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PSICOTERAPEUTA

 

PSICOTERAPEUTA

Si definisce tale colui che esercita la​​ ​​ psicoterapia. Il termine è entrato nell’uso comune solo da qualche decennio e il suo significato rimanda al complesso dibattito che negli ultimi cinquanta anni si è svolto attorno al concetto stesso di psicoterapia.

1. La figura dello p., dotata di ruolo e formazione professionale propri, inizia a delinearsi alla fine dell’800, parallelamente allo sviluppo della psicoterapia. Già agli inizi del ’900, accanto ad una figura di p. che segue il tradizionale approccio medicalistico – secondo cui il paziente è visto come portatore passivo della malattia, mentre il dottore è l’autorità che esamina «scientificamente» il disturbo e interviene per «controllarlo» – troviamo una figura di p. che, grazie al cambiamento di prospettiva operato dalla​​ ​​ psicoanalisi, orienta la propria attenzione sulla vita interiore del paziente, sulle fantasie e sulle resistenze da lui prodotte, ne interpreta il transfert e le libere associazioni. Dagli studi sull’apprendimento, inoltre, emerge una figura di p. che «addestra» il paziente a usare comportamenti socialmente adeguati. Comunque, in ambedue questi modelli non ci si accosta più alla malattia col rigido distacco della tradizione psichiatrica, ma si cerca di evidenziare nella personalità del paziente le formazioni nevrotiche, allo scopo di convogliarle in attività socialmente più adeguate, con la funzionale collaborazione dell’Io maturo del paziente. In epoca successiva, sotto l’influsso dei fermenti culturali e dell’intenso dibattito filosofico propri della prima metà di questo secolo, lo p. si ispira ai principali assunti dell’esistenzialismo. Considerando la psicoanalisi troppo neutra e passiva, troppo focalizzata sulle fantasie e sugli elementi sessuali, poco attenta alla realtà, ai valori e ai rapporti sociali, lo p. degli anni Cinquanta è interessato più al significato dell’esistenza del paziente, che alla canalizzazione in attività adeguate degli impulsi che producono conflitti sociali. Libero da preconcetti diagnostici o da mirate aspettative terapeutiche, egli partecipa con profonda intensità ai sentimenti del paziente, al suo «esserci», non avendo altro obiettivo se non quello di stargli accanto come un compagno di viaggio. Negli anni Sessanta, poi, gli studi sulla comunicazione umana e sui sistemi relazionali fanno sì che l’interesse dello p. si allarghi dal disagio del singolo paziente al disagio dell’intero contesto relazionale in cui egli è inserito. Accanto all’obiettivo di guardare alla vita interiore del paziente e di aiutarlo a trovare un significato soddisfacente per la sua esistenza, lo p. si pone anche l’obiettivo di migliorarne la qualità delle relazioni.

2. Al di là dell’evoluzione del ruolo dello p. rimangono a tutt’oggi numerose questioni aperte attorno al significato stesso di questa attività professionale. Qual è il compito dello p. nella società del terzo millennio? È quello di proteggere la società dalla presenza inquietante del diverso? O, al contrario, di difendere il singolo individuo di fronte all’azione «normalizzante» prodotta dalla società? In altre parole, il ponte che lega la funzione dello p. come operatore di cambiamento nel microsistema (individuo, famiglia, gruppo, ecc.) alla funzione dello p. come operatore del cambiamento sociale (nel macrosistema) non sempre viene esplicitato nei vari modelli di psicoterapia, col rischio di banalizzare o considerare meccanico il compito di questo professionista, rendendolo così funzionale al sistema sociale e non alla salute del singolo e della comunità. A questi interrogativi lo p. non può fare a meno di rispondere, pena il rischio di manipolare inconsapevolmente, sul piano sociale e politico, l’irriducibile diversità del singolo. La definizione del ruolo e delle qualità proprie dello p., è pertanto inevitabilmente legata al modello teorico di riferimento, e quindi alle relative teorie della personalità e dello sviluppo. Questo problema aperto porta ad un altro aspetto cruciale del compito dello p., che è la diagnosi (e quindi la definizione) di normalità / patologia. È diventata sempre più accreditata, dagli anni ’50 del sec. scorso in poi, la convinzione che non esiste un unico modello di salute / maturità psichica, dato che tale definizione è in effetti influenzata da fattori socio-culturali del peculiare periodo storico a cui ci si riferisce e dai tentativi individuali del paziente di far fronte alle difficoltà. Ciò che invece è unanimemente accettato oggi (anche in seguito alle normative in merito che vanno delineandosi nei vari Paesi europei) è la necessità di un iter di formazione personale e professionale dello p., che da una parte lo renda consapevole delle dinamiche proprie e altrui, connesse ai vari temi della vita e al proprio potere, e dall’altra gli assicuri quelle abilità indispensabili per svolgere adeguatamente la propria professione.

Bibliografia

Giorda R.,​​ Come dovrebbe essere lo p.?,​​ Roma, Città Nuova, 1981; Lewis J. M.,​​ Fare il terapista. Come si insegna,​​ come si impara,​​ Firenze, Martinelli, 1981; Batacchi M. W., «Problemi di identità e di formazione in psicologia clinica», in P. C. Kendall - J. D. Norton-Ford,​​ Psicologia clinica,​​ Bologna, Il Mulino, 1986; De Silvestri C.,​​ Il mestiere dello p., Roma, Astrolabio, 1999.

P. Cavaleri




PSICOTERAPIA

 

PSICOTERAPIA

I vari tentativi di definizione unanime della p. (Bazzi, 1970; Cancrini, 1982) sono andati da un estremo che tende a comprendere in modo ampio qualsiasi processo d’induzione intenzionale di cambiamento del vissuto e del comportamento della persona (dal consiglio dell’amico all’esperienza di estasi) a definizioni più restrittive, limitate alla reale esistenza di un​​ setting​​ terapeutico.

1. Riferendoci a questa seconda impostazione, possiamo dire che occorrono almeno​​ tre condizioni​​ perché un intervento di modificazione del vissuto e del comportamento possa essere definito p.: innanzitutto la domanda da parte del soggetto di modificare qualcosa di sé; secondo, la scelta da parte del soggetto di raggiungere tale scopo con l’aiuto professionale di uno​​ ​​ psicoterapeuta; terzo, il consenso del terapeuta designato ad aiutare il soggetto in quest’impresa, consenso che in genere si accorda all’interno di un quadro normativo di riferimento, specificato nel contratto terapeutico (tempi, luogo, periodicità degli incontri, gestione delle assenze, ecc.). Quando esistono queste condizioni, esiste anche una relazione terapeutica e quindi esiste la p. Potremmo dire pertanto che la p. è una crescita della persona all’interno di una relazione, a prescindere dal modello di riferimento usato per gestire terapeuticamente questa relazione. In tutti quei casi in cui, per qualsiasi motivo, non può esistere questa particolare relazione così definita (anche implicitamente) non ci si può riferire a un intervento psicoterapeutico. Nei casi di invalidazione grave delle capacità relazionali del soggetto non si può impostare un intervento psicoterapeutico su di lui, perché la p. ha bisogno di basarsi su un contratto tra due o più persone, da cui si evinca la volontà condivisa di perseguire gli obiettivi terapeutici.

2. Il concetto di p. si è evoluto dalla fine dell’800, periodo in cui si cominciò a concepire l’idea della psiche, a oggi. A cavallo del secolo, infatti, abbiamo due grandi prospettive sulla cura psicologica, complementari tra loro ma rispondenti allo stesso paradigma culturale: la psicoanalisi e il comportamentismo. Il paradigma culturale era quello di un insanabile conflitto tra spontaneità dello sviluppo individuale ed esigenze del vivere sociale. Mentre per la psicoanalisi la cura del disagio consisteva in una presa d’atto della sua irrisolvibilità, con il conseguente passaggio, necessario allo sviluppo della civiltà, dal principio di piacere al principio di realtà, per il comportamentismo la p. era una forma di apprendimento più o meno attivo delle regole sociali. Tali modi di pensare il rapporto individuo / società, e quindi la cura del disagio psicologico, videro la propria crisi nei primi decenni del ’900. Ciò che accadde fu l’inizio di un pensiero nuovo, il dubbio lancinante che la realtà non fosse una norma da rispettare ma una costruzione percettiva e quindi, come tale, potesse anche essere destrutturata e ricomposta. Il senso stesso della prassi psicoterapica veniva profondamente toccato da problemi di questo tipo. Era infatti il concetto di normalità in sé a essere messo in discussione, insieme con la plausibilità di ogni pretesa definizione oggettiva del reale. La crisi di prescrittività della norma conduceva ad un modo nuovo di guardare il vissuto e la storia personale del paziente. Quest’ultimo reclamava ora dignità di significato e di valore indipendentemente dalla capacità di adeguarsi a parametri precostituiti, mentre diveniva a mano a mano inaccettabile l’idea che la cura dovesse consistere nell’adeguarsi acriticamente a un modello univoco di salute. La p. non poteva più proporsi come strumento di normalizzazione del disagio psichico, ma al contrario diventava il mezzo di una sua valorizzazione, di attribuzione ad esso di un significato quasi salvifico per l’essere umano che, rifiutando di appiattirsi nella routine dell’adattamento sociale, crea un disturbo. La p. diventa ricerca di un’espressione socializzata del disturbo (si pensi al movimento dell’anti-psichiatria e alla chiusura dei manicomi); il vivere sociale non può essere impostato soltanto su criteri di adattamento alle norme prestabilite. ma deve anche basarsi su di un tentativo di comprendere ciò che appare incomprensibile, ciò che non è socializzato. La p., in particolare l’insieme delle p. umanistiche, negli anni Sessanta assunse questo compito quasi «sacerdotale» di innalzamento, traduzione e collocazione sociale della diversità.

3. Passato il fervore di quegli anni, vediamo oggi i frutti, sia positivi che negativi, di una prospettiva sulla cura psicologica che dava estrema centralità ai valori dell’autonomia, al fare esperienza in sé e per sé, alle infinite possibilità dell’essere (non a caso si è parlato di società narcisistica: Larsch, 1981), a scapito dei valori dell’appartenenza, del limite, dell’esserci, dello stare fino in fondo nei ruoli sociali, della rinuncia insita in ogni scelta. È nata così l’esigenza di ricollocare il vissuto psicologico all’interno dei suoi confini spazio-temporali, in prospettiva sincronica (la relazione a cui appartiene) e in prospettiva diacronica (la storia in cui è inserito). La p. è vista allora come un modo di ripristinare una spontaneità di crescita interrotta, come un sostegno specifico da dare alla persona che attraversa una crisi di passaggio da una fase evolutiva all’altra, e che affronta questa crisi con modalità disfunzionali. L’idea è che la p. debba inserirsi nella vita della persona in un momento in cui questa ha bisogno di un sostegno ambientale per ritrovare la propria capacità, momentaneamente perduta, di orientarsi nel mondo e prendere da esso ciò che le serve per vivere, dando al contempo il proprio contributo originale e creativo. Questa concezione della p. non toglie dignità alla vita (siamo ben lontani dal pessimismo freudiano circa il dualismo insanabile tra esigenze individuali ed esigenze sociali), né al significato esistenziale insito in ogni sintomo, come sottolineato negli anni Sessanta, e inoltre attribuisce al disagio psichico una intenzionalità di contatto con il mondo che va appunto ripristinata attraverso una relazione, la relazione terapeutica. Potremmo dire che la p., alla fine del suo percorso, sostituisce la funzione che i riti avevano nelle società tribali: concludere una fase evolutiva ormai passata, sancire l’inizio di nuove competenze relazionali, accogliere nel gruppo sociale la persona che ha saputo assimilare la novità di una crescita (in questo senso la p. è anche momento socializzante per chi vi ricorre).

Bibliografia

Bazzi T.,​​ Le p.,​​ Milano, Rizzoli, 1970; Larsch C.,​​ La cultura del narcisismo,​​ Milano, Bompiani, 1981; Cancrini L.,​​ Guida alla p.,​​ Roma, Editori Riuniti, 1982; Temerari Bari A.,​​ Storia,​​ teorie e tecniche della p.​​ cognitiva, Bari, Laterza, 2004.

M. Spagnuolo Lobb




PSICOTERAPIE scuole

 

PSICOTERAPIE: scuole

Orientarsi tra le scuole di p. è fondamentale per chi si avvicina ad esse, sia in qualità di apprendista che di fruitore o paziente. D’altra parte, l’evoluzione continua che i vari modelli psicoterapici hanno subito e continuano a subire non rende facile questa impresa. Si cercherà qui di fornire un quadro di riferimento storico-evolutivo delle varie scuole: gli approcci principali verranno considerati nel loro nascere come anche nella loro articolazione successiva. Si rimanderà invece alle voci specifiche per un’analisi dettagliata dei contenuti.

1.​​ La psicoanalisi e i modelli psicoanalitici.​​ Fu fondata alla fine dell’800 da S.​​ ​​ Freud e fu da lui sviluppata in quasi cinquanta anni di ricerca. Nata come una teoria unitaria, e mantenuta coerente a se stessa per qualche decennio dalla personalità sintetica del fondatore, si suddivise presto in una grande varietà di scuole e di indirizzi. Già​​ ​​ Adler intorno al 1910 sviluppò una teoria della nevrosi che divergeva da quella freudiana, in quanto in luogo della libido sessuale egli postulava la «volontà di potenza» come forza direttiva della vita umana.​​ ​​ Jung vide l’inconscio non come un insieme di tensioni istintuali in contraddizione tra loro, ma come un insieme di potenzialità dotato di una certa struttura e di una finalità di compensazione dell’eventuale unilateralità della coscienza. Per Jung, inoltre, l’inconscio non consiste solo di precipitati di esperienze infantili, ma anche di profili innati di attività (archetipi), che costituirebbero il deposito di esperienze ancestrali, perché comuni a tutti gli individui in tutte le culture (inconscio collettivo). Uno dei contributi fondamentali di Jung alla metodologia terapeutica è certamente l’elaborazione del concetto di controtransfert, come chiarificazione del significato che la persona del paziente riveste per l’inconscio terapeutico. Jung diede così all’analista la possibilità di scoprire in se stesso un potente strumento terapeutico. O. Rank, con la sua teoria sul trauma della nascita, è da considerarsi come il pioniere di tutte le teorie pregenitali del disagio psichico e come colui che per primo ha focalizzato l’importanza del rapporto madre-bambino nella prima infanzia. Inoltre, la sua considerazione della volontà autonoma del soggetto lo condusse a stabilire uno dei capisaldi della terapia moderna: l’importanza che il paziente faccia nel transfert nuove esperienze affettive, e non soltanto si limiti a ricordare e riconoscere. Anche Rank, come Adler e Jung, limitò il valore dato da Freud alla sessualità infantile e considerò la nevrosi come un iperadattamento a un contesto sociale patologico che rende difficile l’espressione della volontà autonoma e della creatività artistica del soggetto. W. Reich, come si dirà, è il padre delle terapie corporee e lo scopritore della «nevrosi del carattere», una forma di nevrosi che, a differenza della psiconevrosi, non è caratterizzata da sintomi specifici (come ossessioni, fobie, conversioni isteriche), ma da disturbi del carattere. Egli fu tra i primi a reagire alla teoria freudiana dell’istinto di morte e a sostenere la necessità che la psicoanalisi liberasse dalla repressione sessuale sociale (tesi sostenuta da Reich nel suo rapporto su «La prevenzione sociale delle nevrosi» con tale forza da provocare la risposta freudiana ne «Il disagio della civiltà»). Alcuni seguaci di Freud, come Horney,​​ ​​ Fromm e Sullivan, influenzati dalla teoria adleriana, diedero maggiore rilevanza al conflitto attuale e, di conseguenza, ottennero che nella terapia si prestasse attenzione non tanto al passato quanto al presente. La loro scuola è conosciuta come​​ Neoanalisi.​​ Per l’accento posto sull’adattamento alle condizioni sociali vigenti, e per aver limitato l’obiettivo del processo terapeutico ad una conoscenza di sé appena sufficiente per adattarsi alle situazioni conflittuali, i neoanalisti furono accusati di conformismo dai freudiani ortodossi. Negli anni Cinquanta del XX sec. lo sviluppo della psicoanalisi è legato al cosiddetto «gruppo di New York», che, soprattutto attraverso H. Hartman, E. Kris, R. Loewenstein, diede importanti contributi alla psicologia dell’Io ed evidenziò, specie con Hartman, il ruolo della​​ intenzionalità.​​ I meccanismi di difesa non furono visti soltanto in termini patologici, ma anche come normali stadi del processo di sviluppo. Molti altri autori si sono distinti negli ultimi anni. Citiamo, tra gli altri, Reik, Federn, Alexander e Lacan. A sua volta la​​ Terapia psicoanalitica delle relazioni oggettuali,​​ sviluppatasi negli ultimi trent’anni, considera i conflitti come una manifestazione di strutture psichiche interne, definite relazioni oggettuali. La nascita di questo approccio non trova collocazione in un’opera specifica, in quanto avvenne in maniera progressiva, dall’elaborazione di alcuni aspetti della teoria di M. Klein (in particolare gli studi sulla fase pre-edipica dello sviluppo del bambino) e di alcuni spunti forniti da H. Hartman. Si possono fare risalire gli inizi di questa scuola a due movimenti di ricerca sviluppatisi parallelamente: quello di Winnicott (che in Inghilterra aveva fondato la «terza scuola» psicoanalitica, dopo le due antagoniste di M. Klein e di A. Freud) e quello rappresentato dalla Mahler e da Jacobson negli Stati Uniti. Attualmente, l’autore fondamentale di questa scuola è Kernberg, mentre Kohut è considerato in parte l’esponente di un pensiero autonomo. La terapia delle relazioni oggettuali, parallelamente ad altri modelli contemporanei, ha consentito di affrontare nuove patologie quali la sindrome borderline e il narcisismo.

2. Le terapie corporee.​​ Le terapie corporee si prefiggono l’obiettivo di cambiare il vissuto e il comportamento della persona agendo sul corpo. Tutte si rifanno al parallelismo messo in luce da W. Reich tra tensioni psichiche e tensioni corporee, e sottolineano l’importanza di liberare l’uomo dalle repressioni culturali per riportarlo allo stato di funzionalità primordiale. Esse si sono sviluppate in due articolazioni fondamentali: gli approcci elaborati dai diretti allievi di Reich e i modelli che si prefiggono di raggiungere il cambiamento della persona attraverso un’attività di rilassamento, di ampliamento della consapevolezza del corpo e d’integrazione tra corpo e mente o tra corpo, mente e spirito (Schützenberger-Sauret, 1978). A questo secondo gruppo appartengono tutte le tecniche di rilassamento, più o meno corrispondenti a una articolata elaborazione teorica, dal​​ ​​ training autogeno​​ di Schultz, all’eutonia​​ di G. Alexander, al​​ metodo Feldenkrais,​​ al​​ rebirthing,​​ all’urlo primario,​​ ecc. Al primo gruppo appartengono invece fondamentalmente la bioenergetica di A. Lowen, che sviluppa l’analisi del carattere di Reich in termini clinici strutturati, e la teoria psicosomatica di S. Keleman.

3.​​ L’approccio cognitivo-comportamentale.​​ Per quanto riguarda il comportamentismo rimandiamo alla voce specifica su questo dizionario. Le scuole cognitive nacquero negli anni sessanta dallo sviluppo degli studi sulle cognizioni e sui pensieri dell’individuo come fonte principale dei disturbi psicologici. Come le terapie comportamentali, esse assumono che l’individuo impara dall’esperienza passata e usa tale apprendimento come guida per il comportamento futuro, che risulta dettato quindi dalla rappresentazione cognitiva formatasi nel soggetto riguardo alle situazioni interpersonali e fisiche e alle prospettive ipotizzabili. La terapia cognitiva si propose pertanto di modificare sentimenti e comportamenti del paziente modificandone i pensieri e si inserì​​ ​​ in maniera originale rispetto alle terapie emozionali​​ ​​ nel quadro culturale e filosofico di metà secolo, dove si sentiva forte la necessità di rafforzare l’Io. Anche se possiamo rintracciare una connotazione «cognitiva» negli orientamenti terapeutici più tradizionali (come la psicoanalisi), la terapia cognitiva ha una sua autonomia di definizione in quanto si concentra sui sintomi evidenti, presta meno attenzione all’infanzia del paziente e al processo transferale. Attualmente i tre orientamenti rappresentativi della terapia cognitiva sono: la​​ terapia razionale-emotiva​​ di Ellis, la​​ terapia cognitiva per la depressione​​ di Beck e i​​ costrutti personali​​ di Kelly. Le teorie cognitive e quelle comportamentali sono state di recente integrate nella forma di interventi terapeutici cognitivo-comportamentali e cognitivo-costruttivisti (Kendall-Hollon, 1979;​​ Meichenbaum, 1977). Tale integrazione parte dal presupposto che l’organismo umano reagisce alla rappresentazione cognitiva dell’ambiente, non all’ambiente in sé, che queste rappresentazioni cognitive sono correlate ai processi di apprendimento, che la maggior parte dell’apprendimento umano è mediato da strutture cognitive e che pensieri, sentimenti e comportamenti interagiscono tra di loro in modo causale (Mahoney, 1974). Tra i vari approcci, citiamo la tecnica della​​ vaccinazione allo stress​​ di Meichenbaum, la tecnica della​​ ristrutturazione razionale sistematica,​​ una strategia simile alla RET, i​​ metodi autoistruttivi​​ con i bambini e infine la teoria dell’efficacia personale​​ di Bandura.

4.​​ L’approccio esistenziale.​​ Intorno al 1930 si sviluppò, fondamentalmente in Europa, un approccio filosofico e psicoterapico che si opponeva al dominio del razionalismo e delle scienze empiriche. Mentre la scienza, infatti, guarda all’individuo in quanto sostanza o meccanismo, questo approccio sostiene che l’uomo deve essere capito in quanto​​ esistenza​​ (nel significato letterale di​​ ex-sistere).​​ Influenzata dalla fenomenologia di Husserl e radicata nel pensiero di Kierkegaard, la filosofia esistenziale nasce con Heidegger e si sviluppa poi nel pensiero di Sartre, di​​ ​​ Buber, di Jaspers e di altri. Essa è stata applicata al campo clinico da alcuni psichiatri europei, per es. Binswanger,​​ ​​ Frankl, Boss, e da Rollo May negli Stati Uniti. Più che un approccio psicoterapico, l’esistenzialismo rappresenta un orientamento verso la comprensione della natura e del significato dell’esistenza umana. Secondo questo approccio la p. è essenzialmente un incontro. Il terapeuta deve essere capace di relazionarsi al paziente, come ha sottolineato Binswanger, come «un’esistenza che comunica con un’altra». L’ideale dell’incontro autentico è espresso nei termini di Buber come «io-tu». È una relazione fondata sull’apertura fiduciosa e sul rispetto per la soggettività dell’altro. Il terapeuta, vedendo il paziente come un partner esistenziale piuttosto che come un oggetto di ricerca, gli dà la possibilità di non percepirsi più come un oggetto controllato da forze esterne. L’obiettivo ultimo della p. è far sì che il paziente sperimenti il limite imposto dalla realtà della propria esistenza come ciò che lo definisce, lo concretizza e lo arricchisce.

5.​​ Le p. umanistiche.​​ Si comprendono con questa denominazione alcune scuole di p. sorte sotto l’ispirazione di un movimento culturale degli anni Cinquanta, il Movimento per lo Sviluppo del Potenziale Umano. Esso fu costituito da molti analisti e professionisti colti del tempo (in gran parte europei emigrati durante la Seconda Guerra Mondiale negli Stati Uniti), che facevano riferimento dal punto di vista antropologico alle idee di Martin Buber, e si collocavano nello sfondo epistemologico delle terapie esistenziali. Il nascere delle terapie umanistiche è caratterizzato anche dal fenomeno degli incontri di gruppo che emerse per esigenze legate alla Seconda Guerra Mondiale e al Dopoguerra e divenne poi molto comune in quegli anni. Le attività di gruppo si diffusero in vari campi clinici ed educativi, da gruppi di psicotici a gruppi di crescita per nevrotici, ai gruppi autogestiti per alcolisti, ai​​ T-groups,​​ ai​​ sensitivity groups,​​ ai gruppi terapeutici. Non si possono considerare qui le innumerevoli tecniche e gli approcci psicoterapici nati in quegli anni. Rimandiamo alle voci relative alle tre scuole fondamentali che si inserirono in questo movimento con un corpo teorico e una metodologia della prassi strutturati: la​​ terapia centrata sul cliente​​ fondata da C.​​ ​​ Rogers; la​​ p.​​ della​​ ​​ Gestalt​​ fondata da F. Perls;​​ l’​​ ​​ analisi transazionale,​​ fondata da E. Berne.

6.​​ La terapia della famiglia.​​ Negli ultimi trent’anni si è assistito ad un crescente interesse per la terapia familiare. Essa è stata oggetto di considerazione da parte di un movimento che si avviò contemporaneamente in diverse parti degli Stati Uniti, ad opera di terapeuti di notevole prestigio, in un clima (quello degli anni a cavallo tra il ’50 e il ’60) di grande fermento di studi sperimentali sul modo di affrontare i problemi psichiatrici dei pazienti adulti come anche i problemi di adattamento sociale dei bambini immigrati o appartenenti a strati sociali emarginati. Una particolarità della nascita di questo movimento, che ne influenzò certamente i contenuti e la metodologia, fu il fatto che i suoi fondatori erano per lo più accademici, antropologi e filosofi (come G. Bateson), o psichiatri impegnati nella cura di pazienti gravi (come N. Ackerman). Ciò consentì alla terapia familiare di affrontare problemi gravi, spesso considerati insolubili, in maniera nuova dal punto di vista epistemologico e con quel coraggioso atteggiamento sperimentale che le situazioni difficili a volte stimolano. La pubblicazione della rivista «Family Process», nel 1962, segna la nascita ufficiale della terapia familiare. I fondatori furono N. Ackerman, uno psichiatra infantile fondatore dell’Istituto di New York e D. Jackson, uno degli psichiatri dell’Istituto di Palo Alto. Tra gli autori fondamentali di questo approccio citiamo Murray Bowen, uno psichiatra specializzato nel trattamento di bambini psicotici che focalizzò il proprio interesse sui processi di simbiosi (massificazione) e di differenziazione (individuazione) all’interno della famiglia; C. Whithaker, il più stravagante tra i fondatori, che estese la definizione clinica della famiglia fino a comprendervi la terza generazione; G. Bateson, che ispirò uno dei gruppi più importanti per la nascita della terapia familiare, quello di Palo Alto, e che attraverso lo studio degli aspetti paradossali della comunicazione e delle gerarchie di tipi logici aveva notato come questo tipo di comunicazione è alla base dell’umorismo, dell’ipnosi e delle verbalizzazioni apparentemente assurde degli schizofrenici. Nel 1956 Bateson, assieme a J. Haley, un esperto di comunicazione, e J. Weakland, un ingegnere chimico che si interessava di antropologia, e a D. Jackson, pubblicò un articolo che sarebbe divenuto storico,​​ Toward a theory of schizophrenia,​​ in cui gli autori introducevano il concetto di doppio legame. Un altro importante gruppo di questo approccio è il​​ Mental Research Institute,​​ fondato da D. Jackson nel 1959 a cui si associò V. Satir che, pur essendo fortemente influenzata dal gruppo di Palo Alto, nel corso degli anni se ne distaccò per coinvolgersi sempre di più nel Movimento per lo Sviluppo del Potenziale Umano. Anche il gruppo del Family Institute of Philadelphia contribuì in modo rilevante alla fondazione della Terapia Familiare. Al suo interno lavorarono L. Boszormenyi-Nagy, uno psichiatra, e i suoi collaboratori, tra cui J. Framo e G. Zuk. Essi organizzarono il primo programma strutturato di formazione in Europa e formarono migliaia di professionisti. Tra il 1960 e il 1980 nacquero numerosi centri di formazione ed è impossibile rendere giustizia a tutti i programmi e a tutte le personalità che emersero in questo periodo (Gurman-Kniskern, 1995). Originariamente centrate solo sulla prospettiva sistemico-relazionale del disagio psichico, le terapie familiari tendono oggi a integrare competenze sulle dinamiche psicologiche individuali, affinché il terapeuta riesca a orientarsi sia tra i vissuti dei membri della famiglia che tra i propri.

Bibliografia

Mahoney M. J.,​​ Cognition and behavior modification,​​ Cambridge, Mass., Ballinger, 1974; Meichenbaum D.,​​ Cognitive-behavior modification: an integrative approach,​​ New York, Plenum, 1977; Schutzenberger A. A. - M. J. Sauret,​​ Il​​ corpo e il gruppo,​​ Roma, Astrolabio, 1978; Kendall P. C. - S. D. Hollon (Edd.),​​ Cognitive-behavioral interventions: theory,​​ research,​​ and procedures,​​ New York, Academic Press, 1979; Horner A. J.,​​ Relazioni oggettuali. Teoria e trattamento,​​ Milano, Cortina, 1993; Gurman S. - D. P. Kniskern (Edd.),​​ Manuale di terapia della famiglia,​​ Torino, Bollati Boringhieri, 1995; Nuzzo M. L. (Ed.),​​ Costruttivismo e p. Cinque scuole a confronto, Ancona, Pequod, 2002.

M. Spagnuolo Lobb




PUBBLICITÀ

 

PUBBLICITÀ

È una forma di​​ ​​ comunicazione con espliciti intenti persuasivi adottata principalmente dalle imprese industriali e commerciali (p.​​ commerciale) per farsi conoscere o far conoscere i propri prodotti e, in generale, per influenzare atteggiamenti e comportamenti relativi all’acquisto e al consumo di beni e all’utilizzazione di servizi. Il ricorso alle tecniche pubblicitarie di comunicazione messe a punto dalle imprese avviene anche, con crescente frequenza, da parte di organizzazioni non commerciali: si parla, in questo caso, di p.​​ non profit​​ o​​ non commerciale​​ e, in particolare, di p., di volta in volta,​​ sociale,​​ politica,​​ elettorale,​​ pubblica,​​ religiosa,​​ a seconda dei soggetti che vi fanno ricorso e dell’oggetto dei messaggi.

1.​​ Caratteri.​​ La p. assume caratteristiche formali, di contenuto e diffusive del tutto particolari. Si presenta generalmente sotto forma di messaggi brevi o brevissimi, sintetici, semplici, accattivanti e spesso fortemente emotivi, parziali nella scelta contenutistica a favore del committente e sovente sconfinanti in una più o meno evidente ingannevolezza, ripetuti sistematicamente fino a ricadere nell’eccesso, diffusi con ogni mezzo utile e fortemente intrusivi, talora in modo irritante come accade con le interruzioni televisive.

2.​​ Educazione e p.​​ Strumento indispensabile per le imprese, la p. – per le sue caratteristiche tipiche – non esaurisce la sua influenza sul piano che le è originariamente proprio, non si limita, cioè, ad agire su atteggiamenti e comportamenti di consumo. Essa, nel suo continuo sforzo persuasivo, coinvolge in pratica tutti gli aspetti della realtà, sfruttandoli, selezionandoli, deformandoli. Finisce così per proporre, nei singoli messaggi e col loro insieme, una certa visione dell’esistenza, per esaltare modelli di comportamento funzionali (e subordinati) all’acquisto e all’uso dei beni materiali, per costruire una scala di valori che privilegia, insieme al consumo (concorrendo all’espandersi della sua forma esasperata, il​​ consumismo), il successo, la ricchezza, la competizione sociale, l’esibizione fine a se stessa: non solo degli oggetti, ma anche del corpo umano degradato a mero elemento di richiamo. In tal modo si configura come una «grande impresa pedagogica», così definita un po’ ambiguamente da Marshall McLuhan. Essa, in effetti, assume un ruolo importante nel​​ far conoscere​​ (imprese e prodotti), nel​​ suggerire modelli di comportamento​​ (anche non relativi a prodotti), nel​​ proporre valori​​ (generalmente estranei ai prodotti): dunque, nell’esercitare, a suo modo, una funzione didattica, educativa e anche ideologica. La p. televisiva – con i suoi «testi» brevi o brevissimi, continuamente ripetuti e quindi ampiamente conosciuti, a volte anche divertenti e formalmente pregevoli – si presta ad un efficace lavoro didattico, che può addirittura costituire il primo approccio per una più ampia educazione ai media collegata all’esperienza vissuta concretamente, ogni giorno, dai minori. La proposta di​​ lavorare sulla p.​​ risulta generalmente gradita ai ragazzi, come dimostrano le ormai numerose esperienze compiute anche in molte scuole italiane. La p. viene addirittura definita come «il tema per eccellenza di cui l’insegnante dispone per preparare il ragazzo alla vita adulta. Infatti, più tardi costui sarà lettore, spettatore, telespettatore, consumatore; dovrà effettuare delle scelte. Come si accorgerà di poter essere manipolato? Avrà i mezzi per scoprire la frode? Saprà orientarsi fra la moltitudine di messaggi quotidiani? La scuola deve avvertire il ragazzo che nella vita tali messaggi possono connotare il contrario di quanto denotano, talvolta abilmente dissimulati dietro la falsa scientificità, la falsa referenza, la falsa ingenuità» (Martin, 1982). Il «lavoro sulla p.» è in grado anche di mostrare ai ragazzi la grande ragnatela ideologica che i messaggi commerciali costruiscono giorno per giorno, e può aiutarli a individuare gli artifici, le finalità, i pericoli, il vero e proprio «assalto all’infanzia» spesso perpetrato dal marketing e dalla comunicazione commerciale (Linn, 2005), senza che ciò suoni condanna radicale per una forma di comunicazione che, se rettamente concepita, realizzata e diffusa, può giovare al progresso delle imprese e dell’economia in generale.

3.​​ Etica nella p. Nel documento «Etica nella p.», emanato nel 1997 dal Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, si afferma che la p. «si rivela nel mondo contemporaneo forza persuasiva e potente che influisce sulla mentalità e il comportamento», si delineano «benefici» e «danni» che essa può produrre, si indicano tre principi morali fondamentali «che si applicano specificamente alla p.»: la veridicità, la dignità della persona umana e la responsabilità sociale. Infine, il documento espone alcune misure da adottare per un esercizio responsabile della p.: il miglioramento dei codici volontari di deontologia; l’intervento del potere pubblico per regolamentare contenuti e prassi della p. «al di là della semplice interdizione della p. falsa, in senso stretto»; la diffusione di informazioni critiche sulla p. da parte dei media; la formazione ai media, come parte integrante dei piani pastorali della Chiesa, che contenga «l’insegnamento circa il ruolo della p. nel mondo contemporaneo»; l’impegno dei professionisti della p. perché «ne elimino gli aspetti socialmente dannosi e adottino regole morali di alta qualità».

Bibliografia

Martin M.,​​ Sémiologie de l’image et pédagogie. Pour une pédagogie de la recherche,​​ Paris, PUF, 1982; Kapferer J. N.,​​ L’enfant et la publicité,​​ Paris, Dunod,​​ 1985; Zanacchi A.,​​ Convivere con la p.,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1999; Id.,​​ P.: effetti collaterali, Roma, Editori Riuniti, 2004; Linn S.,​​ Il marketing all’assalto dell’infanzia. Come media,​​ p. e consumi stanno trasformando per sempre il mondo dei bambini,​​ Milano, Orme, 2005.

A. Zanacchi




PUBBLICO / PRIVATO

 

PUBBLICO / PRIVATO

Usati in generale per mettere in risalto due ambiti della vita sociale, i due termini sono qui assunti in riferimento specifico all’istruzione e al​​ ​​ sistema formativo scolastico.

1. Il sistema del servizio scolastico / formativo è infatti indirizzato alla piena realizzazione del diritto all’istruzione, nel quadro dell’attuazione del dovere-diritto dei genitori di mantenere, istruire, educare i figli. La funzione dello Stato è quella di «dettare le norme generali sull’istruzione», in un contesto in cui la​​ ​​ libertà d’insegnamento si esprime non solo sul piano individuale, ma anche sul piano collettivo, riconosciuta come è​​ ​​ insieme con tutti i diritti fondamentali​​ ​​ anche alle comunità o formazioni sociali (​​ legislazione scolastica). La libertà d’insegnamento si pone a fondamento​​ ​​ insieme con la libertà di intrapresa​​ ​​ della libertà di istituire scuole ed istituti di educazione. Come lo Stato, per adempiere al suo compito di rendere effettivo il diritto all’istruzione dei propri cittadini, istituisce proprie scuole per tutti gli ordini e i gradi, così enti e privati possono istituire scuole, per realizzare il medesimo servizio pubblico, onde rendere altresì effettivo il diritto di libera scelta scolastica che compete ai genitori, quale corollario necessario della loro responsabilità in ordine all’istruzione dei figli. In questa concezione che è comune a tutte le costituzioni democratiche ed alle indicazioni di tutti i documenti internazionali concernenti la tutela dei diritti delle persone e dei popoli, sembra superata la distinzione p. / p. che fa perno sull’appartenenza per dire così «catastale» delle singole istituzioni scolastiche e sul loro stato giuridico (se di diritto pubblico o di diritto privato), per distinguere l’istruzione pubblica dall’istruzione privata. In realtà​​ ​​ come riconosciuto dalla maggior parte degli ordinamenti​​ ​​ si tratta di un unico​​ servizio pubblico​​ esplicato sullo stesso piano da soggetti di diritto pubblico e soggetti di diritto privato.

2. Se è vero che, in questo contesto, «l’istruzione​​ non potrebbe più qualificarsi​​ come invece ancora tradizionalmente si fa​​ ​​ quale istruzione​​ pubblica​​ o​​ privata»,​​ ma​​ «pubbliche​​ o​​ private​​ invero sono ormai soltanto le scuole, a seconda che ad esse provveda lo Stato ovvero i privati, mentre l’istruzione resterebbe sempre la stessa» (Pototschnig, 1961), sembra allora assai più appropriato​​ ​​ come fa la Cost. italiana​​ ​​ usare le espressioni​​ scuole pubbliche statali​​ e​​ scuole pubbliche non statali,​​ graduando tra queste ultime diversi livelli di «pubblicità» (cioè partecipazione all’espletamento del servizio pubblico scolastico / formativo), a seconda della maggiore o minore incisività e rilevanza della loro adesione al sistema di diritti ed obblighi stabiliti dallo Stato con la posizione delle «norme generali sull’istruzione» (né pubblica né privata), riguardanti la determinazione di requisiti e condizioni oggettive (standard) per la corretta esplicazione di tale servizio. Si tratterà, cioè, di stabilire i requisiti e le condizioni – validi sia per le scuole istituite da parte dello Stato sia per quelle istituite da soggetti di diritto privato – in base ai quali l’istruzione impartita in esse raggiunga livelli qualitativi e usufruisca di risorse e strumenti (sia sul piano umano sia su quello materiale) oggettivamente uguali o quanto meno equiparabili in ordine al risultato di istruzione che si prevede di ottenere ed alle garanzie di realizzazione dei diritti cui si intende dare attuazione. All’interno delle «norme generali sull’istruzione» (e verificati i requisiti e le condizioni da esse posti) non è possibile giuridicamente individuare alcuna differenziazione tra scuole statali e non statali, che non sia fondata su ragioni e differenziazioni di contenuto e di progetto educativo. Ma ogni discriminazione di tal fatta è esplicitamente negata in nome della libertà ed uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge da ogni costituzione democratica e da tutti i documenti, dichiarazioni e convenzioni internazionali sul riconoscimento e sulla salvaguardia dei diritti fondamentali dell’uomo e dei popoli.

3. Il Parlamento Europeo, con una risoluzione votata a grande maggioranza il 14 marzo 1984 ha affermato che «il diritto alla libertà d’insegnamento implica per sua natura l’obbligo per gli Stati membri di rendere possibile l’esercizio di tale diritto anche sotto il profilo finanziario e di accordare alle scuole le sovvenzioni pubbliche necessarie allo svolgimento dei loro compiti e all’adempimento dei loro obblighi in condizioni eguali a quelle di cui beneficiano gli istituti pubblici corrispondenti senza discriminazioni nei confronti degli organizzatori, dei genitori, degli alunni e del personale». Viene così in luce l’aspetto più problematico​​ ​​ per lo meno per alcuni (come in Italia)​​ ​​ della questione: il problema del finanziamento delle scuole pubbliche non statali. Esso è stato da tempo risolto da molti ordinamenti democratici prendendo come base dell’intervento perequativo della mano pubblica e della sua graduazione la maggiore o minore adesione ai requisiti ed alle condizioni poste dalle «norme generali sull’istruzione». Essi riguardano: l’apertura delle scuole non statali a tutti, senza discriminazioni; il possesso da parte dei docenti dei medesimi requisiti culturali e professionali; l’equipollenza dei programmi scolastici con quelli stabiliti dalle pubbliche autorità, pur tenendo conto che si va diffondendo una sempre più ampia autonomia didattica e programmatica​​ anche​​ per le scuole statali; la partecipazione delle scuole non statali alla programmazione territoriale del sistema di istruzione; l’attivazione di strutture ed organismi di partecipazione con attenzione al coinvolgimento delle famiglie nella gestione dell’istruzione dei figli; la mancanza di scopo di lucro (no-profit)​​ e la pubblicità dei rendiconti relativi all’utilizzazione dei finanziamenti (o la pubblicità dei bilanci); l’idoneità delle strutture edilizie e delle dotazioni strumentali secondo gli​​ standard​​ previsti dalle particolari normative, valide per tutte le scuole, statali e non statali. La maggiore o minore adesione a questi requisiti e caratteristiche, decide del maggiore o minore inserimento​​ ​​ salva sempre la libertà di istruzione​​ ​​ e decide altresì della possibilità delle istituzioni non statali di accedere al finanziamento pubblico del servizio da loro reso. Recentemente la L. n. 62 / 2000 ha introdotto in Italia il principio di un sistema nazionale di istruzione che non si identifica con la sola scuola dello Stato e degli Enti locali, ma del quale sono parte integrante scuola statale e scuola non statale paritaria, riconoscendo il servizio pubblico svolto dalle scuole paritarie, private e degli Enti locali.

Bibliografia

Pototschnig U.,​​ Insegnamento istruzione scuola,​​ Milano, Giuffrè, 1961; Garancini G.,​​ La scuola cattolica in Italia - tra parità ed uguaglianza e tradizione e cambiamento,​​ in «Aggiornamenti Sociali» 44 (1993) 272-292; Malizia G., «La legge 62 / 2000 e la libertà di educazione. Quali prospettive?», in Cssc-Centro Studi Per La Scuola Cattolica,​​ A confronto con le riforme: problemi e prospettive. Scuola cattolica in Italia. Quarto Rapporto, Brescia, La Scuola, 2002, 57-72; Palma A.,​​ Sussidiarietà e formazione in Italia: profili giuridici, in S. Versari (Ed.),​​ La scuola nella società civile tra Stato e mercato, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002, 59-87;​​ Relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della Legge 10 marzo 2000,​​ n. 62, Roma, Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, 2004.

G. Garancini

PUBERTÀ​​ ​​ Adolescenza​​ ​​ Preadolescenza




PUDORE

 

PUDORE

È quell’insieme di vincoli e di interdetti comportamentali ed espressivi che ogni cultura pone intorno al mondo della sessualità, per tutelare, insieme con la riservatezza e l’intimità dei rapporti, i valori più profondi di tenerezza, amore, rispetto della sacralità delle sorgenti della vita, apertura a una certa trascendenza che la sessualità può esprimere, ma anche tradire attraverso la banalizzazione e il consumismo delle sue espressioni. L’educazione, insieme con la pressione delle convenzioni sociali è lo strumento attraverso cui questa difesa si impone e si perpetua nella società. Per il fatto di essere culturalmente condizionato, il senso del p. assume forme ed espressioni anche molto diverse nello spazio e nel tempo. In una società come la nostra, segnata da un forte​​ ​​ pluralismo culturale e dalla caduta di molti modelli etici che strutturavano in passato il comportamento sessuale socialmente accettato, il «comune senso del p.» si è notevolmente ridotto, favorendo forse una maggiore spontaneità nel comportamento sessuale, ma anche una banalizzazione dei valori implicati nella gestione della sessualità (​​ educazione sessuale). Gli educatori che operano in controtendenza, per un ricupero, fosse pure solo parziale di questi valori, incontrano in questa caduta del comune senso del p. un ostacolo non facile da superare.

Bibliografia

Chimirri G.,​​ La prudenza dell’eros: i fondamenti etico-antropologici del p.,​​ Atripalda, WM Editrice.​​ 1987; Choza J.,​​ La supresión del pudor,​​ signo de nuestro tiempo,​​ Pamplona, Universidad de Navarra, 1990;​​ Selz M.,​​ La pudeur,​​ un lieu de liberté, Paris, Buchet / Chastel, 2003.

G. Gatti