1

PERENNIALISMO PEDAGOGICO

 

PERENNIALISMO PEDAGOGICO

Espressione e teoria che deriva dalla filosofia rinascimentale (A. Steuchus la usò per la prima volta nel 1540: «filosofia perenne» nella sua​​ De perenni philosophia libri X),​​ che si sforza di dimostrare che i principi educativi fondamentali sono già presenti nelle opere e negli avvenimenti dell’Antichità e che si vanno trasmettendo attraverso la storia.

1. Si tratterebbe dell’insieme di verità fondamentali, leggi del pensiero e dell’opera educativa che, a partire dagli antichi scrittori ed educatori greci e latini, i santi Padri, i dottori della Chiesa, i teorici dell’educazione e gli educatori, hanno raccolto, accresciuto e valorizzato empiricamente o scientificamente, sottoponendole alla critica del filosofo dell’educazione. Fondamentalmente il p.p. coincide con l’​​ ​​ essenzialismo pedagogico, senza giungere ad identificarvisi. In realtà i grandi pensatori che aderiscono all’essenzialismo attribuiscono una grande autorità estrinseca alla teoria del p. Uno degli autori moderni che segue questa dottrina, ma che amplia il campo del p.p. è​​ ​​ Willmann.

2. Il possibile errore in cui può incorrere il p.p. è quello di non riuscire a depurare le nuove conoscenze per incorporarle nel pensiero tradizionale o di riferirsi a principi ritenuti immutabili e che in realtà non lo sono. La causa principale degli attacchi alla cosiddetta scuola tradizionale (ripetitiva, immobilista, alessandrinista) deriva da una cattiva comprensione o da una prassi equivocata del p.p. L’errore nel p.p. è direttamente proporzionale all’intellettualismo che può manifestarsi nella scuola mentre il successo educativo è proporzionato all’apertura della mente.

3. Tutte le metodologie e le pratiche educative basate sulle filosofie fenomenologistiche, pragmatistiche, esistenzialistiche, si oppongono nettamente a quelle derivate dal p., per cui un’educazione basata su una delle due concezioni si distingue dall’altra per la sua maggiore o minore versatilità. «Fattore fondamentale nel programma educativo fu l’insegnamento delle lingue classiche e la conoscenza della cultura antica. Più tardi si dovette rinnovare questo programma conservando, tuttavia, il suo carattere basato sempre sui cosiddetti “valori perenni”, cosa che spiega il nome di p. che gli hanno dato negli Stati Uniti» (Suchodolski, 1971, 171).

Bibliografia

Barion J.,​​ Philosophia perennis als Problem und als Aufgabe,​​ 1936;​​ Truyol Serra A.,​​ La situación filosófica actual y la idea de la filosofía perenne,​​ in «Anales de la Universidad de Murcia» (1947-48) 343-366; Suchodolski B.,​​ Tratado de pedagogía,​​ Barcelona, Península, 1971.

V. Faubell




PERSONA

 

PERSONA

L’essere umano, in quanto radicalmente capace di autonomia, libertà, responsabilità ed auto-trascendenza.

1. Il termine lat.​​ persona​​ originariamente traduceva quello gr.​​ prósopon​​ (maschera, personaggio che gioca un ruolo in un’opera teatrale). Analogamente gli stoici parlano di p. ad indicare che l’uomo ha da giocare nel mondo il ruolo assegnatogli dal destino. Ma nel corso delle controversie teologiche sulla Trinità e sull’incarnazione del Verbo, durante i primi secoli del Cristianesimo, p. venne ad essere identificata anche con il termine​​ hypóstasis​​ (supporto, soggetto, sostanza). In questa linea si pone la classica definizione di p. data da Boezio («sostanza individuale di natura razionale»), ricalcata poi da Tommaso d’Aquino («ogni individuo dotato di natura razionale»), che però evidenziò anche l’originario aspetto di relazione e di operare nel mondo, contenuto nel termine. Nel diritto romano p. indica chi è soggetto di diritti, in contrapposizione a chi è schiavo, agli animali o alle cose. Nell’età moderna p. è assimilata all’io, alla coscienza morale, soggetto di imputabilità e di responsabilità del proprio operare. È con il sec. XX che il concetto di p. è diventato basilare, dando luogo a svariate forme di personalismo, tra cui sono da segnalare quello di​​ ​​ Mounier, di M. Scheler, di​​ ​​ Guardini, di​​ ​​ Stefanini o dello stesso​​ ​​ Maritain.

2. Con p. si vuole significare che l’essere umano manifesta nell’operare qualcosa che lo fa apparire come «eccezionale», «diverso», «altro», pur nell’innegabile somiglianza, continuità e comunanza con altri esseri umani e con gli animali o le cose. In particolare si intende mettere in luce che l’uomo è un «essere-in-sé», soggetto, non mai riducibile completamente ad oggetto da nessuno. Nel rapporto con gli altri nel mondo, nell’amicizia e nell’amore o magari nella tensione e nel conflitto inter-individuale e collettivo, riconosce gli altri come «altri sé» ed è riconosciuto da loro come «se stesso». Peraltro l’uomo, in quanto p., grazie alla sua corporeità e spiritualità, si mostra come essere aperto agli altri («esse-ad»), «essere di comunione», che si realizza nel rapporto con il mondo (nel lavoro), con gli altri (nei rapporti interpersonali e nella vita comunitaria), con Dio (nella religione e nella comunione di fede). In queste sue modalità di essere si fa risiedere la sua dignità ed assolutezza di fine e di valore («esse per se»), non mai riducibile totalmente a mezzo o a strumento, come l’umanesimo moderno, con​​ ​​ Kant e lo stesso Marx, ha imparato a recitare (​​ diritti umani).

3. Nella pedagogia contemporanea la p. reale è vista come la pietra di paragone e l’obiettivo orientante di ogni progettazione e di ogni intervento educativo. Ma questa stessa affermazione abbisogna di essere ben compresa e posta nel suo retto contesto, pena di dare adito ad orientamenti educativi fuorvianti, esposti al rischio di spiritualismo, d’intellettualismo astratto o di individualismo, che mal si combinerebbero con prospettive comuni alla concezione di p., vista come spirito incarnato, esistenza incarnata, realtà comunitaria, impegnata nel mondo e nella storia. Oggi, a motivo delle possibilità di interventi tecnologici sul soma e sulla psiche umana, è da esplorare pure il termine​​ ​​ personalità e di​​ ​​ personalizzazione, anche per calibrare meglio l’intervento educativo.

Bibliografia

Rigobello A. (Ed.),​​ Lessico della p. umana,​​ Roma, Studium, 1986; Milano A. - A. Pavan (Edd.),​​ P. e personalismi,​​ Napoli, Dehoniane, 1988; Flores d’Arcais G. (Ed.),​​ Pedagogie personalistiche e / o pedagogia della p.,​​ Brescia, La Scuola, 1994; Spaemann R.,​​ Persone. Sulla differenza tra «qualcosa» e «qualcuno», Roma / Bari, Laterza, 2005; Peroli E.,​​ Essere p.​​ Le origini di un’idea tra grecità e cristianesimo, Brescia, Morcelliana, 2007.

C. Nanni




PERSONALISMO PEDAGOGICO

 

PERSONALISMO PEDAGOGICO

Indirizzo di pensiero in cui, sulla scorta della concezione dell’​​ ​​ uomo come soggetto libero, responsabile dei suoi atti, aperto agli altri, orientato al vero e proteso al bene, si configura l’educazione quale opera promozionale della​​ ​​ persona, considerata nella totalità delle sue funzioni, nella concretezza dei suoi processi evolutivi e nella fattualità del suo radicamento sociale.

1.​​ Storia e identità del p.​​ Come fenomeno storico e culturale il p. nasce in Francia, con​​ ​​ Mounier e la rivista «Esprit», da lui fondata nell’ottobre del 1932, insieme ad alcuni amici intellettuali di varia provenienza ideologica. Siamo in un periodo di diffuse inquietudini etico-politiche connesse all’affermazione dei totalitarismi di destra (in Italia, in Germania, in Spagna) e al consolidamento della dittatura sovietica. Nel riflettere sulla vicenda del p.,​​ ​​ Stefanini, pur non escludendone origini risalenti addirittura alla filosofia greca, là dove, come per i​​ ​​ Sofisti e​​ ​​ Socrate, si registra, nonostante il persistente «intellettualismo», l’«inclinazione» a ricondurre il pensiero-parola alla sua fonte personale, osserva che il terreno proprio in cui si pongono i semi per lo sviluppo di quest’indirizzo è, nella scia dell’orizzonte antropo-teologico dischiuso dall’ebraismo, il cristianesimo. Sempre per lo Stefanini, il p. costituisce il​​ deus absconditus​​ che agita in profondità tutto il pensiero moderno, senza riuscire veramente, salvo qualche caso (ad es., Pascal, Kierkegaard, Jacobi, Schiller, Schleiermacher, Maine de Biran, Gioberti,​​ ​​ Rosmini), a emergere in superficie. Dal razionalismo cartesiano all’empirismo, dal panlogicismo immanentistico hegeliano al materialismo storicistico marx-engelsiano si snoda un itinerario speculativo in cui la persona, sia pure per ragioni diverse, stenta ad essere riconosciuta nelle sue costitutive dimensioni di singolarità, profondità, libertà e trascendenza. È comunque tra Otto e Novecento, specialmente per merito degli spiritualisti francesi (si pensi a E. Boutroux, H. Bergson, M. Blondel,​​ ​​ Laberthonnière), che si delineano prospettive di pensiero in varia misura anticipatrici del vero e proprio p. L’attribuzione di questa denominazione a un sistema filosofico si deve, per primo, a Ch. Renouvier, il quale, nell’opera​​ Le personnalisme,​​ del 1903, presentava la dottrina della personalità come l’ultima definizione del suo criticismo. In realtà, Laberthonnière probabilmente già dal 1894 aveva redatto un​​ Esquisse du système personnaliste,​​ che a causa di sospetti di natura dottrinale fu pubblicato postumo, nel 1942. Particolari espressioni del p. si ebbero, all’inizio del Novecento, negli Stati Uniti, ad opera di studiosi come B. P. Bowne, W. E. Hocking, intenti a una revisione dell’astratta dialettica idealistica, al fine di riscattare, in alcuni casi secondo un’ottica cristiana, la concretezza del principio individuale-personale. Nel 1919 fu anche promossa la rivista​​ The Personalist.​​ Il p. di Mounier, debitore, per quanto concerne i contemporanei, di vari influssi (da Bergson a Blondel, da Scheler a Marcel, da Berdjaev a Le Senne), intendeva essere «filosofia», ma non «sistema». Avverso a ogni forma d’ideologia, esso si proponeva come pensiero aperto, dinamico, critico, disponibile al confronto, orientato al cambiamento. Il «progetto» mounieriano si dispiegava in un disegno di ampio respiro che, muovendo dal riconoscimento della centralità della persona, investigata nelle sue fondamentali dimensioni d’«incarnazione», di «comunicazione» e di «vocazione», prefigurava, contro il «disordine stabilito» del XX sec. e le «derive» sia del capitalismo sia dei totalitarismi, un modello di organizzazione socio-politica di forte impronta «comunitaria». Fede democratica, tensione utopica e carica profetica alimentavano questa prospettiva «rivoluzionaria» orientata alla progressiva edificazione di una «comunità di persone», in cui i diritti di ciascuno andavano armonizzati con gli interessi del bene comune. Il movimento personalistico di «Esprit» manifestò al suo interno diverse tendenze, di cui, sul piano specificamente filosofico, si resero interpreti studiosi come J. Lacroix, P. Landsberg, M. Nédoncelle, P. Ricoeur. Subito dopo la seconda guerra mondiale, il p., che nell’ambito della filosofia socio-politica aveva intanto registrato, fra gli altri, il contributo di Maritain (all’inizio collaboratore della rivista di Mounier), conobbe anche fuori della Francia feconda fioritura. Un discorso a sé merita il p. italiano. Alla stregua di quanto verificatosi per i personalisti americani d’inizio secolo, pure da noi la maturazione del p. si produsse nel confronto con l’idealismo, precisamente nella formulazione attualistica. Se A. Carlini tentò di uscire dall’attualismo attraverso un processo di «esistenzializzazione del trascendentale», sulla scorta dell’esigenza di recuperare la concretezza individuale del soggetto considerato nel suo intrinseco rapporto con l’Assoluto, Stefanini, anch’egli sensibile al fascino spiritualistico della filosofia gentiliana, senza tuttavia acconsentire mai con essa, approdò nella fase matura della sua ricerca a una «metafisica della persona», premessa e fondamento di un programma di «summa​​ personalistica», con sviluppi sui versanti etico, sociale, estetico e pedagogico. Per impulso dello Stefanini e, in seguito, di alcuni suoi allievi (​​ Flores d’Arcais, A. Rigobello, G. Santinello) l’Università di Padova divenne dagli anni cinquanta il maggiore centro d’irradiazione del p. in Italia. Intorno al problema dell’identità del p., le posizioni degli studiosi appaiono diversificate. Già nel 1946 Maritain era indotto a considerarlo non come «una​​ scuola» o «una​​ dottrina», ma piuttosto come un «fenomeno di reazione [...] inevitabilmente molto misto» contro gli opposti errori del totalitarismo e dell’individualismo (La persona e il bene comune,​​ Brescia, Morcelliana, 1963, 8). All’inizio degli anni settanta J. Lacroix, in sostanza, confermava la tesi precedente. Egli infatti reputava il p. non una vera e propria filosofia, né una sorta di orientamento ideologico, bensì un’«anti-ideologia», ovverossia un’aspirazione speculativa e un atteggiamento di spiccata rilevanza esistenziale, fortemente connessi con l’attività pratica. Da queste valutazioni dissente però A. Rigobello, il quale, riallacciandosi a una distinzione dello Stefanini, propone intanto una duplice accezione di p. In​​ senso stretto​​ esso designa una filosofia il cui centro teoretico è costituito dall’intuizione originaria della persona, colta nel complesso dei suoi valori e significati essenziali. Ne consegue, come ulteriore compito di ricerca per questo indirizzo, l’approfondimento in chiave fenomenologico-esistenziale di quella primaria intuizione, con costante riguardo ai contesti storico-ambientali di riferimento e alle relative implicanze socio-culturali. In​​ senso ampio​​ il p. indica una posizione speculativa e un complesso di atteggiamenti pratici, morali, sociali, politici contraddistinti dal riconoscimento del primato della persona, che postula il rifiuto di qualsivoglia forma di strumentalizzazione della medesima. Però il quadro teoretico o metafisico in cui la figura dell’essere personale si situa e trova giustificazione va ricercato altrove: per es., nel pensiero scolastico o in indirizzi di vario tenore umanistico o, ancora, nel sistema esistenzialistico. Autori come Mounier e Stefanini appartengono alla prima posizione, altri come Maritain alla seconda. Il Rigobello conviene poi con chi ravvisa nel p., sotto il profilo storico, un «fenomeno di reazione». Ma, a suo giudizio, sul piano speculativo, l’indirizzo in questione risulta riduttivamente interpretato se lo si presenta come semplice «anti-ideologia». Ciò, perché il tema della persona appare di tale pregnanza teoretica da essere, oltre che centrale nella ricerca filosofica, capace anche di porre il problema dell’identità della filosofia stessa.

2.​​ Dal p. filosofico al p.p.​​ Il p.p. trova collocazione storica e culturale in quanto sin qui detto. Anch’esso, come «applicazione» e sviluppo interno della riflessione personalistica, rappresenta un fenomeno tipico del Novecento e, in special modo, del secondo dopoguerra. Anticipazioni se ne possono però reperire nell’intera storia della pedagogia occidentale, precisamente là dove l’educazione è concepita come opera promozionale di un soggetto libero, responsabile delle proprie azioni, fonte di dignità incoercibile, teso alla ricerca della verità e del bene. Da Socrate ad​​ ​​ Agostino, da​​ ​​ Tommaso d’Aquino a​​ ​​ Vittorino da Feltre ed​​ ​​ Erasmo da Rotterdam, da​​ ​​ Comenio e​​ ​​ Pestalozzi agli spiritualisti del Risorgimento (Gioberti, Rosmini,​​ ​​ Lambruschini,​​ ​​ Capponi, Tommaseo) si presenta una galleria di autori, i quali, pur nella varietà degli indirizzi, convergono intorno alla prospettiva pedagogica sopra indicata. A motivo di ciò possiamo allora parlare di una sorta di p.p.​​ perennis​​ che si snoda dall’antichità al Novecento, emergendo però in questo secolo con espressioni di particolare consistenza. Circa il problema dell’identità di tale indirizzo, conviene ricordare un’annotazione dello Stefanini. Egli denominava personalistica «una pedagogia la quale s’accentri sul concetto di persona e la persona umana definisca come una sostanza spirituale, razionale, singolare, libera, responsabile, incarnata, mondanizzata» (Il p.p.,​​ in «La Scuola e l’Uomo», 1957, 3, 3). Senza negare a questa definizione il pregio della chiarezza, è però opportuno avere presente l’invito di A.​​ ​​ Agazzi a non attribuire al p.p. un significato troppo limitativo, tale cioè da ridurne l’estensione alla sola pedagogia cattolica o addirittura alla sua corrente «spiritualistica». Questo, perché, anche in prospettive antropologico-pedagogiche «laiche», quando s’introducono, seppur in maniera più o meno surrettizia, riferimenti tipici della dimensione spirituale dell’uomo, si finisce, volenti o nolenti, con l’accedere alle tesi degli spiritualisti / personalisti. Alla luce di simili osservazioni, sembra allora plausibile tenere viva la distinzione tra p.p.​​ in senso stretto​​ e​​ in senso ampio.​​ Il primo concerne pedagogie che, sulla scorta di antropologie in grado di fornire un’interpretazione realisticamente adeguata dell’uomo, reputano l’educando come persona da promuovere nell’armonica integralità del suo essere bio-psichico, sociale, spirituale, nonché nella pienezza della vocazione storica e metatemporale; il secondo riguarda indirizzi educativi che, sebbene tributari di visioni antropologiche per qualche aspetto carenti, risultano nondimeno attenti ai principali bisogni di crescita del soggetto e alla tutela del medesimo rispetto a qualsiasi manipolazione di carattere ideologico, politico, tecnocratico. Limitatamente al Novecento, nell’una o nell’altra categoria vanno iscritti numerosi pedagogisti o comunque studiosi dei problemi dell’educazione. Citiamo, per es., i nomi di Laberthonnière,​​ ​​ Montessori,​​ ​​ Spranger,​​ ​​ Förster,​​ ​​ Dévaud,​​ ​​ Willmann, Schneider,​​ ​​ Guardini, Meylan,​​ ​​ Freire. Anche in Mounier, il capitolo relativo ai problemi educativi e scolastici assume notevole rilievo. L’educazione vi appare come processo teso ad autenticare la vocazione personale nel contesto di una specifica appartenenza comunitaria. Persona e comunità risultano i due poli indissolubili di un «progetto educativo» in cui la promozione della libertà, dell’intelligenza, della volontà, dello spirito dialogico, del senso di responsabilità prende forma entro una prospettiva di realistica attenzione all’incidenza dei vincoli posti al singolo dalla dimensione bio-psichica e dall’ambiente. Sul versante istituzionale e scolastico il disegno si configura poi secondo una proposta di scuola aperta alla totalità dei bisogni formativi dell’alunno, pluralistica, laica e partecipata. Con Mounier l’altro autore, anch’egli non pedagogista di professione, che contribuì al progressivo delinearsi del p.p. contemporaneo fu Maritain. Nell’orizzonte di un’antropologia incisivamente espressa con la formula dell’«umanesimo integrale», il pensatore neo-tomista andò suggerendo un modello educativo avente come fine lo sviluppo del soggetto secondo un’articolazione armonica di tutte le sue dimensioni (spirito e corpo, intelligenza e sentimento, amore e volontà, libertà e grazia). In àmbito scolastico, il progetto si condensava nell’idea dell’«educazione liberale per tutti», attenta non solo ai valori delle culture classica e scientifica, ma anche alle istanze della preparazione pratico-professionale, nonché nella sottolineatura dell’urgenza dell’insegnamento della «carta democratica». Mounier e forse ancor più Maritain incisero sullo sviluppo del p.p. tanto in Europa quanto in America. Eco notevole del loro contributo si ebbe pure in Italia dopo la fine della seconda guerra mondiale. Da noi però fu sempre lo Stefanini ad assumere un ruolo di spicco per la crescita di un movimento pedagogico di marca personalistica. Nella riflessione a cavallo tra gli anni quaranta e cinquanta egli giungeva a prospettare l’idea di educazione come «maieutica della persona». Da lì traeva sviluppo un’ampia prospettiva di «personalizzazione» dei processi, delle istituzioni (in ispecie la scuola) e dei contesti educativi, in cui si fondevano equilibratamente motivi d’ispirazione pedagogico-cristiana, istanze della migliore tradizione umanistica, suggerimenti della lezione attivistica. Tutto ciò in un quadro interpretativo e prospettico dei rapporti tra persona e società espresso con la formula del «socialitarismo personalistico». Insieme con altri colleghi (​​ Casotti, Calò, Agazzi,​​ ​​ Nosengo), lo Stefanini, nel 1954, fu all’origine di​​ Scholé,​​ il Centro di Studi Pedagogici fra i docenti universitari cristiani, promosso con il sostegno dell’Editrice La Scuola di Brescia. Esso divenne l’ambito dove i pedagogisti cattolici andarono via via approfondendo fondamenti e orientamenti di una pedagogia che, per quanto modulata secondo differenti sensibilità teoriche (dal neo-tomismo al realismo, dallo spiritualismo rosminiano al p.), intendeva proporsi con coerenza rispetto all’idea di persona, unanimemente considerata come principio ispiratore di ogni programma di educazione. Tra i partecipanti della prima ora, oltre ai citati promotori, ricordiamo gli italiani Agosti, Baroni, Bongioanni, Braido, Catalfamo,​​ ​​ Corallo, Gianola,​​ ​​ Laeng, Peretti, Petrini, Petruzzellis, Santomauro, Zavalloni e gli stranieri Barbey,​​ ​​ Buyse, García Hoz, Muñoz Alonso, Planchard.

3.​​ Recenti riflessioni sul p.p.​​ All’inizio degli anni settanta il problema dell’identità del p.p. riemerse con un certo vigore in Italia. Ne furono principali protagonisti G. Catalfamo e M. Peretti. Il primo, fautore di un «p. senza dogmi», maturato sulla scorta di una revisione «critica» della pedagogia cattolico-personalistica, a suo giudizio incapace di esprimere sino in fondo le istanze problematiche e storico-progettuali proprie di una visione «aperta» dell’educazione; il secondo, propugnatore di un «p. senza equivoci», rigorosamente fondato sul piano metafisico e ancorato all’universo dei «perenni» princì­pi / valori cristiani, anche se sensibile alle necessarie mediazioni / innovazioni storico-culturali, di cui deve rendersi interprete ogni proposta educativa. L’esito del dibattito valse a confermare per lo stesso settore pedagogico la compresenza di una pluralità d’indirizzi personalistici, la cui obiettiva diversificazione sul piano dei presupposti teoretici non pregiudicava, ad ogni buon conto, la convergenza intorno al concetto centrale dell’educazione come processo pienamente promozionale della persona. Negli ultimi tempi, l’interesse per il p. è andato crescendo. P. Ricoeur ha però messo in guardia dal rischio di dare vita a una sorta di «archeologia personalistica», perché, a suo dire, «il p. è più davanti a noi che dietro» (cit. da A. Danese,​​ Prospettive neopersonaliste,​​ in «Prospettiva Persona» [1992] 1-2, 5). L’osservazione si applica anche a quello pedagogico. Pure in questo settore occorre non tanto «ripetere» quanto piuttosto «svolgere» creativamente e con adeguatezza storica il «messaggio» di un’esperienza culturale ricca di elaborazioni teoriche e di proposte operative. Solo così il p.p. può disporsi ad affrontare con credibilità le impegnative sollecitazioni dell’attuale temperie di pensiero postmoderno e a misurarsi in modo efficace con le «sfide» educative poste dalla società «complessa», mass-mediale e multietnica. Vanno in questa direzione le recenti prese di posizione a favore di una prospettiva «neo-personalistica», rispetto alla cui elaborazione è anche da registrare un promettente avvio di dialogo tra pedagogisti d’ispirazione cristiana e di orientamento laico. La ricorrenza del centenario della nascita di Mounier (1905-2005), celebrata anche in Italia con particolare risalto, è stata occasione di ripresa della questione personalistica in tutta la sua estensione, compresi, quindi, gli aspetti pedagogici e educativi. Quanto a questi ultimi si può dire che dalle riflessioni emerse in tale circostanza si è avuta conferma della validità di un p. «aperto» e «dialogico», capace, pertanto, di misurarsi senza prevenzioni con i problemi posti all’educazione dall’odierna società globalizzata, multietnica e tecnologico-informatica.

Bibliografia

per il paragrafo 1: Rigobello A. (Ed.),​​ Il p.,​​ Roma, Città Nuova, 1975;​​ Ricoeur P.,​​ Meurt le personnalisme,​​ revient la personne...​​ in «Esprit»​​ (1983) 1. 113-119; Nepi P., «Persona, personalità, p.», in A. Rigobello (Ed.),​​ Lessico della persona umana,​​ Roma, Studium, 1986, 177-210; Id., «Il p. e la crisi della soggettività», in A. Rigobello (Ed.),​​ Soggetto e persona. Ricerche sull’autenticità dell’esperienza morale,​​ Roma, Anicia, 1988; Pavan A. - A. Milano (Edd.),​​ Persona e personalismi,​​ Milano / Napoli, Dehoniane, 1987; Melchiorre V. (Ed.),​​ L’idea di persona, Milano, Vita e Pensiero, 1996. Per i paragrafi 2 e 3: Catalfamo G.,​​ I fondamenti del p.p.,​​ Roma, Armando, 1966; Peretti M.,​​ Breve saggio di una pedagogia personalistica,​​ Brescia, La Scuola, 1978; Manno M.,​​ Nuove ricerche sul p.,​​ Ibid., 1982; Macchietti S. S. (Ed.),​​ Pedagogia del p. italiano,​​ Roma, Città Nuova, 1982; Guardini R.,​​ Persona e libertà​​ (trad. dal ted.), Brescia, La Scuola, 1987; Flores d’Arcais G.,​​ Le «ragioni» di una teoria personalistica dell’educazione,​​ Ibid., 1987; Galino Á. - J. M. Prellezo - Á.​​ Del Valle,​​ Personalización educativa. Génesis y estado actual, Madrid, Rialp,​​ 1991; Musaio M.,​​ Il p.p. italiano nel secondo Novecento, Milano, Vita e Pensiero, 2001; Chiosso G.,​​ Profilo storico della pedagogia cristiana in Italia (XIX e XX sec.),​​ Brescia, La Scuola, 2001; Toso M. - Z. Formella - A. Danese (Edd.),​​ Emmanuel Mounier. Persona e umanesimo relazionale nel centenario della nascita (1905-2005),​​ 2 voll., Roma, LAS, 2005-2006.

L. Caimi




PERSONALITÀ

 

PERSONALITÀ

Già​​ ​​ Allport ai suoi tempi diceva che esistevano circa cento definizioni di p., tutte diverse tra loro. A queste si potrebbero aggiungere altrettante definizioni date da altri ricercatori negli anni a seguire. Per evitare di creare una nuova definizione, ci limitiamo a trattare della p., avendo presente: ciò che caratterizza l’individualità nella sua singolarità; i fattori che contribuiscono alla formazione delle singole variabili di p.; la formazione della p. La disciplina che studia queste questioni è detta psicologia della p.

1.​​ La caratterizzazione tipologica.​​ Un primo modo di descrivere la p. individuale è quello della​​ caratterizzazione tipologica.​​ Essa si è sviluppata, in particolare, in modo sistematico nella psicologia differenziale e nella psicologia della p., con l’impegno di elaborare gruppi di caratteristiche che hanno tra altro, come criterio di varianza individuale, l’appartenenza ad un determinato sesso, ad una razza specifica, ad una particolare costituzione somatica o ad un tipico stile cognitivo. Rilevanti per la descrizione tipologica sono i tipi costituzionali e gli stili cognitivi. Le tipologie costituzionali riguardano l’esistenza di una relazione tra determinate caratteristiche fisiche e specifiche caratteristiche psichiche. Così Kretschmer (1953) osservando i pazienti nella clinica in cui lavorava, avanzò l’idea che i disturbi mentali rientranti nel quadro della schizofrenia, degli stati maniaco-depressivi e dell’epilessia, fossero collegati a ben precisi tipi di costituzione somatica che egli denominò picnico (basso e rotondo), astenico (alto e sottile), atletico (ben proporzionato) e displastico, quanto non rientrava in alcun tipo puro. Sheldon (1940; 1942) introdusse l’idea di variabili continue con cui è possibile caratterizzare più realisticamente il fisico di un individuo, e inoltre affermò che esiste un rapporto tra la struttura biologica dell’individuo (somatotipo) e la dinamica della sua p.

2.​​ La descrizione della p. secondo i tratti.​​ Altri, per descrivere la p. si rifanno al costrutto dei​​ tratti.​​ Essi, secondo Carr-Kingsbury (1937-38), possono essere interpretati come tendenze dedotte dal comportamento individuale che predispongono o rendono idonei gli individui a comportamenti uguali e consistenti. Per quanto riguarda l’elaborazione e la classificazione dei tratti, Lersch (1966) e Allport (1969) si limitano a semplici teorizzazioni, mentre Cattell (1957) e Eysenck (1947) usano tecniche statistiche allo scopo di trovare quei fattori che possono rappresentare unità descrittive. Guilford (1959) è piuttosto critico a riguardo della ricerca degli elementi ultimi della p. e propone uno studio dei tratti che consideri l’aspetto qualitativo dei comportamenti e che sia capace di trovare le caratteristiche diverse (per es. morfologiche, motorie). Nell’elaborare i tratti, gli studiosi spesso non partono dalla totalità dell’individuo come fonte di avvenimenti comportamentali da considerare, ma si servono principalmente di quei fatti psichici isolati che possono essere osservati e misurati in situazioni controllabili (questionari, situazioni sperimentali, ecc.). Tra le variabili da considerarsi maggiormente rappresentative al fine di caratterizzare le differenze individuali figurano le seguenti quattro dimensioni: estroversione-introversione, adattamento emozionale, accentuazione emozionale ed autonomia nella formazione dei giudizi.

3.​​ L’approccio situazionale.​​ Rispetto a coloro che credono che i tratti intrapsichici siano fondamentali per descrivere e predire il comportamento individuale, l’approccio situazionale​​ considera le differenze individuali come risultanti da fattori situazionali. Secondo questo approccio i comportamenti individuali sono da ricercarsi nei diversi legami stimolo (S) - risposta (R) che condizionano il comportamento della persona nelle diverse situazioni di vita. In particolare per conoscere le differenze individuali, che aderiscono al situazionalismo propongono di osservare anzitutto​​ che​​ cosa​​ una persona fa nelle diverse situazioni, per poi rilevarne le reazioni (R) alle condizioni specifiche (S) del suo ambiente. Tali comportamenti vengono dai behavioristi chiamati abiti. Quindi, mentre i sostenitori del modello intrapsichico della p. interpretano le variabili di p. come cause del comportamento individuale, i behavioristi considerano gli abiti come unità specifiche del comportamento individuale. Mentre i behavioristi concordano in linea di massima sulle variabili da loro elaborate, esistono delle divergenze nell’interpretare l’attuazione di un determinato abito. Per alcuni il comportamento individuale costituisce una reazione a uno o più stimoli, per altri le singole reazioni sono risposte a stimoli incondizionati e a stimoli condizionati.

4.​​ Approccio interazionale.​​ Come si è visto il modello intrapsichico ritiene che i fattori responsabili delle differenze individuali siano fondamentalmente all’interno della p., mentre l’approccio situazionale afferma che la fonte di tali differenze è legata alle condizioni ambientali. Secondo l’approccio interazionale la persona va vista piuttosto in relazione al suo mondo, per cui il comportamento individuale è il risultato dell’interazione tra persona-situazione. Fondamentalmente si possono distinguere tre indirizzi, ognuno con una diversa interpretazione degli aspetti dell’interazione individuo-ambiente: l’interazionismo statico o lineare, l’interazionismo come interdipendenza cognitivo-dinamica e l’interazionismo come transazione. a)​​ L’interazionismo statico o lineare.​​ Considera il comportamento individuale come il risultato a cui contribuiscono simultaneamente le variabili indipendenti della persona e dell’ambiente. Tra le variabili indipendenti possono esistere delle relazioni causali o funzionali; comunque queste due categorie di variabili sono definite indipendentemente una dall’altra. Il comportamento che risulta dalle condizioni personali e ambientali non produce effetti sulla persona e sull’ambiente. Un esempio tipico di tale interazione si può trovare nel modello di Murray (1938, 61), quando interpreta il comportamento individuale in funzione dei bisogni (needs)​​ e delle tendenze o forze appartenenti al campo oggettivo o ambientale. b) Per​​ l’interazionismo cognitivo-dinamico​​ il comportamento umano è il risultato della dinamica cognitiva individuale che, a sua volta, dipende sostanzialmente dall’apprendimento della persona nel relazionarsi al suo mondo, lungo l’intero arco della vita. Questo apprendimento è interpretato diversamente dalla corrente comportamentista ad orientamento cognitivo, dalla corrente fenomenologica e dall’interazionismo sociale. Tra i​​ comportamentisti di orientamento cognitivo​​ si accetta comunemente la tesi secondo cui il comportamento umano non viene controllato semplicemente attraverso proprietà personali e stimoli ambientali, ma viene condizionato in particolar modo dalla dinamica cognitiva dell’individuo, che trasforma l’interazione persona-ambiente in una situazione soggettiva. Come rappresentante di questo approccio ricordiamo Mischel (1976, 182). Per altri studiosi (Rogers, 1951) il comportamento individuale non risulta dall’interpretazione cognitiva della realtà attuata dalla persona, ma dipende da come la persona la​​ comprende​​ e da come la​​ sperimenta.​​ In questo senso possiamo dire che secondo l’approccio cognitivo di tipo fenomenologico,​​ l’individuo non agisce in relazione alla realtà soggettiva, ma al modo in cui essa è percepita e sperimentata soggettivamente. Un terzo modo di interpretare il comportamento individuale in senso cognitivo è quello​​ compreso come agire sociale.​​ In tal caso il comportamento individuale è fondato sull’interpretazione e sulla concordanza delle aspettative nella comunicazione interpersonale. Questo modo si contraddistingue da tutte le altre correnti in quanto mette in evidenza il significato come base fondamentale del comportamento umano. Questa corrente sostiene inoltre che i significati-simboli vengono appresi e modificati progressivamente dagli individui nelle loro interazioni sociali. Al centro viene posto il problema dell’identità personale e dell’identità sociale. c)​​ L’approccio transazionale.​​ Secondo Pervin (1976) esso si basa su tre proprietà principali: «a) nessuna parte del sistema resta indipendente sia dalle altre parti del sistema, sia dalla totalità del sistema; b) una parte del sistema non agisce semplicemente sulle altre parti del sistema, ma tra di loro esiste una relazione reciproca nella quale la natura della relazione non è di tipo causa-effetto, ma transazionale; c) l’azione di una parte del sistema ha delle conseguenze anche sulle altre parti del sistema». Secondo questa visione l’interazione individuo-ambiente non può essere di tipo lineare statico, in quanto non è una semplice interdipendenza tra variabili personali e variabili ambientali, né esprime un rapporto di causa-conseguenza tra esse. L’interazione come transazione si presenta, invece, come una relazione complessa, per cui il comportamento è il risultato delle azioni reciproche della persona e dell’ambiente e delle reazioni reciproche che queste azioni provocano. Il caratterizzarsi della transazione attraverso azioni e reazioni reciproche viene riferito soltanto all’aspetto formale dell’interazione individuo-ambiente. Argyle (1977) nel suo modello generativo interpreta l’agire individuale come risultato della reciproca definizione di abilità, di aspettative e di norme della comunicazione delle persone in interazione; Lantermann (1980) invece propone un modello eclettico: il comportamento di una persona in un ambiente attuale è in funzione di un condizionamento interdipendente dei fattori personali ed ambientali.

5.​​ Salute-malattia della p.​​ Dal punto di vista pedagogico è interessante studiare la genesi e la formazione della p. Oggi un modo di farlo è quello di considerare la p. secondo la categoria salute-malattia. Volendo esaminare le diverse accezioni terminologiche riferite alla salute-malattia della p., si può facilmente rimanere impressionati dai numerosi costrutti utilizzati per descriverla. Tra questi vi sono: adattamento, maturità, autorealizzazione, competenza, identità, integrità, controllo, benessere, normalità, ecc. La diversità nell’uso di questi costrutti è indicativa del fatto che esistono divergenze nell’interpretare lo stato di salute-malattia della persona. Le diverse definizioni si possono raggruppare nelle seguenti categorie: a)​​ Normalità come assenza di malattia.​​ Secondo la prassi tradizionale lo stato psichico dell’individuo viene considerato normale quando dall’esame clinico non emergono sintomi di interesse psicopatologico. b)​​ Normalità e salute come media statistica.​​ Attualmente nella psicologia clinica, il criterio di assenza di stati patologici rilevanti viene considerato come condizione necessaria, ma non basilare per valutare la persona sana o integrale. Per coloro che definiscono la normalità in riferimento a criteri di tipo statistico, la p. è da considerarsi sana se, oltre all’assenza di sintomi patologici, possiede qualità processuali (come per es. abilità, tratti stilistici) tipiche di un soggetto medio del gruppo di riferimento. Anche in questo modo di interpretare la salute si sono riscontrati notevoli limiti per il fatto che il «soggetto-tipo» non soltanto è molto difficile da definire, ma anche per il fatto che la salute-malattia stabilite con criteri statistici non sono rappresentative per descrivere le persone (perché per es. appartengono a diversi strati sociali o hanno avuto diversi influssi culturali). c)​​ Salute come concetto ideale-utopico.​​ Un altro modo per definire la normalità fa riferimento alla p. ottimale. Contributi in questo senso sono stati offerti dai diversi modelli terapeutici (per es. Io forte, Sé), dalle ricerche su individui particolarmente validi e su persone che si distinguono per la loro biografia. Pur essendo interessante per conoscere i punti di arrivo, in questo approccio rimane aperta la questione circa la normalità delle persone. d)​​ Salute-malattia come equilibrio dinamico della totalità individuale.​​ Nella psicologia attuale si prende progressivamente atto del ruolo attivo che l’individuo ha nei confronti del suo mondo e sempre più viene posta l’enfasi sulle risorse a cui questi può attingere per far fronte alle richieste che incontra nel relazionarsi al mondo. Nell’esaminare i fattori responsabili dell’adattamento dell’individuo, si tende ad assumere non più una visione statica, ma processuale e d’insieme (olistica).

6.​​ Il​​ coping.​​ A questo riguardo è molto rilevante il costrutto di​​ coping.​​ Esso costituisce attualmente un importante oggetto di studio nella psicologia ed è stato definito in modi diversi. Le varie definizioni, tuttavia, hanno in comune il fatto di considerare il​​ coping​​ come un processo mediante il quale le persone cercano di gestire la discrepanza percepita tra le richieste loro poste da una situazione stressante e le proprie risorse. Tra le​​ qualità processuali​​ caratterizzanti il​​ coping​​ possiamo distinguere: meccanismi o strategie intrapsichiche, risorse personali e risorse sociali, modalità interazionali cognitive e comportamentali. È di qualche interesse la questione circa quali forme del​​ coping​​ siano maggiormente funzionali per l’individuo nel relazionarsi alle specifiche situazioni del suo interagire. In genere gli individui che dispongono di meccanismi o strategie intrapsichiche di tipo proattivo, o che possiedono risorse personali e risorse sociali, o che possiedono buone modalità cognitive e comportamentali, sono più in grado di percepire e valutare il loro interagire col mondo e di utilizzare comportamenti convenienti e funzionali alle specifiche situazioni. Vero è che la salute-malattia costituisce, anche se non è sempre ammesso, una dimensione unica. In questo caso la persona può, sempre fino ad un certo punto, essere sana e malata. Di maggiore attualità nell’interpretare in senso olistico l’interagire della persona, si rivelano i modelli «bio-psico-sociali-spirituali», che mettono in particolare rilievo il rapporto tra salute e «come si pensa il mondo».

7.​​ Psicologia clinica e salute-malattia.​​ Tra i modelli che interpretano la salute-malattia in senso olistico, vi sono quelli in cui prevale la prospettiva centrata sulla persona, quelli secondo cui domina la prospettiva ambientale ed, infine, quelli in cui vale la prospettiva della corrispondenza persona-ambiente. Tipici modelli in cui prevalgono le attività delle persone sono riscontrabili per es. in Engel (1962; 1979) e in Hurrelmann (1989; 1991). Per Engel la totalità biopsicosociale è costituita da un sistema integrato composto in una struttura gerarchica formata da tanti altri sottosistemi. Ogni sistema costituisce una parte integrativa dell’immediato sistema gerarchico superiore ed è attraverso scambi di informazione che avviene il legame con tutti gli altri sistemi della totalità biopsicosociale. Per Hurrelmann la salute-malattia è interpretata in riferimento ai contributi raggiunti dalle ricerche realizzate sotto il paradigma stress-salute. Secondo questo modello il bios individuale è visto nella sua totalità biopsicosociale e la salute-malattia è investigata alla luce dei recenti principi teorici della socializzazione. La salute è, secondo questo modello, interpretata in riferimento al grado di riuscita della socializzazione dell’individuo nel relazionarsi al suo mondo. Modelli olistici della salute-malattia che rientrano nella prospettiva​​ ambientale​​ sono quelli che danno rilevante importanza ad influssi socioculturali, politici, ecologici ecc. Diversamente sono interpretati i fattori e i processi secondo i modelli olistici che riferiscono la salute-malattia al criterio della corrispondenza persona-ambiente. Secondo questi modelli il rapporto salute-malattia è riferito al raggiungimento dell’equilibrio persona-ambiente. L’equilibrio della dinamica persona-ambiente è interpretato, per es., da Kaplan (1983) e da Lauth (1982) in riferimento al rapporto tra aspettative e competenze individuali e tra esigenze psicofisiche ed esigenze ambientali. In ogni caso la salute-malattia resta una questione della vita personale nella sua globalità: ad essa la terapia, la prevenzione, l’educazione e l’istruzione dovranno necessariamente, comunque e sempre, ultimamente riferirsi.

Bibliografia

Murray H.,​​ Exploration in personality,​​ Oxford, Univ.​​ Press, 1938; Allport G. W.,​​ Personality,​​ a psychological interpretation,​​ New York, Henry Holt and Co., 1945; Rogers C. R.,​​ Client-centered therapy,​​ Boston, Houghton, 1951; Eysenck H. J.,​​ The scientific study of personality,​​ London, Routledge and Kegan, 1952; Pervin L. A.,​​ Personality: theory,​​ assessment,​​ and research,​​ New York, John Wiley, 1970; Mischel W.,​​ International psychology,​​ Ibid., 1976; Franta H.,​​ Psicologia della p. Individualità e formazione integrale,​​ Roma, LAS, 1982; Mischel W.,​​ Lo studio della p., Bologna, Il Mulino, 1996; Perwin L. A. - P. J. Oliver,​​ La scienza della p.: teorie,​​ ricerche,​​ applicazioni, Milano, Cortina, 2003; Lauriola M. - A. Saggino - M. Balsamo,​​ Tratti di p. nel contesto educativo: successo ed orientamento scolastico, in «Giornale Italiano di Psicologia dell’Orientamento»​​ (2005) 1, 13-25.

H. Franta




PERSONALIZZAZIONE

 

PERSONALIZZAZIONE

In ambito pedagogico la p. si riferisce all’attività educativa finalizzata alla valorizzazione di ogni persona concreta, con le sue caratteristiche peculiari, con la sua originalità, con il suo bisogno fondamentale di comunicazione e di condivisione.

1. Il movimento delle​​ ​​ scuole nuove, all’inizio del XX sec., introdusse il concetto di insegnamento individualizzato per reagire ad una prassi scolastica che offriva lo stesso tipo di insegnamento a tutti gli alunni e pretendeva da tutti gli stessi risultati. Ben presto si vide che se a scuola si poneva attenzione solo agli aspetti individuali della formazione degli alunni, trascurando quelli sociali, i risultati non erano soddisfacenti. La capacità relazionale degli alunni non veniva infatti adeguatamente coltivata. Nacquero così le prime realizzazioni parziali di quella che V. García Hoz definì «educazione personalizzata», una espressione da lui coniata verso la metà degli anni sessanta del XX sec., quando costruì un sistema che ha avuto applicazioni pratiche, prima nelle scuole spagnole e poi in alcune scuole italiane non statali, abbondantemente documentate da pubblicazioni scientifiche. Dall’estate del 2002 alla primavera del 2006 il sostantivo «p.» e l’aggettivo «personalizzato» si ritrovano spesso anche nei documenti ufficiali del Ministero dell’Istruzione.

2. Quando i pedagogisti affermano che l’essere umano è una persona intendono sottolineare che non è semplicemente un organismo che reagisce agli stimoli dell’ambiente, ma un essere attivo che si interroga, osserva, modifica l’ambiente in cui vive e si lascia modificare da esso: un essere che è principio delle proprie azioni e che è naturalmente aperto alle relazioni. Nel concetto di persona sono racchiuse le due dimensioni​​ ​​ individuale e sociale​​ ​​ dell’essere umano, da considerare sempre insieme; mentre invece quando si pone esclusivamente l’accento solo su una di esse si finisce inevitabilmente nel riduzionismo pedagogico, nei suoi due estremi dell’individualismo o del collettivismo.

3. Le note distintive di un’attività didattica personalizzata sono: la presenza, nella progettazione, di obiettivi e quindi di attività sia comuni che individuali; la ricerca di una forma di eccellenza personale per ogni alunno; la contemporanea attenzione alle dimensioni di socievolezza-comunicazione e di unicità-originalità dell’alunno; la progettazione sia di attività obbligatorie che di attività facoltative / opzionali e quindi una certa partecipazione degli alunni nella scelta delle loro attività di apprendimento; l’uso di un apparato progettuale che tenda alla formazione nell’alunno di una visione unitaria del sapere; lo svolgimento delle unità di apprendimento, evidenziandone la significatività soggettiva, problematizzando i contenuti, facendo riferimento all’esperienza dell’alunno, ricollegando le nuove conoscenze a quelle già possedute; la valutazione criteriale effettuata sulla base della diagnosi iniziale e della previsione dei risultati possibili per l’alunno; la valutazione della personalità scolastica, nelle due dimensioni del comportamento scolastico e del comportamento di lavoro; la valutazione delle competenze piuttosto che delle singole prestazioni; il coinvolgimento attivo dell’alunno nella sua valutazione; la comunicazione degli esiti delle valutazioni mediante l’uso di giudizi articolati, o almeno di profili, piuttosto che di aggettivi o numeri, che inevitabilmente finiscono per appiattire e per uniformare in modo generico; la periodica sintesi educativa effettuata dall’insegnante per il singolo alunno e la conseguente riprogettazione condivisa del suo lavoro scolastico. Nell’educazione personalizzata l’insegnante ha una funzione di guida, capace di orientare, stimolare e motivare gli alunni all’impegno per raggiungere gli obiettivi previsti sia comuni che individuali.

Bibliografia

Bernal Guerrero A.,​​ Análisis del tratado de educación personalizada. Génesis y aportaciones, in «Revista Española de Pedagogía»​​ (1999) 212, 16-49; García Hoz V. et. al.,​​ Dal fine agli obiettivi dell’educazione personalizzata, Palumbo, Palermo,​​ 32002;​​ Bertagna G.,​​ Valutare tutti valutare ciascuno,​​ Brescia, La Scuola, 2004; Martinelli M.,​​ La p. didattica, Ibid., 2004; García Hoz V.,​​ L’educazione personalizzata, Ibid., 2005 (tit. orig.:​​ Educación personalizada, Madrid, Rialp,​​ 81988); La Marca A.,​​ Educazione del carattere e p. educativa a scuola, Ibid., 2005; Id.,​​ La p. tra famiglia e scuola, Ibid., 2006.

G. Zanniello




PESTALOZZI Johann Heinrich

 

PESTALOZZI Johann Heinrich

n. a Zurigo nel 1746 - m. a Brugg nel 1827, educatore e pedagogista svizzero.

1.​​ Vita e opere.​​ All’età di cinque anni rimane orfano di padre. Viene educato, con il fratello e la sorella, dalla madre e dalla domestica in un clima di intenso affetto. Conosce molto presto la realtà sociale in cui vive, perché trascorre le vacanze presso il nonno paterno, pastore evangelico in una parrocchia vicino a Zurigo, o presso lo zio materno, medico di professione. Rimane fortemente colpito dalla povertà e ignoranza dei contadini, ma ancor più dal cambiamento che subiscono i fanciulli quando iniziano la scuola e il lavoro: dal loro volto spariscono gioia e spensieratezza. Forse è da cercare in quest’esperienza la volontà di P. di dedicarsi con tutte le forze e per tutta la vita all’educazione del popolo. Frequenta la scuola pubblica. Al​​ Collegium Carolinum​​ si entusiasma per la politica e per le teorie fisiocratiche. Nel 1769 sposa Anna Schulthess e con lei si stabilisce presso Birr, dove ha comperato una vasta estensione di terreno incolto. Chiama la proprietà agricola Neuhof e ne fa un istituto educativo per fanciulli poveri. Nel 1770 nasce Jacqueli, l’unico figlio, così chiamato in onore di​​ ​​ Rousseau di cui P. condivide le idee. L’azienda agricola fallisce e nel 1779 P. deve chiudere l’istituto, che ospita una cinquantina di ragazzi. Segue un periodo di riflessione e di pubblicazioni, di cui si segnalano le principali:​​ La veglia di un solitario​​ (1780);​​ Sulla legislazione e l’infanticidio​​ (1783);​​ Leonardo e Geltrude​​ (1781-1787), romanzo d’ambiente che ha molto successo e fa conoscere P. al grande pubblico;​​ Le mie ricerche sul corso della natura nello sviluppo del genere umano​​ (1797). Scoppiata la Rivoluzione fr. P. aderisce ai suoi ideali e ottiene la cittadinanza francese onoraria. Tuttavia, dopo la violenta repressione delle truppe francesi entrate in Svizzera, prende le distanze dall’azione rivoluzionaria e apre una scuola per orfani di guerra a Stans (1798). Vi rimane per cinque mesi progettando e sperimentando il suo metodo, come si legge in​​ Lettera a un amico sul proprio soggiorno a Stans​​ (1800). Lasciata la scuola di Stans, perché adibita ad ospedale militare, si porta a Burgdorf, vicino a Berna. Qui organizza meglio la scuola ed elabora compiutamente le sue dottrine metodologiche, che trovano spazio in alcuni scritti:​​ Il​​ metodo​​ (1800), sviluppato poi in​​ Come Geltrude istruisce i suoi figli​​ (1801);​​ L’A B C dell’intuizione​​ (1801);​​ Libro delle madri​​ (1803). Lasciata anche Burgdorf, perché il castello diventa sede della prefettura, P. accetta l’offerta di aprire un istituto a Yverdon (1805), che ben presto acquista fama mondiale, grazie al perfezionamento del suo metodo e all’aiuto di validi collaboratori. L’istituto è chiuso nel 1825 in seguito a forti contrasti interni, che P. non riesce a sanare. Si ritira amareggiato e ormai ottantenne a Neuhof, dove scrive​​ Il canto del cigno,​​ sintesi delle sue esperienze educative e teorie pedagogiche, e suo testamento spirituale.

2. Pensiero pedagogico.​​ P. non ha elaborato una teoria pedagogica sistematica, perché le sue opere nascono dall’esperienza e dalla sua passione per l’educazione del popolo. Tuttavia è possibile enucleare da esse quegli elementi che risultano fondamentali per una corretta impostazione dell’azione educativa. Per P. l’educazione è un processo che, rispettoso delle leggi della natura umana, abilita l’uomo all’uso di tutte le sue facoltà per raggiungere la perfezione etica. P. si distacca dall’iniziale e acritica accettazione della concezione roussouiana dell’uomo e imposta l’educazione come sviluppo simultaneo, armonico e integrale di tutte le facoltà che sono tipiche dell’uomo.

3. Metodo educativo.​​ La lunga esperienza educativa porta P. a puntare sul metodo naturale. Si tratta di scoprire l’ordinamento psicologicamente elementare e graduale dell’educazione per guidare lo sviluppo integrale del soggetto senza incaute anticipazioni o dannosi ritardi. L’educazione deve perciò avere i caratteri dell’elementarità, gradualità, integralità, senza dimenticare il ruolo che in essa ha l’intuizione.​​ ​​ Girard, nella sua​​ Relazione​​ del 1810 stesa in seguito alla visita compiuta all’istituto pestalozziano di Yverdon, così riassume il metodo di P.: «Circondare la gioventù di idee sensibili, vive e chiare, far risalire l’insegnamento a’ suoi primi elementi, elevarsi di là passo passo, in una gradazione misurata e lenta, dare all’attività spontanea del fanciullo tutto lo slancio possibile, formare in lui l’uomo, senza trascurare tuttavia differenze che l’individuo e la sua vocazione particolare presentano: ecco le regole fondamentali di questo sistema di educazione conosciuto in Europa sotto il nome di​​ Metodo del P.».

4.​​ Ambienti educativi.​​ In consonanza con il metodo naturale, l’ambiente educativo che ha maggior incidenza nell’educazione del fanciullo è la famiglia. Diversamente da Rousseau, che «sequestra» il bambino dal suo ambiente naturale – la famiglia –, P. ne esalta le funzioni educative: «È assodato che il focolare domestico riunisce i fattori essenziali di ogni verace educazione umana in tutta la loro estensione» (Discorsi alla mia casa).​​ Nell’ambiente familiare la madre ha un ruolo fondamentale in ordine all’educazione, perché attraverso di lei si sviluppano nel bambino i germi dell’amore, della fiducia, della riconoscenza, della socialità, della sicurezza. La famiglia è perciò il luogo delle relazioni essenziali ed esemplari dell’esistenza; è il luogo dello sviluppo infantile animato dall’amore, è il luogo dove «la vita educa». Dopo la famiglia la scuola è un ambiente educativo perché continua il processo iniziato nella casa domestica e permette al fanciullo di ampliare e arricchire le sue esperienze di vita. Tuttavia la scuola è educativa solo ad una condizione: se non si contrappone all’educazione familiare, ma se la continua e la integra.

5.​​ Influsso.​​ L’esperienza educativa di P. ha influito su tutti gli educatori e pedagogisti del periodo romantico. Anche se non tutto della sua opera e dei suoi scritti può essere ritenuto valido, tuttavia gli siamo debitori nel nostro modo di concepire l’educazione e la scuola. Inoltre gli si riconosce la profonda sensibilità con cui affronta temi e problemi sempre attuali: l’importanza dei primi anni di vita nella formazione della personalità equilibrata e completa; l’importanza della relazione madre-bambino e dei rapporti familiari; il ruolo dell’amore nel processo educativo.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ J. H. P.,​​ Sämtliche Werke,​​ ediz. critica delle opere di P. curata da A. Buchenau, H. Stettbacher e E. Spranger, Berlin / Zürich, W. de Gruyter / Fuessli, 1927-1976, 28 voll.;​​ Sämtliche Briefe,​​ epistolario completo in 13 voll., Zürich, Fuessli, 1949-1976. b)​​ Studi:​​ Meylan L.,​​ L’attualità di P.,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1962; Delekkat F.,​​ P.: l’uomo,​​ il filosofo,​​ l’educatore, Ibid., 1967; Genco A.,​​ Il pensiero di G.E.P.,​​ Padova, Liviana, 1968; Silber K.,​​ P.: L’uomo e la sua opera,​​ Brescia, La Scuola, 1971;​​ Soëtard M.,​​ P. ou la naissance de l’éducateur: étude sur l’évolution de la pensée et de l’action du pédagogue suisse​​ (1746-1827),​​ Frankfurt, Lang, 1981; Id.,​​ P.,​​ Paris, PUF, 1995.

R. Lanfranchi




PETITES ÉCOLES DE PORT-ROYAL

 

PETITES ÉCOLES​​ DE PORT-ROYAL

L’espressione P.É.​​ (piccole scuole) viene molto usata nel Seicento in Francia per indicare le scuole «di iniziazione», in cui si insegnano i primi rudimenti del leggere e dello scrivere. Hanno avuto speciale risonanza le «piccole scuole» fondate dall’abate di Saint-Cyran (1581-1643), con la collaborazione attiva di un gruppo di intellettuali, i «solitari» di Port-Royal. Queste P.É. non sono però semplici scuole elementari: i giovani vi ricevono una formazione completa in un ambiente di internato.

1. Le tappe principali che scandiscono la breve vita delle P.É.​​ de P.-R. sono queste: nell’estate del 1637 un piccolo gruppo di ragazzi è accolto a Port-Royal-des-Champes, un monastero femminile cistercense a 25 km da Parigi, per iniziativa di Saint-Cyran. Questi, all’inizio della sua attività, si propone di formare sacerdoti istruiti e capaci, ma molto presto, rispondendo alle attese degli amici, vengono raccolti a Port-Royal ragazzi che non intendono abbracciare lo stato ecclesiastico. Come primo maestro è scelto un giovane prete: Antoine Singlin (1607-1664). I contrasti con l’autorità reale e con quella ecclesiastica sono all’origine di diversi cambiamenti di sede (Port-Royal-de-Paris, Chesnay, Port-Royal-des-Champes, Les Granges,​​ Chesnay). Dopo aver conosciuto anche momenti di forzata dispersione degli allievi, le scuole furono soppresse da Luigi XIV nel 1660.

2. Le P.É.​​ si collocano nel contesto del movimento di riforma etico-religiosa promosso dal​​ ​​ Giansenismo. A questa voce rimandiamo per ciò che riguarda gli orientamenti culturali, i maestri, la produzione letteraria e pedagogica. Alla preoccupazione di rigore morale e alla critica dei costumi e della religiosità del tempo è unita, nei portorealisti, una forte sensibilità scolastico-educativa. Senza negare l’importanza della funzione della famiglia nell’ambito dell’educazione, essi affermano la necessità dell’istruzione e danno una speciale importanza alla scuola. Un insegnamento solido è considerato indispensabile per poter conoscere quello che si deve fare nella vita e per prepararsi in modo adeguato a servire Dio e difendere le proprie convinzioni. In prospettiva schiettamente cristiana, le P.É.​​ si propongono di raggiungere alcuni obiettivi: preservare dal male gli «eletti», restaurare la natura decaduta, chiarire la ragione e raddrizzare la volontà. Su questa base poggiano i valori della libertà interiore, della sincerità, della padronanza di sé.

3. Nella proposta dei​​ mezzi educativi,​​ uno speciale accento viene pure messo sugli aspetti religiosi: a) creazione di un​​ ambiente pulito​​ mediante la scelta attenta dei maestri e delle persone che entrano in contatto con gli allievi; è proibita la frequenza dei teatri e le opere classiche si studiano in edizioni «purgate» dai passaggi ritenuti pericolosi; b)​​ disciplina​​ seria, anche se sempre paterna e ragionevole; c)​​ castighi​​ poco frequenti, e quelli corporali in casi gravi dopo aver esaurito altri mezzi; d)​​ vigilanza continua​​ per prevenire le occasioni di pericolo. Il maestro responsabile di ogni gruppo di ragazzi (da quattro a sei) è sempre presente tra di loro nei diversi momenti della giornata e nei diversi ambienti, anche nella camerata di sera. Curare la dimensione morale e religiosa non significa trascurare gli altri aspetti dell’educazione; anzi a Port-Royal si mira con serietà a far imparare «l’arte di ben condurre la propria ragione nella conoscenza delle cose» (Lancelot-Arnauld, 1969, 104). I titoli di due testi fondamentali sono, a questo proposito, significativi:​​ Grammaire generale et raisonnée​​ (A. Arnauld - C. Lancelot), la​​ Logique de Port-Royal​​ (A. Arnauld - P. Nicole). D’altra parte, il programma culturale, svolto con gradualità, è ampio: lettura, scrittura, lingue (fr., lat., gr.), spiegazione di autori, matematica e materie scientifiche, geografia e storia, retorica, filosofia.

4. Dal punto di vista pedagogico, la risonanza e l’influsso di Port-Royal sono legati anzitutto alla ricca personalità dei «solitari», all’impegno educativo di questi «asceti austeri e amorevoli» e alla fortuna e diffusione dei loro saggi e testi scolastici, in cui si avvertono tracce di autori classici (​​ Cicerone,​​ ​​ Quintiliano,​​ ​​ Seneca) e di altri più recenti (​​ Erasmo,​​ ​​ Montaigne,​​ ​​ Descartes,​​ ​​ Comenio).

Bibliografia

Lancelot C. - A. Arnauld,​​ Grammatica e logica di Port-Royal,​​ a cura di R. Simone, Roma, Ubaldini, 1969; Delforge F.,​​ Les P.É. de P.-R.,​​ 1637-1660,​​ Paris, Cerf, 1985; Hildesheimer F. - M. Pieroni Francini,​​ Il Giansenismo,​​ Cinisello Balsamo (MI), Paoline, 1994; Prellezo J. M. - R. Lanfranchi,​​ Educazione e pedagogia nei solchi della storia,​​ vol. 2,​​ Torino, SEI, 2004; Weaver F. E.,​​ La contre-réforme et les Constitutions de Port-Royal, Paris, Cerf, 2004.

J. M. Prellezo




PIAGET Jean

 

PIAGET Jean

n. a Neuchâtel nel 1896 - m. a Ginevra nel 1980, psicopedagogista svizzero.

1.​​ Gli inizi.​​ Dopo un precoce interesse pelle scienze naturali (a dieci anni pubblica il suo primo articolo scientifico sul passero albino, si laurea in zoologia a venticinque anni e nel 1918 si specializza con una tesi sui molluschi), P. sviluppa progressivamente un crescente interesse per la psichiatria e la psicologia. Frequenta così a Zurigo l’ospedale psichiatrico diretto da E. Bleuler, inizia la lettura delle opere di​​ ​​ Freud, segue i seminari di​​ ​​ Jung e per alcuni mesi è in analisi con S. Spielrein. I suoi forti interessi di tipo speculativo lo portano poi, tra il 1919 e il 1921, a Parigi dove segue alla Sorbona le lezioni di G. Dumas e di H. Piéron. Prendendo spunto dal pensiero del filosofo francese H. Bergson, P. si propone di utilizzare gli strumenti della scienza sperimentale per studiare le forme successive di elaborazione della ragione nell’ontogenesi delle condotte umane. Inizia così, mettendo a punto presso il laboratorio di​​ ​​ Binet un metodo per la standardizzazione dei​​ ​​ test mentali per bambini di​​ ​​ Burt, a prestare particolare attenzione alle strategie seguite dal bambino per giungere alla soluzione dei problemi e nel 1921 accetta il posto di direttore di ricerca presso l’Institut J. J. Rousseau, offertogli da​​ ​​ Claparède.

2.​​ Le ricerche sistematiche e gli incarichi internazionali.​​ Si trasferisce definitivamente a Ginevra e inizia le sue ricerche sistematiche sullo sviluppo infantile occupandosi sperimentalmente e teoricamente della strutturazione del pensiero nel bambino e nell’adolescente. Ne studierà dunque le prime attività percettive e motorie, il costituirsi di un mondo oggettivo e le prime manifestazioni, tra il primo e il secondo anno di vita, dell’intelligenza senso-motoria e quindi dell’attività rappresentativa. Successivamente prenderà in esame l’attività imitativa, il gioco simbolico e il linguaggio verbale, e giungerà a delineare un quadro e un’analisi complessiva della rappresentazione del mondo nel bambino, caratterizzata dall’egocentrismo, dal realismo, dalla non reversibilità delle operazioni di pensiero. In seguito, sulla base di una serie di osservazioni sistematiche condotte con il metodo clinico, analizzerà lo sviluppo del pensiero dai quattro agli otto anni, il comparire della reversibilità, il formarsi delle principali nozioni di quantità, numero, movimento, spazio. Porterà infine a termine, in collaborazione con B. Inhelder, una serie di studi sull’evoluzione dell’intelligenza sino ai quindici-sedici anni (processo ipotetico deduttivo, processo di induzione, concetto di probabilità). Nel 1929 viene nominato direttore del Bureau International de l’Éducation e nel 1940, alla morte di Claparède, direttore dell’Istituto J. J. Rousseau e professore di psicologia sperimentale a Ginevra. Dirige inoltre gli «Archives de Psychologie», che si caratterizzeranno sempre più come il periodico della scuola piagetiana. Al termine della II Guerra Mondiale ricopre importanti incarichi all’Unesco e insegna a Ginevra storia della scienza e alla Sorbona di Parigi, come successore di Merleau-Ponty, psicologia genetica (1952-1963). Nel 1954 fonda a Ginevra un Centro Internazionale di Epistemologia genetica con impianto interdisciplinare (psicologia, logica ed epistemologia) e prende posizione contro il metodo filosofico-speculativo rapportandolo criticamente al metodo scientifico. Si occupa inoltre dei problemi dello strutturalismo cercando di mettere in luce un punto di vista metodologico comune ai diversi campi di ricerca.

3.​​ Lo sviluppo mentale del bambino.​​ Sin dall’inizio, l’interesse principale di P. per lo​​ ​​ sviluppo infantile si è incentrato sulla genesi della capacità logica, da lui definita «l’assiomatica della ragione». Individuato nella psicologia dell’intelligenza il centro dei propri interessi teorici e sperimentali, P. ha teso a dare un’esatta interpretazione psicologica dei concetti e delle operazioni logiche (concetto di spazio, tempo, ecc.; operazioni di disgiunzione, congiunzione, esclusione) studiandone la genesi e lo sviluppo e utilizzando un metodo, l’analisi genetica dei processi, che postula un parallelismo tra l’acquisizione individuale e l’acquisizione storica. Secondo P. la capacità di ragionamento logico non è innata nel bambino ma si costituisce progressivamente, presentandosi sotto forma di strutture operative, in connessione con il linguaggio e i rapporti sociali: l’atto logico consiste nell’operare, nell’agire sulle cose o sugli altri. È necessario dunque, se si vuole comprendere come si costruisce l’apparato concettuale di cui il pensiero si avvale, seguire il soggetto nella sua attività nell’ambiente che lo circonda. Sulla base di queste premesse la condotta intelligente, l’adattamento, possono venir descritti con una dialettica funzionale di due processi: quello di assimilazione e quello di accomodamento, dove, secondo P., anche i riflessi elementari (ad es. il riflesso della suzione nel neonato) contengono già elementi di assimilazione e dove il pensiero logico astratto, quale il ragionamento matematico, è definibile come un comportamento interiorizzato e concettualizzato. Secondo P., lo sviluppo mentale del bambino, dall’infanzia all’adolescenza, può essere descritto come un lungo percorso che conduce alla acquisizione di modalità adulte di conoscere il mondo e di entrare in relazione con gli altri. In questo percorso è possibile identificare una serie di stadi, ognuno dei quali svolge un ruolo fondamentale e ineliminabile. In esso possono essere identificati due periodi principali: il periodo senso-motorio (dalla nascita ai primi due anni di vita) e il periodo concettuale (dai 2 anni ai 15 anni). Questi due periodi sono a loro volta suddivisibili in stadi. Nel periodo senso-motorio il bambino sviluppa progressivamente le proprie modalità di interazione con l’ambiente, passando dall’uso esclusivo dei riflessi alle coordinazioni visuo-motorie. Impara cioè a coordinare percezione e movimento e raggiunge, tra i 4 e gli 8 mesi, la «permanenza della persona» e la «permanenza dell’oggetto»: apprende cioè che le persone e gli oggetti sono entità separate da lui che mantengono la propria esistenza anche se scompaiono dal suo campo visivo. Alla fine del periodo senso-motorio il bambino è in grado di formarsi delle immagini mentali e può iniziare a operare con le rappresentazioni interne che non richiedono la presenza immediata di oggetti o persone. Il periodo concettuale è suddiviso in tre momenti: lo stadio preoperatorio (dai 2 ai 7 anni), lo stadio delle operazioni concrete (dai 7 agli 11 anni) e lo stadio delle operazioni formali (dagli 11 ai 15 anni). Nello stadio preparatorio si assiste allo sviluppo delle rappresentazioni esterne (fase preconcettuale) e delle operazioni mentali di classificazione e seriazione degli oggetti (fase del pensiero intuitivo). Nello stadio delle operazioni concrete il bambino acquisisce progressivamente la capacità di compiere operazioni mentali facendo riferimento a oggetti concreti, cose o persone e inizia a utilizzare i concetti di numero, peso e volume. Lo sviluppo mentale giunge a termine nello stadio delle operazioni formali, caratterizzato dalla acquisizione della capacità di compiere operazioni mentali utilizzando esclusivamente simboli, e dal conseguente accesso al metodo ipotetico-deduttivo nella soluzione di problemi logico-matematici.

4.​​ L’epistemologia genetica.​​ La via che porta alla elaborazione dell’epistemologia genetica parte dunque dallo studio dello sviluppo psicologico del bambino. Essa è intesa da P. come «scienza separata dalla filosofia ma legata a tutte le scienze umane e alla biologia», volta a rintracciare la genesi dei concetti di spazio, di tempo, causalità o numero e classe che a loro volta si formano per successivi adattamenti e che permettono la concettualizzazione dello sviluppo mentale nei termini di un adattamento via via più preciso alla realtà. In quanto tale, l’epistemologia genetica «è in grado di affrontare questioni fino a quel momento esclusivamente filosofiche in una maniera risolutamente sperimentale». Le considerazioni epistemologiche di P. si basano dunque sulla ricerca sperimentale, sia psicologica sia biologica, e sul ricorso a un metodo strutturale che procede per approssimazioni successive. Le sue affermazioni sullo sviluppo mentale del bambino, le sue conclusioni riguardo al tipo di acquisizioni logiche, affettive, percettive dei diversi stadi dello sviluppo medesimo, sono corredate da un complesso di dati di osservazioni e elaborazioni statistiche tali da consentire una verifica della loro validità e sono ricche di implicazioni da un punto di vista didattico e pedagogico, sottolineando l’esigenza di adeguare i metodi e i contenuti dell’insegnamento ai diversi stadi dello sviluppo cognitivo, affettivo e morale del bambino.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ tra le opere di P. trad. in it.:​​ Giudizio e ragionamento nel bambino, Firenze, La Nuova Italia, 1958;​​ Il linguaggio e il pensiero nel fanciullo, Firenze, Giunti-Barbera, 1965;​​ La nascita dell’intelligenza, Firenze, La Nuova Italia, 1968;​​ Il giudizio morale nel fanciullo, Firenze, Giunti-Barbera, 1972;​​ Dove va l’educazione, Roma, Armando, 1978. b)​​ Studi:​​ Filograsso N.,​​ J.P. e l’educazione,​​ Urbino, Argalìa, 1974; Hers R. H.,​​ Promoting moral growth: from P. to Kohlberg,​​ New York / London, Longman, 1979; Evans R. I.,​​ Cos’è la psicologia: lo sviluppo della mente umana,​​ l’educazione,​​ i meccanismi dell’apprendimento spiegati dal più grande studioso di processi cognitivi: J.P., Milano, Mondolibri, 2002; Taroni P.,​​ Introduzione a P., Urbino, Quattroventi, 2005; Gardner H.,​​ Riscoperta del pensiero e movimento strutturalista. P. e Lévi-Strauss, Roma, Armando, 2006; Filograsso N. - R. Travaglini (Edd.),​​ P. e l’educazione della mente, Milano, Angeli, 2007.

F. Ortu - N. Dazzi




PIANIFICAZIONE DELL’EDUCAZIONE

 

PIANIFICAZIONE​​ DELL’EDUCAZIONE

È l’organizzazione, secondo una scansione temporale, dello sviluppo del​​ ​​ sistema formativo o di una sua parte.

1. Benché una qualche p.d.e. ci sia sempre stata, è solo dopo la seconda guerra mondiale che si parla comunemente di piani e si diffondono nei ministeri le strutture di p.d.e. Per prima l’Unione Sovietica le attribuisce un posto di rilievo: l’impostazione è caratterizzata da centralizzazione, unità gerarchica di comando, controllo ideologico del curricolo e stretta integrazione fra scuola ed extrascuola, educazione dei giovani e degli adulti, p.d.e. e p. economica. Nei Paesi capitalisti, nonostante la fiducia nelle capacità di autoregolazione del mercato, si riscontra una notevole presenza della p.d.e. dato l’interesse degli Stati a sviluppare l’educazione. La p.d.e. si qualifica per la natura indicativa dei piani, per la tendenza al decentramento, per la preferenza verso gli incentivi. Nei Paesi in via di sviluppo la p.d.e. ha occupato dagli inizi un posto centrale sia per l’influsso delle organizzazioni internazionali, sia per convinzione propria perché, a motivo anche del successo apparente negli Stati comunisti, la p.d.e. si presentava come uno strumento essenziale per distribuire in modo efficace le scarse risorse disponibili. I risultati modesti della p.d.e. e il crollo del blocco comunista hanno creato alla fine degli anni ’80 del XX sec. confusione e incertezza da cui si è usciti attraverso l’adozione di approcci più qualitativi, decentrati e partecipativi.

2. Attualmente​​ si pensa che la p.d.e., pur implicando notevoli aspetti tecnici, non possa essere considerata un’attività prettamente tecnica, ma sia invece intrinsecamente politica perché incide sul futuro del sistema formativo. Di fronte alla scarsa efficacia dell’impostazione centralistica ci si orienta verso una decentrata, partecipativa e aperta; tuttavia, rimane l’esigenza del coordinamento tra le diverse strutture che consenta di valorizzare i rapporti di complementarità esistenti e di realizzare sinergie generali. Quanto ai modelli economici di riferimento, ha perso terreno l’approccio della «mano d’opera» per la difficoltà di prevedere nel lungo periodo le esigenze di forza lavoro; invece, guadagnano consensi la formula della domanda sociale, che punta ad identificare i bisogni dei cittadini, e l’analisi costi-benefici che valuta i vantaggi e gli svantaggi delle alternative proposte allo scopo di determinare la più efficace. Le relazioni tra istruzione e formazione da una parte e crescita economica dall’altra non si possono basare solo sulla domanda di lavoro, ma bisogna anche tenere conto della qualità dell’offerta; si richiede pertanto un monitoraggio costante della domanda e dell’offerta al fine di elaborare strategie concertate. Tale approccio andrebbe realizzato nel quadro di un modello personalista che ponga al centro la persona e non il sistema economico.

Bibliografia

Rizzi F., «P.d.e.», in M. Laeng (Ed.),​​ Enciclopedia pedagogica,​​ vol. V, Brescia, La Scuola, 1992, 9058-9061; Farrel J. P., «Planning education: Overview», in T. Husen - T. N. Postlethwaite (Edd.),​​ The international encyclopedia of education,​​ Oxford, Pergamon Press,​​ 21994, 4499-4510; Lodigiani R.,​​ La formazione come risorsa, in «Studi di Sociologia» 37 (1999) 3, 345-368; Bertrand O.,​​ Planning human resources: Methods,​​ experiences,​​ and practices, Paris, Unesco, 2004; Cecchini A. - A. Plaisant,​​ Analisi e modelli per la p., Milano, Angeli, 2005; Bertagna G.,​​ Il pensiero manuale, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2006.

G. Malizia




PIANO DELL’OFFERTA FORMATIVA

 

OFFERTA FORMATIVA: PIANO DELLA

1.​​ Il Piano dell’o.f. (Pof) nella normativa. Art. 3 del Dpr. 275 / 99: «1. Ogni istituzione scolastica predispone, con la partecipazione di tutte le sue componenti, il piano dell’o.f. Il piano è il documento fondamentale costitutivo dell’identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche ed esplicita la progettazione curricolare, extracurricolare, educativa ed organizzativa che le singole scuole adottano nell’ambito della loro autonomia. 2. Il piano dell’o.f. è coerente con gli obiettivi generali ed educativi dei diversi tipi di indirizzi di studi determinati a livello nazionale a norma dell’articolo 8 e riflette le esigenze del contesto culturale, sociale ed economico della realtà locale, tenendo conto della programmazione territoriale dell’o.f. Esso comprende e riconosce le diverse opzioni metodologiche, anche di gruppi minoritari, e valorizza le corrispondenti professionalità». Commi 1 e 2 dell’art. 9 del Dpr. 275 / 99: si parla di «ampliamenti dell’o.f. che tengano conto delle esigenze del contesto culturale, sociale ed economico delle realtà locali. I predetti ampliamenti consistono in ogni iniziativa coerente con le proprie finalità, in favore dei propri alunni e, coordinandosi con eventuali iniziative promosse dagli enti locali, in favore della popolazione giovanile e degli adulti. I curricoli determinati a norma dell’articolo 8 possono essere arricchiti con discipline e attività facoltative che, per la realizzazione di percorsi formativi integrati, le istituzioni scolastiche programmano sulla base di accordi con le regioni e gli enti locali».

2.​​ Il Pof in un’ottica statalista. Per ragioni storiche, quando, nel nostro Paese, si impiega l’espressione «ottica statalista», si intendono richiamare due qualificazioni. La prima presuppone legittimo e doveroso un sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione costituito in maniera monopolistica o quasi-monopolistica da istituzioni scolastiche statali. La seconda ritiene che tale sistema possa funzionare bene, garantendo equità e qualità a livello nazionale, soltanto se organizzato al proprio interno in maniera piramidale, gerarchica e centralista (gli storici dicono ‘napoleonica’). Questa modalità organizzativa si riferisce sia ad una burocrazia statale (centrale, regionale, provinciale, di scuola) che «obbedisca» alle direttive di metodo e di contenuto emanate dal vertice, il Ministro della P.I., sia ad una burocrazia locale, di scuola, fondata su un «potere» gerarchico dei «dirigenti sui dipendenti» o, comunque, di gruppi elitari sull’insieme dei docenti, degli studenti e delle famiglie.

2.1.​​ Redigere il Pof in quest’ottica,​​ significa, dunque, da un lato, costruirlo con il metodo della «modularità aggiuntiva». Il centro detta sia il curricolo nazionale, quello uguale per tutte le scuole della Repubblica (art. 8 del Dpr. 275 / 99), sia i limiti formali del suo possibile adattamento alla realtà locale (per es., affidare il 20% delle ore del curricolo nazionale all’autonomia delle singole istituzioni scolastiche). Ogni scuola, sulla base delle «esigenze del contesto culturale, sociale ed economico della realtà locale» e «tenendo conto della programmazione territoriale dell’o.f.» deliberata dagli enti locali, nonché delle eventuali risorse aggiuntive messe a disposizione da questi ultimi, stabilisce successivamente: a) la parte del curricolo nazionale obbligatorio, che non modifica; b) gli adattamenti locali al curricolo nazionale obbligatorio, nella misura autorizzata dalle norme nazionali; c) l’eventuale integrazione locale del curricolo nazionale con attività opzionali obbligatorie o facoltative; d) le modalità organizzative (tempi, luoghi, risorse) con cui intende concretizzare i punti precedenti.

2.2.​​ Dall’altro lato,​​ redigere il Pof nell’ottica statalista significa, inoltre, attribuire a questo documento il ruolo e la funzione che un tempo erano svolti dai Programmi di insegnamento ministeriali e dalle disposizioni emanate dal Ministero per attuarli. Così come studenti, docenti e famiglie dovevano «obbedire» alle norme ministeriali romane, analogamente essi dovrebbero ora «obbedire» alle disposizioni contenute nel Pof. Per quanto il Pof «vada​​ costruito​​ nella scuola» e per quanto «tale costruzione debba permettere l’accordo tra istanza centrale, normativa e unitaria, ed istanza locale, pragmatica e flessibile» non viene meno il fatto che si tratti comunque di un prodotto elaborato in maniera elitaria e verticistica, sottratto alla negoziazione diretta e cooperativa degli attori poi direttamente coinvolti nella sua pretesa azione formativa in situazione (i concreti studenti di un gruppo classe, i loro concreti genitori, i docenti realmente presenti con loro).

3.​​ Il Pof in un’ottica sussidiaria. Ben altre caratteristiche assume il Pof se, superando le inerzie della logica statalista, si inserisce nell’ottica della sussidiarietà e dell’autonomia (L. n. 59 / 97, Dpr. 275 / 99, L. n. 62 / 2000; riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, L. n. 53 / 03). In questo caso, esso, anzitutto, implica un sistema educativo nazionale composto da istituzioni scolastiche statali e non statali, in regime di equipollenza e di parità anche economica. In quanto documento «costitutivo dell’identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche», diventa, perciò, lo strumento che garantisce alle famiglie (art. 21, L. n. 59 / 97; L. n. 62 / 2000, L. n. 53 / 03) la libertà di scegliere, per i figli, una scuola nella quale, fatti salvi i comuni valori costituzionali, si professino comunque processi educativi e didattici, con relative ricadute organizzative, coerenti con le convinzioni condivise dai genitori. In secondo luogo, il Pof non è più il risultato di una costruzione modulare aggiuntiva, con il centro responsabile della predisposizione del nucleo curricolare da riproporre poi uguale in tutto il Paese e la periferia incaricata sia di adattare in parte tale nucleo uniforme, sia di arricchirlo con eventuali addizioni. Diventa piuttosto, in tutte le sue parti, il prodotto di una progettualità pedagogica che coinvolge cooperativamente e protagonisticamente tutti i soggetti concreti del processo educativo che si promuove in una scuola, e per la sua intera durata. Ciò è possibile, da un lato, se il centro non pretende più di interpretare il dispositivo dell’art. 8 del Dpr. 275 / 99 come una variabile dei vecchi Programmi di insegnamento, ma ragiona solo per norme generali sull’istruzione e livelli essenziali di prestazione sull’istruzione e formazione professionale, cioè per vincoli da assegnare all’autonoma e responsabile azione progettuale dei docenti e delle scuole (art. 33 della Costituzione e L. n. 53 / 53). Dall’altro, se anche a livello di scuola si procede allo stesso modo: non più, quindi, confezionare prima dell’inizio dell’anno un Pof che i docenti e le famiglie sono poi tenuti ad applicare e, quindi, a considerare alla stregua dei vecchi Programmi di insegnamento, ma attribuire al Pof la funzione di precisare i vincoli di risorsa e di risultato che docenti, studenti e famiglie dovranno considerare per progettare ed attuare, in autonomia e responsabilità, i contenuti, i metodi, i tempi ecc. della propria azione educativa. In questa prospettiva, come peraltro ricorda l’art. 3, comma 2 del DPR 275 / 99, il Pof diventa davvero lo strumento che «comprende e riconosce le​​ diverse opzioni metodologiche, anche di gruppi minoritari» che lavorano nella scuola e favorisce, di conseguenza, i processi di continua presa in carico personale dei compiti di insegnamento e apprendimento da parte di tutti gli attori dei processi educativi, in ogni momento della vita della scuola.

Bibliografia

Bertagna G. - S. Govi - M. Pavone,​​ Pof. Autonomia delle scuole e o.f., Brescia, La Scuola, 2001; Bertagna G.,​​ Valutare tutti,​​ valutare ciascuno. Una prospettiva pedagogica, Ibid., 2004; Id.,​​ Pensiero manuale. La scommessa di un sistema di istruzione e di formazione di pari dignità, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2006 (parte II e conclusioni); Id., «La figura del docente nella riforma», in CSSC-Centro Studi per la Scuola Cattolica,​​ Il ruolo degli insegnanti nella scuola cattolica. Scuola cattolica in Italia,​​ Ottavo Rapporto, Brescia, La Scuola, 2006.

G. Bertagna