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PSICOLOGIA SOCIALE

 

PSICOLOGIA SOCIALE

G. W. Allport, nella terza ediz. (1985) dell’Handbook of social psychology,​​ definisce la p.s. come la scienza che è tesa a capire e spiegare come i pensieri, i sentimenti e il comportamento degli individui sono influenzati dalla presenza effettiva, immaginata o implicita degli altri.

1.​​ Storia.​​ La p.s. si presenta tipicamente con due anime: la p.s. sociologica e la p.s. psicologica. La p.s. sociologica privilegia spiegazioni che si rifanno prevalentemente alle strutture organizzative e ai sistemi sociali; gli studiosi più noti di questa linea di pensiero sono H. Mead, Goffman, French, Homans e Bales. La p.s. psicologica privilegia spiegazioni legate al vissuto personale e ai processi interpersonali; gli studiosi più noti di questa linea sono​​ ​​ Lewin, Festinger, Schachter, Asch, Campbell e​​ ​​ Allport (Wilson e Schafer, 1978). Storicamente i due approcci si possono far derivare da Platone, che era più orientato al sociologico e ad Aristotele, che era più orientato all’individuo. In ambito filosofico più recente il sociologico si rifà a G. W. Hegel (1770-1831) e alla sua​​ mente di gruppo,​​ mentre lo psicologico si rifà piuttosto all’individualismo nelle sue varianti dell’utilitarismo e dell’edonismo di B. Bentham (1748-1832). In tempi ancora più moderni hanno contribuito allo sviluppo della p.s. il pensiero sociologico di A. Comte (1798-1857) e il suo positivismo. Tuttavia lo sviluppo sistematico della linea sociologica è attribuito a​​ ​​ Durkheim (1858-1917) con la sua rappresentazione collettiva della società, pensiero ripreso in parte in Francia da S. Moscovici (1961). Un forte impatto, soprattutto verso la linea psicologica, hanno avuto le teorie darwiniste, soprattutto attraverso l’opera di Darwin sull’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali e che ha influenzato significativamente gli etologi (vedi Hinde, 1974) e i sociobiologi (Wilson, 1975).

2.​​ Evoluzione della p.s.​​ La p.s. moderna per molti ha inizio con la pubblicazione di due libri di testo americani: quello di E. Ross (1908), focalizzato sul ruolo del contesto strutturale sociale sui processi dell’individuo, e quello di W. McDougall (1908), con il suo approccio individuale alla p.s. fondata sulla teoria degli istinti. La tradizione di Ross venne assorbita prevalentemente dalla sociologia mentre la p.s. si sviluppò di più lungo la traiettoria delle realtà individuali. Soprattutto con F. H. Allport (1924) e i suoi esperimenti sugli effetti del lavoro alla presenza di altri individui, la p.s. divenne la scienza che studia il​​ ​​ comportamento dell’individuo in quanto questo serve da stimolo per altri individui o esso stesso è la reazione al medesimo comportamento. La focalizzazione sull’individuo, sul comportamento e sui procedimenti sperimentali trasformò la p.s. in una disciplina scientificamente fondata. Troviamo in questo le radici europee della tradizione di​​ ​​ Wundt. Negli anni ’30 e ’40 del sec. scorso dominò nella p.s. lo studio, la misurazione e il cambiamento degli atteggiamenti, senza grandi progressi e innovazioni, fino ad arrivare agli anni ’70 durante i quali la p. venne sottoposta a forte critica per essere una scienza di scarsa rilevanza sociale. Attraverso Lewin iniziò il ritorno forte al sociale attraverso la sua teoria del campo e il lavoro sperimentale con i gruppi per cambiare pregiudizi, atteggiamenti, condotte, stili di comando nella vita quotidiana: quella che venne in seguito chiamata ricerca-azione. Sotto l’influenza di Lewin ed altri scienziati europei emigrati negli USA la p.s. gradualmente passò da un orientamento comportamentale ad un orientamento cognitivo e dall’uso di mini teorie a teorie più ampie. In Europa la p.s. moderna ebbe come rappresentanti vivaci H. Tajfel (1984) che approfondì la dimensione sociale e S. Moscovici (1984) noto per i suoi studi sulle rappresentazioni sociali e sull’influenza delle minoranze nel cambiamento sociale. Questi studiosi non hanno ancora avuto un impatto forte sulla p.s. europea, che è ancora influenzata sistematicamente da quella nordamericana, trasformata dai cervelli fuggiti dall’Europa al tempo di Hitler.

3.​​ La p.s. oggi.​​ Oggi la p.s. studia in modo specifico la formazione del sé nel contesto sociale, i processi di attribuzione di significati intenzionali e causali all’agire delle persone, gli atteggiamenti e il loro cambiamento, la comunicazione interpersonale, le relazioni sociali, il comportamento prosociale e di responsabilità sociale, il comportamento aggressivo, il conflitto e la collaborazione, l’influsso sociale dei gruppi e le relazioni tra i gruppi ed è seriamente orientata verso tematiche importanti per la convivenza umana.

Bibliografia

McDougall W.,​​ Introduction to social psychology,​​ London, Methuen, 1908; Ross E.,​​ Social psychology,​​ New York, McMillan, 1908; Allport F. H.,​​ Social psychology,​​ Boston, Houghton Mifflin, 1924;​​ Moscovici S.,​​ La psychanalyse: son image et son public,​​ Paris,​​ PUF, 1961; Wilson D. W. - R. B. Schafer,​​ Is social psychology interdisciplinary?,​​ in «Personality and Social Psychology Bulletin» 4 (1978) 548-552; Moscovici S.,​​ Psychologie sociale,​​ Paris, PUF, 1984; Tajfel H. (Ed.),​​ The social dimension: European developments in social psychology,​​ vol. 2, London, Cambridge University Press, 1984; Allport G. W., «The historical background of modern social psychology», in G. Lindsey - E. Aronson (Edd.),​​ Handbook of social psychology,​​ New York, Random House, 1985; Molinari L.,​​ P. dello sviluppo sociale, Bologna, Il Mulino, 2002.

P. Scilligo




PSICOLOGO

 

PSICOLOGO

La L. italiana 56 / 1989 regola l’esercizio della professione dello p.: colui che è capace di utilizzare gli strumenti diagnostici, di intervenire in funzione della prevenzione, abilitazione-riabilitazione e sostegno in ambito psicologico in favore della persona, del gruppo, degli organismi sociali e delle comunità; è capace di realizzare attività di sperimentazione e di ricerca (art. 1). Lo p. sa descrivere il​​ ​​ comportamento umano con i relativi processi intrapersonali, interpersonali, sociali, interpretare quanto ha descritto e programmare interventi psicologici, in funzione dell’ottimizzazione delle risorse della persona situata nelle sue coordinate psico-socio-culturali.

1. Lo p. necessita di adeguata preparazione per svolgere autorevolmente il suo ruolo. La situazione italiana, a livello strutturale, offre un modello in due cicli, che tiene conto della problematica nazionale ma con uno sguardo al panorama internazionale, in particolare a quello europeo. Il primo ciclo (attualmente 3 anni) offre una preparazione nel campo delle «scienze e delle tecniche psicologiche»; cerca di garantire una formazione che consenta l’acquisizione di conoscenze teoriche ben fondate e di elementi operativi nei diversi campi della psicologia. Il secondo ciclo (2 anni), «laurea magistrale in psicologia», prevede l’acquisizione di conoscenze e competenze specialistiche nei vari campi psicologici. Gli obiettivi formativi possono riguardare uno o più ambiti di intervento (più di una quindicina). In entrambi i cicli, oltre alla presenza di laboratori e attività pratiche, che sono parte integrante dei rispettivi curricoli, sono richiesti tirocini da svolgere sul campo di lavoro come preparazione alla formazione pratico-lavorativa. Sono previsti, infine, due tipi di esame di Stato relativi ad ogni ciclo, consistenti in diverse prove teoriche e pratiche. L’iscrizione al rispettivo Albo, dopo il superamento dell’esame, garantisce «ufficialmente» l’idoneità all’esercizio della professione. Lo p. iscritto all’Albo A (primo ciclo) non ha una totale autonomia nell’espletamento della sua professione ma necessita della supervisone di uno p. iscritto all’Albo B (laurea magistrale).

2. L’azione dello p. si svolge in svariati campi, che vanno dalla normalità alla anormalità, dal campo scolastico a quello del lavoro, dalla riabilitazione alla promozione del benessere, della prevenzione e della salute, dall’azione sul singolo a quella con i gruppi e con la comunità, da un’impostazione clinica ad una di tipo educativo, ecc. Il lavoro psicologico si esplica in una molteplicità di contesti quali: ospedali e strutture di salute mentale, centri per soggetti diversamente abili, consultori di vario tipo, sportelli di orientamento, in strutture di ricerca, nei diversi tipi di scuola, nelle aziende e in tanti altri tipi di istituti pubblici e privati. L’iscrizione all’Albo B permette, tra l’altro, l’iscrizione alle Scuole Superiori di Specializzazione in Psicologia Clinica o Psicoterapia (attualmente tre universitarie e numerose scuole private riconosciute dal Ministero competente).

3. Il ruolo svolto dallo p. richiede che l’Albo ne garantisca una azione corretta. Esiste il Codice deontologico degli p. italiani e inoltre una «Commissione deontologica» che promuovono: la preparazione, l’aggiornamento, lo svolgimento del lavoro, i rapporti con le persone, ecc. Oltre alle normativa «ufficiale», ogni p. è chiamato a costruirsi una competenza che gli consenta di svolgere autorevolmente il proprio compito. Indichiamo alcuni aspetti che ci sembrano particolarmente significativi nella costruzione di tale competenza: la formazione di una mentalità aperta alle diverse teorie per poter leggere meglio la realtà umana, il rispetto di una antropologia di base attenta a tutti gli aspetti della persona al di là delle proprie credenze, il rispetto della singola persona e del suo ritmo di cambiamento che richiede di non andare oltre ciò che l’individuo è disposto a «condividere» o ad accettare in un momento concreto della sua vita, l’adattamento delle conoscenze e delle tecniche alle esigenze concrete della persona, la condivisione con gli altri professionisti con cui viene a trovarsi. Conviene, infine, ricordare che quella di p. è una professione di aiuto che richiede una sana​​ ​​ igiene mentale (psicologica) per facilitare l’ottimizzazione delle risorse delle persone ponendosi come modello nell’uso delle proprie risorse, senza cadere nello stress lavorativo.

Bibliografia

Lombardo G. P.,​​ Storia e modelli della formazione. Le teorie sul ruolo dello p., Milano, Angeli, 1994; Sarchielli G. - F. Fraccaroli,​​ Le professioni dello p., Milano, Cortina, 2002; Moderato P. - F. Rovetto,​​ P.: verso la professione,​​ Milano, McGraw-Hill, 2006; Giandomenico D.,​​ La professione dello p. Ordinamento,​​ deontologia,​​ responsabilità, Milano, Mondadori Università, 2007.

A. Arto




PSICOMETRIA

 

PSICOMETRIA

Studio dei procedimenti matematico-statistici attinenti alle misurazioni psicologiche; studio dei​​ ​​ test mentali.

1. L’introduzione di test oggettivi in campo educativo e psicologico risale alla fine dell’Ottocento e risponde alla duplice esigenza di migliorare la validità delle valutazioni «ingenue» (voti e giudizi scolastici, diagnosi psicologiche e psichiatriche ecc.) e di rendere il processo di valutazione più rapido ed economico. Più o meno contemporaneamente, e contestualmente all’elaborazione delle teorie psicologiche, vennero sviluppate metodologie matematico-statistiche per la verifica della validità dei test, per l’ottimizzazione della «correzione», per la standardizzazione dei punteggi ecc. Le metodologie erano in parte desunte da altre scienze sperimentali (per es. i metodi di​​ scaling​​ dalla fisica, l’analisi della varianza dall’agricoltura, le statistiche descrittive dalla demografia ecc.), in parte erano ideate o notevolmente rielaborate da psicologi (per es. l’analisi fattoriale) e venivano riferite indifferentemente a test psicologici o di profitto scolastico.

2. All’inizio la p. includeva l’area disciplinare attualmente chiamata «Statistica psicometrica». Già alla metà del sec. scorso però era avvenuta una differenziazione fra le due discipline: la p. aveva assunto il ruolo prevalente di inquadrare teoricamente i fenomeni, di formulare operativamente le esigenze del testing, di discutere l’appropriatezza dell’uso delle varie tecniche statistiche, di introdurre e verificare nuove metodologie, di descrivere criticamente i test esistenti. Le trattazioni attuali di p., rispetto a quelle di metà Novecento, dedicano poco spazio all’illustrazione delle tecniche, ormai gestite da​​ packages​​ computerizzati, e più spazio alla discussione dei fondamenti teorici e dell’appropriatezza delle varie metodologie. Le aree trattate includono i modelli di​​ scaling​​ (settore in cui è più rilevante l’apporto matematico e in cui è presente l’importante aspetto operativo della costituzione di norme per la standardizzazione dei punteggi), la validità, la struttura interna delle misure, l’uso dell’analisi multivariata (con particolare attenzione all’«analisi fattoriale», esplorativa o confermativa), l’analisi degli item con metodi tradizionali o più recenti (statistiche d’informazione, IRT) l’effetto di variabili contingenti sulla misurazione (per es. effetto della rapidità, dell’indovinare a caso, dello «stile di risposta»).

3. Negli ultimi trent’anni ha acquisito importanza crescente, ed è prossima a staccarsi dalla p., l’area applicativa che studia le corrette modalità per integrare l’atto valutativo nell’intervento educativo, psicologico o sociale. Questa problematica parte dal momento della pianificazione dell’intervento, includendo quindi una conoscenza critica degli strumenti esistenti e delle variabili intervenienti, affronta il momento in cui i dati del profilo testologico e di tutte le altre informazioni attinenti al soggetto devono essere integrati fra loro e commentati (spesso ormai anche con l’aiuto di​​ software, di cui bisogna verificare la validità) e si conclude con la comunicazione dei risultati al soggetto o a un interlocutore sociale (per es. il consiglio di classe) in un quadro generale d’intervento.

Bibliografia

Guilford J. P.,​​ Psychometric methods,​​ New York, McGraw-Hill, 1936, 1954; Thorndike R. L.,​​ Educational measurement,​​ Washington D.C., American Council on Education, 1951,1971; Rubini V.,​​ Basi teoriche del testing psicologico,​​ Bologna, Patron, 1975; Boncori L.,​​ Teoria e tecniche dei test,​​ Torino, Bollati Boringhieri, 1993; Nunnally J. C - I. H. Bernstein,​​ Psychometric theory,​​ New York, McGraw-Hill,​​ 31994; Barbaranelli C. - E. Natali,​​ I test psicologici: teorie e modelli psicometrici, Roma, Carocci, 2005; Boncori L.,​​ I test in psicologia,​​ Bologna, Il Mulino, 2006.

L. Boncori




PSICOMOTRICITÀ

 

PSICOMOTRICITÀ

La p. è motricità attivata psichicamente; la motricità è dimensione del​​ ​​ comportamento, come la corporeità lo è dell’essere umano.

1. Lo sviluppo del potenziale psicomotorio fa parte del sistema dello sviluppo umano. La p. è complessa in sé e nell’interazione col mondo: a livello conoscitivo, in quanto va dalle sensazioni all’idea; a livello emotivo, in quanto va dai piaceri al sentimento; a livello motivazionale, in quanto va dalle reazioni spontanee e impulsive all’autocontrollo; e in genere, dal movimento incosciente alla libertà cosciente. Nel sistema dei bisogni (​​ Maslow), la p. è correlata a tutte le componenti della persona umana, ed è base di sollievo fisico, è strumento di socializzazione, è riferimento dello psichismo superiore, che si completa nell’auto-realizzazione.

2. Il bisogno d’auto-realizzazione trova attivazione psicomotoria sensorio-affettiva di risonanza multipla. L’interazione è base di coscienza del mondo e coscienza di sé, che configurano l’immagine psicomotoria nel sistema dell’immagine dell’io. Nel processo di auto-realizzazione, la p. viene a definirsi sotto forme di determinazione fisica e di atteggiamenti sociali, razionali, «estetici», di senso esistenziale (Maslow). Lo sviluppo dell’immagine psicomotoria dà luogo a modelli che orientano nella dinamica corporale (schema corporale), negli spazi (schema spaziale), nel tempo (schema temporale), nella società e nel mondo (schemi espressivi d’identità personale e sociale). La p. implica interattività e promuove l’auto-realizzazione nelle esperienze di coordinazione e ritmo di armonia integrale e, in senso complesso, di maturità personale psicomotoria. Nella p. c’è l’incontro e la sintesi tra dinamica psico-fisica per lo sviluppo e l’espressione somatopsichica dell’armonia dinamica e interattiva nel mondo. L’immagine psicomotoria dell’io è una componente espressiva della creatività dell’io personale e un indice dello sviluppo di libertà fisica e psichica, personale e sociale.

3. I programmi di sviluppo del potenziale psicomotorio prevedono interventi per stimolare e promuovere la maturità e l’espressività della persona integrale. I programmi generali rispondono a dei bisogni comuni; casi particolari sono curati secondo precise diagnosi somatopsichiche. Ci sono inoltre le attività comuni della vita e le varie forme di perfezionamento dal punto di vista fisico (educazione fisica, gioco, sport, apprendimento strumentale, disegno e tecnologia).

4. I disturbi della p. hanno origine biologica oppure psichica. La riabilitazione riattiva il potenziale biopsichico e rimedia a deficienze di personalità, di comportamento e di rendimento, antecedenti o conseguenti alla limitazione motoria. Il terapeuta o comunque il diagnostico decide sulle terapie. La p. sta alla base della coscienza di sé, della comunicazione interpersonale e della presenza attiva nel mondo, ma non ogni diminuzione psicomotoria impedisce o rende difficoltosa o limitata l’esperienza cosciente del senso della vita. La p. non esaurisce la potenzialità psichica: ma certo la p. è segno di vita.

Bibliografia

Boulch J.,​​ Vers une science du mouvement humain. Introduction à la psychocinétique,​​ Paris, ESF, 1971; Ajuriaguerra J.,​​ Manuel de Psychiatrie de l’Enfant,​​ Paris, Masson, 1974; Rigal R.,​​ Motricité humaine,​​ Vigot, Pr. de l’Université du Qué­bec, 1985;​​ Sánchez S.,​​ Expresión psicomotriz,​​ Madrid, Santillana,​​ 1987; Wille A. - M. - C. Ambrosini,​​ Manuale di p. in età evolutiva, Napoli, Cuzzolini, 2005;​​ Fonseca V. da,​​ Psicomotricidad: paradigmas del estudio del cuerpo y de la motricidad humana, México, Trillas, 2006; Mendiara Rivas J.,​​ La psicomotricidad: evolución, corrientes y tendencias actuales, Sevilla, Wanceulen, 2007.

A. Sopeña




PSICOPATOLOGIA

 

PSICOPATOLOGIA

Studio della sintomatologia, eziologia, evoluzione e terapia dei disturbi mentali.

1.​​ Cenni storici.​​ Nel mondo occidentale le radici della p. risalgono ai contributi di Ippocrate (460-377 a.C.) e dei suoi seguaci che spiegano la genesi delle malattie attraverso la teoria degli umori. Tra il IV e III sec. a.C. vengono introdotti termini psichiatrici tuttora usati quali: isteria, ipocondria, melanconia, mania, angoscia. Altro grande contributo da segnalare è quello di C. Galeno (129-201 d.C.) il quale procede ad una sistemazione globale di tutte le conoscenze medico-psicologiche dell’antichità. Su tale sistemazione poggiano successivamente la medicina romana, la bizantina, quella araba e quella monastica dell’epoca medievale. Nella medicina rinascimentale si trovano richiami sia agli insegnamenti ippocratici, che galenici e neoplatonici. Ma è verso la fine del sec. XVIII che, sotto l’influsso dell’illuminismo ed il proliferare di numerose società scientifiche, vengono gettate le basi della p. moderna, superando, tra l’altro, definitivamente la convinzione che l’origine della malattia mentale sia da ricercarsi nella possessione demoniaca. Tale impostazione apre la strada al concetto che la follia è un disturbo comprensibile e trattabile in modo scientifico. Ciò evidentemente stimola il campo medico a muoversi entro il quadro di una costante osservazione e raccolta dei dati, al fine di giungere ad una sistematizzazione e classificazione dei sintomi e delle varie manifestazioni del disturbo mentale. La conseguenza è che, rispetto all’epoca precedente in cui era punita, s’inizia ad interpretare la follia non solo come un’espressione di nonragione, ma anche come un’alterazione della capacità morale. Da ciò l’elaborazione di programmi terapeutici al fine di recuperare il malato mentale all’autocontrollo e alla stima di sé. In questo campo sono da considerarsi senz’altro pionieristici gli studi di Ph. Pinel (1745-1826), il quale sostiene che l’ospedale deve essere un luogo di cura e non di reclusione e che inoltre alcuni disturbi mentali dipendono da fattori psico-sociali e non invece da fattori organici. Nel sec. XIX, con il progredire delle conoscenze nel campo della medicina, la malattia mentale viene interpretata come conseguenza di disturbi dell’area cerebrale. Ciò rafforza la tendenza, già dominante, verso una concezione organicistica. Contemporaneamente, si fa strada la convinzione che il folle deve essere recuperato, isolandolo dal mondo esterno con il rafforzamento dell’istituzione manicomiale. Tuttavia, man mano che gli studi sull’anatomia cerebrale avanzano, si verifica paradossalmente anche un progressivo disinteresse clinico verso i singoli pazienti, considerati come incurabili, dal momento che si ritiene che la malattia mentale è determinata da una debolezza costituzionale. Va registrato in questo periodo un affinamento del metodo di raccolta dei sintomi e di classificazione delle malattie che raggiunge il suo apice con E. Kraepelin (1855-1926). Egli in particolare individua un tipo di disturbo, che denomina​​ psicosi endogena,​​ causato da fattori genetico-costituzionali e perciò non suscettibile di un trattamento terapeutico. Tale psicosi viene suddivisa in due grandi categorie: la​​ dementia praecox​​ e la​​ psicosi maniaco-depressiva.​​ Ma è con S.​​ ​​ Freud che si determina una svolta radicale nello studio della malattia mentale. Egli, rifacendosi agli studi di​​ ​​ Charcot e di P. Janet (1859-1947), evidenzia che i disturbi mentali dipendono più che da fattori organici da fattori psicodinamici. Nasce così una p. rigorosamente psicologica, dove viene sottolineato che non esiste uno iato, ma un​​ continuum​​ tra​​ normale​​ e​​ patologico​​ e che inoltre è possibile impostare una psicoterapia per curare tutti quei disturbi che vanno sotto il nome di​​ ​​ nevrosi. Attraverso poi la ricerca clinica e la riflessione teorica di​​ ​​ Klein (1882-1960) viene compiuto un ulteriore passo in avanti nella comprensione della patologia psichica. In particolare, viene gettata una nuova luce sulla comprensione e la curabilità delle​​ ​​ psicosi. Va segnalato infine che, accanto ai modelli teorici​​ biomedico​​ e​​ psicologico,​​ si è man mano sviluppato, soprattutto in questi ultimi decenni, il modello​​ socio-culturale,​​ portato alle sue estreme conseguenze da T.S. Szasz (1961) il quale sostiene che il concetto di malattia mentale non è altro che un mito di comodo, una pura metafora. A suo avviso, la maggior parte dei disturbi psichici non è causata da fattori organici, ma da conflitti morali e sociali, che l’individuo sperimenta nelle relazioni umane.

2.​​ Modelli teorici attuali.​​ Esistono diversi modelli teorici circa l’eziologia e, di conseguenza, il trattamento terapeutico delle condotte psicopatologiche. Ciascuno di essi contempla poi dei sottogruppi, che tuttavia qui non citiamo. a) Il​​ modello organicistico.​​ Esso, a seconda dei casi, fa risalire il disturbo mentale a fattori genetici o biochimici, a lesioni cerebrali o a menomazioni congenite o acquisite della funzionalità del sistema nervoso. Attualmente tale approccio ha ripreso vigore soprattutto per spiegare la genesi delle schizofrenie e delle depressioni maniaco-depressive. b) Il​​ modello psicoanalitico.​​ Esso pone l’accento sulle vicende intrapsichiche passate ed inconsce dell’individuo. Più precisamente, fa risalire la genesi della patologia allo strutturarsi nei primi anni di vita di relazioni oggettuali prevalentemente di tipo negativo. c) Il​​ modello comportamentistico.​​ Esso sostiene che i disturbi del comportamento sono appresi attraverso una serie di condizionamenti, di rinforzi e di punizioni. Più precisamente, le condotte patologiche non sono altro che delle abitudini inadeguate, apprese attraverso stimoli ansiogeni. d) Il​​ modello cognitivo.​​ Esso si rifà a una visione dialettica, transazionale, del rapporto individuo-ambiente, in cui l’uomo elabora le informazioni che riceve e crea delle teorie che condizionano il suo comportamento e lo portano a costruirsi e a mantenersi una sua propria nicchia ambientale. La patologia è da fare risalire alla formazione di stili cognitivi distorti di base. e) Il​​ modello sistemico.​​ Esso afferma che la patologia dell’individuo, denominato «capro espiatorio» o «paziente designato», non è altro che il risultato di un’interazione distorta tra i vari membri della famiglia. f) Il​​ modello sociale​​ o​​ ecologico.​​ Secondo tale approccio i disturbi psichici derivano dall’interazione tra le capacità del soggetto e le richieste della comunità in cui è inserito. In particolare, esso sostiene che ci sono individui patologici, perché ci sono sistemi sociali disturbati.

Bibliografia

Arieti S.,​​ Manuale di psichiatria, Torino, Bollati Boringhieri, 1969, 3 voll.; Ellenberger H. F.,​​ La scoperta dell’inconscio. Storia della psichiatria dinamica,​​ Ibid., 1976; Foucault M.,​​ Storia della follia nell’età classica,​​ Milano, Rizzoli, 1977;​​ Trattato italiano di psichiatria, 3 voll., Milano, Masson, 1992; Sims A.,​​ Introduzione alla p. descrittiva, Milano, Cortina, 1997; Cassano G. - A. Tundo,​​ P. e clinica psichiatrica, Torino, UTET, 2006;​​ Borgogno F. - A. Ferro (Edd.),​​ Funzioni analitiche,​​ stati primitivi della mente,​​ p., Roma, Borla, 2006; Gabbard G. O.,​​ Psichiatria psicodinamica, Milano, Cortina, 2007.

V. L. Castellazzi




PSICOPATOLOGIA DELL’INFANZIA E DELL’ADOLESCENZA

 

PSICOPATOLOGIA​​ DELL’INFANZIA E DELL’ADOLESCENZA

Studio della sintomatologia, eziologia e terapia dei disturbi mentali riscontrabili nell’infanzia e nell’adolescenza.

1. Si può far risalire la genesi della p.d.i. e d.a. agli studi pionieristici fioriti in Francia nell’Ottocento per merito di J. Itard, E. Seguin, J. Esquirol. Questi si dedicarono soprattutto allo studio e al recupero dei ritardati mentali, sottolineando il ruolo determinante dei deficit, acquisiti per mancanza di stimolazioni e di esperienze sensoriali. Veniva così contrastata la posizione dominante, rigidamente organicistica, della psichiatria ufficiale. All’inizio del Novecento, in questo campo si distinsero alcuni psichiatri italiani come S. De Sanctis, G. Ferreri e E. Medea, i quali pubblicarono i risultati delle loro ricerche sulla rivista «Infanzia Anormale» (oggi «Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza»), da loro stessi fondata. Ciò contribuì alla nascita della p.d.i. e d.a., come disciplina autonoma e a sé stante, rispetto a quella degli adulti.

2. È stata comunque la psicoanalisi ad imprimere una svolta decisiva in questo campo. Oltre ai contributi fondamentali di S.​​ ​​ Freud, tra cui l’Analisi della fobia di un bambino di cinque anni​​ (Caso clinico del piccolo Hans)​​ del 1909, furono decisivi gli apporti di​​ ​​ Klein, di A.​​ ​​ Freud, di​​ ​​ Winnicott. Essi permisero, tra l’altro, di superare il rischio di un’ottica adultomorfa e di adottare invece quadri di valutazione e d’intervento più flessibili e più sfumati, rispetto a quelli su cui si fonda la p. degli adulti. Man mano che le ricerche progredivano, emerse infatti sempre più chiaramente l’incompiutezza dell’apparato psichico dell’individuo in età evolutiva e quindi la non necessaria irreversibilità dei disturbi psichici. Soprattutto, ci si è resi conto del ruolo fondamentale che nell’infanzia e nell’adolescenza riveste l’ambiente familiare sia per la genesi della patologia che per il suo superamento.

Bibliografia

Castellazzi V. L.,​​ P.d.i.ed.a.: Nevrosi,​​ psicosi,​​ depressione, Roma, LAS, 2000, 3 voll.; Ammanniti M. (Ed.),​​ Manuale di p.d.i., Milano, Cortina, 2001; Id. (Ed.),​​ Manuale di p.d.a., Ibid., 2002; Birroux A.,​​ P. del bambino, Roma, Borla, 2004; Fonagy P. - M. Target,​​ P. evolutiva. Le teorie psicoanalitiche, Milano, Cortina, 2005; Bracconier D. - A. Bracconier,​​ Adolescenza e p., Milano, Masson, 2006.

V. L. Castellazzi




PSICOPEDAGOGIA

 

PSICOPEDAGOGIA

La p. studia lo statuto epistemologico-concettuale e sintattico-procedurale che ha il suo oggetto nella ricerca-intervento sulle condizioni psicologiche caratterizzanti il processo educativo, dentro le trame relazionali dello spazio di vita personale del soggetto (bambino, adolescente, anziano).

1. Analizza, perciò, tale soggetto nella configurazione dinamica delle sue diverse dimensioni evolutive (esperienza, progettualità, immagine di sé e del sé) che sono le garanzie del percorso di sviluppo in chiave teorico-pratica, in grado di costruire modelli di ricerca e di intervento, operazionalizzandoli e definendone percorsi coerenti e congruenti rispetto ai modelli. La ricerca di uno statuto epistemologico, con l’analisi disciplinare che ne discende, rappresenta perciò per tale disciplina un compito complesso, per la difficoltà di identificarne l’identità sia all’interno della bipolarità teoria / applicazione, che nelle modalità pedagogiche conseguenti.

2. La p. è quindi la disciplina scientifica che si occupa di individuare e controllare i fattori che influiscono sullo sviluppo del soggetto e che possono facilitarne o ostacolarne la maturazione (apprendimento, motivazione, crescita affettiva e sociale, relazione con gli altri). L’educazione, partendo dalle situazioni reali della persona e mirando alla sua maturità secondo il modello uomo che si vuole costruire, crea le condizioni positive e ne limita gli ostacoli.

3. Se la p. è interessata ai processi di formazione della​​ ​​ personalità in generale (percettivo-motori, cognitivi, affettivi, relazionali e sociali), i processi specifici di apprendimento linguistico vengono studiati dalla​​ ​​ psicolinguistica pedagogica; mentre altri processi di settori speciali dell’apprendimento (scientifico, artistico, storico, ecc.) sono demandati alla psicodidattica e alla​​ ​​ didattica speciale. In particolare, la p., come​​ scienza applicata,​​ concorre a studiare il sistema bio-psico-sociale proprio dell’educazione, in concorso con la psico-biologia e con la psico-sociologia. In tal modo la p. fa da ponte​​ tra la psicologia e la pedagogia, intesa come sistema teorico-pratico il cui oggetto specifico è il buon funzionamento psichico della persona, positivamente nella figura del bene-essere e della salute e più largamente in quella delle capacità e dell’apprendimento; e all’opposto nella figura clinica di studio dei disturbi di personalità e dei correttivi necessari. Infatti, come in generale la pedagogia, così in particolare la p. è orientata al miglior dover-essere, al miglior sapere, al miglior poter-fare, al funzionamento ottimale. In tal senso è alla base della triplice forma dell’orientamento (personale, scolastico, professionale) e stimola anche interventi e programmi di diagnostica e di recupero. Interessa e richiede la formazione e la competenza dell’educatore e dello​​ ​​ psicopedagogista.

Bibliografia

Trombetta C.,​​ Genesi e sviluppo della psicologia dell’educazione in Italia,​​ Cosenza, Due Emme, 1993;​​ Farneti A.,​​ Elementi di psicologia dello sviluppo: dalle teorie ai problemi quotidiani, Roma, Carocci, 1998; Pontecorvo C.,​​ Manuale di psicologia dell’educazione, Bologna, Il Mulino, 1999; Prellezo J. M. - R. Lanfranchi,​​ Educazione e pedagogia nei solchi della storia, Torino, SEI, 2004; Carugati F. - P. Selleri,​​ Psicologia dell’educazione, Bologna, Il Mulino, 2005; Briulotta G. C.,​​ Manuale di psicologia dell’educazione. Una prospettiva ecologica per lo studio e l’intervento sul processo educativo, Palermo, McGraw-Hill, 2005.

G. Morante




PSICOPEDAGOGISTA

 

PSICOPEDAGOGISTA

Di recente formazione, questa figura professionale si è precisata con l’affermarsi della​​ ​​ pedagogia come scienza e sua relativa epistemologia. Le funzioni dello p. sono svolte in diversi servizi sociali, scolastici e socio-sanitari pubblici e privati, nonché in libera professione. Nel campo sanitario «il Pedagogista è equiparato allo Psicologo», come da Sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, 13 luglio 1994, n. 763. «Le posizioni funzionali di pedagogista, p. e simili, sono equiparate al profilo professionale dello psicologo di cui all’art. 2 del D.P.R. 20 dicembre 1979 n. 761». I soggetti che le rivestono devono essere in possesso della laurea, acquisita nelle Facoltà Universitarie che ne hanno predisposto i curricoli.

1. Fin dall’antichità la parola «pedagogo» indicava chi si prendeva cura dei minori per istruirli ed educarli. A poco a poco, l’interesse per tale impegno si è amplificato con il diffondersi delle scuole, e, gradualmente, ha preso corpo l’esigenza di sviluppare una «scienza», appunto​​ ​​ la psicopedagogia che se ne occupasse. Ha iniziato il pedagogista​​ ​​ Herbart, nella prima metà del sec. XX, riconoscendole specifiche connotazioni; si è quindi avviato un discorso epistemologico in continua ricerca nei confronti della «pedagogia», dando la possibilità di creare spazi per chi si dedica a un approfondimento teorico ed ai problemi che ne derivano sui fronti dell’educazione (famiglia, scuola, gruppi, ambienti sociosanitari, formazione, reclutamento, orientamento di risorse umane, affido, adozione, sport e tempo libero, cultura, servizi all’infanzia e alla terza età…).

2. Poi con l’articolarsi della pedagogia in «scienze dell’educazione» e impegni educativi in ambienti nuovi (comunità terapeutiche, luoghi di lavoro...), si è utilizzato il termine p. in un senso più comprensivo, con funzioni proprie e competenze specifiche (di pedagogia, psicologia, didattica, tecnologia educativa), che appartenevano al pedagogista. Oggi, lo p. è colui che si dedica alla riflessione teorico-critica sulla natura della scienza pedagogica e sui fattori personali ed ambientali che vi contribuiscono. Il suo ruolo, negli ambienti educativi non è «solitario», ma, pur con qualche difficoltà, deve essere affiancato da un’équipe di altri competenti. Egli in modo particolare ha il compito di predisporre un intervento analitico e progettuale da affidare agli operatori diretti (insegnanti, genitori, operatori pedagogici). A lui compete la preparazione di un progetto organico personalizzato, in situazioni definite, dove si colloca il suo ruolo di figura specialistica.

Bibliografia

Auriemma O.,​​ Nuove figure professionali nella scuola, in «Prospettiva Educazione Permanente» 1-2 (1993) 32-38; Tomisch M.,​​ La funzione dell’operatore psicopedagogico nella scuola: area ponte dell’organizzazione, Atti del Seminario di studio dell’IRRSAE Lombardia, Milano, IRRSAE, 1995; Provveditorato agli Studi di Bergamo,​​ Il servizio psicopedagogico, Bergamo, Provincia di Bergamo, 2000; Trisciuzzi L. (Ed.),​​ Le nuove attività della funzione docente nella scuola della riforma, Firenze, La Nuova Italia, 2001.

G. Morante




PSICOSI

 

PSICOSI

Disturbo psichico caratterizzato da una massiccia regressione dell’Io con conseguente grave disorganizzazione della personalità, per cui viene perduta la capacità dell’esame di realtà. Attualmente, con il termine p. ci si riferisce ad un quadro patologico piuttosto vasto ed articolato. Esso comprende tutta una gamma di disturbi mentali che vanno dalle sindromi cerebrali, alla schizofrenia, agli stati paranoidi, alle p. maniaco-depressive.

1.​​ Cenni storici.​​ Il termine p. viene usato per la prima volta verso la metà del XIX sec. da parte di E.V. Feuchtersleben (1845). È comunque E. Kraepelin (1883) a fornire i primi contributi significativi. Egli sostiene che esiste un disturbo psichico, da lui denominato​​ p. endogena,​​ causato da fattori genetico-costituzionali e non invece da una lesione cerebrale dimostrabile, da un agente tossico-chimico o da disturbi metabolici e ormonali. La​​ p. endogena​​ a sua volta è suddivisa in​​ dementia praecox​​ e in​​ p. maniaco-depressiva.​​ Secondo Kraepelin, e di riflesso secondo la psichiatria classica, tale patologia ha come conseguenza il deterioramento fatale della personalità dell’individuo, per cui non sono possibili interventi terapeutici. L’unica soluzione rimane il ricovero definitivo nell’ospedale psichiatrico. E. Bleuler (1911) suggerisce di sostituire il termine​​ dementia praecox​​ con il termine​​ schizofrenia​​ (dal gr.​​ schizein​​ = dividere e​​ phrén​​ = mente), poiché esso mette meglio in evidenza le caratteristiche della malattia ed in particolare l’azione del meccanismo della scissione. Bleuler inoltre, diversamente da Kraepelin, ipotizza una base psicodinamica del disturbo psicotico. Determinante al riguardo è poi il contributo di S.​​ ​​ Freud. Egli mette in evidenza una sostanziale unità tra i processi psichici della p. e della​​ ​​ nevrosi, senza tuttavia trascurare le notevoli differenze tra i due tipi di patologia. In​​ Nevrosi e p.​​ (1923) egli afferma che mentre la nevrosi è il risultato di un conflitto tra l’Io e l’Es, la p. rappresenta l’analogo esito di un perturbamento nei rapporti tra Io e mondo esterno. Più precisamente, mentre nella nevrosi l’Io, avendo a che fare con pulsioni avvertite come angoscianti, perché disapprovate dal Super-Io, finisce per porsi a servizio del Super-Io e della realtà, nella p. invece, restando in balia dell’Es e in parte del Super-Io, esso perde gravemente i contatti con la realtà e, attraverso il delirio, giunge alla costruzione di una nuova realtà e di un nuovo mondo interno. Diversamente dalla nevrosi, dove è presente la rimozione delle pulsioni ed il ritorno di esse in forma distorta (formazione del sintomo), la p. comporta un disinvestimento dalla realtà ed un successivo tentativo di riguadagnare il senso perduto di essa. Inoltre, mentre nella nevrosi l’Io è cosciente del suo conflitto e lo vive a livello di compromesso con la realtà, nella p. invece non tollera la negoziazione, per cui lavora contro il conflitto e cerca di espellerlo dalla psiche attraverso i​​ ​​ meccanismi di difesa della scissione, della negazione e della proiezione. La conseguenza è l’assenza di coscienza della situazione conflittuale, la perdita dell’esame di realtà e la distruzione delle strutture fondamentali dell’ordine simbolico. Secondo l’ottica freudiana la p. non è considerata accessibile al trattamento psicoterapeutico e ciò a causa della presenza di disordini narcisistici che impediscono al paziente di vivere il transfert. Successivamente i contributi fondamentali di​​ ​​ Klein sulla genesi delle p., collocata nel primo anno di vita, gettano una nuova luce sulla comprensione e sulla curabilità dei disturbi psicotici. La Klein sostiene che oltre ad un transfert nevrotico, esiste un transfert psicotico, su cui è possibile agire. In particolare, sottolinea che alla base della schizofrenia e della paranoia c’è un non adeguato superamento della posizione schizo-paranoide, che il bambino sperimenta nei primi mesi di vita, mentre la genesi della depressione psicotica va individuata nella fissazione alla posizione maniaco-depressiva, propria della seconda parte del primo anno di vita.

2.​​ Nosografia.​​ Abitualmente viene posta la distinzione tra​​ p. organiche,​​ derivanti da una qualche lesione o disfunzione fisica, specie cerebrale, e​​ p. funzionali.​​ Tra quest’ultime sono da segnalare la​​ depressione maniaco-depressiva,​​ la​​ schizofrenia​​ e gli​​ stati paranoidi.

3.​​ Sintomi.​​ I sintomi generali più significativi della p. sono: a) grave distorsione percettiva della realtà (deliri, allucinazioni) e quindi perdita dell’esame di realtà; b) rapporto non efficace con la realtà o ritiro massiccio da essa (appiattimento affettivo, comportamenti catatonici, chiusura sociale); c) regressione a stati narcisistici primitivi; d) netta prevalenza del processo primario su quello secondario e quindi dominanza del pensiero irrazionale su quello razionale (discorso bizzarro, pensiero magico); e) ricorso alla scissione dell’Io e dell’oggetto; f) proiezione di proprie parti «cattive» nell’oggetto e relativa identificazione con esso; g) assenza di autocritica; h) annullamento dei confini tra il Sé e il non-Sé e quindi negazione dell’alterità; i) confusione tra l’immaginario e il reale, tra il mondo interno ed il mondo esterno; l) irrequietezza motoria; m) comportamento eccentrico; n) depressione con idee suicidarie; o) ipocondria.

4.​​ Eziologia.​​ Circa le cause della p. esistono diverse posizioni teoriche. Alcuni insistono di più sui fattori organici, altri su quelli ambientali. Per un chiarimento si rimanda a quanto detto alla voce​​ ​​ psicopatologia.

Bibliografia

Freud S., «Nevrosi e p.», in​​ Opere,​​ vol. 9, Torino, Bollati Boringhieri, 1977, 611-615; Racamier P. C,​​ Gli schizofrenici,​​ Milano, Cortina, 1983; Klein M.,​​ Scritti 1921-1958,​​ Torino, Bollati Boringhieri, 1986; Feinsilver D. B. (Ed.),​​ Un modello comprensivo dei disturbi schizofrenici,​​ Milano, Cortina, 1990; Castellazzi V. L.,​​ Psicopatologia dell’infanzia e dell’adolescenza: Le p.,​​ Roma, LAS, 1991; Lenzenweger M. F. - R. H. Dworkin,​​ Le origini e lo sviluppo della schizofrenia, Roma, CIC Edizioni Internazionali, 2001; Ballerini A.,​​ Patologia di un eremitaggio. Uno studio sull’autismo schizofrenico, Torino, Bollati Boringhieri, 2002;​​ Borgna E.,​​ Come se finisse il mondo. Il senso dell’esperienza schizofrenica, Milano, Feltrinelli, 2002;​​ Resnik S.,​​ Clinica psichiatrica della p. Seminari padovani, Milano, Angeli, 2005;​​ Lorenzi P. - A. Pazzagli,​​ Le p. bianche, Ibid., 2006; De Masi F.,​​ Vulnerabilità della p., Milano, Cortina, 2006.

V. L. Castellazzi




PSICOSOMATICA

 

PSICOSOMATICA

Il termine p. sostanzialmente sta a sottolineare il rapporto strettissimo tra emozioni e malattia. In senso più largo sottolinea l’interconnessione tra psiche e soma che formano un’unità strutturale e funzionale con evidente influenza reciproca. Da ciò deriva la considerazione che qualsiasi fenomeno psichico, cosciente o inconscio, ha delle inevitabili ripercussioni sulla componente somatica e viceversa; questo sia in situazione normale che patologica. La situazione normale spiegherebbe come un buon funzionamento organico può dare sensazioni di benessere psichico e viceversa; mentre la situazione patologica ci spiegherebbe come conflitti psichici possano provocare disfunzioni o danni organici e viceversa.

1.​​ Cenni storici.​​ Sembra che il termine sia stato coniato dal poeta, filosofo e drammaturgo inglese S.T. Coleridge verso il 1790. In medicina però è stato introdotto da psichiatri, abbastanza orientati in senso psicoanalitico, nel 1930, ma alcuni anni prima la dottoressa Flanders Dunbar aveva trattato diffusamente l’argomento. Nel 1932 F. Alexander fondò il​​ Chicago Institute for Psychoanalysis​​ e con i suoi collaboratori condusse approfondite indagini psicoanalitiche sui pazienti fisicamente malati. Erano del parere che tutti i​​ pazienti psicosomatici​​ presentino conflitti relativi alla dipendenza. Nel 1939 è stata fondata la rivista «Psychosomatic Medicine» e all’inizio degli anni ’40 l’American Psychosomatic Society.​​ Oggi mentre alcuni medici vorrebbero non usare questo termine o perché convinti che ogni malattia ha una causa organica o perché convinti che in molte malattie la psiche viene comunque coinvolta, si va facendo sempre più strada la teoria della causalità multipla almeno per molte malattie. Numerosi sono gli psicologi propensi a mantenere la terminologia p. in quanto valida e significativa.

2.​​ Premesse teoriche.​​ Possiamo distinguere tre principali posizioni teoriche a questo riguardo. Una prima posizione identifica l’Io con il proprio soma, quindi i disturbi psichiatrici di qualunque tipo sono disturbi cerebrali e non si fa distinzione tra somatico e psichico. Una seconda considera il somatico e lo psichico come due aspetti della stessa realtà, come due versanti della stessa struttura, quindi si può usare una terminologia diversa per ognuno di essi, tenendo però presente che non si tratta di realtà diverse. Una terza posizione li considera invece come realtà diverse ma così ben armonizzate da costituire una realtà unica: «Homo sapiens». Si deve usare allora terminologia diversa e trattamento differenziato ma complementare. A queste differenti premesse antropologiche conseguono modi differenti di accostamento psicologico e psicoterapeutico. Qualsiasi medico o psicologo o psicoterapeuta ha una sua visione antropologica che implicitamente o esplicitamente è presente nei suoi rapporti con se stesso, con gli altri e in particolare con i pazienti.

3.​​ Uso di tecniche.​​ Quanto all’uso delle tecniche, l’antropologia ha un ruolo molto più secondario che non nella scelta di esse per cui tutto dipende dall’abilità di chi le impiega e anche dalla scuola che segue.

4.​​ Conclusioni.​​ Si potrebbe rapidamente concludere che al momento attuale conviene distinguere: malattie in cui la preponderanza diagnostica e terapeutica è decisamente medica e il contributo dello psicologo, semmai, è di appoggio soltanto; disturbi in cui il ruolo dello psicologo è primario e quello farmacologico è accessorio; forme miste in cui la collaborazione degli specialisti è indispensabile. A quest’ultima categoria appartengono le cosiddette malattie psicosomatiche, fra cui classiche: l’ulcera peptica, in cui bisogna tener conto della presenza dell’Helyco Bacter; l’asma bronchiale; l’artrite reumatoide; l’ipertensione essenziale; la colite ulcerosa; le neurodermatiti e forse alcune forme di cancro. Col progredire degli studi certamente si chiariranno tanti particolari ancora non ben definiti e si potrà offrire un aiuto più consistente ai sofferenti di tali disturbi.

Bibliografia

Alexander F.,​​ Medicina p.,​​ Firenze, Giunti-Barbera, 1972; Deutsch F.,​​ Il misterioso salto dalla mente al corpo,​​ Firenze, Martinelli, 1975; Anochin P. K.,​​ Biologia e neurofisiologia del riflesso condizionato,​​ Roma, Bulzoni, 1975; Ammon G.,​​ P.,​​ Roma, Borla, 1977; Pancheri P.,​​ Stress,​​ emozioni,​​ malattia,​​ Milano, Mondadori, 1980; Guyton A. C.,​​ Neurofisiologia umana.​​ Roma, Il Pensiero Scientifico, 1984; Oliverio A.,​​ Biologia e comportamento,​​ Bologna, Zanichelli, 1986; Ruggieri V.,​​ Semeiotica dei processi psicofisiologici e psicosomatici,​​ Ibid., 1987; Taylor G.,​​ Medicina p. e psicanalisi contemporanea,​​ Roma, Astrolabio, 1993; Pastore L. (Ed.),​​ P. e salute,​​ Roma, Di Renzo, 2001.

V. Polizzi