elementi di quel​​ sapere generale​​ che è chiamato​​ enkyklios p.​​ Le discipline che compongono il quadro di questa​​ p.​​ sono chiamate​​ enkyklioi.​​ Quando​​ ​​ Roma accoglierà l’influsso determinante della​​ p. greca,​​ gli stessi termini hanno una versione latina: la p. è chiamata​​ humanitas​​ e gli​​ enkyklioi bonae artes​​ o​​ liberales artes.​​ I tipi più rappresentativi di questo ideale, nella sua forma più elevata, sono nel mondo ellenistico il​​ grammatico​​ e il​​ retore;​​ a Roma l’orator.​​ Nella nuova impostazione data dal​​ ​​ Cristianesimo, Clemente Romano parlerà della​​ en Christò p.​​ e della​​ p. tou fobou tou Theoù​​ (la p. del timor di Dio).

Bibliografia

Jaeger W.,​​ P. La formazione dell’uomo greco,​​ Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1991; Marrou H. I.,​​ Storia dell’educazione nell’antichità,​​ Roma, Studium, 1994.

M. Simoncelli




PARSONS Talcott

 

PARSONS Talcott

n. a Colorado Springs nel 1902 - m. a München nel 1979, sociologo statunitense funzionalista.

1.​​ La formazione iniziale.​​ È il principale esponente del​​ ​​ funzionalismo e l’erede intellettuale di​​ ​​ Weber. Nella sua formazione scientifica egli è debitore a Cooley,​​ ​​ Durkheim, ma soprattutto a Veblen, a Malinowski e a Weber. Nel 1927 entrò come docente alla Harvard University.​​ La struttura dell’azione sociale​​ (1937) è stata la sua prima opera sociologica importante, cui seguì tra le altre nel 1951​​ Il​​ sistema sociale,​​ e nel 1955​​ Famiglia e socializzazione,​​ in cui fa convergere elementi della teoria psicanalitica.

2.​​ Lo sviluppo del pensiero.​​ Riflettendo sull’educazione in prospettiva funzionalista,​​ P. assume come punto di partenza: il rifiuto del determinismo organicista di Durkheim (accettandone però il principio evoluzionista che considera la presente società come la migliore possibile) e il rifiuto del determinismo culturale che attribuisce alla cultura un peso assoluto nell’interazione sociale. P. ritiene che gli attori sociali agiscono teleologicamente in base alle richieste della società. Essa determina le singole azioni individuali e collettive, orientate verso l’integrazione sociale. Gli individui agirebbero in base ad una serie di regole apprese e interiorizzate tramite i processi di socializzazione primaria e secondaria. Nella misura in cui l’attore sociale viene ad integrarsi nel sistema, egli contribuisce al suo mantenimento e il suo agire risulta funzionalmente positivo («eufunzionale»); in caso contrario egli diventerà funzionalmente negativo («disfunzionale»). L’educazione​​ ha il compito di creare le condizioni essenziali perché il sistema possa funzionare bene favorendo la partecipazione (mediante la socializzazione specie quella familiare, il decondizionamento degli istinti, l’interiorizzazione dei modelli cooperativistici), orientando l’assunzione dei ruoli adatti (mediante lo sviluppo delle predisposizioni attraverso la scuola), rafforzando l’interiorizzazione delle motivazioni (mediante l’apprendimento di modelli che favoriscono l’uniformità delle condotte e gli «orientamenti di valore» conformi alla cultura vigente). Ne risulterà una personalità adattata al sistema, il quale da tutto ciò sarà garantito nel suo ordine e nel suo equilibrio.

3.​​ Valutazione.​​ La concezione della società superintegrata non trova facili riscontri nel contesto contemporaneo delle società complesse (​​ complessità sociale) attraversate dagli squilibri del pluralismo, e della conflittualità negli stessi processi di socializzazione. In definitiva il valore e il limite delle teorie di P., sta nel legittimare la socializzazione come tecnica di organizzazione del consenso generalizzato attorno alle norme e ai modelli già legittimati dalla società, senza porsi però interrogativi sulla società stessa in continua trasformazione.

Bibliografia

Hamilton P.,​​ T.P., Bologna, Il Mulino, 1989; Alexander J.,​​ Teoria sociologica e mutamento sociale,​​ Milano, Angeli, 1990; Holmwood J.,​​ La sociologia dopo l’epoca delle ideologie. T.P. e la sociologia come professione, in «Quaderni di Teoria Sociale», 2002, 2, 61-84; Sciortino G. et al.,​​ T.P., Milano, B. Mondadori, 2005; Bortolini M.,​​ L’immunità necessaria. T.P. e la sociologia della modernità, Roma, Meltemi, 2005.

R. Mion




PARTECIPAZIONE SCOLASTICA

 

PARTECIPAZIONE SCOLASTICA

Processo socioculturale per cui i soggetti che direttamente o indirettamente (e quindi con diversi titoli, motivazioni e capacità) danno vita all’istituzione scolastica, concorrono con ruoli diversi e con interazioni formali e informali a qualificarne le finalità e la natura e a determinare le modalità concrete di esercizio delle sue funzioni.

1. Il​​ concetto di p.​​ Partecipare è un verbo che qualifica i suoi significati in rapporto all’attività e alla funzione a cui si «prende parte». Il partecipare a certi tipi di attività è spesso condizione di felicità per i singoli ed è aumento delle probabilità di riuscita, come diceva eudemonisticamente il Rapporto Faure (Unesco, 1972); ma può anche essere un’occasione di ostacolo e di rallentamento dell’attività stessa; e può, per i singoli, aumentare la sofferenza e il senso dell’impotenza, anziché la soddisfazione. I processi di p. nascono spesso dalle rivendicazioni di chi considera il proprio stato di marginalità o di emarginazione come un’ingiustizia. Come dimostra un’esperienza anche non lontana, i movimenti partecipativi sono però esposti sia al ricatto colpevolizzante dei detentori del potere, sia al corto circuito ideologico di chi veda come unicamente valida e dotata di legittimità e di senso la propria azione volta a contestare e a rivendicare il potere. D’altra parte l’esperienza stessa della p.​​ politica​​ entro le strutture democratiche del paese e della p.​​ sociale,​​ entro le strutture previste dalle leggi degli anni ’70, dai quartieri alla scuola, alla sanità, alle aziende, ha profondamente deluso quelle consistenti masse di persone, che avevano creduto di poter fare esperienze esaltanti di dialogo e di cambiamento istituzionale, attraverso il contributo di tutti, dai professionisti agli utenti ai semplici cittadini. Le ricerche sociali degli ultimi anni hanno messo in luce il calo di atteggiamenti partecipativi e di disponibilità all’impegno sociale nelle istituzioni. Le responsabilità, come di solito succede di fronte a fenomeni vasti e complessi, sono di ordine economico-sociale, di ordine istituzionale e di ordine culturale, anche se diverse analisi attribuiscono maggior peso all’uno o all’altro fattore. C’è chi denuncia la scarsità degli spazi di decisionalità offerti alla p. sociale, chi denuncia la chiusura del personale tecnico e burocratico di fronte agli «esterni», chi lamenta l’impreparazione e l’invadenza o la latitanza dei soggetti chiamati a partecipare, c’è chi dichiara addirittura improponibile la p. per certi settori, come quello scolastico, che per la loro natura dovrebbero essere riservati solo agli «addetti ai lavori».

2.​​ Ripensare le ragioni,​​ gli ambiti e i metodi della p.s.​​ Il discorso vale in particolare per la scuola. Risulta indispensabile un chiarimento intorno al concetto di​​ p.s.,​​ che viene spesso frainteso o relegato ai margini della vita della scuola, contro la previsione costituzionale che fa della p. un fine di tutto l’ordinamento repubblicano (art. 3). Una concezione pedagogicamente corretta esige che la p. si caratterizzi in modo coerente ai diversi processi e momenti in cui si articola la scuola, in modo da valorizzarne e non da snaturarne le caratteristiche educative. E poiché la p. da un lato «produce», dall’altro «costa», e cioè ostacola il raggiungimento di altri fini concorrenti, si dovrà prendere in considerazione ogni momento del curricolo, per valutare, in rapporto alla diverse componenti, ai diversi organi e ai diversi soggetti,​​ chi è bene che partecipi,​​ a che cosa,​​ quando,​​ come e perché.​​ Inclusioni e preclusioni apodittiche mal si accordano con la natura della relazione educativa e con la natura dell’istituzione scolastica, che è un’organizzazione «sui generis» (​​ organi collegiali scolastici). Occorre perciò una chiara distinzione tra momento​​ espressivo-comunicativo,​​ che trova spazio soprattutto in assemblee adeguatamente preparate, di classe e di istituto, nonché nei comitati dei rappresentanti dei genitori e degli studenti, e momento​​ elaborativo-decisionale,​​ che trova spazio soprattutto nei collegi dei docenti, nei consigli di classe e d’interclasse, con particolare rilievo per gli insegnanti, e nei consigli d’istituto. Il problema, a questo proposito, è quello di verificare se la formula istituzionale uscita dai decreti delegati del 1974 preveda una equilibrata distinzione tra ambiti tecnici di tipo amministrativo e di tipo didattico e ambiti politici e pedagogici, aperti per natura loro all’apporto degli studenti, dei genitori e, per certi aspetti, anche delle forze sociali. Ciò è venuto chiarendosi a metà degli anni ’90, nel contesto del varo, da parte del Governo, delle «Carte dei servizi sociali», tra cui la «Carta del servizio scolastico», che andrebbe elaborata in termini di «contratto formativo» fra docenti, genitori e studenti e che si caratterizza essenzialmente per il PEI, il progetto educativo d’istituto, divenuto POF dopo il dpr 275 / 1999 sull’autonomia. Chi è portatore del bisogno, ha titolo a farlo presente, a chiarirlo a se stesso, a presentarlo in un contesto in cui la domanda di beni e servizi possa emergere con chiarezza, senza intimidazioni, confusioni e mistificazioni: in un contesto in cui la domanda possa anzi precisarsi in un dialogo con i responsabili tecnici del servizio, per arricchirsi di conoscenze e di possibilità d’influire sulla qualità del servizio stesso, in termini sempre più competenti, rispettosi ed efficaci. Chi è portatore della competenza è tenuto ad aiutare la domanda a precisarsi, a confrontarsi con le caratteristiche e con i limiti del servizio, a impegnarsi ad attuare, per la propria parte, il progetto educativo, nei suoi risvolti organizzativi e didattici. In sede di auspicabile modifica dei decreti delegati si dovrebbe precisare, lasciando spazio all’autonomia delle scuole, che l’organizzazione delle istituzioni scolastiche s’ispira ai principi costituzionali di p., di promozione del pieno sviluppo della persona umana, di autonomia, di sussidiarietà, dando alla scuola i caratteri di una comunità che interagisca con la più vasta comunità sociale e civica. In essa si distinguono le funzioni di​​ indirizzo​​ e di​​ programmazione, che spettano agli organi di governo, consiglio d’istituto e collegio dei docenti, le funzioni di​​ deliberazione pedagogico-didattica​​ e​​ disciplinare,​​ che spettano agli organi tecnico-didattici e disciplinari dei docenti, le funzioni di​​ gestione​​ e di​​ coordinamento, che spettano in particolare al dirigente scolastico, e le funzioni di​​ comunicazione,​​ consultazione e proposta​​ che spettano, oltre che alla componente professionale della scuola, anche agli organismi dei genitori e degli studenti. Una concezione aggiornata e non aziendalistica della scuola implica non solo le funzioni del​​ gestire, ma anche quelle dell’informare, del​​ comunicare, dell’educare all’esercizio di qualche forma di democrazia, per assicurare ai giovani anche​​ competenze di cittadinanza, a cui tra l’altro si riferisce l’educazione alla​​ convivenza civile, presente nella L. 53 / 2003 e nelle​​ Indicazioni nazionali.​​ Nei regolamenti delle singole scuole è corretto pensare alla definizione dei modi della p., che possono variare da scuola a scuola. Continuità, buona amministrazione e snellezza organizzativa, p., autonomia, efficacia ed efficienza dell’insegnamento e dell’apprendimento non sono valori alternativi, ma valori concorrenti, tra cui mediare con prudenza, in rapporto alle diverse condizioni storiche, psicologiche e sociali. Una scuola accogliente, dialogica, capace di decidere, assume la responsabilità di «governare» i processi d’insegnamento, di comunicazione, di decisione e cioè di motivare, di chiarire, sostenere e limitare i diversi ruoli, con modalità coerenti al raggiungimento delle finalità istituzionali. La p. chiama in causa la​​ comprensione​​ di complesse e ambivalenti dinamiche e la​​ fiducia​​ che uno ha nei propri mezzi e in quelli dei propri simili, in rapporto alla speranza e alla volontà di rendere più umano l’ordine sociale e più vicina la soluzione di uno o più problemi. In questo contesto si può notare che​​ educare alla p.​​ significa indurre i meno informati, motivati, provveduti e disponibili, non solo all’offerta, alla richiesta, alla protesta, ma anche alla corresponsabilità e insieme al distacco. Si tratta quindi di accettare la dinamica della rivendicazione, del conflitto, della colpa, di qualche vittoria e di qualche sconfitta inevitabile: la p. è cioè anche lotta, ma un tipo di lotta che aspira o dovrebbe aspirare non solo alla giustizia e all’efficacia / efficienza, ma anche alla riconciliazione e alla pace: una pace intesa come l’ordine che rende possibile l’eguale esercizio di tutti del diritto ad essere, a crescere, a produrre, a contare e ad avere di più, ma non tanto da compromettere o da distruggere quel bene di cui si vuole parte o essere parte, o che si vuol concorrere a produrre.

3.​​ Nuove prospettive,​​ nel contesto di una paideia ispirata alla Costituzione.​​ È questo il senso profondo dell’autonomia scolastica. Ma in questo contesto si vede anche il senso di metodologie e tecniche nuove che aiutino la p. Attraverso la stampa e Internet si comunica in rete e si pongono le premesse per una p. meno mitologica e rissosa, ma più attenta e produttiva di quella degli anni ’70, con cui è iniziata la fase della p. istituzionalizzata. L’informatica aiuta. Un documento-quadro entro cui sembra rimotivabile un nuovo processo partecipativo è quello allegato alla d.m. 8.2.1996 n. 58, dal titolo​​ Nuove dimensioni formative,​​ educazione civica e cultura costituzionale,​​ che conduce a sintesi le norme e le iniziative tese a fare della scuola un terreno accogliente per le diverse «educazioni» veicolate da altrettante emergenze negative e che, scavando nel codice genetico della scuola repubblicana, rintraccia un orizzonte di senso per l’esperienza scolastica, schiacciata fra degrado e cyberspazio, fra culturalismo e burocratismo, fra sogni e delusioni, fra volontariato e bullismo. A sua volta il dpr 567 / 1996 e successive modifiche offre opportunità di utilizzazione più ampia degli spazi e delle potenzialità formative della scuola, e quindi della p. dei soggetti, sia a livello di rappresentanti (i cosiddetti gruppi di p.) sia a livello di gruppi di riferimento. Fra questi si segnalano i tre​​ forum​​ rispettivamente​​ delle​​ associazioni​​ di studenti, di genitori e di insegnanti, riconosciuti dal MPI.

Bibliografia

Corradini L.,​​ La difficile convivenza. Dalla scuola di stato alla scuola della comunità,​​ Brescia, La Scuola,​​ 61975; Id.,​​ Democrazia scolastica,​​ Ibid., 1975; Censis,​​ Scuola e p. sociale. Il primo anno di applicazione dei decreti delegati,​​ Roma, 1976; Corradini L.,​​ La comunità incompiuta,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1979; Id.,​​ Essere scuola nel cantiere dell’educazione,​​ Roma, SEAM, 1995; Corradini L. - W. Fornasa - S. Poli (Edd.),​​ Educazione alla convivenza civile, Roma, Armando, 2003; Richiedei G.,​​ Genitori in associazione: una risorsa per il Paese, AGe Lombardia, Brescia, Tipolitografia Queriniana, 2006; Chistolini S. (Ed.),​​ Cittadinanza e convivenza civile nella scuola europea, Ibid., 2006; Corradini L.,​​ Educare nella scuola nella prospettiva dell’UCIIM.​​ Nuovi scenari nuove responsabilità, Ibid., 2006; Id.,​​ La fiducia,​​ radice della cittadinanza,​​ nel dialogo tra famiglia e scuola, in Id. (Ed.),​​ Pedagogia e cultura per educare,​​ Cosenza, Pellegrini, 2006; Id.,​​ Cittadinanza, in G. Cerini - M. Spinosi,​​ Voci della scuola, VI, Napoli, Tecnodid, 2007; Gruppo di​​ lavoro​​ ministeriale (coord. da L. Corradini), «Legalità e cittadinanza», in​​ Scuola e legalità.​​ Primo rapporto del Comitato Nazionale Scuola e Legalità, Roma, MPI, 2007.

L. Corradini




PASTORALE

 

PASTORALE

P. è l’insieme delle azioni che la comunità ecclesiale, animata dallo Spirito Santo, realizza per l’attuazione nel tempo del progetto di salvezza di Dio sull’uomo e sulla sua storia, con riferimento alle concrete situazioni di vita. La p. si interessa di problemi concreti. Essa è azione, prassi, organizzazione di risorse e progettazione d’interventi. Certamente però tutto questo è possibile solo all’interno di un’attenta e intensa riflessione, soprattutto teologica. La p. riflette sull’insieme delle azioni che la comunità ecclesiale pone per attuare la salvezza, per interpretarle, verificarle, riprogettarle. La dimensione pratica della p. la pone continuamente nella necessità di confrontarsi con tutte quelle discipline che, in qualche modo, si interessano degli stessi problemi e ne cercano soluzioni, eventualmente a​​ partire da preoccupazioni differenti. È tipico, a questo proposito, il confronto con 1’educazione sul piano pratico della comprensione e della soluzione dei problemi, a partire da una riflessione che li sappia comprendere ed interpretare. La definizione del tipo di rapporto da instaurare tra educazione e p. riguarda lo statuto delle due discipline. In questa voce, si propone un’ipotesi che assume come punto di riferimento il dato teologico relativo alla natura e ai compiti della p.

1.​​ Modelli diversi.​​ P. e educazione non sono la stessa realtà, dal punto di vista formale e sostanziale. Eppure sono molti e intensi i punti di contatto, come porta a supporre, almeno implicitamente, un certo modo di esprimersi comune tra gli addetti ai lavori. Per indicare i compiti e le responsabilità di coloro che sono impegnati nell’ambito della p. si utilizza spesso la formula: «educazione alla fede» (o «educazione della fede», come preferisce dire qualcuno). Il termine​​ ​​ educazione possiede una sua innegabile rilevanza tecnica, che le​​ ​​ scienze dell’educazione analizzano e precisano. È corretto attribuire questi riferimenti ai processi che riguardano la fede e il suo sviluppo? O, al contrario, si tratta di un modo di dire solo analogico? La tradizione p., vissuta e riflessa, offre differenti risposte a questi interrogativi.

1.1.​​ Primo modello: ricomprendere l’educativo a partire dal teologico.​​ Nel modello che per tanto tempo ha dominato il campo della p., si parla molto di educazione alla fede e s’insiste sugli interventi necessari per attuarla. In esso però la voce «educazione» è assunta solo in una visione analogica rispetto a quella caratteristica delle scienze dell’educazione. Il suo contenuto è derivato, quasi deduttivamente, dal dato teologico. Così, in ultima analisi, è svuotata ogni seria preoccupazione educativa nell’azione p. Questo modo di comprendere il rapporto tra teologia ed educazione è ormai in concreto superato nella riflessione e nella prassi p. Sono possibili però quelle sue rivisitazioni, accorte e intelligenti, che conservano l’abitudine di comprendere i problemi p. solo a partire dalle esigenze del dato teologico. Nella definizione delle procedure relative all’​​ ​​ evangelizzazione, per es., si insiste molto sulla dimensione oggettiva e veritativa dell’esperienza cristiana. È attivato un continuo confronto critico tra la sapienza dell’uomo e il dato della fede, quasi per restaurare quelle esigenze a carattere «apologetico», troppo frettolosamente accantonate nel recente passato. I giovani sono sollecitati ad apprendere, con pazienza e fermezza, i contenuti oggettivi della fede nella loro precisa codificazione linguistica. Si parte dall’ipotesi che l’educazione ad accogliere e a comprendere il linguaggio oggettivo della fede aiuti e sostenga la vita di fede, sotto il profilo della consapevolezza riflessa e del confronto con le varie istanze del sapere umano.

1.2.​​ Secondo modello: l’autonomia dell’educativo.​​ Il modello precedente ha una specie di rovescio della medaglia in quelle prassi che tendono a far prevalere l’educativo sopra ogni impegno p. La logica è semplice: la coscienza di quanto sia stretto il rapporto tra dimensioni antropologiche e teologiche porta a concludere che i compiti della p. sono già egregiamente assolti quando si realizza una corretta azione educativa. Prevale l’abitudine di chiamare le cose con i loro nomi concreti, evitando l’astrattismo del linguaggio religioso. Sono accolti i ritmi e i tempi dei normali processi evolutivi. La fiducia verso le scienze dell’educazione sollecita a programmare con serietà e competenza gli interventi adeguati. L’azione p. parte di conseguenza da una gerarchia di preoccupazioni e di esigenze, diversa da quella tradizionale. Molti problemi religiosi passano in secondo piano, per fare spazio ad altri, vissuti come più urgenti.

1.3.​​ Terzo modello: la separazione netta degli ambiti.​​ Lo stimolo della «teologia dialettica» si è fatto sentire presto anche nell’ambito della p. Alcune sue indicazioni, particolarmente incisive, hanno trovato facile risonanza in operatori di p., reattivi rispetto all’eccessiva pedagogizzazione della fede e della vita cristiana. Alla base sta l’affermata irriducibilità del mondo della fede al mondo profano e la constatazione teologica che nella Rivelazione c’è solo un discorso soteriologico, estraneo ad ogni interesse educativo. Dio è Dio; egli è il totalmente altro, colui che è nascosto e avvolto nel mistero. All’assoluta e somma superiorità di Dio va contrapposta l’estrema e infinita inferiorità dell’uomo. Cito alcune indicazioni pratiche che, in qualche modo, si ispirano a questa prospettiva teologica: il rifiuto di ogni mescolamento dell’educativo nell’ambito della p.; l’affermazione che l’unica preoccupazione veramente urgente è quella in fondo più semplice: moltiplicare le occasioni di contatto tra Dio e l’uomo. Di qui l’insistenza sui momenti di preghiera, sulle celebrazioni liturgiche e sacramentali, sull’ascolto della Parola di Dio; la contestazione, almeno pratica, dell’esistenza di un problema originale di «p. giovanile», come se i giovani avessero titoli e difficoltà particolari rispetto alla salvezza di Dio; l’enfasi sulla comunità di fede e di vita ecclesiale come luogo, accogliente e pervasivo, dove tutti i problemi possono essere risolti.

1.4.​​ Quarto modello: la scelta educativa in​​ uno «sguardo di fede».​​ Esistono modelli p. in cui è facile riconoscere una fiducia nell’educazione, costruita a partire da una teologia della Rivelazione. La Parola di Dio, offerta della Rivelazione, assume una sua speciale visibilità umana per farsi conoscere, per rendersi vicina e accessibile all’uomo in vista della fede. C’è quindi un aspetto della Rivelazione, inseparabile da quello trascendente, che è alla portata delle capacità di apprendimento dell’uomo. Esiste, in altre parole, un visibile, rivelatore dell’invisibile, un contenente veicolo al contenuto, un significante che conduce al significato. Per questo è affidato all’educazione un contributo irrinunciabile anche per la p.: il visibile è il luogo di presenza del mistero e via privilegiata per entrarvi.

2.​​ Una prospettiva.​​ Chiariti i termini, si può entrare nel merito, alla ricerca di soluzioni. È certo che la risposta deve nascere da una chiara meditazione sulla fede perché la questione riguarda la natura dell’esperienza di fede e non solo le modalità pratiche della sua trasmissione.

2.1.​​ Leggere il processo nella logica dell’Incarnazione.​​ Consideriamo l’evento che dà origine alla decisione di fede: la Rivelazione. Essa rappresenta il punto centrale per sapere se si può parlare di educabilità della fede ed eventualmente in che senso. Il contenuto della Rivelazione è Gesù Cristo: il mistero di Dio in Gesù Cristo. E cioè l’alleanza: un’alleanza d’amore fra tre Persone nell’unità di una stessa vita (ciò che Dio è); un’alleanza d’amore tra Dio e l’uomo per la realizzazione della salvezza (ciò che Dio fa); un’alleanza d’amore tra gli uomini e Dio nella e per la fede (ciò che Dio attende). Quest’annuncio presenta un carattere trascendente. Si possono prendere seriamente le esigenze dell’educazione, quando ci poniamo al servizio di un evento di questa natura? Non è possibile rispondere in astratto, dimenticando il modo con cui di fatto Dio ha voluto realizzare la Rivelazione. La Tradizione ci sollecita a pensare alla Rivelazione alla luce e nel mistero dell’Incarnazione, perché l’evento di Gesù il Cristo ne rappresenta il contenuto e il modello più radicale. Il riferimento all’Incarnazione ci ricorda che la Parola di Dio è «incarnata»; assume, in altre parole, una sua visibilità. Questo visibile è la vita umana, quell’esistenza concreta e quotidiana che forma l’oggetto delle cure educative. Nella Rivelazione è importante distinguere tra il dono di Dio e il modo con cui questo dono si rende presente, vicino, provocante. La presenza di Dio è sempre «mistero» santo, sottratto ad ogni possibilità di manipolazione e di comprensione esaustiva. Dal dono di Dio scaturisce l’appello alla libertà e responsabilità d’ogni uomo. Tutto questo investe innegabilmente il dialogo diretto e immediato tra Dio e ogni uomo e tocca quelle profondità dell’esistenza umana che sfuggono ad ogni processo educativo. Dono e chiamata si realizzano però «in parole umane»: assumono una dimensione di visibilità storica e quotidiana, legata a quelle regole educativo-comunicative, che sono oggetto anche delle scienze dell’educazione e, in generale, dell’approccio antropologico. La conclusione è immediata: se la Rivelazione assume la vita quotidiana e i suoi dinamismi come suo strumento espressivo, il rapporto tra educazione e p. è molto stretto (proprio dal punto di vista dei compiti della p. stessa).

2.2.​​ Il​​ concreto.​​ Queste distinzioni orientano verso un modello di p. che fa spazio ai contributi, teorici e pratici, delle scienze dell’educazione, fino a riconoscere la loro funzionalità indiretta nella maturazione della fede. a)​​ La priorità del dono di Dio per la fede.​​ Prima di tutto è indispensabile riconoscere che la fede si sviluppa sul piano misterioso del dialogo tra Dio e ogni uomo. Questo spazio di vita sfugge ad ogni tentativo di intervento dell’uomo. In esso va riconosciuta la priorità dell’iniziativa di Dio. La risposta dell’uomo consiste nell’obbedienza accogliente: la fede è un dono, in senso totale; proviene quindi dall’udire e non dal riflettere, è accoglienza e non elaborazione. b)​​ L’educazione alla fede sul piano delle mediazioni educative.​​ L’appello di Dio che costituisce il fondamento del processo di salvezza, si fa sempre parola d’uomo, per risuonare come parola comprensibile dall’uomo, e cerca una risposta personale, espressa in gesti e parole dell’esistenza quotidiana. C’è quindi una dimensione del processo di salvezza che si svolge secondo modi comuni ad ogni processo educativo e comunicativo. Non rappresenta un aspetto che s’aggiunge a quello dell’immediatezza dell’azione di Dio, ma un’esigenza che la pervade tutta. L’azione p. è, nello stesso tempo e con la stessa intensità, un atto sottratto alla qualità della relazione interpersonale, perché attinge direttamente nel mistero di Dio potenza ed efficacia, ed è intensamente condizionato dalla qualità umana dei gesti e delle parole poste e dalla disponibilità «educabile» del soggetto. Il condizionamento (positivo o negativo) è collocato nel rapporto del «segno» rispetto all’evento. Attraverso le modalità antropologiche in cui si svolge, il segno diventa sempre più espressivo rispetto alle attese del soggetto e sono ricostruite queste attese per sintonizzarle con l’offerta della fede e della salvezza. Questo è l’ambito tipico dell’azione p. Riconosce la funzione insostituibile di tutti gli interventi educativi rispetto all’educazione della fede: essi hanno il compito di attivare, sostenere, mediare il processo di salvezza, nel doppio movimento di proposta e di risposta. c)​​ La potenza di Dio investe anche gli interventi educativi.​​ Le due modalità (quella misteriosa in cui si esprime l’appello di Dio alla libertà dell’uomo e quella delle mediazioni educative) non sono sullo stesso piano. Bisogna riconoscere, in una fede confessante, la priorità dell’intervento divino anche nell’ambito educativo, più direttamente manipolabile dall’uomo e dalla sua cultura. La fede dunque riconosce la grandezza dell’educazione: liberando la capacità dell’uomo e rendendo trasparenti i segni della salvezza, essa libera e sostiene la sua capacità di risposta responsabile e matura a Dio. Ma la fede riconosce che anche l’educazione rimane, come tutti i fatti umani, sotto il segno del peccato. La fede dunque deve esprimere un giudizio sull’educazione dell’uomo in genere e, in particolare, sul modello educativo umano che può essere utilizzato nel proporre la fede alle nuove generazioni. Questo, in fondo, non è attentato al dovere di rispettare l’autonomia dei fatti umani. Significa invece che l’approccio educativo e comunicativo è giudicato dall’evento al cui servizio si pone. Nel nostro caso comporta la constatazione che questo approccio, anche se è legato ad esigenze tecniche, avviene sempre nel mistero di una potenza di salvezza che tutto avvolge: la grazia salvifica possiede una sua rilevanza educativa, certa e intensa anche se non è misurabile attraverso gli approcci delle scienze dell’educazione.

3.​​ Una p. attenta all’educazione.​​ Le riflessioni appena suggerite portano a concludere sulla necessità di assumere gli atti educativi anche nei processi di educazione alla fede, almeno fino ad un certo punto. Il confine non è di quantità ma di qualità. Infatti non c’è un primo tratto di strada percorribile in compagnia con i dinamismi antropologici, e un secondo tratto dove tutto resta affidato all’imponderabile presenza dello Spirito. Potenza di Dio e competenza umana sono invece compagni di viaggio dalla partenza all’arrivo, anche se sono interlocutori diversi, cui va riconosciuto uno spazio pratico molto differente.

3.1.​​ A confronto.​​ Il confronto tra educazione e p. sollecita a realizzare i due processi in modo da assicurare a ciascuno il guadagno che il contributo dell’altro è in grado di offrire. La p. assume le esigenze dell’educativo, con disponibilità e attenzione, superando ogni tentazione di strumentalizzazione. Il pluralismo, però, investe e attraversa anche l’educazione e la frammenta in diverse figure. Il riferimento antropologico sotteso non è indifferente per la qualità del servizio di promozione della vita e della speranza, cui l’educazione tende. Essa cerca quindi un’ispirazione che la collochi pienamente dalla parte della vita e della sua qualità. Un dialogo e un confronto possono introdurre nei due processi un principio interessante di verifica e di rinnovamento. Tra i tanti modi attraverso cui si può realizzare la p., chi crede all’educazione preferisce quelli in cui è rispettata meglio la preoccupazione della gradualità, della chiamata alla responsabilità. Essa si realizza sempre in una presenza accogliente, che fa dei gesti di vicinanza, di servizio, di promozione e di amore la sua parola più convincente. In un tempo in cui lo scontro tra le culture avviene sempre di più attorno alla qualità della vita, alla ricerca di senso e ai fondamenti della speranza, chi è impegnato sulla frontiera dell’educazione riconosce di avere un compito che riempie di gioia e di responsabilità, riguardo alla vita e alla sua promozione. La collaborazione, teorica e pratica, con chi opera nell’ambito della p. aiuta ad inventare e sperimentare modelli di esistenza, capaci di dire oggi chi è l’uomo e la donna al cui servizio tutti sono sollecitati a piegarsi.

3.2.​​ L’educazione è il nome concreto per dire oggi «promozione umana».​​ L’educazione è la grande sfida che la cultura attuale lancia a coloro che credono all’uomo e alla sua dignità. Per questo, anche chi è impegnato esplicitamente nell’ambito della p., riconosce di assolvere intensamente il suo compito, impegnando tutte le risorse nell’ambito dell’educazione. Nel nome dell’educazione gioca la sua fede e la sua speranza. Attorno alle esigenze dell’educazione chiede la collaborazione di tutte le persone che amano l’uomo e ne cercano una promozione, oltre le differenze culturali e religiose. La comunità ecclesiale riconosce la «portata salvifica dell’educazione» anche come evento già compiuto e preciso (anche se parziale), nell’ordine della salvezza di cui è sacramento. La comunità ecclesiale riconosce così nell’educazione il modo privilegiato per realizzare oggi i necessari impegni di «promozione umana» nell’ambito dell’evangelizzazione. Affermando la sua fiducia nell’educazione, sente di essere fedele al suo Signore. Con lui crede all’efficacia dei mezzi poveri per la rigenerazione personale e collettiva e crede all’uomo come principio di rigenerazione: restituito alla gioia di vivere e al coraggio di sperare, riconciliato con se stesso, con gli altri e con Dio, può costruire nel tempo il Regno della definitività.

Bibliografia

Schillebeeckx E.,​​ Intelligenza della fede. Interpretazione e critica,​​ Roma, Paoline, 1975; Coudreau F.,​​ Si può insegnare la fede? Riflessioni e orientamenti per una pedagogia della fede,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1978; Latourelle R. - G. O’Collins (Edd.),​​ Problemi e prospettive di teologia fondamentale,​​ Brescia, Queriniana, 1980; Vecchi J. E. - J. M. Prellezo (Edd.),​​ Prassi educativa p. e scienze dell’educazione,​​ Roma, Editrice SDB, 1988; Tonelli R.,​​ Per la vita e la speranza. Un progetto di p. giovanile,​​ Roma, LAS, 1996; Istituto di Teologia​​ p. - Università Pontificia Salesiana,​​ P. giovanile. Sfide,​​ prospettive ed esperienze,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 2003.

R. Tonelli




PAULSEN Friedrich

 

PAULSEN Friedrich

n. a Langenhorn nello Schleswig nel 1846 - m. a Berlino nel 1908, filosofo neokantiano tedesco.

1. Tra i neokantiani, P. occupa un posto di rilievo per la sua monografia su​​ ​​ Kant (1898); essa presenta una interpretazione blandamente «metafisica» delle forme a priori che s’accosta a quella platonizzante di P.​​ ​​ Natorp e che ha influenzato anche il nostro P. Martinetti. P. fu tra gli autori più letti in patria e più tradotti all’estero (in ingl., fr., it., russo, cinese, giapponese). La sua​​ Introduzione alla filosofia​​ (1892) ebbe più di 40 ediz. in ted. La sua opera più vasta fu il​​ Sistema dell’etica e dottrina dello Stato e della società​​ (2 voll., 1889) che sosteneva la teoria di un socialismo «etico» platonico-kantiano e non marxista, che ebbe risonanza, incontrandosi per certi aspetti col «socialismo della cattedra» proposto su altre basi da vari autori.

2. In pedagogia ebbe fortuna una sua​​ Storia dell’istruzione superiore​​ (1885), e una​​ Pedagogia​​ (1911) più numerosi saggi. Egli nega il contrasto tra religione e scienza proclamato aggressivamente dal monismo materialistico dello Haeckel e del Büchner; nega pure il contrasto tra educazione individuale e sociale; ma soprattutto nega con forza quello tra educazione umanistica e educazione scientifica, rivendicando a quest’ultima pieno diritto contro le nostalgie di tipo esclusivamente letterario prevalenti nei ginnasi-licei tedeschi. I tempi esigono altre scelte, tra le quali rientrano anche la formazione tecnico-professionale, l’educazione degli adulti, la creazione di opportunità di formazione ulteriore (università popolari, biblioteche popolari). P. fu onorato come maestro fra gli altri da​​ ​​ Otto e Spranger.

Bibliografia

De Sarlo F., «Il volontarismo di F.P.», in​​ Filosofi del tempo nostro,​​ Firenze, 1916;​​ Klose O. et al. (Edd.),​​ Briefwechsel,​​ 1876-1908.​​ Ferdinand Tönnies,​​ F.P., Kiel, Hirt, 1961; Hume D.,​​ Dialoge über natürliche Religion: über Selbstmord und Unsterblichkeit der Seele, Berlin, Kirchmann’s Philos. Bibliothek, 1977.

M. Laeng




PAURA

 

PAURA

Risposta razionale e motivata tesa ad evitare oggetti (persone, animali, cose), situazioni o avvenimenti realmente pericolosi.

1. Secondo J. Bowlby (1975) l’organismo umano ha una predisposizione filogeneticamente strutturata a reagire con la p. di fronte ad indizi naturali di pericolo. La funzione fondamentale della p. quindi è quella di segnalare la minaccia e di mobilitare l’individuo ad un’azione di difesa. L’esperienza della p. comporta un’emozione più o meno intensa con connesse modificazioni fisiche originate dall’eccitazione del sistema nervoso simpatico.

2. Piccole e transitorie p. sono facilmente riscontrabili nel periodo dell’età evolutiva intesa in senso stretto. Esse in via normale tendono a scomparire spontaneamente con il crescere dell’età. Inoltre quasi sempre sono connesse con una determinata fase dello sviluppo (es.: la p. del buio tra i tre e i cinque anni) o con il momento di passaggio da una fase all’altra (es.: la p. della solitudine nella prima​​ ​​ adolescenza). Va sottolineato che l’assenza totale di p. in certe fasi dello sviluppo è indice di patologia.

3. Oltre ad una p. normale, c’è una p. patologica, denominata più precisamente fobia (​​ nevrosi). Questa è riscontrabile allorché il soggetto di fronte ad un pericolo dà risposte inadeguate rispetto alla reale situazione, reagisce in modo sproporzionato rispetto all’età e denuncia un’ansia abnorme e persistente nel tempo.

Bibliografia

Bowlby J.,​​ La separazione dalla madre, Torino, Bollati Boringhieri, 1975; Zlotowicz M.,​​ Le p. infantili, Torino, SEI, 1978; Speltini G.,​​ Inquietudini e p. nell’adolescenza, Bologna, Cappelli, 1982; Falorni M. L. - A. Smorti,​​ La p. tra fantasie e realtà, Roma, Borla, 1984; Rogge J. U.,​​ Quando i bambini hanno p., Milano, Pratiche, 1998; Oliverio Ferraris A.,​​ Psicologia della p., Torino, Bollati Boringhieri, 2007; Kast V.,​​ Le fiabe di p. Il trauma della separazione e il rischio della simbiosi, Como, Red, 2007; Bourke J.,​​ P. Una storia culturale, Bari, Laterza, 2007.

V. L. Castellazzi