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PIANO DI STUDI

 

PIANO DI STUDI

Per p.d.s. s’intende generalmente, almeno nella lingua it., l’insieme / elenco delle materie di studio corrispondenti ad un determinato titolo di studio. Perciò ogni grado e ordine scolastico ha il suo p.d.s. previsto per rispondere al raggiungimento di determinate finalità. L’espressione p.d.s., utilizzata anche a livello universitario, s’identifica spesso con il cosiddetto «curricolo di studi» rispondente alla specializzazione scelta, perseguito secondo un certo ordine, a volte scelto personalmente dallo studente e concordato con le autorità responsabili.

1. Non sempre tale termine viene utilizzato con una distinzione chiara nei confronti di​​ ​​ programmi scolastici e curricoli, perché, a seconda dei Paesi, variano leggermente la denominazione e la prassi secondo il sistema dell’amministrazione scolastica. Tuttavia, nella maggioranza dei casi, ogni p.d.s., se riferito ai gradi e agli ordini scolastici, assume un carattere di riferimento e di guida del sistema scolastico nazionale, in quanto giustifica ed esige l’elaborazione dei programmi scolastici nazionali e dei curricoli a livello locale della singola scuola come applicazione-adeguamento dei programmi ufficiali alla situazione concreta.

2. A seconda del tipo di sistema amministrativo adottato dai Paesi può essere lasciato un certo margine di libertà alle singole scuole di scegliere il p.d.s. che si ritiene opportuno. È in gioco l’autonomia o meno della scuola a livello non solo didattico, ma anche organizzativo, gestionale, economico e finanziario. Il problema è complesso e solo pochi Paesi l’hanno risolto, globalmente o parzialmente. Anche il p.d.s., come i programmi scolastici, va rivisto periodicamente in rapporto non solo allo sviluppo epistemologico e alla considerazione pedagogico-didattica delle singole discipline di studio nei confronti dei soggetti in formazione, ma anche in relazione alle nuove esigenze della società. Basti pensare all’introduzione, in tanti Paesi, della lingua straniera come materia obbligatoria anche nella scuola primaria, dell’informatica nei diversi gradi scolastici, alla soppressione della lingua latina, ecc.

Bibliografia

Unesco,​​ Programmes d’études et éducation permanente,​​ Paris, Unesco, 1979; Porter J.,​​ Le concept de troncs communs de formation appliqué à des situations complexes d’apprentissage,​​ Ibid., 1983; Petracca C.,​​ Progettare per competenze. Verso i piani di studio personalizzati, Milano, Elmedi, 2003.

H.-C. A. Chang




PICO DELLA MIRANDOLA Giovanni

 

PICO DELLA MIRANDOLA​​ Giovanni

n. a Mirandola nel 1463 - m. a Firenze nel 1494, umanista italiano.

1. G.P. dei conti della Mirandola è uno dei più rappresentativi umanisti del Quattrocento italiano. Membro dell’«Accademia Platonica» di Firenze; ampiamente aperto a tutte le correnti filosofiche e culturali, ricerca, al seguito di Marsilio Ficino (1433-1499), la concordanza di tutte le correnti filosofiche in una filosofia perenne. Per una prova di questa convergenza progetta, per l’anno 1487 a Roma, un convegno di filosofi e uomini di cultura (che vari ostacoli renderanno inattuabile) per confrontarsi su 900 tesi, da lui elaborate dalle più diverse derivazioni; tesi che gli causarono molte ostilità e anche l’accusa di eresia.

2. Dalla irrealizzabile​​ concordia filosofica​​ passa alla ricerca di una​​ rigenerazione​​ morale,​​ sulla linea del suo contemporaneo fra’ G. Savonarola († 1498). Di particolare rilievo e significatività, anche in un quadro di pedagogia del Rinascimento (​​ Umanesimo rinascimentale), è la sua concezione della dignità dell’uomo, fatto da Dio artefice del proprio destino, con la possibilità (per la sua intelligenza) di farsi ogni cosa. Questa visione dell’uomo, acuta interpretazione della mentalità umanistica, ha la sua massima espressione nel​​ De hominis dignitate,​​ l’orazione introduttiva alle 900 tesi. Vi si rispecchia, in dimensione più filosofica, quella concezione dell’uomo artefice​​ che era già stata propugnata da Leon B. Alberti (1404-1472).

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ G.P.d.M.,​​ Discorso sulla dignità dell’uomo,​​ ediz. con testo latino a fronte a cura di G. Tognon; prefazione di E. Garin, Brescia, La Scuola, 1987. b)​​ Studi:​​ Di Napoli G.,​​ G.P.d.M. e la problematica dottrinale del suo tempo,​​ Roma, Desclée, 1965; De Lubac H.,​​ L’alba incompiuta del Rinascimento. P.d.M.,​​ Milano, Jaca Book, 1977; Garfagnini G. C. (Ed.),​​ G.P.d.M. Convegno internazionale di studi nel cinquecentesimo anniversario della morte (1494-1994), Firenze, Olschki, 1997; Frosini F. (Ed.),​​ Leonardo e P. Analogie,​​ contatti,​​ confronti.​​ Atti del Convegno di Mirandola (10.05.2003), Ibid., 2005.

M. Simoncelli




PIETISMO

 

PIETISMO

In Germania nella prima metà del Seicento già si delineava la nascita del razionalismo illuministico, ma contemporaneamente in seno al​​ ​​ protestantesimo sorgeva un movimento religioso che, in un certo senso, risentiva dell’indirizzo giansenistico.

1. Iniziatore del P. fu Filippo Giacomo Spener (1635-1705), che mirava a reagire all’atteggiamento dogmatico ed all’eccessivo formalismo dottrinale dei teologi luterani, esaltando il valore della purezza della coscienza e del sentimento che va colto nella sua immediatezza. Come i giansenisti (​​ Giansenismo) anche i pietisti muovevano dal principio della natura umana corrotta dal peccato originale. Conseguentemente il processo educativo, se solo la fede e la pietà possono risanare l’uomo, deve essere guidato da un’amorevole vigilanza sul fanciullo, evitando che questi sia fuorviato da gioie anche innocenti (e quindi niente giochi, niente premi, niente elogi).

2. Fondatore della pedagogia pietistica e delle attuazioni scolastiche a questa ispirate fu​​ ​​ Francke. Seguì studi di teologia, filosofia, filologia, storia. Istituì a Lipsia il​​ Collegium philobiblicum,​​ e fu insegnante all’università. Di lui va ricordata la grande aspirazione ad istituire un «Seminario universale in cui si procacciasse un reale miglioramento di tutte le classi sociali in Germania, in Europa, in tutte le parti del mondo». Forse da questa angolatura si possono giustificare le varie scuole da lui fondate ad Halle. Si preoccupò dapprima dei ragazzi poveri, la cui ignoranza lo aveva colpito; accanto alle scuole, fondò poi l’orfanotrofio, per ragazzi e ragazze separatamente, nel 1695 il​​ Paedagogium,​​ dove alcuni studenti da lui diretti si dedicavano all’istruzione dei ragazzi provenienti da famiglie abbienti. Nasceva successivamente il​​ Seminarium praeceptorum,​​ frequentato da studenti di teologia mantenuti gratuitamente nell’orfanotrofio, con l’obbligo di insegnare due ore al giorno nel​​ Paedagogium.​​ Un nuovo seminario veniva aperto nel 1707, destinato proprio alla preparazione degli insegnanti (Seminarium selectum praeceptorum).​​ Altra istituzione fu poi la scuola latina (il nostro ginnasio). In definitiva, ecco i dati relativi alla situazione alla morte del Francke: 134 fra maschi e femmine nell’orfanotrofio, 1725 nelle scuole tedesche (o elementari), divise in due categorie, poveri e abbienti, 400 nella scuola latina, 82 nel​​ Paedagogium.​​ Va ricordato che, proprio in vista di uno stretto rapporto tra scuola e vita, negli istituti di Halle non si trascurava l’istruzione professionale. Uomo estremamente pratico il Francke fondò pure una farmacia, una tipografia con vendita di libri, una biblioteca, un gabinetto di storia naturale e arte. Tra gli scritti del Francke è da ricordare la​​ Breve e semplice istruzione sul modo di indirizzare i bambini verso la vera beatitudine divina e la saggezza cristiana​​ (1702). Occorre intendere rettamente col cuore e con l’intelletto le sentenze della Bibbia sì da tradurle «in atti di fede e d’amore», e la preghiera altro non è che un libero rivolgersi a Dio con proprie parole. Pace con Dio e apertura al mondo: la vera saggezza ha come fondamento scienza ed esperienza. Occorre mirare alla fondazione di un Cristianesimo bene operante. Un solo cenno alla organizzazione. Per le materie, oltre alla componente religiosa, l’insegnamento prevede lettura, scrittura, aritmetica, musica. Nel​​ Paedagogium​​ si aggiunge lo studio del lat., del gr., dell’ebraico, ed anche delle lingue orientali. Si attribuisce importanza alla​​ historia naturalis.​​ La giornata si articola nelle varie attività dalle 5 alle 22. Domina il senso della concretezza anche di fronte alla realtà economica, e le autorità laiche vedono con favore l’iniziativa.

3. I tentativi di sviluppo di attività artigianali troveranno realizzazione nelle​​ Realschulen,​​ frutto duraturo della pedagogia pietista. Per primo diede una struttura a queste J. J.​​ Hecker, un discepolo del Francke: la nuova istituzione ebbe il pieno appoggio di Federico il Grande. In essa poté sviluppare il suo metodo tabellare e letterale.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ Spener Ph. J.,​​ Pia Desideria​​ (1675), ediz. critica a cura di K. Aland (1940), trad. it. a cura di R. Osculati, Torino, Claudiana, 1986. b)​​ Studi:​​ Calò G., «Francke e il P. nella storia della pedagogia», in​​ Dall’umanesimo alla scuola del lavoro, Firenze, La Nuova Italia, 1940; Catalfamo G., «Il pensiero pedagogico nei secoli XVII e XVIII», in M. F. Sciacca (Ed.),​​ Grande antologia filosofica,​​ vol. XVI, Milano, Marzorati, 1968, 228-235; Hoser E., «Francke», in M. Laeng (Ed.),​​ Enciclopedia pedagogica, vol. III, Brescia, La Scuola, 1989, 5085-5088; Sacchi R., «P.», in​​ Ibid., vol. V,​​ 1992, 9090-9092; Id., «Spener», in​​ Ibid., vol. VI, 1994, 11036-11038; Buzzi F., «P.», in​​ Enciclopedia Filosofica, vol. IX, Milano, Bompiani, 2006, 8621-8622.

F. De Vivo

PIETRO LOMBARDO​​ ​​ Scolastica




PLATONE

 

PLATONE

Vissuto ad Atene tra il 427 e il 347 a.C., filosofo greco.

1. Filosofo,​​ politico,​​ educatore.​​ P., sommo rappresentante della speculazione greca, è pure tra coloro che massimamente hanno contribuito alla costituzione della​​ ​​ paideia​​ greca, plasmando quell’ideale filosofico che, unitamente a quello retorico proposto dalla scuola di​​ ​​ Isocrate, costituirà sempre uno dei due pilastri dell’edificio della cultura greca. Alunno di​​ ​​ Socrate, ne continua e perfeziona il pensiero. Fin da giovane è fortemente attratto dall’interesse per la​​ ​​ politica. In essa fa le prime esperienze, brevemente, nell’Atene dei trenta tiranni (404); più tardi in Sicilia presso Dionigi il vecchio (388) e successivamente presso Dionigi il giovane (367 e 361). Non trova, però, ascolto presso i governanti; ma non abbandona la sua vocazione politica: diventa maestro e formatore di politici attraverso la sua scuola filosofica, l’Accademia,​​ fondata ad Atene nel 387, con la struttura di associazione religiosa, presso il bosco sacro dedicato ad Accademo, ricco di riferimenti religiosi e culturali. L’Accademia sarà di fatto formatrice, oltre che di filosofi, di politici, consiglieri di governanti e legislatori.

2.​​ Il paradigma del filosofo-politico.​​ I due aspetti, filosofico e politico, sono intimamente collegati nella visione e nell’opera di P., per il quale il filosofo, mentre realizza la più elevata forma di​​ areté​​ (cioè del valore umano), è colui che ha il compito di governare le città e fare le leggi, divenendo così anche educatore dei suoi concittadini. Pensa infatti – come dice chiaramente nella​​ lettera VII​​ autobiografica – che solo ad opera dei filosofi si possa giungere ad una legislazione giusta e ad una retta conduzione dello Stato. La formazione del filosofo sarà così anche la via per la formazione delle città e dei cittadini. Si presentano dunque diversi aspetti da considerare in una visione unitaria del pensiero filosofico / pedagogico / politico di P.: il valore di​​ areté​​ proprio della speculazione filosofica nella ricerca della verità; il tipo di formazione umana che da tale speculazione deriva; il modello ideale di città e di Stato guidato dai filosofi; il curricolo proposto per la formazione del filosofo / politico.

2.1.​​ La ricerca del vero.​​ La ricerca della​​ ​​ verità,​​ come suprema occupazione della mente umana e garanzia dell’autenticità di quei valori su cui si fonda la formazione dell’uomo, contrappone la scuola​​ filosofica​​ di P. (come fu già per Socrate) a quella​​ retorica​​ dei​​ ​​ Sofisti e dello stesso Isocrate. Tale ricerca comporta l’impegno totale del filosofo e un’ascetica​​ che lo porti a staccarsi dai dati sensibili e dall’esperienza della natura, per elevarsi gradualmente nel mondo dello spirito fino alla contemplazione delle idee dell’iperuranio. Ivi l’anima ha già contemplato le idee in una precedente esistenza, per cui il suo​​ sapere​​ è un​​ ricordare.​​ Al vertice delle idee nell’iperuranio P. colloca le idee del​​ Bello​​ e del​​ Buono​​ (il​​ «Bello in sé»​​ e il​​ «Buono in sé»​​ che per P. è la stessa divinità). Ciò è particolarmente significativo, se pensiamo alla parte che il​​ bello​​ e il​​ buono​​ hanno nella visione della​​ paideia​​ greca, la​​ paideia​​ della​​ kalokagathia,​​ di cui ci offre, dunque, la più elevata visione filosofica. Parallela alla esaltazione della speculazione filosofica si ha in P. una svalutazione dell’arte​​ (vista come imitazione della natura, ombra a sua volta delle idee dell’iperuranio) e della​​ poesia​​ (esaltazione della fantasia e strumento della inadeguata presentazione della divinità fatta dai poeti). Questa posizione di P. (da parte sua logica, e peraltro parzialmente superata nell’ultima opera incompiuta, le​​ Leggi),​​ lo mette in contrasto con la grande valorizzazione che l’arte e la poesia hanno in tutta la​​ paideia​​ greca. Nel suo impegno il filosofo è sostenuto dall’azione interiore di​​ eros​​ (presentato nel​​ mito​​ come essere in parte umano e in parte divino) da cui deriva sia il dinamismo della sua elevazione nella contemplazione e quindi della sua autoformazione, sia la spinta della sua azione educativa (eros educativo),​​ per riprodurre e moltiplicare nell’alunno la sua stessa formazione. Tocchiamo così quel compito educativo che, in forza della sua contemplazione della verità, compete al filosofo, espresso da P. nel​​ mito della caverna​​ (Rep.​​ lib. VII) e che si collega strettamente con il compito politico, riservato esso pure al filosofo.

2.2.​​ L’ordine interiore.​​ L’aspetto etico della formazione ha una sua espressione nell’ordine che P. vuole realizzare nell’anima umana e, parallelamente, nello Stato. Esso si fonda sulla concezione della triplice divisione dell’anima umana (tripsichismo) in​​ nous​​ (anima razionale),​​ appetito irascibile​​ e​​ appetito concupiscibile​​ e dell’ordine da stabilire tra essi per realizzare un giusto equilibrio interiore. Ognuna delle tre anime possiede una propria caratteristica o virtù: rispettivamente la saggezza, il coraggio e la ricerca del benessere (moderata dalla temperanza). Il predominio dell’una o dell’altra determina la vocazione individuale di ciascuno e il suo posto nello Stato. L’armonia interiore è data dall’azione moderatrice esercitata dall’anima razionale (il​​ nous)​​ sulle altre due. P. la esprime nel​​ Fedro​​ con il mito dell’auriga che guida e modera i due cavalli, uno bizzoso e impulsivo, l’altro lento e obbediente. Questa prospettiva di ordine interiore, mentre ci dà una prima presentazione delle tre virtù cardinali (la prudenza, la fortezza e la temperanza, che nel loro coordinamento danno come risultato la giustizia) dà anche la più radicale interiorizzazione di quella​​ euritmia​​ che è parte sostanziale dell’ideale della​​ paideia​​ greca.

2.3.​​ La dimensione politica.​​ Questa formazione interiore diventa il modello di riferimento anche per la formazione della città e dello Stato. P. stabilisce, infatti, un parallelismo tra l’anima e lo Stato, nel quale si illumina anche il compito politico che egli affida al filosofo. Al tripsichismo corrisponde la tripartizione platonica dello Stato. In esso P. contempla tre classi: quella degli addetti alle arti produttive (lavoratori, commercianti, artigiani) che corrisponde (nell’individuo) all’appetito concupiscibile e in cui deve prevalere la virtù della temperanza; quella dei custodi (o soldati) che corrisponde all’appetito irascibile e in cui prevale la virtù del coraggio e della fortezza; quella dei governanti, che corrisponde all’anima razionale e in cui deve prevalere la virtù della saggezza o prudenza. La situazione virtuosa (la​​ giustizia)​​ si avrà nello Stato se ciascuno occuperà perfettamente il suo posto e se vi sarà la piena integrazione e collaborazione tra le varie componenti. Emerge tra di esse il compito di guida, che spetta ai governanti, che perciò, nella concezione platonica, non potranno essere che i filosofi, che hanno contemplato la verità, il Bello in sé e il Buono in sé. Ne deriva anche il compito etico educativo dello Stato, guidato dai filosofi.

3.​​ La formazione del filosofo-politico.​​ È evidente l’importanza che l’educazione acquista in questa visione dello Stato, sia nel suo complesso, sia nella specifica formazione delle classi che lo compongono. La formazione più accurata sarà, chiaramente, riservata alla classe dei filosofi / governanti. Viene in secondo luogo quella dei custodi. Più semplice, riducendosi all’acquisizione delle tecniche delle rispettive attività, sarà quella della classe dei lavoratori. Nella​​ Repubblica​​ e nelle​​ Leggi​​ P. propone particolareggiatamente il curricolo formativo. In esso è evidente l’impostazione unitaria, orientata, nei singoli gradi, al vertice della formazione del filosofo / politico. Vi è recepita quella formazione (rispondente al binomio​​ ginnastica e musica),​​ che già si era affermata nella scuola dei gradi elementare e medio, fino circa ai 18 anni, e si concludeva con l’efebìa​​ (allora periodo di formazione ginnico-militare, dai 18 ai 20 anni ca.). P. vi apporta accentuazioni e integrazioni proprie della sua concezione della​​ paideia​​ e della prospettiva della formazione del filosofo per la quale era una preparazione (propaideia).​​ Esse avranno una loro incidenza, in parte sullo stesso programma della contemporanea scuola di Isocrate e poi nel seguito della tradizione scolastica del periodo ellenistico. Segnaliamo in particolare: a) nel campo della​​ ginnastica​​ il ricupero del valore di preparazione militare (sarà importante specialmente per la classe dei custodi), il suo valore educativo, l’accentuazione anche dell’aspetto igienico, il valore pedagogico e di disciplina morale della danza; b) per la​​ componente letteraria​​ richiamiamo la già citata svalutazione della poesia e il ricupero di autori di prosa; c) particolarmente significativa l’aggiunta e il ruolo delle​​ matematiche,​​ gradualmente in tutti i livelli della scuola: prima (per tutti) in forma elementare orientata a fini pratici, poi, in modo sempre più impegnativo, come disciplina formativa e selezionatrice, particolarmente significativa nella​​ propaideia​​ del filosofo. Sulla linea delle matematiche è l’impostazione e la funzione formativa dello studio dell’astronomia. Di notevole rilievo è il concetto, che appare per la prima volta, di​​ selezione​​ in base alle capacità dell’allievo. Ai 20 anni si conclude il periodo della​​ propaideia​​ (in gran parte comune al programma previo alla scuola di retorica di Isocrate). Di qui, per selezione dei capaci, parte la formazione specifica del filosofo, ancora lunga e sempre più impegnativa. Essa comprende tre ulteriori fasi: un decennio di approfondimento delle scienze matematiche; un quinquennio di esercizio della dialettica (di pura filosofia); il tutto sarà completato da quindici anni di esperienza politica, per giungere (a 50 anni ca.) al filosofo / politico pienamente formato. Non si pensi a una scuola noiosa e pedante: l’Accademia è caratterizzata dallo stile del dialogo e dal clima di amicizia e di ricerca comune, che le dà speciale dinamismo e spirito di famiglia. Con P. si consolida la componente filosofica della cultura greca. Un influsso particolare ha esercitato anche sui Padri della Chiesa e sulla prima inculturazione del Cristianesimo.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ P.,​​ Opere,​​ 2​​ voll., Bari, Laterza, 1966; P.,​​ Diálogos. Introducción de C. García Gual, Madrid, Espasa Calpe, 2007. b)​​ Studi:​​ Stefanini L.,​​ P.,​​ Padova, CEDAM, 1949; Sciacca M. F.,​​ P.,​​ Milano, Marzorati, 1967; Funghi M. S.,​​ P. e l’educazione,​​ Torino, Loescher, 1979; Jaeger W.,​​ Paideia. La formazione dell’uomo greco,​​ Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1991; Marrou H. I.,​​ Storia dell’educazione nell’antichità,​​ Roma, Studium, 1994; Zanatta M. (Ed.),​​ L’arte del persuadere: la retorica in P.​​ e Aristotele, Milano, Unicopli, 2002.

M. Simoncelli




PLURALISMO

 

PLURALISMO

Il concetto di p. connota l’idea di «pluralità», di «molteplicità» e ammette applicazioni e contesti diversi. Esiste un p.​​ socio-culturale,​​ cioè la situazione, propria di una società complessa, di pluralità di visioni del mondo, di valori e di schemi comportamentali presenti in un determinato contesto sociale (la sua negazione è il «monismo»). C’è anche un p.​​ storico-politico​​ che riflette la prassi giuridica e politica che dà diritto di cittadinanza alle diverse posizioni ideologiche e culturali (all’opposto del «totalitarismo»). Ma si parla anche di p. in ambito​​ educativo,​​ come metodo e obiettivo pedagogico che punta all’acquisizione di atteggiamenti tolleranti e rispettosi della diversità (educazione alla democrazia, contro ogni forma di intolleranza).

1.​​ Il p.,​​ conquista dì civiltà.​​ Storicamente, il p. è frutto della modernità, e si è imposto nell’evo moderno man mano che si affermavano i valori della libertà, tolleranza e i diritti della persona, e veniva superato il monismo culturale ed etnocentrico europeo. Ma è soprattutto il p. socio-culturale che si trova alla base di quello storico-politico e diventa oggetto di preoccupazione pedagogica. Infatti, in una società complessa si moltiplicano e si intrecciano le più diverse proposte culturali, sia in modo sistematico, sia nella continua offerta di concezioni di vita, norme e schemi di condotta, idee e valori, valutazioni, ecc. In tale situazione, nessun sistema o elemento culturale detiene più il monopolio della proposta, ma si attua il libero gioco di un mercato culturale che, abbandonata la pretesa di imporre determinati prodotti, accetta come situazione normale il confronto, la coesistenza e la pluralità delle posizioni. Pur senza negare i rischi e le ambiguità che esso comporta, il p. va valutato​​ positivamente,​​ come una conquista e un segno di civiltà, in quanto portatore di​​ ​​ valori e garanzia per il riconoscimento dei diritti personali e la promozione della giustizia e della pace sociale. Il p. è in fondo espressione di maturità e di responsabilità, ma si presenta anche carico di ambiguità, ed è perciò necessario puntare a un giusto equilibrio tra due posizione estreme: il monismo totalitario e intollerante da una parte ed il relativismo e permissivismo dall’altra.

2.​​ Possibilità e rischi educativi.​​ I riflessi del p. in campo​​ educativo​​ sono molti. Da una parte, in una società pluralistica l’opera educativa può ricevere non pochi stimoli e avvalersi di possibilità sconosciute nel passato: promozione di personalità aperte al dialogo e al rispetto della differenza; ampi orizzonti di arricchimento culturale; superamento di pregiudizi e chiusure; nuove possibilità di maturazione del senso critico, ecc. Ma non bisogna negare l’esistenza di conseguenze​​ negative,​​ soprattutto in ordine all’educazione dei giovani. In una società pluralistica infatti appare fortemente modificato e scosso il processo di​​ ​​ socializzazione, in quanto la molteplicità esasperata e contraddittoria di messaggi culturali si traduce spesso nell’impossibilità di una coerente integrazione personale, nella relativizzazione dei valori e quindi nell’incapacità di maturazione della propria identità. Molti giovani sono così vittima di una massificazione anonima e di un’assunzione acritica delle offerte del p. culturale, e non di rado cadono nelle posizioni estreme della​​ iposocializzazione​​ (carenza di interiorizzazione di norme e valori e di ragioni di vita) o della​​ ipersocializzazione​​ (assunzione globale e indiscussa delle idee e valori caratteristici di alcuni gruppi e movimenti securizzanti). In tutti questi casi sono in agguato atteggiamenti antieducativi di fanatismo, immaturità, intolleranza e violenza. Ed è paradossale che il p., premessa naturale alla tolleranza, possa proprio diventare fonte del suo contrario, vale a dire, dell’intolleranza. Anche il mondo degli​​ ​​ adulti appare scosso dagli effetti del p., in quanto privo di punti di riferimento solidi ed incapace perciò di dominare la complessità e dinamicità della situazione. È spiegabile così che molti adulti si sentano perplessi e si rifugino in forme esasperate di soggettivismo e di identità «di basso profilo». Sono queste in parte le ragioni che portano oggi all’esigenza della​​ ​​ educazione permanente. Da un punto di vista pedagogico, quindi, il p. rappresenta certamente un​​ problema​​ e un​​ compito aperto.​​ Si tratta anzitutto di chiarire, a livello di finalità e obiettivi educativi, quali modelli di società e di personalità vanno promossi attraverso l’opera educativa. E bisogna pure individuare metodi e stili educativi per un’autentica educazione alla democrazia, alla tolleranza e all’accettazione positiva della diversità. Vanno ripensati in questo senso il ruolo delle diverse agenzie e​​ istituzioni​​ educative (​​ famiglia,​​ ​​ scuola,​​ ​​ istituzioni, mezzi di​​ ​​ comunicazione sociale, ecc.). Inoltre si è oggi molto sensibili all’effettiva attuazione di un autentico p.​​ delle​​ istituzioni (spec. della scuola e dei mezzi di comunicazione sociale) e​​ nelle​​ istituzioni, nell’accoglienza e rispetto delle pluralità religiose, ideologiche e culturali.

Bibliografia

Bellerate B. (Ed.),​​ P. culturale ed educazione: Atti del 3° «Colloquio» interideologico promosso da «Orientamenti Pedagogici» tenutosi a Roma 8-9 dicembre 1978,​​ Roma, a cura di «Orientamenti Pedagogici», 1979; Amoriggi R., «P. culturale», in M. Laeng (Ed.),​​ Enciclopedia pedagogica,​​ vol. V, Brescia, La Scuola, 1992, 9193-9198; De Souza C.,​​ Dalla multiculturalità alla interculturalità, in «Orientamenti Pedagogici» 51 (2004) 569-580; De Vita R. - F. Berti - L. Nasi (Edd.),​​ Identità multiculturale e multireligiosa. La costruzione di una cittadinanza pluralistica, Milano, Angeli, 2004; Id.,​​ Democrazia,​​ laicità e società multireligiosa, Ibid., 2005.

E. Alberich




PLUTARCO

 

PLUTARCO

Vissuto tra il 46 e il 126 d.C., filosofo e moralista greco di Cheronea.

1. P. esercitò per molto tempo il suo insegnamento a Roma. Uomo di vasta cultura e scrittore fecondo, di formazione eclettica, è uno dei più validi rappresentanti della​​ ​​ paideia ellenistica.​​ Affronta con fine intuito psicologico e con speciale accentuazione della dimensione etica e della fondazione filosofica i problemi dell’educazione dei giovani. L’opera più famosa di P. sono​​ Le vite parallele,​​ in cui si trova una preziosa fonte di informazioni su istituzioni e personaggi significativi dell’antichità greco-romana, con una particolare valenza pedagogica nella presentazione e valutazione etica delle figure di​​ Uomini illustri​​ che offre come modelli di vita. In questa stessa linea sono importanti le sue​​ Opere morali.

2. Specificamente pedagogico è lo scritto​​ Sul modo di leggere i poeti.​​ Esso risponde a un problema già sentito da​​ ​​ Platone, ma vissuto più intensamente nel mondo cristiano: l’impatto pedagogico dello studio​​ dei poeti classici sui giovani. In esso presenta criteri di valorizzazione, di saggia selezione e di cautela, che ispireranno il più famoso​​ «Discorso ai giovani sulla lettura dei classici»​​ di​​ ​​ Basilio Magno.

3. Ricordiamo qui, per la sua significatività nella storia della pedagogia, il​​ De liberis instituendis, che è stato a lungo erroneamente attribuito a P. È un esempio di quell’interesse specifico per lo studio dell’educazione giovanile, che si afferma nell’età ellenistica. La sensibilità per la parte della​​ natura,​​ della​​ ragione​​ e​​ dell’esercizio​​ integra la considerazione e valorizzazione dell’opera del​​ maestro.​​ Quest’opera, tradotta nel 1411-12, ha avuto notevole ripercussione sui pedagogisti dell’Umanesimo rinascimentale.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ P.,​​ Vite parallele, trad. di C. Carena, Torino, Einaudi, 1958; Vite parallele​​ -​​ Pericle e Fabio Massimo, trad. e note di A. Santoni, Milano, Rizzoli, 1991;​​ Vite parallele​​ -​​ Catone Uticense,​​ Bruto,​​ Lucullo, voll. I e III, Torino, UTET, 1998. b)​​ Studi:​​ Gerini G. B.,​​ Idee pedagogiche di P.,​​ Voghera, Officina d’Arti Grafiche, 1912;​​ Galino M. Á.,​​ Historia de la educación. Edades antigua y media,​​ Madrid, Gredos,​​ 1988;​​ Atti del IX Convegno Plutarcheo della Int. Plutarch Society, a cura di I. Gallo, Napoli, D’Auria, 2004; Moreschini C.,​​ Valori letterari delle opere di P.​​ Studi offerti al professore I. Gallo dall’IPS, Malaga, Universitaria, 2005.

M. Simoncelli




POLITICA

 

POLITICA

1.​​ Potere politico e​​ ​​ formazione.​​ Vi è connessione tra esercizio del potere politico e processo educativo. L’azione p. implica necessariamente una concezione dell’uomo e della società (eguaglianza e perequazione sociale, tolleranza e pacifica convivenza, p. culturale e difesa delle minoranze, ecc.). La formazione non può sfuggire a quei modelli politici con cui nella prassi deve misurarsi (assetto istituzionale, distribuzione del potere, ripartizione dei ruoli, ecc.). Da una parte l’esercizio del potere comporta scelte di indirizzo e di intervento, con conseguente incremento ad una cultura della p. che è anche ricerca e formazione Dall’altra il conseguimento di un’istruzione superiore o di nozioni speciali si configura come una condizione primaria, tale da permettere la strada al successo e a vere e proprie posizioni di potere. Politologi e attori politici svolgono ruoli concettualmente distinti, tuttavia non separabili, talora assommati in una stessa persona se questa appartiene ad uno schieramento politico. Infatti la p. è​​ arte​​ e​​ scienza:​​ arte come tecnica, tattica e prudenza insieme; scienza come elaborazione di strutture conoscitive. Da​​ ​​ Socrate in poi, gli aspetti politici dell’educazione vengono messi in risalto sotto questo o quel profilo. Per​​ ​​ Platone vi è coincidenza tra formazione dei filosofi e formazione dei reggitori della​​ polis.​​ Nella storia occidentale, con l’avvento del concetto di​​ societas,​​ i grandi movimenti politici sono stati preceduti, accompagnati o seguiti dalla fondazione di istituzioni educative. Circa gli studiosi del nesso tra p. e educazione possiamo partire da J. Locke e​​ ​​ Rousseau, per giungere a W. von Humboldt e J. S. Mill e terminare con i più vicini ai problemi del nostro tempo: da M. Weber a M. Horkheimer, J.​​ ​​ Maritain e J. Rawls. L’idea di p. come vocazione, l’umanesimo integrale e il neocontrattualismo uniscono e distinguono p., formazione e giustizia. Ugualmente la teoria critica non mirava al puro aumento del sapere, bensì all’emancipazione dell’uomo. Ulteriori contributi sono ricavabili tuttora dalla riflessione di​​ ​​ Gramsci sul nesso tra azione educativa e prassi p. L’esercizio del potere può assumere due aspetti nei riguardi dell’universo educativo. Si può parlare di una p.​​ educante​​ oppure di una p.​​ educativa.​​ Nel primo caso, la p. stessa, in quanto ordinamento della società secondo un orientamento valoriale, pone le premesse dell’educazione, intesa come iniziazione etica e civile. È in una società, e più precisamente entro istituzioni giuste, che un soggetto esistente diviene soggetto responsabile, consapevole, storico. Ciò che è accidentale o precario è elemento costitutivo delle singole realtà, problematiche per natura e definizione rispetto a determinati obiettivi da spostare sempre più avanti e in vista di valori perennemente da realizzare. La p. esercita una sua funzione educante proprio perché indirizzata, con forte realismo, nelle sue espressioni più nobili, verso quei fini che, per largo consenso, sono fondamentali per ogni assetto sociale: libertà, razionalità, democrazia, uguaglianza, sicurezza, progresso, solidarietà. Tuttavia l’indagine circa i risultati deve essere avalutativa, ossia imparziale e oggettiva a prescindere dai motivi ideali a cui si sono richiamati gli attori politici. L’Occidente del secondo dopoguerra, nei casi felici della ricostruzione e della pace, ha mostrato la tendenza verso una​​ paideia​​ fatta, come dev’essere, di cultura (coltivazione e tutela di beni artistici e scientifici) e di civiltà (ordinamento razionale delle istituzioni, sulla base dei diritti dell’uomo e del cittadino). Ora, la connessione tra p. e educazione non è mai un punto di partenza, bensì una meta perenne. Finanche le situazioni migliori possibili presentano punti di frizione. Se poi guardiamo ad archi di tempo secolari, se non addirittura millenari, scorgiamo non poche fratture tra esercizio del potere e disegno ordinato della società. La classe p., in ogni epoca, mira a interessi politici. Entro questa prospettiva la formazione, la cultura, la scienza possono essere strumentalizzate per il potere o a favore dell’immagine di chi lo detiene. Il mecenatismo è prodigo di benefici per poche persone ed ignora il rimanente della società. L’assolutismo illuminato si ispira alla ragione che, in primo luogo, è ragione di Stato. Il tiranno che erige monumenti perenni, a testimonianza della propria gloria, opprime chi non si piega ai suoi voleri. Ogni forma di protezionismo culturale e formativo, a favore di individui o di ceti privilegiati, tende alla egemonia e alla censura. Se la cultura ufficiale, in nome di un ugualitarismo di facciata, è omologata, vengono ostacolate la irriducibilità e singolarità di ciascuna persona e ogni forma di creatività individuale o collettiva. La p.​​ educativa,​​ almeno così come viene intesa comunemente in senso riduttivo, si occupa di quelle particolari istituzioni sociali che, insieme a vari apparati di supporto, hanno per scopo l’istruzione di vario livello ed indirizzo. Se non sono accettabili, per nessun campo politico, l’improvvisazione e il dilettantismo, tanto più questa affermazione vale per coloro che gestiscono strutture e risorse per la formazione delle coscienze. Sono facilmente prevedibili effetti perversi, a danno di intere generazioni, quando gli attori politici sono impreparati e quando vi sono contraddizioni tra successive gestioni. Per ogni caso ed ogni situazione l’impatto dottrinale o ideologico è indubbio, se non addirittura funzionale. Però va colto esso stesso come oggetto d’indagine per i segnali che fornisce e le conseguenze che provoca. Inoltre tutte le iniziative politiche cadono su realtà dinamicamente complesse, rese tali dai rapporti di forza esistenti tra ceti e gruppi sociali che esprimono interessi e aspettative più o meno maturi e livelli culturali di base più o meno elevati. Per queste ed altre ragioni non esistono istituzioni e modelli educativi trasferibili da una situazione nazionale all’altra, anche se si possono costruire criteri e paradigmi per valutare differenti situazioni e confrontarle. Un discorso parallelo, integrativo e complementare a quello della p. educativa è quello sulla​​ ​​ educazione sociopolitica. Con quest’ultima espressione ci riferiamo sia alla maturazione dei cittadini in quanto tali sia ad una vera e propria materia scolastica. Uno dei fini dell’educazione, considerata sotto questo profilo, è la formazione dei soggetti e dei gruppi sociali alla cultura p., fatta di concettualizzazione e di determinate conoscenze. Si possono avere opinioni diverse, o anche diametralmente opposte, circa i medesimi fatti o eventi politici. Però le regole del discorso devono essere uguali per tutti perché universali e le regole del gioco devono essere rispettate da tutti perché pattuite. La conoscenza di ciò che è negativo in una determinata situazione non è lo scopo ultimo dell’educazione sociopolitica; occorre anche sapere perché si ritiene negativo questo o quello. Se è inammissibile una pedagogia di Stato, è altrettanto illecito che la classe p. contraddica con i suoi interventi le linee di sviluppo, scientificamente fondate, dell’azione educativa. Di qui la necessità di definire i compiti degli attori politici nel campo della formazione. Non occorre che costoro siano esperti di pedagogia: è necessaria la consapevolezza da parte loro dei rapporti tra scopi e scelte, tra scelte e risultati, tra risultati e successivi interventi in un campo specifico dell’azione p. Neppure si chiede che dirigenti scolastici e insegnanti siano scienziati della p. per il fatto di svolgere una funzione pubblica che, in quanto tale, ha rilevanza p. Si chiede però che siano consapevoli di tale rilevanza. I problemi della scuola rimangono velleitari se vengono ignorate quelle premesse politiche che sole permettono di affrontarli.

2.​​ La scienza p. dell’educazione.​​ La scienza p. dell’educazione rappresenta un netto progresso rispetto alla p. educativa, genericamente intesa. Essa studia la funzione educativa degli atti politici e i risvolti politici dei fenomeni educativi. È una disciplina applicata a quelle istituzioni e a quegli interventi che possono favorire per tutti i cittadini la migliore educazione possibile. Pertanto per scienza p. dell’educazione si intende l’insieme ordinato di dottrine e teorie che regolano sia le scelte di grande rilievo (programmazione, riforme, investimenti, ecc.) sia i provvedimenti concreti (organizzazione, gestione, dirigenza delle scuole, ecc.) per l’educazione dei singoli e l’elevazione culturale dei gruppi sociali. Essa è una specializzazione della scienza p. generale. Con l’espressione onnicomprensiva​​ volontà p.​​ possiamo denominare sia l’imperio della classe p. sia l’influenza della classe dominante sulle istituzioni formative, scolastiche ed extrascolastiche. La classe p. è composta dalle persone collocate in sedi politiche (parlamento, governo, partiti politici). La classe dominante è composta da coloro che, pur non ricoprendo cariche politiche, esercitano le loro attività entro istituzioni non-politiche ma con indubbi riflessi politici (grande finanza, industria culturale, ordini professionali, corpi accademici, centri di informazione, ecc.). Possiamo usare l’espressione​​ valenza p.​​ per denotare gli aspetti politici dell’educazione, per quanto riguarda sia gli educatori (esercizio di un’autorità legittimata da determinati principi e regolata da una legislazione speciale), sia gli educandi (arricchimento delle loro capacità e abilità con conseguente arricchimento della loro personale forza contrattuale; riconoscimento del loro​​ status​​ di studenti con diritti di partecipazione e integrazione; flessibilità dei piani di studio con «crediti» e opzioni). Il diritto all’educazione, in tutte le sue forme, è il riconoscimento globale di questi aspetti politici dell’educazione. Nei Paesi di consolidata tradizione democratica la formazione tende ad emancipare le persone e ad esaltarne le caratteristiche. Di qui lo spazio concesso a percorsi mobili (uscite e rientri, curricoli individualizzati, sistema dei crediti, ecc.). Nei Paesi del socialismo reale, fino alla fine degli anni Ottanta, gli interessi individuali erano subordinati a quelli collettivi. Di qui una stretta correlazione tra programmazione educativa e pianificazione economica. Per comprendere la varietà dei modelli e delle strutture occorre rifarsi a ragioni storico-politiche.

3.​​ Prospettive di sviluppo.​​ Lo scopo della scienza p., nella mente dei suoi fondatori, consiste nella scoperta e dimostrazione di quelle leggi o tendenze costanti che regolano l’ordinamento politico (Mosca, 1895). La sua natura, oltre che teorica, è operativa. La scienza p. dell’educazione, un suo settore tendenzialmente autonomo, ne condivide la vocazione pragmatica (Izzo, 1994). Dalla scienza p. generale essa acquisisce l’approccio sistemico a particolari aspetti della realtà sociale. Pertanto essa prende l’avvio dai temi di fondo: i rapporti di potere, la formazione delle decisioni, la legittimità delle leggi, la legalità delle norme, la discrezionalità degli atti. Riprende anche alcune distinzioni categoriali, quali consenso, assenso e dissenso; classe p., dominante e dirigente; potere, autorità e dominio, ecc. Sotto questo profilo si arricchiscono di significato e divengono comprensibili alcune espressioni pedagogiche, come educazione compensatrice, pari opportunità, libertà didattica, ecc. Gli studi sulla p. educativa, condotti fino a farne una scienza, sono stati incrementati dallo Stato sociale e dalla conseguente evoluzione delle politiche sociali. Per comprendere il passaggio da condotte empiriche ai fondamenti di una vera e propria scienza p. dell’educazione, si può partire da una classificazione che di recente si è andata precisando nel campo della politologia. È ufficio della p. generale (politics)​​ gestire interventi ordinari e affrontare eventi straordinari. Alle singole condotte politiche (policies)​​ spetta garantire unitarietà d’indirizzo e di programmazione nei singoli settori specifici (difesa, interni, esteri, ecc.), con buone approssimazioni circa gli effetti prevedibili. Però è da preventivare anche l’imprevedibile, giacché non è sopprimibile ogni elemento di accidentalità o di disordine. Ciò che è precario costituisce elemento costitutivo dell’esperienza sociale e p. Per quanto concerne la realtà educativa, va detto che essa è fatta di persone consapevoli, ciascuna a sua misura, dei propri bisogni. Rimangono inavvertite spesso le reali necessità. Lo scopo politico è quello di sollecitare nelle persone la coscienza dei propri bisogni reali e di elevare i livelli delle loro aspettative, mediante interventi coordinati di natura sociale. Rispondere soltanto a domande esplicite, ancorché arretrate, significa consolidare l’esistente. L’educazione rientra nelle materie delle​​ social policies​​ (insieme all’assistenza, alla sanità, alla previdenza sociale, ecc.), dando luogo appunto alla cosiddetta​​ educational policy.​​ Con quest’ultima espressione non si intende «p. educativa» nel senso comune (l’opera dei ministri o degli amministratori), bensì condotta p., basata scientificamente, a proposito di ciò che è «educazionale». E per educazionale si intende la somma degli interventi o dei provvedimenti che, pur non essendo direttamente educativi (per es., la valutazione della «produttività» scolastica), promuovono l’azione educativa in ogni sua espressione. Fondare o gestire razionalmente le istituzioni formative sono atti squisitamente politici. La razionalità delle istituzioni lascia campo all’attività professionale dei dirigenti e dei docenti. La p. educazionale non detta precettistiche pedagogiche. Designa e assegna ruoli (attori politici, funzionari amministrativi, esperti, e via di seguito). Ogni​​ policy​​ ha un’importanza equivalente rispetto a tutte le altre. Tuttavia la​​ educational policy,​​ a giusto titolo, può essere considerata preminente e prioritaria perché permette al cittadino di fruire al meglio dei servizi erogati da tutte le altre condotte politiche. Questa affermazione è convalidata da una recente teoria circa la massimizzazione dei fini. I fini delle varie condotte politiche sono molteplici e, oltre certi livelli di incremento, divengono tra loro contraddittori. Per es., «i processi sociali congruenti con la massimizzazione del valore di sicurezza non sono necessariamente adeguati anche come strumenti per la realizzazione del valore di libertà o di uguaglianza» (Fisichella, 1994, 52). Fanno eccezione i fini educativi, che non presentano alcuna contraddizione con nessun altro fine sociale, ma addirittura, quando sono perseguiti nel modo migliore possibile, permettono di regolare e valutare tutti i fini sociali.

Bibliografia

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D. Izzo




portatori di HANDICAP

 

HANDICAP: portatori di

Non è sempre facile trovare il vocabolo più adatto per esprimere una realtà, soprattutto se questa è complessa e tocca le persone. Così succede nel caso di cui ora ci occupiamo. Le persone con h. sono quelle che o fin dalla nascita o in seguito a evento morboso o traumatico presentano una menomazione fisica, sensoriale o psichica che impedisce o rende loro più difficile vivere una vita autonoma e indipendente.

1.​​ Uso terminologico.​​ La terminologia usata per riassumere questo concetto con migliore o peggiore fortuna, è stata molto varia: deficiente, minorato, anormale, subnormale, ipodotato, ecc. sono tutti termini usati e criticati. L’elenco è più ampio se lo restringiamo al campo dell’h. mentale, cominciando dalla classica distinzione tra idiozia, imbecillità e debolezza. Sempre nel campo dell’h. mentale, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, già nel 1954, propose il termine di «insufficienza mentale». Successivamente si è andato affermando, perché ritenuto più socialmente accettabile e meno carico di prognosi negativa, il termine handicappato o persona portatrice di h., sia esso fisico, sensoriale o mentale. Ultimamente ha prevalso la dizione «diversamente abile». Alle tre categorie sopra indicate (fisico, sensoriale e mentale) si farà ora riferimento, dando maggior rilievo alla problematica relativa alle persone con h. mentale.

2.​​ Gli h. fisici o motori.​​ Ne sono portatrici quelle persone che per difetto di sviluppo congenito o acquisito sono diventate deficitarie nell’uso del corpo e delle membra. Una classificazione di questi h. motori può essere fatta a seconda dell’origine cerebrale, spinale, muscolare o osseo-articolare. È evidente che ciascuno di questi tipi di minorazione pone problemi specifici per l’influsso che esercita sulla​​ ​​ personalità o sul comportamento del soggetto e per le possibilità di​​ ​​ recupero che offre. Le conseguenze di queste minorazioni sullo sviluppo globale della persona sono collegate alla loro gravità, agli eventuali disturbi associati e possono produrre insicurezza e sensi di esclusione e di abbandono. L’azione di recupero e riabilitazione, oltre che essere tempestiva, deve mirare ad un recupero funzionale, a dare alla persona il massimo possibile di autonomia e indipendenza ed a garantire una valorizzazione personale e sociale. È importante sottolineare, però, che l’h. non porta necessariamente al disadattamento ma che il disadattamento è solo uno dei modi di vivere l’h.

3. Gli h. sensoriali.​​ Si riferiscono, in modo particolare, alle minorazioni visive e a quelle uditive, nelle principali gradazioni di gravità (ciechi e ambliopi per gli h. visivi, sordomuti e sordastri per gli h. uditivi). Anche queste deficienze sensoriali pongono problemi di sviluppo equilibrato e armonico delle persone che ne sono portatrici e richiedono interventi psicopedagogici adeguati. Gli interventi di recupero nel caso di h. sensoriali hanno alla base due tipi di azione: l’utilizzo ottimale dei resti sensoriali e il potenziamento della cosiddetta supplenza sensoriale. I resti sensoriali vanno bene utilizzati anche con eventuali protesi, eccetto nei casi in cui una loro sovrastimolazione possa essere nociva. La supplenza sensoriale, e cioè la sostituzione delle funzioni di un senso con il potenziamento degli altri, è un fenomeno ben conosciuto, anche se le spiegazioni di esso non sono unanimi: c’è una superiorità compensatoria di tipo organico (non è stato mai dimostrato)? c’è un migliore utilizzo degli altri sensi con risultati non raggiunti nella normalità? c’è un arricchimento degli altri sensi dovuto alla necessità di rispondere ad esigenze della vita quotidiana? Queste ultime ipotesi sembrano più accettabili della prima. Nell’intervento rieducativo lo scopo è quello di portare la persona con h. sensoriale il più vicino possibile a fare tutto ciò che fanno coloro che di h. sensoriale non soffrono.

4.​​ L’h. mentale.​​ Nel campo dell’h. particolare rilievo assume l’h. mentale o insufficienza mentale. Si tratta di un problema complesso e difficile. È complesso il concetto, sono complesse le ripercussioni sullo sviluppo globale della personalità, sono complesse le modalità di intervento così come sono complesse le posizioni più o meno ideologicizzate che conducono ai vari tipi di azione di recupero. Tre distinzioni iniziali vanno fatte per aiutare la comprensione del concetto di h. o insufficienza mentale: insufficienza congenita, precoce e insufficienza acquisita; già Esquirol distingueva, a suo tempo, tra demente e deficiente: il primo è un uomo privato dei beni che possedeva, il secondo si è trovato sempre nella povertà. Bisogna distinguere inoltre tra insufficienza mentale e insufficienza affettiva: la frequente interazione tra sviluppo intellettivo e sviluppo affettivo può condurre a diagnosi sbagliate. Molti casi, diagnosticati inizialmente come insufficienze mentali si sono dimostrati in seguito a trattamento psicoterapeutico forme di​​ ​​ autismo o di​​ ​​ psicosi infantili. C’è infine da distinguere tra vero h. e falsa anormalità, dovuta quest’ultima, in particolare, a fattori estrinseci allo sviluppo, e cioè a forme di abbandono intellettuale, morale o fisico.

5.​​ L’identificazione e la successiva classificazione delle forme di h. mentale.​​ Sono andate cambiando nel tempo passando da impostazioni diagnostiche legate ad un solo sintomo ad impostazioni più complesse: si passa, per es., da una diagnosi basata sul linguaggio, all’età mentale o al quoziente di intelligenza, all’esame globale della personalità e del comportamento. Si arriva così al cosiddetto «quoziente di sviluppo» di A. Gesell, quoziente che si ricava dall’analisi di quattro aspetti della personalità: comportamento motorio, comportamento linguistico, comportamenti di adattamento e comportamento personale e sociale. Occorre perciò affermare che l’h. mentale così come è multideterminato è anche multidimensionale. Ragionando in questo modo, P. Parent e C. Gonnet affermano che la nozione di debolezza mentale non ha l’unità concettuale che qualche volta le è attribuita e R. Zazzo sottolinea che «la debolezza mentale non è definibile soltanto per il ritmo intellettuale di crescita». Questa concezione più dinamica del concetto di h. mentale ha favorito il superamento della irrecuperabilità ed ha stimolato pedagogisti ed educatori ad un maggiore impegno sul piano scolastico ed educativo.

6. Dalla diagnosi al recupero.​​ Le migliori possibilità di recupero sono legate alla precocità dell’intervento; da ciò nasce l’esigenza di una diagnosi precoce. Questa può essere soltanto il risultato di una stretta collaborazione tra genitori, asili di infanzia e scuole materne e servizi socio-sanitari per l’infanzia. I genitori vanno aiutati a superare tre grossi ostacoli che ritardano il recupero: la non accettazione dell’h., l’ansia per il futuro del figlio, l’iper-protezionismo. La​​ ​​ famiglia, pertanto, diventa la prima struttura per il recupero delle persone portatrici di h. mentali. La famiglia dovrà successivamente accompagnare l’azione svolta da altre strutture di recupero, come i centri di riabilitazione, la scuola ed i centri di​​ ​​ formazione professionale. L’azione integrata di famiglia, scuola, formazione professionale, servizi sociali e di riabilitazione deve portare al raggiungimento di un obiettivo, meta di tutto l’impegno educativo e rieducativo: l’inserimento sociale e lavorativo della persona portatrice di h. All’azione della famiglia, prima struttura di riabilitazione e inserimento, si aggiunge in un secondo momento la scuola, dalla materna alle superiori. Sono stati ormai superati i tempi degli istituti medico-psico-pedagogici, delle scuole speciali (rimangono, evidentemente, istituzioni specializzate per i gravissimi), delle classi speciali e delle classi differenziali.

7.​​ H. e scuola.​​ L’attenzione sistematica della scuola al problema del recupero dei soggetti portatori di h., e in particolare di h. mentale, risale alla fine dell’Ottocento ed ai primi anni del Novecento. Nomi internazionalmente illustri della psichiatria e della pedagogia italiana hanno messo le basi degli interventi istituzionali di recupero. Basti ricordare S. De Sanctis, M.​​ ​​ Montessori, G. Montesano, C. Bonfigli. Del 1899, infatti, è la creazione della Lega Nazionale per la Protezione dei Fanciulli deficienti. Alla costituzione della Lega fece seguito, nel 1900, la prima Scuola Magistrale Ortofrenica a Roma e, nel 1901, il primo Istituto Medico-Psico-Pedagogico. L’azione di recupero scolastico vide fasi alterne di interesse e di routine e solo alla fine degli anni sessanta, in concomitanza con la rivoluzione socio-culturale di quegli anni, assunse rilievo e ottenne un riconoscimento legislativo a cui, pur lentamente, ha corrisposto un’adesione convinta e partecipe della scuola in particolare e della società civile in generale. La lotta all’​​ ​​ emarginazione di ogni tipo portò anche ad una riflessione sui problemi dell’h. e alla necessità di muoversi nella direzione del superamento di ogni intervento sostanzialmente o apparentemente discriminatorio. Nel 1971 la L. n. 118 del 30 marzo, all’art. 28 afferma, anche se con qualche limitazione legata alla gravità dell’h., che l’istruzione dell’obbligo deve avvenire nelle classi normali della scuola pubblica. Questa normativa fu perfezionata e meglio specificata nella L. 517 del 1977. Dalla scuola si ampliò l’azione di lotta all’emarginazione nella formazione professionale, nell’inserimento lavorativo, nelle varie manifestazioni di vita sociale. All’insegna della deistituzionalizzazione si è lavorato per favorire un’integrazione sociale delle persone a rischio: si è trattato, dall’inizio degli anni settanta ad oggi, di un’azione di grande portata civile, anche se condotta a volte senza condizioni che ne garantissero l’efficacia. Si è lavorato con carenza di strutture adeguate e con operatori sociali e scolastici non sempre opportunamente e adeguatamente preparati.

8.​​ Formazione professionale e h.​​ Oltre al lavoro della scuola, va anche riconosciuto il contributo dato dalla formazione professionale per favorire un inserimento lavorativo delle persone con h., nella convinzione che un vero inserimento sociale (obiettivo ultimo dell’azione di recupero) non può essere raggiunto se non si ottiene anche un inserimento lavorativo rispettoso della dignità della persona. Gli interventi tendenti all’inserimento lavorativo hanno potuto avvantaggiarsi di notevoli contributi dell’Unione Europea che, non solo finanziariamente, ma anche con la promozione di scambi di esperienze tra i paesi membri, ha facilitato l’arricchimento a livello di metodologie, tecniche, strumenti e preparazione degli operatori. L’obiettivo «integrazione» nasce dalla centralità della persona e dalla conseguente esigenza di aiutare i portatori di h. ad un recupero di dignità, di autonomia e di protagonismo che, senza ignorare difficoltà oggettive, non parta da posizioni pregiudiziali di totale o parziale irrecuperabilità. A questo riguardo, e lasciando ad altre voci gli aspetti operativi di integrazione scolastica, lavorativa e sociale (​​ sostegno educativo, recupero, rieducazione), vanno sottolineate alcune essenziali esigenze.

9. L’integrazione sociale degli handicappati.​​ Va detto in primo luogo che nessuna vera integrazione sociale della persona con h. è possibile se non esiste accettazione da parte della società in cui deve integrarsi e se da parte della popolazione civile la persona con h. non viene accolta con le sue limitazioni: infatti non c’è integrazione senza accettazione. È anche importante ricordare che per quanto riguarda le possibilità di recupero della persona con h. non è possibile fare delle prognosi a priori: non si possono porre limiti iniziali all’intervento educativo. Va infine detto che occorre prestare particolare attenzione alla parte sana della persona handicappata; a volte, l’attenzione all’aspetto deficitario corre il rischio di far dimenticare lo sviluppo di altre capacità e potenzialità. Sempre in riferimento all’integrazione sociale vanno segnalate tante iniziative oggi esistenti che favoriscono il recupero e l’inserimento di queste persone, tra cui, l’organizzazione nazionale e internazionale di gare e olimpiadi che prevedono la loro partecipazione.

Bibliografia

Zazzo R.,​​ Une recherche d’équipe sur la dé­bilité mentale,​​ in «Enfance»​​ 4-5 (1960) 333-497; Zavalloni R.,​​ La pedagogia speciale e i suoi problemi, Brescia, La Scuola, 1967; Pesci G.,​​ Handicappati e scuola in 7 paesi europei,​​ Roma, Armando, 1977; Bellomo L. - L. Ribolzi,​​ L’inserimento degli handicappati nella scuola dell’obbligo,​​ Bologna, Il Mulino, 1979; Edgerton R.,​​ Il ritardo mentale,​​ Roma, Armando, 1979; Comassi M.,​​ Per l’inserimento degli handicappati nella scuola. Leggi e disposizioni amministrative ordinate e commentate,​​ Pisa, Edizioni del Cerro, 1981; Pavone M. - M. Tortello,​​ Handicappati,​​ scuola,​​ enti locali,​​ Firenze, Nuova Guaraldi Editrice, 1983; Morganti E. (Ed.),​​ Gli handicappati dopo la terza media,​​ Bologna, Cappelli, 1984; Vico G.,​​ Handicappati,​​ Brescia, La Scuola, 1984; Gatto F.,​​ Educazione,​​ scuola,​​ diversità,​​ Roma, Herder, 1991; Ceppi E.,​​ I minorati della vista. Storia e metodi delle scuole speciali,​​ Roma, Armando, 1992; Meazzini P.,​​ Psicopatologia dell’h.,​​ Milano, Masson, 1996; Battaglia A. et al.,​​ Figli per sempre,​​ Roma, Carocci, 2002.

M. Gutiérrez




PORTFOLIO

 

PORTFOLIO

1. Il p. nasce da riflessioni e problematiche sorte nel vissuto scolastico e nella società degli ultimi decenni. I rapidi cambiamenti hanno portato a una revisione del concetto di​​ ​​ apprendimento tradizionale che appare ormai troppo ristretto all’ambiente entro il quale è prodotto e valutato. Molti autori in questi anni hanno sottolineato l’importanza di avvicinare il concetto di apprendimento così come è inteso nel mondo della scuola al concetto di apprendimento così come è inteso nella vita reale. In questa nuova scuola gli studenti dovrebbero essere impegnati ad apprendere conoscenze ma soprattutto a dimostrare come le sanno usare in contesti veri, concreti.

2. Il p. è uno strumento utilizzato nella vita reale da professionisti per raccogliere la documentazione del lavoro che hanno svolto. Introdotto nella scuola, ha assunto una ricchezza di connotazioni e di descrizioni estremamente ampia. Il p. è una raccolta e una antologia sistematica, organizzata, finalizzata, di prestazioni e lavori dello studente in una o più discipline scolastiche, di criteri utilizzati per selezionarli e per giudicare il loro valore accompagnati da autoriflessioni dello studente, ricchezza di evidenza riguardo a ciò che lo studente è in grado di fare e come è in grado di farlo, commenti dell’insegnante. Il suo scopo è quello di raccontare la storia dell’impegno, del progresso e del miglioramento dello studente, per controllare lo sviluppo delle conoscenze, delle abilità e delle attitudini da acquisire in una specifica disciplina, per manifestare interessi, sforzi e per illustrare vari aspetti connessi al processo di apprendimento. Alla raccolta possono contribuire più persone: insegnante, studente, genitori o altri. Lo scopo è quello di incoraggiare nello studente l’attitudine all’autovalutazione del proprio progresso, lo sviluppo del senso di autoefficacia, l’autopercezione delle proprie abilità, le attribuzioni di successo e di fallimento, la scelta di obiettivi e di attività, la responsabilità nel proprio apprendimento.

Bibliografia

Arter J.,​​ Using portfolios in instruction and assessment: State of the art summary,​​ Portland, OR, Northwest Regional Educational Laboratory, 1990;​​ Paulson F. L. - P. R. Paulson - C. A. Meyer,​​ What makes a p. a p., in «Educational Leadership»​​ 48 (1991)​​ 60-63; Arter J.- V. Spandel,​​ Using p. of student work in instruction and assessment, in «Educational Measurement: Issues and Practices»​​ 11 (1992) 36-44; Johnson N. J. - L. M. Rose,​​ Portfolios: Clarifying,​​ constructing and enhancing,​​ Lancaster, PA, Techonomic Publishing, 1997; Wiggins G.,​​ Educative assessment. Designing assessments to inform and improve student performance, San Francisco, CA, Jossey-Bass Publishers, 1998; Comoglio M.,​​ Insegnare e apprendere con il p., Milano, RCS-Fabbri Editore, 2003; Johnson R. S. - J. S. Mims-Cox - A. Douyle-Nichols,​​ Developing portfolios in education. A guide to reflection,​​ inquiry and assessment, Thousand Oaks, CA, Sage, 2006.

M. Comoglio




POSITIVISMO E EDUCAZIONE

 

POSITIVISMO E EDUCAZIONE

1.​​ Il P. come movimento culturale.​​ Il complesso movimento culturale che si è soliti definire con il termine di P. si sviluppò a partire dai primi decenni del XIX sec. in Francia, in Inghilterra, in Germania e infine anche in Italia, riflettendo e intrecciandosi con i processi di modernizzazione che stavano trasformando in modo radicale la vita produttiva e sociale. Si trattò di un’epoca complessivamente pacifica sul piano dei conflitti militari e segnata da importanti scoperte in campo scientifico e tecnologico che determinarono un forte rinnovamento e incremento della produzione, dall’ampliamento dei mercati e il potenziamento dei trasporti, dal moltiplicarsi del fenomeno dell’urbanesimo, dai progressi in campo medico che debellarono antichi flagelli e migliorarono le condizioni di vita specie dei ceti popolari. Questi importanti mutamenti socio-economici si accompagnarono alla definitiva affermazione della borghesia imprenditoriale sia sul piano politico sia sul piano del costume e dei valori.

1.1.​​ Sotto il profilo teorico​​ alcuni tratti di fondo comuni consentono l’identificazione del P. come movimento culturale. Il primo carattere è rappresentato dal primato assegnato al «fatto» inteso come unica esperienza verificabile: ciò che è, è ciò che appare come osservabile. La realtà non è che un tessuto di fatti, cioè di accadimenti verificabili. Ne consegue che il modello di conoscenza sperimentale basato sulla capacità di previsione secondo leggi scientifiche costituisce il modello positivo di tutto il sapere (non solo, dunque, delle scienze naturali, ma valido anche per lo studio dell’individuo e della società). Si profila così la possibilità di una nuova era storica e di una nuova società organizzata secondo il modello scientifico-sperimentale concepito come alternativo e, dunque, incompatibile con altri modelli culturali e sociali di tipo, per es., religioso o metafisico (Saint-Simon, Comte). Il secondo tratto caratteristico è dato dalla concezione evolutiva a base naturalistica dei fenomeni umani e sociali. La storia dell’uomo e della società non sarebbe che un ininterrotto processo evolutivo che è via via passato da forme di vita e di organizzazione sociale più semplici a forme via via sempre più complesse (Spencer, Darwin). L’età positivistica è pervasa da un ottimismo generalizzato che scaturisce dalla convinzione di un progresso inarrestabile (talvolta pensato come frutto dell’ingegnosità umana, talaltra come necessità automatica) verso condizioni di benessere diffuso in una società pacifica e percorsa dal principio della solidarietà. Salvo qualche eccezione (per es. Stuart Mill), il P. è dunque segnato da una fiducia spesso acritica, sbrigativa e superficiale nella stabilità e nella crescita senza ostacoli governata dalla scienza.

1.2.​​ Al​​ ​​ naturalismo evolutivo​​ corrispondono sul piano etico-sociale istanze antimetafisiche ed anti-confessionali, fortemente critiche e liberistiche, ma che tuttavia non sfuggono, a loro volta, a esiti deterministici (​​ Ardigò, Lombroso). L’uomo è visto quasi come un epifenomeno della natura. L’etica è ridotta per lo più a socialità, ovvero alla disposizione a seguire le leggi che governano la società e a viverle come dovere (​​ Durkheim). Sul versante politico la cultura positivista manifesta aspetti non meno ambivalenti, d’un lato valorizzando gli ideali umanitari e progressisti tipici della democrazia e, dall’altro, imprimendo nei fatti alla società liberale uno sviluppo condizionato dagli interessi della borghesia produttiva, per lo più di sentimenti moderati e conservatori.

2.​​ Il​​ P. come movimento pedagogico.​​ Nel P. si coglie un forte interesse per l’educazione e la pedagogia e molti dei suoi più autorevoli esponenti si occupano di tematiche formative (Spencer, Durkheim, Bain, Ardigò). La pedagogia è concepita come scienza sociale per eccellenza ed è reputata come una delle forme scientifiche della trasformazione sociale nella misura in cui essa sa ristrutturarsi in senso positivo e sperimentale. La scuola, a sua volta, è considerata in maniera strettamente funzionale con l’organizzazione della società ed è perciò vista come lo strumento attraverso cui è possibile promuovere i processi di modernizzazione sia sul piano della mentalità individuale sia a livello di comportamenti collettivi. L’analisi pedagogica non si svolge tuttavia in quelle forme lineari che l’adozione del metodo sperimentale e i protagonisti stessi potrebbero far ritenere, ma si articola sul piano teorico in forme alquanto complesse, oscillando tra tendenze dogmatiche e istanze critiche. Anche in sede pedagogica si registrano due linee di sviluppo della pedagogia positivistica: una linea dogmatica in cui prevale l’identificazione della scientificità con la scienza evolutiva, intesa come unico criterio di verità, con la congruente riproposizione di una nuova metafisica al posto di quella che si voleva combattere (per quanto riguarda l’Italia all’interno di questo orizzonte culturale si collocano autori come Ardigò, Angiulli, De Dominicis, Siciliani). Un’altra linea di sviluppo privilegia invece il metodo critico, la dimensione sperimentale, il confronto con la realtà in vista dello sviluppo dell’uomo e della società e non per la scienza presa per se stessa, con un approccio, dunque, più umanistico e storico (​​ Gabelli, Marchesini, Pasquali,​​ ​​ Villari) e meno condizionato da pregiudiziali di tipo ideologico. Gli studi e le ricerche più recenti individuano in questa seconda linea di sviluppo l’esito più significativo e produttivo del P. pedagogico sul piano storico.

3.​​ La valutazione storiografica del P.​​ È opportuno, a questo punto, aprire una breve parentesi per accennare al fatto che in campo storiografico la valutazione del P. sia come fenomeno culturale sia, più specificamente, come movimento pedagogico è stata a lungo controversa ed è ancora oggi motivo di discussioni. Su di esso sono pesati il giudizio di netta e complessiva condanna dell’​​ ​​ idealismo, le riserve del​​ ​​ marxismo che lo ha a lungo guardato con diffidenza in quanto ideologia tipicamente borghese (anche se non sono mancate venature positiveggianti più che significative nei movimenti socialisti europei) e, infine, le critiche ad una visione spesso acritica della scienza e del metodo scientifico avanzate negli ambienti scientifici del primo Novecento ben più scaltriti dei positivisti tardo-ottocenteschi sul piano epistemologico. Né hanno giovato sul piano della ricostruzione e dell’analisi storica, a loro volta, i tentativi compiuti da una parte della storiografia di formazione tardo-positivista volti ad una acritica e un po’ scontata difesa del movimento. Il graduale stemperarsi delle polemiche anche contingenti e il moltiplicarsi delle ricerche su singoli aspetti hanno contribuito, con il trascorrere del tempo, a sgombrare il campo da molti fraintendimenti e sospetti e, soprattutto, hanno consentito una migliore conoscenza del P. non solo in quanto pura teoria, ma nei suoi vari apporti specifici in campo sociale, giuridico, medico, pedagogico e così via. Ciò ha permesso una valutazione più serena dei risultati effettivamente raggiunti e, dunque, meno condizionata da pregiudizi di parte. Anche per quanto riguarda il campo dell’educazione e della scuola gli studiosi sono concordi nel rilevare che gli apporti più significativi sono venuti non tanto sul piano dall’elaborazione teorica (spesso esposta a tendenze dottrinarie) quanto dall’individuazione e dall’approfondimento di alcuni nuovi ambiti di ricerca che hanno consentito alle prassi educative di compiere significativi progressi. In primo luogo va ricordato che le ricerche sperimentali in medicina e in psicologia applicate all’educazione hanno, per es., permesso di aprire la strada ad una conoscenza più puntuale e meno approssimativa del fanciullo, dal funzionamento della sua intelligenza ai meccanismi di apprendimento. Se certe semplificazioni e riduzioni delle funzioni intellettive ci sembrano oggi sconcertanti e improponibili, non si può dimenticare che i fondamentali apporti della scuola psico-pedagogica di​​ ​​ Binet,​​ ​​ Claparède,​​ ​​ Decroly e, più tardi,​​ ​​ Piaget non sarebbero stati possibili se non avessero potuto avvalersi dei risultati raggiunti per via sperimentale nell’ultimo Ottocento in campo neuro-fisiologico. Per restare ancora sulla conoscenza del fanciullo, va inoltre richiamato come la cultura positivista abbia opportunamente valorizzato la dimensione che oggi diremmo della corporeità promuovendo, da un lato, migliori pratiche igieniche, maggiori cure alimentari, una più avvertita attenzione alla salute fisica (in sostanza una concezione più sana dell’esistenza) e, dall’altro, sostenendo con grande vigore (in ciò aiutata da una visione militar-nazionalista del quadro politico complessivo) l’introduzione dell’educazione fisica nella scuola, giudicata necessaria integrazione dell’educazione intellettuale e morale. Sul piano dei metodi didattici la valorizzazione delle pratiche induttive promosse una visione meno libresca e mnemonistica della scuola, più vicina alle «cose» e meno basata sulle parole e sul ragionamento astratto, andando oltre le consuetudini didattiche di metà Ottocento ancora in larga misura affidate alla ripetizione e alla memorizzazione. Occorre peraltro avvertire che non tutte le realizzazioni furono all’altezza delle affermazioni di principio e delle esperienze dei maestri più esperti e competenti. Non a torto​​ ​​ Lombardo-Radice avrebbe denunciato agli inizi del nuovo secolo una diffusa mentalità «pedagogistica», incapace di alzarsi al di sopra della semplicità dell’esperienza, polemicamente contrapposta alla mentalità «pedagogica» capace invece di misurarsi anche con la riflessione teorica. L’ottimismo progressista del P. congiunto con le scoperte mediche e quelle psicologiche consentirono, infine, un approccio scientificamente più corretto e articolato al problema dell’handicap mentale e fisico e una visione meno punitiva e più rieducativa (anche se l’esperienza pratica non andò oltre il perfezionamento delle forme di segregazione) della devianza infantile e giovanile.

4.​​ L’interesse per la scuola.​​ Resta da richiamare un’ultima questione e cioè il forte interesse che la cultura positivista manifestò in genere per il problema scolastico. La ragione va ricercata in alcuni dati storici: le trasformazioni tecnologiche e produttive che sollecitavano una manodopera più istruita; la sempre maggiore circolazione della cultura scritta; le spinte emancipative (spesso di matrice anarchica e socialista) che agitavano, talora in modo disordinato, i ceti popolari; le resistenze della Chiesa alla modernità laica giudicata come un pericolo per la fede religiosa; il bisogno di stabilità della società borghese impegnata nell’espansionismo coloniale; la legittimazione dei valori borghesi come valori sociali egemoni. La scuola fu prospettata sia come potente occasione di modernizzazione sia come strumento di socializzazione politica collettiva e, dunque, nel medesimo tempo fattore di progresso, emancipazione e di controllo sociale. L’analisi del​​ ​​ funzionalismo sociologico si può considerare a tal riguardo esemplare: attraverso la scuola, opportunamente ristrutturata su basi scientifiche, era possibile orientare e guidare i comportamenti individuali e sociali liberandoli da quegli atteggiamenti e sentimenti che non risultavano funzionali alla civiltà moderna (ignoranza, superstizioni, senso fatalistico della vita) e promuovendo quelli che ne erano invece elemento costitutivo (fiducia nel progresso, disponibilità al nuovo, iniziativa personale). Alla scuola era inoltre fatto carico di sostenere i sentimenti di lealtà, ordine e disciplina necessari per lo sviluppo ordinato della società borghese sia mediante la circolazione e interiorizzazione dei valori nazionali (con il passaggio dalla fedeltà al gruppo, al clan, alla famiglia alla fedeltà alla nazione) e sia attraverso la promozione di quei codici di comportamento anche individuali che la borghesia liberale aveva posto a base del suo accreditamento come classe egemone (lealtà, rispetto delle apparenze, laicità nel modo di guardare all’esistenza, paternalismo). Da queste premesse scaturirono le politiche scolastiche del secondo Ottocento destinate a segnare un tornante significativo nella storia sociale e civile dei paesi europei e anglosassoni: affermazione e generalizzazione dell’​​ ​​ obbligo scolastico inteso come «minimo garantito» di sapere per ciascun cittadino; netta distinzione tra la scuola per tutti e la scuola destinata alle élites dirigenti; diretto intervento dello Stato in campo scolastico (con la creazione, in alcuni casi, di veri e propri sistemi scolastici statali, come in Francia e in Italia); laicizzazione dei programmi; potenziamento del sapere scientifico pur in un quadro di perdurante primato ancora assegnato alla cultura classica.

Bibliografia

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G. Chiosso