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POSTMODERNO / POSTMODERNITÀ

 

POSTMODERNO /​​ POSTMODERNITÀ

Più che una delimitazione cronologica, sia l’aggettivo sostantivato che il sostantivo astratto, starebbero ad indicare una situazione, uno stato, una condizione, una sensibilità letteraria, artistica, filosofica e culturale in genere che si va distanziando dalla​​ ​​ modernità.

1. Il condizionale è d’obbligo, in quanto si ha a che fare con un termine, carico di emozionalità contrapposta, quasi una parola d’ordine, di indubbia presa sui mass media e sull’immaginario collettivo, a cui vengono assegnati significati diversi fino all’ambiguità. Usato già in saggi letterari spagnoli e statunitensi di critica letteraria degli anni ’30-40 e dallo storico A. Toynbee nel 1947 in​​ A study of history,​​ per indicare una nuova fase storica successiva all’età moderna, il termine ha avuto fortuna con il saggio del filosofo francese J.-F. Lyotard (La condition postmoderne,​​ 1979) e in sede letteraria con il saggio del critico statunitense I. Hassan (The question of post-modernism,​​ 1981).

2. Secondo i teorici del p. la cultura moderna, vale a dire la visione del mondo e della vita, tipica della vicenda storica delle società dell’Occidente post-medioevale, sarebbe giunta al suo tramonto. La condizione postmoderna renderebbe manifesti i limiti e le sue configurazioni culturali ispirate all’umanesimo antropocentrico, che ha nella scienza e nella tecnica le sue massime espressioni di razionalità e nella capacità di trasformazione industriale e di azione politica le vie per costruire il proprio destino storico ed intramondano; ed evidenzierebbe la non assolutezza delle sue grandi narrazioni («meta-racconti» nella terminologia di Lyotard), specie quelli dell’​​ ​​ illuminismo, dell’idealismo, del positivismo e del marxismo, che a loro modo legittimavano filosoficamente, eticamente e politicamente l’egemonia culturale dell’Occidente. O perlomeno metterebbe in risalto che, rispetto a una «modernità solida», con le sue strutture consolidate, prevarrebbe una «modernità liquida», caratterizzata dai flussi, dai processi, dalla costante innovazione, conseguente all’irrompere delle tecnologie informatizzate, dalla globalizzazione dell’esistenza e del mercato e culturalmente dal declino della metafisica. Il sapere risulterebbe irrimediabilmente frammentato, ipotetico, situato, costituzionalmente​​ in itinere,​​ insormontabilmente storico-culturale. Contenutisticamente assisteremmo alla motiplicazione delle​​ Weltanschauung​​ e delle fedi, che danno spettacolo di sé e che diventano piuttosto merce di consumo massmediologico, senza che nessuna possa di diritto imporsi alle altre come più vera. Al massimo può trovare pragmaticamente maggior accoglienza rispetto alle altre. Più che un sapere che definisce, avremmo a che fare con un sapere che parla, narra, racconta delle cose-eventi o di sé, che interpreta e produce nuove o rinnovate comprensioni (che «sfondano» le comprensioni precedenti, più che «fondare» posizioni) o semplicemente che opera «tecnologicamente» sul reale o lo «simula virtualmente».

3. Considerato da Habermas come segno della crisi in cui versa il progetto emancipativo della modernità, esaltato o bollato come «pensiero debole» (che si appoggia ed oltrepassa la critica culturale di Nietzsche e Heidegger), tacciato di rimettere in corso posizioni pre-moderne o reazionarie, il p. esprime a suo modo il vasto​​ ​​ pluralismo e la complessità sociale contemporanea. In tal senso costituisce un utile termine di confronto per la pratica educativa e la ricerca pedagogica, chiamata oggi, sempre più, a non fermarsi a soluzioni tecniche, ma a ripensare globalmente la cultura formativa.

Bibliografia

Lyotard J.-F.,​​ La condizione postmoderna,​​ Milano, Feltrinelli, 1981; Vattimo G. - P. A. Rovatti (Edd.),​​ Il pensiero debole,​​ Ibid., 1983; Vattimo G.,​​ La fine della modernità,​​ Milano, Garzanti, 1985; Habermas L,​​ Il discorso filosofico della modernità,​​ Roma / Bari, Laterza, 1987; Bauman Z.,​​ Modernità​​ Liquida, Ibid., 2002; Chiurazzi G.,​​ Il p., Milano, Mondadori, 2002; Ambrosi E.,​​ Il bello del relativismo, Venezia, Marsilio, 2005; Bauman Z.,​​ Il disagio della p., Milano, Mondadori, 2007.

C. Nanni




POVEDA Pedro

 

POVEDA Pedro

n. a Linares nel 1874 - m. a Madrid nel 1936, sacerdote ed educatore spagnolo.

1. Fonda scuole per emarginati a Guadix (1902); propone la creazione di un’Istituzione che dia impulso all’educazione a livello nazionale​​ (Ensayo de un proyecto pedagógico para la fundación de una Institución Católica de Enseñanza,​​ Gijón,​​ 1911); fonda l’Istituzione Teresiana ad Oviedo (1911). L’antropologia​​ pedagogica di P. parte dalla sua spiritualità di incarnazione: «la persona di Cristo, la sua natura e la sua vita costituiscono la norma sicura per arrivare ad essere santo... essendo allo stesso tempo con l’umanesimo verità» (1965, 249-250). La persona umana raggiunge il suo massimo, cioè l’essere «eminentemente umana», nella sua unione con Dio. Da qui deriva l’insistenza sulla​​ immagine​​ di Dio in Cristo: sulla​​ vocazione,​​ Consejos a las profesoras y alumnas de las primeras Academias de Santa Teresa​​ (1912);​​ Andad como conviene a la vocación,​​ in​​ Jesús Maestro de oración​​ (1922); e sulla​​ temporalità,​​ Alrededor de un proyecto​​ (1913);​​ El estudio de la pedagogía en los seminarios​​ (1916).

2. La riflessione sul suo tempo sensibilizza P. sui conflitti tra individuo e società, sulla problematica tra fede e scienza e sulle nuove caratteristiche della condizione femminile. Ad essi ispira la sua proposta pedagogica che si sviluppa a partire dai punti seguenti: il principio della​​ comunicazione,​​ come risposta alla socialità umana, concretamente alla necessità di relazione e partecipazione,​​ Hablemos de las alumnas​​ (1935); il principio di​​ libertà-responsabilità​​ come spazio umano in cui, attraverso la formazione ai valori, si decide l’educazione e il significato della vita; il principio della​​ parità-differenza,​​ fatta salva l’uguaglianza ontologica e teologica riguardo all’origine, alla natura e al fine dell’uomo e della​​ ​​ donna, come pure alla loro differenza. P. dà la priorità al​​ clima formatore​​ costantemente ricostruito a partire dai valori della fortezza e dell’allegria.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ P.P.,​​ Obras. Creí por esto hablé;​​ edición crítica y estudio de M.ª D. Gómez Molleda, Madrid, Narcea, 2005. b)​​ Studi: Galino Carrillo A. ( Ed.),​​ Humanismo pedagógico de P.P. Algunas dimensiones, Ibid., 2000; Valle López Á. del,​​ La pedagogía de inspiración católica, Madrid, Síntesis, 2000.

Á. Galino - Á. Del Valle




PRAGMATISMO

 

PRAGMATISMO

Il termine fu coniato nella seconda metà dell’Ottocento, ed è principalmente associato alla filosofia degli americani Peirce,​​ ​​ James e​​ ​​ Dewey, anche se pensatori come l’inglese Schiller, gli spagnoli​​ ​​ Unamuno e​​ ​​ Ortega y Gasset, i francesi Bergson e Le Roy, il tedesco Vaihinger e gli italiani Papini, Aliotta, Vailati e Calderoni sono stati a vario titolo partecipi del movimento di idee che ha questo nome. A introdurre il termine P. fu appunto Peirce col saggio del 1878​​ How to moke our ideas clear​​ e fu successivamente James, con modalità che Peirce vivacemente disapprovò, a diffonderlo (cfr. il vol.​​ Pragmatism,​​ a new name for some old ways of thinking,​​ del 1907, preceduto da​​ The will to believe​​ del 1886).​​ Fu principalmente con Dewey, che ne propose la versione «strumentalistica», che il P. assunse rilevanza pedagogica, ponendosi mediatamente a fondamento dell’attivismo e contribuendo a stabilire i presupposti teorici della scuola «progressiva» (​​ Scuole Nuove).

1. In una sua accezione tecnica e ristretta, molto spesso fraintesa, il P. indica una concezione dei metodi e degli statuti conoscitivi che pone l’accento non solo sulla​​ funzione​​ pratica del conoscere ma anche – e in un certo senso preminentemente – sulla sua legittimazione​​ pratica.​​ La tesi, molto criticata e spesso fraintesa (per es. da Bertrand Russell, per il quale essa era soprattutto in armonia con l’industrialismo e con lo spirito di intrapresa americano, interpretazione a cui Dewey reagì vivacemente), che il valore della conoscenza deriva dalla sua utilità e che il vero si identifica, appunto, con ciò che è utile e conveniente, ne è l’espressione estrema e più esplicita. La figura concettuale jamesiana della «volontà di credere» la esemplifica, seppure in modo rovesciato, assai chiaramente. Il credere è volitivo e non constatativo ed in quanto è voluto sottostà a regole pratiche, più che logiche o epistemologiche. Un’idea è vera in quanto il crederla è «utile» e «conveniente» e produce effetti positivi per la vita individuale e associata. In una accezione più larga il P. riprende motivi della cultura e del pensiero filosofico occidentale maturati e riproposti nel corso dei secoli, e riconducibili alle posizioni dottrinali nel cui ambito si afferma il primato della​​ voluntas,​​ della​​ caritas​​ ecc. sulle determinazioni della razionalità conoscitiva, da quelle di Paolo di Tarso a quelle agostiniane giù giù fino ai francescani del tardo​​ ​​ Medioevo, e in particolare a Duns Scoto a cui il pragmatista Peirce si riferiva come a un antesignano e a un maestro.

2. Non c’è da stupirsi che il P. abbia contribuito a generare un particolare tipo, molto significativo e influente, di filosofia dell’educazione. In realtà il P. era un modello di filosofia pedagogica e tale si rivelò, in anni più recenti, nella sua versione strumentalistica, proposta e argomentata da Dewey. Tale strumentalismo non aveva a che fare, ovviamente, con la mediocre e banale strumentalità dell’operare motivato da interessi pratici immediati, ma poneva l’accento sulla posizione sovraordinata della prassi umana complessivamente assunta rispetto alle varie e settoriali pratiche teoriche. Le formule di rivisitazione e di riabilitazione del P. (cfr. R. Rorty,​​ The relevance of pragmatism)​​ proposte negli ultimi decenni, costituiscono una conferma diretta o indiretta delle origini di questo orientamento filosofico e delle sue caratteristiche più intrinseche ed autentiche, al di là di una caratterizzazione – simpatetica o critica – in termini di concetto d’epoca, maturato sullo sfondo della scientificità moderno-contemporanea, e connesso a esigenze di produttività materiale con mezzi tecnici. Va anzi rilevato che molto dello spirito del P. è da porre in relazione all’opposta esigenza di dare alla strumentalità razionale e tecnica il più ampio respiro di una ricerca sul senso ultimo e radicale dell’agire umano.

Bibliografia

Papini G.,​​ P.,​​ Firenze, Vallecchi, 1920; Ayer A. J.,​​ The origins of pragmatism. Studies in the philosophy of C.S. Peirce and W. James,​​ San Francisco, Freeman, 1958; Bosco N.,​​ La filosofia pragmatica di C.S. Peirce,​​ Torino, Edizioni di Filosofia, 1959; Santucci A.,​​ Il​​ P. in Italia,​​ Bologna, Il Mulino, 1963; Roggerone G. A.,​​ W. James e la crisi della coscienza contemporanea,​​ Milano, Marzorati,​​ 21967; Santucci A. (Ed.),​​ Il​​ P.,​​ Torino, UTET, 1970; Sini C.,​​ Il P. americano,​​ Bari, Laterza, 1972; Murphy J. P.,​​ Il p., Bologna, Il Mulino, 2001.

A. Granese




PRATICHE EDUCATIVE

 

PRATICHE EDUCATIVE

Le p.e. sono forme coerenti e complesse di p. umana collaborativa, attuate in un contesto sociale, caratterizzate da specifica intenzionalità formativa. Una p.e. è di conseguenza guidata teoreticamente, storicamente e culturalmente da ideali di bene da perseguire in favore di coloro ai quali è rivolta (Pellerey, 1999) e si distingue da p. umane di altro tipo per la coerenza che segue rispetto alla definizione di​​ ​​ educazione dalla quale trae ispirazione.

1. Le p.e. possono descrivere il senso della cultura civile di un gruppo, di una società, di una popolazione, di una nazione. Ad es., P. Freire (2004) sottolinea come la p.e. esige dei saperi necessari e obbliga a rivisitare l’etica e l’estetica dell’insegnamento, l’«agire» educativo, il rigore metodologico, la ricerca, il rispetto delle diversità etniche e culturali, l’accettazione della novità e della critica… per affermare che questi aspetti si ritrovano nella fase di osservazione della p.e. stessa. In altre parole, più semplicemente, l’espressione «p.e.» si usa in senso generale per indicare l’attività in quanto insieme di azioni e di influenze di insegnamento, condotta da un insegnante a favore di studenti in un luogo per un certo periodo di tempo, al fine di promuovere lo sviluppo e la crescita di abilità, comportamenti, conoscenze.

2. Spesso le buone p.e. seguono modelli (sistemi o metodi) educativi di riferimento all’interno dei quali si possono individuare concetti e principi che riguardano livelli logici differenti che coinvolgono il piano scientifico, quello operativo o progettuale, ecc. Tra le espressioni che possono assumere un significato analogo a p.e. si trovano il «fare educativo» o il «fatto educativo». Inoltre non è infrequente sentire trattare di p.e. quando una istituzione scolastica indica le prassi, le consuetudini, le tradizioni e le innovazioni che la caratterizzano. In tal contesto si producono p.e. nel significato di documentazione di qualità che spesso una istituzione di tipo scolastico o formativo ritiene importante ai fini della propria certificazione, autovalutazione o promozione.

3. In ultima analisi l’espressione «p.e.» per alcuni può essere impropriamente usata per descrivere e presentare esperienze didattiche o metodologie che rispondono a requisiti di qualità svolte in un contesto istituzionale. Questo significato negli ultimi anni è stato talvolta anche attribuito all’espressione «buone prassi», o «buone p.» (best practices), che soprattutto all’interno di una struttura pone un accento particolare agli aspetti più di cultura organizzativa, di collaborazione tra esperti in didattica o in metodologica di successo.

Bibliografia

MacIntyre A.,​​ After virtue.​​ A study in moral Theory,​​ Notre Dame, University of Notre Dame Press, 1981; Guardini R.,​​ Le età della vita. Loro significato educativo e morale, Milano, Vita e Pensiero, 1986; Pellerey M.,​​ L’agire educativo. La p. pedagogica tra modernità e postmodernità, Roma, LAS, 1988;​​ Meirieu P.,​​ Le choix d’éduquer, Paris,​​ ESF, 1991; Macario L.,​​ Imparare a vivere da uomo adulto. Note di metodologia dell’educazione, Roma, LAS, 1993; Meirieu P.,​​ La pédagogie entre le dire et le faire, Paris, ESF, 1995; Lombardo P.,​​ Educare ai valori, Verona, Vita Nuova, 1996; Pellerey M.,​​ Educare. Manuale di pedagogia come scienza pratico-progettuale, Roma, LAS, 1999; Milani L.,​​ Competenza pedagogica e progettualità educativa, Brescia, La Scuola, 2000; Freire P.,​​ Pedagogia dell’autonomia,​​ Torino, Ega, 2004.

M. Bay




PREADOLESCENZA

 

PREADOLESCENZA

L’età situata tra la fine della fanciullezza (​​ fanciullo) e l’inizio dell’​​ ​​ adolescenza vera e propria è una fase di transizione particolare che presenta aspetti di difficile interpretazione e pone soprattutto problemi educativi e sociali di notevole rilevanza.

1.​​ Il​​ segmento p. nell’arco evolutivo.​​ Non più bambini e non ancora adolescenti: ecco la condizione dei ragazzi dai 10 ai 14 anni. Su di loro è concentrata una mole di interventi educativi che è senza pari in qualsiasi altra fase dell’intero arco evolutivo. Eppure il mondo psicologico della p. appare ancora un «continente sommerso». La p. infatti, usualmente poco nota come periodo a se stante, sembra indicare una fascia d’anni piuttosto fugace, un’età dai confini incerti e con «crescite» più nascoste che appariscenti. In concomitanza con l’evoluzione puberale, si assiste (lungo il breve volgere di 3-4 anni) ad un susseguirsi di profonde e rapide trasformazioni fisiche, psicologiche e sociali che segnano in modo globale e irreversibile lo sviluppo della personalità. È l’età delle grandi «migrazioni». Tra esse ricordiamo: l’addio al corpo del bambino, con lo sviluppo fisico e puberale; l’uscita dalla famiglia e l’entrata nel mondo dei coetanei; la crisi della «religione di chiesa», con la caduta di appartenenza e l’avvio ad una religiosità più soggettiva e personalizzata; la «presa delle distanze» dalla scuola, con crescente aumento (per ampie fasce di soggetti) della demotivazione all’apprendimento; il passaggio lento e graduale dalla logica operativa a quella formale; il transito dalle identificazioni ad un primo avvio verso l’identità personale e sociale.

2.​​ La configurazione attuale della p.​​ La p. oggi sembra delinearsi per le seguenti caratteristiche: è un’età caratterizzata da un movimento di uscita dalla famiglia e da uno di «entrata nel mondo sociale»; è una nuova età di scoperta; rappresenta una fase di nuova relazionalità amicale; è ancora un’età di multiforme dipendenza; si configura come «transito dalle identificazioni verso l’identità»; in essa la progettualità è in un timido avvio; lo​​ ​​ sviluppo morale​​ appare ancora in bilico fra eteronomia ed autonomia. Il preadolescente pone problemi alla società e alle istituzioni perché dispone di una identità frammentata e disarmonica. È un soggetto disarmonico in quanto le principali dimensioni dello sviluppo sono anticipate o posticipate rispetto all’età cronologica. La crescita non arriva cioè in modo sincronico, ma si instaura in una disparità di tempi, in una «asincronicità» tra aspetti dello sviluppo. In questa disarmonia evolutiva appaiono precoci o anticipate le dimensioni dello sviluppo percettivo, psicomotorio, sociale e affettivo-sessuale, mentre risultano in ritardo alcuni aspetti dello sviluppo logico, in particolare lo spirito critico, e quello morale e religioso. Tuttavia in forza di un sistema di accomodamento dinamico, tipico di tutte le situazioni in forte crescita, il preadolescente dispone di un notevole potere di recupero e adattamento. Un’età come questa godeva tradizionalmente di «buona salute». Oggi, per una certa percentuale di soggetti, essa è esposta al rischio di molteplici forme di disadattamento. Il mancato adattamento inizia in famiglia, prosegue nella scuola, si accentua nei gruppi sociali di riferimento e può confluire in forme di devianza che aumenteranno durante l’adolescenza. È per questa ragione che l’accompagnamento educativo a questa età deve essere mirato ed accurato, avere obiettivi specifici e disporre di metodologie atte alla​​ ​​ prevenzione e al​​ ​​ recupero.

3.​​ Le «domande» dei preadolescenti alle​​ ​​ istituzioni educative.​​ Indagini psico-sociologiche indicano che i preadolescenti chiedono alla famiglia: dialogo educativo più ampio e profondo; spinta all’autonomia, non iper-protezione o negazione delle energie e risorse dei ragazzi; educazione affettiva e sessuale e non silenzio o trascuratezza; guida spirituale nel cammino della crescita e non solo soddisfacimento dei bisogni puramente materiali; orientamento nelle scelte non solo scolastiche ma culturali ed esistenziali. Alla scuola i preadolescenti chiedono: ambiente di vita e di educazione, non solo luogo dove si può fare istruzione; accoglienza di tutte le esigenze della crescita; un insegnante autorevole, educatore, modello di riferimento; stimolo alla creatività e non solo acquiescenza ripetitiva di apprendimenti codificati; educazione sessuale vera e propria e non solo parziale e sporadica informazione; valorizzazione positiva della persona e non valutazione del rendimento scolastico; orientamento scolastico e professionale continuato e strutturato, e non solo episodico e frammentato, in vista delle «preiscrizioni». Similmente alla comunità ecclesiale (​​ Chiesa) i preadolescenti chiedono un’iniziazione cristiana «vitale» e non formale o ritualistica; protagonismo effettivo, con assunzione di compiti e responsabilità compatibili con l’età e non solo passività e dipendenza; una catechesi esperienziale che inserisca il vangelo e i sacramenti nella vita; un inserimento comunitario che faccia sentire i ragazzi parte importante e viva dell’intera comunità. Agli animatori dei gruppi i preadolescenti chiedono: guida educativa vera e propria e non solo assistenza passiva o stimolo esteriore; sostegno affettivo, cioè sentirsi amati, stimati, incoraggiati a livello profondo, come persone in una delicata fase della vita; creatività per superare la routine dell’ambiente materialistico e consumistico di vita e per affrontare prospettive di sviluppo secondo le doti e le inclinazioni di ciascuno; coinvolgimento operativo e non pura e semplice esecutività, stimolando l’autonomia, lo spirito di iniziativa e di partecipazione a progetti elaborati insieme. Nei confronti della comunità civile i preadolescenti avanzano richieste di attenzione e ascolto alle proprie aspirazioni e inclinazioni di ragazzi; di prevenzione sociale delle forme di degrado ambientale e del disadattamento sociale; di uso educativo e non solo consumistico dei mass media, con iniziative mirate specificamente alle esigenze della formazione integrale; di spazi per lo sport e l’espressività ludica e sociale; di centri educativi per incrementare le forme associative e rispondere ai bisogni non solo del recupero ma soprattutto dell’educazione sociale.

4.​​ Per una pedagogia della p.​​ Nel contesto culturale e pedagogico attuale è necessario accogliere la p. come età specifica, distinta dalla fanciullezza e dall’adolescenza e connotata di caratteristiche evolutive proprie. Non più dunque «età negata», ma riconosciuta, valorizzata e incrementata secondo i compiti di sviluppo tipici di una importante e fondamentale stagione della vita. Nella comunità e nelle istituzioni occorre considerare e valorizzare i preadolescenti come soggetti sociali importanti e attivi, dando loro la parola, accogliendo le loro richieste, stimolando iniziative che possono essere affrontate e compiute anche da loro a favore della comunità. Alla disarmonia e frammentazione dell’età deve far fronte un progetto educativo unitario e unificante, per facilitare un cammino meno disagiato e rischioso nella costruzione dell’incipiente identità. Educare, a questa età, vuol dire il più delle volte animare, far cioè crescere stimolando l’interesse, la partecipazione e il coinvolgimento dei ragazzi stessi, in modo che non siano concepiti come soggetti passivi, bensì come attori e in molti casi anche protagonisti del loro divenire. Infine occorre tenere vigile e sostenere la dimensione dell’orientamento: è un’età infatti che prefigura il futuro della persona, età di intuizioni e di desideri, in cui non si chiede di decidere il futuro personale, professionale, esistenziale, ma di mettere le basi (i «prerequisiti») per le scelte future attraverso le piccole decisioni di ogni giorno.

Bibliografia

Cospes (Ed.),​​ L’età negata,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1986; De Pieri S. - G. Tonolo,​​ P. Le crescite nascoste,​​ Roma, Armando, 1990; Tonolo G. - S. De Pieri,​​ Educare i preadolescenti,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1990; De Pieri S.,​​ Preadolescenti tra domanda e risposta,​​ in «Note di Pastorale Giovanile» 26 (1992) 4, 72-80; Secchiaroli G. - T. Mancini,​​ Percorsi di crescita e processi di cambiamento. Spazi di vita,​​ di relazione e di formazione dell’identità dei preadolescenti,​​ Milano, Angeli, 1996; Della​​ giulia A. - P. Gambini,​​ L’influenza delle relazioni familiari sull’avvio della costruzione dell’identità,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 52 (2005) 951-974; Maggiolini A. (Ed.),​​ P. e antisocialità. Prevenzione e intervento nella scuola media inferiore,​​ Milano, Angeli, 2005; D’Alessio M. - R. Baiocco - F. Laghi F.,​​ I modelli in tv: quale influenza sui preadolescenti?​​ Congresso Nazionale della Sezione di Psicologia dello Sviluppo, AIP, Verona, 15-17 settembre 2006;​​ Televisioni e minori. Benefici e rischi. Valutazioni giuridiche,​​ mediche,​​ psicologiche, Roma, Società Italiana di Pediatria, 2007; D’Alessio M. - F. Laghi,​​ La p. Identità in transizione tra rischi e risorse, Padova, Piccin-Nuova Libreria, 2007; Gambini P.,​​ La sfida educativa dei preadolescenti, in «Pedagogia e Vita» (2007) 2, 89-110.

S. De Pieri




PREGIUDIZIO

 

PREGIUDIZIO

In senso filosofico p., specie dopo la fenomenologia e l’ermeneutica, è venuto a significare il mondo delle conoscenze previe, spesso allo stato di ovvietà, che precedono la presa di coscienza o la categorizzazione concettuale e con cui partiamo a «leggere» e «comprendere» la realtà, i fatti, gli eventi e le persone. In senso comune tuttavia il p. è un’immagine mentale con connotazioni affettive di segno negativo verso un gruppo o una persona esterna fondato sugli​​ stereotipi​​ o immagini che ognuno si fa nella propria mente di persone e gruppi. Dai p. possono derivare dei modi di agire particolari non desiderati dalle persone e gruppi; a questi modi di agire viene dato il nome di​​ discriminazioni.​​ Quando i p. non riflettono né le capacità e i meriti individuali né i comportamenti di persone o gruppi specifici, allora sfociano in attività discriminatorie che negano ai gruppi e alle persone la parità di trattamento e diventano strumenti di incomprensione, di divisione e di conflitto.

1.​​ Origine dei p.​​ Secondo le teorie coercitive i p. deriverebbero da processi di competizione tra i gruppi a causa della scarsezza di risorse (Campbell, 1965; Sherif, 1967); la minaccia esterna nei riguardi delle risorse disponibili avrebbe l’effetto di potenziare la solidarietà del gruppo o della persona minacciata. Altri sostengono che i processi di discriminazione dovuti ai p. potrebbero sorgere anche nella completa assenza di conflitto e conseguente coercizione: lo​​ ​​ status del gruppo di appartenenza sarebbe uno strumento importante per l’attuazione e il mantenimento dell’identità sociale. Quindi si attuerebbero processi di p. per fuggire dai gruppi di basso status e di rafforzamento dello status dei gruppi accettati. I favoritismi verso il proprio gruppo d’identificazione aiuterebbero ad operare appropriate differenziazioni dal gruppo esterno. Il denaro disponibile potrebbe essere una dimensione importante per il confronto tra i gruppi. Secondo le teorie dell’apprendimento sociale i p. sarebbero il risultato di​​ ​​ apprendimento, di effettiva osservazione di ruoli e differenze presenti nei gruppi o derivanti da influenze di mass media, della scuola, dei genitori e dei coetanei. A queste spiegazioni interpersonali si possono contrapporre o aggiungere spiegazioni intrapersonali di natura psicologica. Secondo le teorie psicodinamiche, che danno peso agli aspetti motivazionali, il p. e quindi lo stereotipo, sarebbe il risultato di conflitti e di disadattamento nella psiche della persona; e pertanto rappresenterebbe il sintomo di profondi conflitti di personalità. Ad es. secondo la teoria del capro espiatorio, l’aggressività verso il gruppo esterno, sarebbe uno spostamento dell’aggressività da un frustratore potente, una fantasia dentro la mente, verso un inerme gruppo minoritario. Le teorie cognitiviste danno maggiore importanza alla limitatezza della mente umana a gestire i processi informativi. Tali limiti provocano fallimenti in ambito percettivo e cognitivo e quindi valutazioni errate dei fatti. Di qui nascerebbero correlazioni illusorie, cioè il vedere coincidenze tra particolari caratteristiche visibili perché sono meno comuni. Ad es. sarebbero particolarmente visibili i comportamenti negativi rispetto a quelli positivi o i gruppi minoritari rispetto ai gruppi di maggioranza; per cui più facilmente si attribuirebbero ai gruppi minoritari le caratteristiche negative. Secondo un modello di categorizzazione-individuazione le persone si formerebbero delle impressioni partendo da categorizzazioni sommarie per allargarle poi muovendosi lungo un continuo che va verso il reperimento di informazioni individuanti che permettono maggiori distinzioni. Gli aspetti referenziali usati per creare le impressioni di partenza, che servono per definire e organizzare gli altri attributi, costituiscono l’etichetta categoriale; gli altri aspetti referenziali costituiscono gli attributi. L’etichetta​​ richiamerebbe dalla memoria caratteristiche con essa collegate e influenzerebbe in modo sproporzionato il processo di formazione delle impressioni prima ancora che si abbiano informazioni specifiche sulle persone e sui gruppi. Di tali modalità e processualità si avrebbe cospicua espressione nell’etichettamento​​ di una persona, «bollata» ad es. come deviante, tossicodipendente, contestatrice, «bastian contraria». Secondo la teoria della congruenza dei valori e delle convinzioni, i membri dei gruppi esterni sarebbero discriminati e rifiutati non sulla base della presenza di convinzioni e atteggiamenti e valori diversi o in disaccordo con i propri. Secondo questo modo di vedere, il p., e poi la discriminazione, sarebbero una derivazione abbastanza diretta degli stereotipi. L’assenza di certi valori, o profonde diversità nella gerarchizzazione dei valori, porterebbe alla delegittimazione di persone o gruppi fino al punto di considerarli non più umani e quindi non più meritevoli di essere trattati come tali.

2.​​ P. e intervento educativo.​​ Secondo le teorie cognitive sembrerebbe che un intervento correttivo per attutire le conseguenze negative del p. richiede di​​ informare,​​ perché alla base delle tensioni tra gruppi e persone ci sono gli stereotipi causati soprattutto dall’ignoranza e dalla disinformazione. Una condizione necessaria per generare comprensione e valutazione positiva tra i gruppi è che i membri di essi capiscano le reciproche caratteristiche culturali attraverso un’adeguata informazione, soprattutto con l’aiuto dei mezzi di comunicazione di massa e del sistema educativo. Altri ritengono che l’approccio informativo sia insufficiente e che sia importante tener conto dei modelli di apprendimento diretto attraverso il​​ contatto​​ e l’incontro​​ per conoscersi e capirsi (Allport, 1954). Dalle concezioni psicodinamiche il correttivo deriverebbe dall’affrontare sistematicamente nelle persone i conflitti intrapsichici e quindi occorrerebbe presentare programmi per raggiungere l’obiettivo di cambiare le persone nel loro mondo psichico attraverso la comprensione di se stessi e della propria mentalità; strumenti importanti sarebbero la​​ ​​ psicoterapia e i gruppi di formazione. Le teorie coercitive infine presuppongono un correttivo attraverso l’attuazione della giustizia sociale.

Bibliografia

Allport G. W.,​​ The nature of prejudice,​​ Reading, Addison Wesley, 1954; Campbell D. T., «Ethnocentric and other altruistic motives», in D. Levine (Ed.),​​ Symposium on motivation,​​ Lincoln, University of Nebraska Press, 1965; Sherif M.,​​ Group conflict and cooperation,​​ London, Routledge and Kegan, 1967; Schwartz S. H. - N. Struch,​​ «Values, stereotypes, and intergroup antagonism», in D. Bar-Tal et al.​​ (Edd.),​​ Stereotyping and​​ prejudice: Changing conceptions,​​ New York, Springer, 1989; Scilligo P., «L’incontro tra persone e gruppi: aperture e barriere», in C. Nanni (Ed.),​​ Intolleranza,​​ p. e educazione alla solidarietà,​​ Roma, LAS, 1991; De Caroli E.,​​ Categorizzazione sociale e costruzione del p., Milano, Angeli, 2005.

P. Scilligo




PREMI

 

PREMI

Insieme ai​​ ​​ castighi, entrano nei​​ ​​ mezzi educativi come binomio classico per motivare o rinforzare il consenso educativo, promuovere maggiore impegno, generalmente in stretto riferimento con i​​ ​​ valori educativi. Tale rapporto è indebolito oggi in molta educazione, specie in quella familiare, per il largo uso di incentivi legati al consumo, all’edonismo, al piacere, nel migliore dei casi al successo, ma per lo più alla richiesta di prestazioni «dovute»: spesso in sostituzione di reale vicinanza e​​ ​​ impegno educativo genitoriale.

1. Il p. può essere un’aggiunta a sorpresa; può essere una gratificazione abbinata al conseguimento di un risultato che viene voluto in relazione al p. Esso può costituire il motivo del fare, può semplicemente evidenziarne, sostenerne, dichiararne il valore. Il massimo potenziale educativo viene liberato quando la stessa attuazione assume la qualifica di p. per averlo eseguito o conseguito con e per il suo stesso valore intrinseco, oggettivo, soggettivo, personale. Ma, come si è accennato, se inflazionato ed estrinseco, può non aiutare a penetrare e fissare il valore dell’impegno educativo, anzi può risultare fuorviante e riduttivo se non eticamente e educativamente negativo. La stessa critica vale anche se la tensione premiante è concentrata su contenuti e fini diretti, quando questi rispondono a una concezione gretta di sé e della vita, individualistica e privatistica, materialista, consumista, di potenza e dominio, di emergenza fatua.

2. La pedagogia del p. rientra all’interno di un’antropologia generale, vale a dire di una visione globale della vita e della condotta, e all’interno di essa, di che cosa è educativo della persona. P. collaterali di natura piacevole, utile, affettiva, concessiva, possono essere ammessi se iniziali, ma transitori e parziali rispetto alla promozione di un’esperienza motivante di p. connessa con il conseguimento degli esiti validi e vitali personali, sociali, culturali, etici, religiosi, unica connessione sostanzialmente educante. È educativo premiare anche l’intenzione e l’impegno, riconoscendo che il valore personale non è unicamente limitato all’esito. Sono p. educanti il riconoscimento e la lode, il dono di stima, fiducia, responsabilità a chi fa qualsiasi cosa buona. Si può tacere il biasimo, mai la lode. Al di là dell’utopia del dovere puro, la pedagogia cristiana accetta i p. del risultato, del compimento di sé, del riconoscimento sociale, della soddisfazione personale. Anche in rapporto ai p. è importante essere educatori coerenti, costanti, giusti nella distribuzione.

Bibliografia

Froidure E.,​​ P. e castighi nell’educazione giovanile,​​ Torino, SEI, 1963;​​ Zulliger H.,​​ Helfen und Strafel,​​ Stuttgart, Klett,​​ 1965; Ducati A.,​​ P. e castighi, Milano, Anonima Edizioni Viola, [s.d.].

P. Gianola




PREVENZIONE

 

PREVENZIONE

La p. è un aspetto della metodologia educativa che tende a preservare le giovani generazioni da carenze rilevanti sul piano della strutturazione della personalità e della socializzazione e che inoltre mira ad individuare eventuali fattori di rischio nello sviluppo evolutivo del soggetto al fine di evitare l’insorgere di comportamenti disadattanti, come l’assunzione di droghe e alcool, atti di vandalismo, abbandono scolastico (​​ dispersione scolastica), passività nei confronti dei​​ ​​ mass-media, disturbi psichici, condotte suicidarie (​​ suicidio). Etimologicamente il termine​​ pre-venio​​ può assumere più significati. In questo contesto, facciamo riferimento a due di essi in particolare: 1) arrivo prima; 2) anticipo, impedisco, ostacolo, evito qualcosa che ritengo comunque negativo e pericoloso. La p. si colloca in una dimensione temporale di tipo lineare e, specie nella seconda accezione, sembra nascere da finalità negative esplicitandosi attraverso azioni di controffensiva, di sfida contro qualcosa o qualcuno che non è manifesto ma di cui si ipotizzano scenari futuri.

1.​​ Riferimenti storici.​​ La p. affonda le sue radici nell’origine stessa del Cristianesimo, il cui influsso si è esteso, soprattutto nella cultura occidentale, nel corso dei secoli. È però nell’Ottocento che, sia a causa della traumatica esperienza della Rivoluzione francese e sia a motivo del sovvertimento dell’ordine antico causato da Napoleone, l’Europa sembra orientarsi con decisione verso l’idea «preventiva». E la p. investe il campo​​ politico​​ come orientamento a restaurare l’antico, conservando però quanto di positivo avevano portato i tempi nuovi; entra nel tessuto​​ sociale,​​ esprimendosi in una molteplicità di interventi a favore dei poveri (ospedali, istituti per vecchi, vedove, orfani...); propone in campo​​ penale​​ principi e sensibilità nuove (si pensi ad es. a C. Beccaria per il quale è meglio prevenire i delitti che punirli...). Ma in modo ancor più chiaro la p. tende a identificarsi con l’idea stessa di​​ ​​ educazione che è p. prima ancora della modalità di approccio metodologico: preventivo appunto o repressivo. In questo contesto la​​ ​​ religione che da sempre, almeno come tensione ideale, aveva fatto suo questo approccio, viene identificata come mezzo privilegiato di p. personale e sociale, garanzia di ordine e di pace. Don​​ ​​ Bosco ne diventa uno dei rappresentanti più significativi, sia per la sua personalità che per la sua attività. Emblematico il suo scritto sul​​ ​​ sistema preventivo.

2.​​ Attività e obiettivi.​​ L’attività preventiva in campo educativo si esplica attraverso opere di informazione e divulgazione scientifica ma soprattutto di carattere formativo (intendendo con ciò l’instaurarsi di un rapporto tra individuo-individuo o individuo-oggetto che si influenzano reciprocamente interagendo in un determinato contesto storico ed ambientale). In tal senso la p. deve essere intesa come un atto che si fa «con» i destinatari dell’intervento e non «per» loro (da una concezione lineare della p. ad una circolare o processuale); nella p., pertanto, l’azione deve essere sinergica e non è pensabile la delega. Gli obiettivi verso i quali agire (individuazione ed integrazione degli indicatori di rischio, dei fattori protettivi, miglioramento della qualità di vita) devono essere esplicitamente condivisi dai soggetti che vi partecipano (giovani educatori, utenti, operatori, collettività); obiettivo ultimo è il miglioramento della condizione esistenziale dei giovani nella prospettiva di un loro maggior benessere ma, a differenza del concetto di cura, il benessere perseguito nell’ambito dell’educazione è simultaneamente di due destinatari diversi: la persona bisognosa e la collettività. L’idea di​​ ​​ benessere sottesa infatti considera la persona nella sua globalità e interezza, non nella parte malata da curare. Nel contempo si prefigge di evitare che altri membri della collettività si possano trovare in simili situazioni di disagio o possano, in qualche misura, avere ricadute negative, incappare in condizioni sfavorevoli determinate dall’azione del soggetto in difficoltà.

3.​​ Livelli di p.​​ La ricerca di indicatori di rischio capaci di offrire elementi utili ad una classificazione e definizione di possibili percorsi preventivi, pone in evidenza la necessità di operare una distinzione terminologica e di contenuto di diversi possibili livelli entro i quali collocare un progetto mirato. A ciascun livello corrispondono obiettivi, caratteristiche, metodologie e destinatari diversi che ne determinano il segno e l’andamento, pur non dovendoli considerare in maniera statica e chiusa.

3.1.​​ Primo livello: p. potenziale o promozione.​​ In esso si colloca ogni tipo di intervento capace di influire in modo positivo sulla qualità della vita giovanile promuovendo salute, cultura, socializzazione. Entra in gioco la definizione di un quadro di riferimento di più ampio respiro rispetto a quello della pura p.: la promozione. Promuovere vuol dire infatti un andare da qualche parte, probabilmente attraverso cammini sconosciuti, un fare per, ma anche un fare con, orientato alla costruzione di qualcosa che non è preesistente. Nel «promuovere» restano ostacoli e il problema di trovare delle vie per affrontarli o aggirarli; ma diventa importante il di-venire, da dove e in che modo si arriva a certi appuntamenti: il «pro» diviene premessa e orientamento. Rientrano in questa categoria le attività di carattere sportivo, ricreativo, culturale o di socializzazione generica rivolte a minori e / o giovani, e i problemi di aggiornamento generale rivolti ad adulti che rivestono un ruolo educativo.

3.2.​​ Secondo livello: p. specifica del disadattamento.​​ Ad esso corrispondono interventi legati a progetti mirati su fattori di disagio personale e / o sociale che possono favorire l’instaurarsi di situazioni di disadattamento e devianza giovanile. Appartengono a questa categoria servizi e interventi volti ad alleviare condizioni di deprivazione culturale, affettiva e sociale e ad orientare la persona in fasi e momenti di cambiamento cruciale.

3.3.​​ Terzo livello: p. specifica primaria.​​ In essa si collocano interventi centrati su fattori-rischio tipici dei fenomeni di dipendenza giovanile. A questa categoria appartengono i progetti di educazione alla salute, di sensibilizzazione e formazione orientati all’uso di sostanze, alla manipolazione del corpo, ecc., promuovendo nell’individuo senso critico, maturità affettiva, autonomia di pensiero e azione, ecc.

3.3.​​ Quarto livello: p. specifica secondaria.​​ In essa si situano interventi rivolti direttamente a soggetti già coinvolti, in diverso grado, in situazioni ormai compromesse, in qualche «subcultura deviante» (es. consumatori o ex-consumatori di droghe, consumatori di alcool, attori di episodi legati alla microcriminalità, ecc.). Fanno capo a questa categoria attività di carattere psicologico come il​​ ​​ counseling, il sostegno psicopedagogico, la risocializzazione, la psicoterapia breve, e attività di carattere sociale volte a prevenire processi di stigmatizzazione ed emarginazione, come ad es. il reinserimento lavorativo e le iniziative di aggregazione.

4.​​ I​​ modelli.​​ Se nell’ambito della p. sanitaria è possibile individuare un buon livello di elaborazione teorica ed una specifica identificazione di differenti procedure metodologiche, non altrettanto è possibile fare a proposito del tema p. nell’ambito delle scienze sociali e dell’educazione. In esso, infatti, l’introduzione di tale concetto e la conseguente metodologia sono di recente concezione e definizione; come sostiene Colecchia (1995), la ricerca in campo psicosociale non ha ancora raggiunto livelli di definizione chiara circa le tipologie dei comportamenti a rischio che possono provocare, a breve o a lungo termine, effetti nocivi per il soggetto che li metta in atto. La natura stessa del periodo evolutivo in cui sono coinvolti i soggetti a cui è rivolta l’attività di p., è all’origine delle difficoltà di definizione esatta non solo dei comportamenti indicatori di disagio, ma anche delle relative strategie preventive attuabili. I modelli interpretativi dei fenomeni di disagio giovanile e le corrispondenti strategie preventive, possono essere tanti quanti i potenziali destinatari per cui occorre fondamentalmente creare chiarezza intorno all’approccio teorico che si intende utilizzare. Generalmente contemplano al loro interno differenti prospettive ed approcci. È da pensare ad una​​ prospettiva medico-biologica​​ entro l’apporto specifico dell’istituzione scolastica con attenzione puntata sull’individuazione precoce e di recupero dei casi più conclamati. Così pure occorre certamente un​​ approccio psicologico,​​ in cui l’attenzione è centrata sulla ricerca di meccanismi che si trovano alla base dei rapporti distorti fra l’individuo e la collettività, l’individuo e le cose, gli oggetti di consumo, l’individuo e le figure genitoriali ecc. L’indagine è cioè portata più che sugli agenti manifesti del disagio, sulle latenti disfunzioni psichiche cui è andato incontro il soggetto. Né si può trascurare un​​ approccio sociologico,​​ in cui l’attenzione è volta alla ricerca delle motivazioni e dei disagi individuali posti in relazione con il contesto sociale e culturale all’interno del quale l’individuo si colloca. Anche se in genere a ciascun approccio corrisponde un modello di p., non si dimostra di alcuna efficacia il considerarli come interpretazioni contrastanti o escludentesi. Appare invece meno riduttivo utilizzare alcune categorie concettuali capaci di offrire letture più integrali ed integrate dell’idea di p. e della sua possibile progettualità. Ciò comporta aver chiari: in primo luogo la rappresentazione che si ha dell’oggetto verso il quale si intende volgere la propria attenzione (droga, dispersione scolastica, microcriminalità, televisione, ecc.); in secondo luogo l’area d’intervento verso cui si vuole orientare la propria iniziativa (il singolo, la comunità ecc.); in terzo luogo i contenuti dell’intervento (promozione di cambiamenti di ordine culturale, psicologico, sociale); in quarto luogo le finalità «negative» (evitare i processi di emarginazione sociale, intervenire precocemente su fattori che potrebbero dar luogo a comportamenti autodistruttivi); infine le finalità «positive» (creazione di opportunità più consone ai bisogni dei giovani e capaci di favorirne una più concreta ed attiva integrazione nella società adulta). I più recenti orientamenti preferiscono puntare sugli elementi positivi attraverso il rinforzo delle doti e competenze dell’individuo (empowerment,​​ coping, autoefficacia, ecc.), favorendo un ambiente positivo che favorisca lo sviluppo di tali capacità. Pertanto, anche a livello metodologico, la p. richiede che, accanto ai fattori di rischio, da combattere o contenere, si sviluppi una corrispondente analisi dei fattori protettivi, su cui far leva per migliorare la situazione. Ciò significa sostenere la prosocialità più che combattere l’antisocialità. Da una filosofia che tende a contenere e gestire i rischi ad una che vuole promuovere e migliorare le condizioni di partenza e le risorse iniziali del ragazzo, che guarda con favore alle potenzialità attuali che il ragazzo possiede.

5.​​ La metodologia.​​ In tal senso l’obiettivo ultimo di una p. davvero efficace dovrebbe essere quello di produrre un​​ cambiamento​​ sia a livello individuale che sociale in cui i punti di riferimento costanti siano: la dimensione temporale (perché un progetto di p. sia davvero tale occorre un lasso di tempo mediamente lungo, seppur delimitato, capace di garantire la piena attuazione e di consentire l’operare di opportune verifiche in tappe intermedie); la dimensione della consapevolezza (ogni progetto mirato di p. deve avere chiari e definiti gli obiettivi che intende perseguire, deve sforzarsi di conoscere al meglio la realtà su cui intende intervenire ma soprattutto non deve considerare «oggetto passivo» coloro verso e per i quali il progetto è studiato); e la dimensione della coerenza (verso se stessi, verso il giovane e verso il progetto). D’altro canto lo stesso termine p. richiama ad una idea concreta centrata sul​​ fare,​​ sulla pratica attiva, sul coinvolgimento e l’interazione tra colui che propone (educatore) e colui che indica la strada sulla quale immettersi per raggiungerlo in maniera reale e totale (educando), in un continuo​​ feedback​​ fatto di regressioni e avanzamenti, di aggiustamenti e ripensamenti che ne garantiscono la qualità e l’autenticità. Ogni progetto di p. / promozione si prefigge di combattere un nemico che sa di non poter sconfiggere totalmente ma che spera di indebolire attraverso il «rinforzo», inteso come l’elaborazione di strategie non distruttive e di soluzione dei problemi, che può offrire al giovane in fase evolutiva. Potremmo perciò concludere affermando che​​ proprium​​ della pedagogia è la p. in quanto coincidente con l’azione educativa, cioè con il «venire prima», e con l’essere efficace attraverso una connotazione positiva che offra al giovane l’opportunità di realizzare il più compiutamente possibile il suo progetto di vita.

Bibliografia

Braido P.,​​ Breve storia del «sistema preventivo»,​​ Roma, LAS, 1993; Regoliosi L.,​​ La p. del disagio giovanile, Roma, NIS, 1994; Id.,​​ La p. possibile,​​ Milano, Cortina, 1995; Colecchia N. (Ed.),​​ Adolescenti e p.,​​ Roma, Il Pensiero Scientifico, 1995; Braido P.,​​ Prevenire non reprimere. Il sistema educativo di don Bosco,​​ Roma, LAS, 2000; Milan G.,​​ Il disagio giovanile e strategie educative, Roma, Città Nuova, 2001; Cusson D. P. M.,​​ Prévenir la délinquance. Les méthodes efficaces, Paris, PUF, 2002; Farrington D. P. - J. W. Coid (Edd.),​​ Early prevention of adult antisocial behavior, Cambridge, CUP, 2003; Nizzoli U. - C. Colli (Edd.),​​ Giovani che rischiano la vita.​​ Capire e trattare i comportamenti a rischio negli adolescenti,​​ Milano, McGraw-Hill, 2004; Barbagli G. - U. Gatti,​​ Prevenire la criminalità, Bologna, Il Mulino, 2005.

D. Castelli - G. Vettorato




PROATTIVITÀ

 

PROATTIVITÀ

Gli psicologi umanisti lamentano che la persona dai comportamentisti e dalla​​ ​​ psicoanalisi è considerata prevalentemente come passiva, capace solo di reagire all’ambiente e agli impulsi inconsci. Essi ritengono invece che una descrizione realistica dei processi della condotta umana deve tener conto anche della capacità originale che il soggetto ha di progettare il proprio futuro. Nella voce​​ ​​ motivazione le due correnti, proattiva e reattiva, sono descritte con un qualche dettaglio.

1. La capacità di progettare si fonda principalmente sulla maturazione cognitiva, che prospetta alla persona orizzonti di​​ ​​ valori; questi possono venir percepiti come «beni per me», e diventare scopi della condotta. Come si vede, la p. è collegata alla teoria cognitiva della motivazione: gli autori che sottolineano la dimensione della p. si richiamano alla dimostrata forza motivante delle intenzioni e dei progetti a lunga portata. La p. può anche essere considerata come un tratto della personalità, e un indizio di maturità e sanità psichica: la condotta proattiva è plastica, si adatta alla realtà, contrariamente alla rigida condotta reattiva; essa è accompagnata da un sentimento di gioiosa conquista, mentre in quella reattiva vi è rassegnazione a una costrizione interna o esterna; nella condotta proattiva gli altri e la realtà in genere sono visti come buoni e termine di possibile collaborazione, mentre la persona fondamentalmente reattiva si chiude in se stessa, nel tentativo di difendersi da un mondo esteriore ed interiore che percepisce come un minaccioso nemico.

2. La p. è perciò una dimensione che può essere utilmente tenuta in conto in psicoterapia, come avviene nella​​ ​​ logoterapia di​​ ​​ V. Frankl. Ma anche l’educazione viene qualificata dall’attenzione alla p., vista come fondamento del sentimento di responsabilità e di un impegno a lunga portata. In varie ricerche il test «Purpose in Life» (PIL, Uno scopo nella vita) di V. Frankl si è dimostrato un buon predittore di varie disposizioni che condizionano il raggiungimento di mete educative.

Bibliografia

Frankl V. E.,​​ Uno psicologo nei Lager,​​ Milano, Ares, 1967; Allport G. W.,​​ Psicologia della personalità,​​ Roma, LAS, 1977; Ronco A. - L. Piano,​​ L’atteggiamento dei giovani verso la morte,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 37 (1990) 296-313; Ronco A.,​​ Introduzione alla psicologia,​​ Roma, LAS, 1991.

A. Ronco




PROBLEM SOLVING

 

PROBLEM SOLVING

La capacità di saper affrontare problemi è da tutti riconosciuta come una manifestazione tipica dell’​​ ​​ intelligenza umana. Generalmente per problema si intende una situazione iniziale complessa da cui un individuo deve partire per raggiungere uno scopo trovando mezzi e strumenti idonei.

1. Il tema del p.s. non è certo di oggi e dall’inizio del secolo è stato affrontato da molti punti di vista. Vanno ricordate in particolare le riflessioni di​​ ​​ Dewey e di​​ ​​ Piaget. In questi ultimi anni l’approccio della psicologia cognitivista ha sviluppato un’ampia attività di ricerca con l’ausilio di metodologie anche nuove (ad es. la simulazione del processo di soluzione sul computer), ha esaminato il comportamento al variare della natura dei problemi e ha analizzato le differenze nelle competenze di esperti e non esperti.

2. Sono stati individuati diversi procedimenti euristici o strategie per la soluzione dei problemi. Uno di questi procedimenti consiste nel procedere in modo​​ casuale​​ verso la soluzione. Un esempio è dato dal modello di ricerca per prova ed errore non accompagnato dalla pianificazione dei tentativi effettuati, spesso seguito dai bambini. Un altro modo di procedere è quello di cercare una possibile strada che può condurre alla soluzione e percorrerla fino in fondo. Tuttavia in caso di difficoltà è sempre possibile in ogni momento ritornare indietro fino ad un certo punto e tentare di procedere da quel punto in avanti e così di seguito. Un altro procedimento euristico molto utilizzato è quello definito degli​​ strumenti​​ e​​ fini.​​ Esso si è dimostrato molto efficace quando si è voluto costruire un programma al computer capace di risolvere qualsiasi problema (il programma è generalmente conosciuto come GPS:​​ General P. Solver,​​ di Newell-Simon, 1969). Il procedimento consiste nell’osservare la situazione problematica e lo scopo da conseguire e selezionare un passo che riduce la distanza tra il punto iniziale e la soluzione. Questo modo di procedere alle volte è stato anche detto​​ ricerca a ritroso​​ o​​ in avanti.​​ Nel primo caso si parte dallo scopo e si seleziona l’operazione da svolgere per conseguirlo. Nel secondo si parte da una situazione iniziale e si sceglie la via per raggiungere lo scopo.

3. Nel corso delle ricerche sono stati proposti un certo numero di modelli e descrizioni di processi che vengono attivati per raggiungere la soluzione di un problema. Ne ricordiamo due particolarmente significativi in contesto pedagogico. Schoenfeld (1987) ha suggerito di insegnare quattro attività per migliorare la capacità di risolvere i problemi:​​ analizzare e comprendere il problema​​ disegnando un diagramma (quando possibile), esaminando casi specifici per esemplificare il problema e per esplorare la gamma di possibilità attraverso casi che lo circoscrivano al fine di trovare uno schema solutorio induttivo da un numero finito di casi, cercando di semplificare il problema attraverso un confronto che scopra la corrispondenza simmetrica tra gli uni e gli altri senza perdere di vista la globalità;​​ disegnare e pianificare una soluzione​​ gerarchicamente, sapendo spiegare in ogni momento che cosa si sta facendo, il perché e che cosa si vuol fare con quanto ottenuto;​​ esaminare le soluzioni date a problemi difficili​​ prendendo in considerazione dei problemi simili e prestando attenzione alle diversità riscontrate;​​ verificare la soluzione​​ ponendosi questi interrogativi: sono stati utilizzati tutti i dati? la soluzione è ragionevolmente conforme alle previsioni? poteva essere ottenuta in altro modo? Bransford e Stein (1984) parlano di cinque componenti (IDEAL): identificazione​​ (identifica l’esistenza di una situazione problematica);​​ definizione​​ (cerca di precisarla e di descriverla nel modo più accurato possibile);​​ esplorazione​​ (esplora le possibili soluzioni alternative: per fare questo spezza il problema in sottoproblemi più affrontabili, richiama casi speciali già incontrati, lavora a ritroso);​​ azione​​ (agisci sviluppando le ipotesi fatte);​​ osservazione​​ (osserva i risultati ottenuti dalle operazioni eseguite e se si adattano bene ai termini del problema).

Bibliografia

Polya G.,​​ How to solve it,​​ New York, Doubleday, 1957; Newell A. - H. A. Simon,​​ Human p.s.,​​ Englewood​​ Cliffs, Prentice-Hall, 1972; Bransford J. D. - B. S. Stein,​​ The IDEAL p. solver,​​ Belmonte, Wadsworth, 1984; Schoenfeld A.,​​ Cognitive science and mathematics education,​​ Hillsdale, Erlbaum, 1987; Smith M. U. (Ed.),​​ Toward a unified theory of p.s. Views from content domains, Ibid., 1991; Sternberg R. J. - P. A. Frensch,​​ Complex p.s.: principles and mechanisms,​​ Ibid., 1991; Mayer R. E.,​​ Thinking,​​ p.s.,​​ cognition,​​ New York, Freeman,​​ 21992.

M. Comoglio