1

ORGANI COLLEGIALI SCOLASTICI

 

ORGANI COLLEGIALI​​ SCOLASTICI

Strumenti di partecipazione alla vita e alla gestione della​​ ​​ scuola. Previsti in Italia fin dal 1859 a livello provinciale e nazionale, sono stati successivamente modificati, integrati e democratizzati negli anni ’70.

1.​​ L’evoluzione della collegialità nella scuola.​​ La necessità di uscire da un lungo periodo di tensione, soprattutto fra studenti e docenti, contrapposti da una schematica ideologia rivoluzionaria elaborata nella seconda metà degli anni ’60, periodo della cosiddetta contestazione globale, portò le forze culturali e politiche a cui si deve la Costituzione italiana a ricercare una nuova mediazione culturale, che rendesse possibile la convivenza delle componenti e delle forze che confliggevano nella scuola. Ne uscirono la L. delega 477 / 1973 e i decreti delegati del 1974, che fornirono alla scuola una mappa complessivamente accettabile di mediazione verso l’alto, che non solo riconosceva le posizioni guadagnate sul campo dalle diverse componenti, ma le impegnava tutte a un «lavoro» culturale e relazionale che i più prudenti chiamavano​​ ​​ partecipazione​​ (rispettivamente dei docenti, studenti, genitori e forze sociali, queste ultime solo a livello distrettuale) alla vita e alla gestione della scuola (con la distinzione fra ambiti politico, didattico, amministrativo, in riferimento ai diversi o.c.), e che i più innovatori chiamavano, con indubbia enfasi,​​ gestione sociale​​ della scuola. I luoghi istituzionali di questa nuova concezione della scuola e dell’organizzazione incaricata di darle concretezza sono appunto gli o.c., rinnovati nella composizione e nei poteri o istituiti​​ ex novo,​​ a livello di classe e d’interclasse, d’istituto e di circolo, di distretto (novità assoluta, ora abbandonata), di provincia e di nazione (il Consiglio nazionale della P.I. sostituì il Consiglio superiore di antica memoria). Per i genitori e per gli studenti sono state previste​​ assemblee​​ a livello d’istituto, e​​ comitati di rappresentanti, con poteri solo di tipo espressivo-consultivo, mentre veniva rafforzato il​​ collegio dei docenti, cui spettano poteri di tipo didattico-disciplinare, e veniva istituito​​ ex novo​​ il​​ consiglio d’istituto e di circolo, composto dai rappresentanti delle componenti scolastiche, oltre al capo d’istituto, con poteri di tipo organizzativo-gestionale. Fra sistema delle assemblee, dei comitati e dei consigli non esiste però un raccordo di tipo rappresentativo e funzionale. Dei​​ consigli di classe​​ e dei​​ consigli di circolo e d’istituto​​ fanno parte i rappresentanti dei genitori (e degli alunni nelle scuole secondarie superiori): essi non sono invece presenti a livello nazionale, nel CNPI,​​ Consiglio nazionale della P. I.​​ I genitori sono anche presenti a livello distrettuale e provinciale, mentre gli studenti solo a​​ livello distrettuale. Nonostante alcuni tentativi di modifiche parlamentari, questo disegno è sostanzialmente immutato dal 1974, e mostra tutti i suoi anni. I limiti del compromesso fra centralismo e partecipazione non hanno tardato però a manifestarsi. Il «carburante ideologico» spinse per un certo tratto in avanti la «macchina» scolastica, ma non riuscì ad alimentare quella cultura pedagogica e quella capacità d’interazione finalizzata all’educazione, nel rispetto di ruoli e competenze diverse, che costituiscono il vero fondamento di una relazionalità matura e produttiva. D’altra parte il legislatore delegato del ’74 previde che il nuovo apparato partecipativo avesse il compito di fare della scuola una​​ comunità​​ aperta all’ambiente, ma non riuscì a fornirgli strumenti normativi e finanziari utili a renderlo motivante ed efficiente. Si cercò in tal modo di contenere, sotto un ombrello di tipo valoriale, le spinte conflittuali relative alla conquista degli spazi e dei poteri. Dopo iniziali entusiasmi, l’alleanza tra docenti e genitori in funzione antiburocratica entrò in crisi. Molti docenti hanno temuto i genitori vicini più che i ministri lontani: la comunicazione, appena avviata, si è rallentata e talora interrotta per equivoci, per beghe locali o per astratte contrapposizioni ideologiche, e per caduta di interesse nei riguardi di un meccanismo che si rivelava più complicato e meno gratificante del previsto. All’interno dei consigli di classe il dialogo è risultato talora vivace e produttivo, talora stentato, per la difficoltà di ottenere reciproca non superficiale conoscenza e chiarezza di ruoli e di compiti fra insegnanti, genitori e studenti. Il cambiamento insomma non è stato pienamente vissuto e attuato.

2.​​ Conquiste e limiti della democratizzazione degli anni ’70.​​ Il legislatore ha implicitamente riconosciuto, sia pure in termini un po’ approssimativi, i diritti degli studenti, ha solennemente sancito la libertà d’insegnamento dei docenti, finalizzandola però alla promozione della personalità dello studente e vincolandola al rispetto della sua coscienza, ha riconosciuto spazi e diritti ai genitori, legittimando la pluralità delle visioni della vita e dei ruoli, impegnando però tutti al confronto collegiale, dai consigli di classe a quelli d’istituto a quelli di distretto, a quelli provinciali, nella prospettiva di una scuola intesa come​​ comunità​​ educativa che interagisca con la più vasta comunità sociale e civica. Tali diritti sono stati poi precisati, per gli studenti, col dpr 10.10.1996, n. 567 e col dpr 24.6.1998, n. 249,​​ Statuto delle studentesse e degli studenti, e per i genitori col dpr 301 2005, che istituisce i​​ Forum delle associazioni di genitori, FONAGS, a livello nazionale e regionale. Conquiste importanti, ma di debole impatto nel costume scolastico. Centralismo e decentramento, libertà del docente e collegialità, didattica e amministrazione, pluralismo e impegno educativo, apprendimento e partecipazione, discipline curricolari e attività extracurricolari sono coppie di valori non alternative, ma componibili: questo il succo della «difficile convivenza» resa possibile dalle scelte pedagogiche e organizzative compiute dai decreti delegati. Come spiegare il nuovo disagio, la cattiva comunicazione, i sospetti e il pratico abbandono del campo della maggior parte dei genitori? Qualcuno denuncia la scarsità o l’illusorietà dei poteri trasferiti alla base, qualche altro invece ritiene che questi poteri siano troppi e che gli organismi partecipativi siano una palla al piede di chi vuole modernizzare, o, all’opposto, conservare la scuola. Indubbiamente il «taglio» dei diversi o.c., lo scollegamento fra il sistema delle assemblee generali, dei previsti comitati dei rappresentanti e dei consigli hanno le loro responsabilità. Le critiche però sono state talora globalistiche e poco attente alla distinzione di piani e livelli, dei valori in gioco e degli strumenti previsti per salvare questi valori. Il rischio maggiore è quello di tentare di uscirne semplicemente con la rimozione del problema, come se tutto il tema della democrazia scolastica fosse frutto di un equivoco, di un problema mal posto o di una congiuntura un po’ folle, che ha confuso le idee alle persone per bene, inducendole a cose inutili o sconvenienti.

3.​​ La collegialità sfidata dalle «educazioni»,​​ dalle competenze e dall’efficienza.​​ Di fatto questa scuola, che difende la sua autonomia anche nei riguardi della componente genitori, deve poi registrare notevoli difficoltà per quanto concerne gli apprendimenti, come rivelano le indagini OCSE PISA, che vedono i ragazzi italiani in complesso meno preparati dei loro compagni europei; difficoltà che hanno a che fare non solo con le competenze didattiche dei docenti, ma anche, da parte degli studenti, col disagio, la demotivazione, la devianza, la droga, la dispersione scolastica, la delinquenza e la disoccupazione: tutti temi che chiamano in causa le dimensioni esistenziale, motivazionale, relazionale del lavoro scolastico e i rapporti fra scuola e sistema formativo. Il ricupero dell’esistenziale può giustificare una nuova fase d’intesa tra scuola e famiglia, che prenda in considerazione, come ha fatto la L. 309 / 1992, il concetto di​​ salute.​​ Se la​​ salute​​ può essere intesa come quello stato di benessere fisico, psichico, sociale, morale che dà energia, tono e prospettive alla vita, e che dalla cultura ricava ragioni e significati positivi, di essa non deve interessarsi solo una famiglia che istituzionalmente ha il diritto e il dovere di «mantenere, istruire ed educare i figli», ma anche una scuola, che abbia il compito di «promuovere attraverso un confronto aperto di posizioni culturali, la piena formazione della personalità degli alunni» e cioè non solo di «trasmettere», ma di «elaborare» cultura, nel rispetto della coscienza morale e civile degli alunni. La teoria pedagogica del sistema formativo integrato, prima che utopia legata alle idee della società educante e dell’educazione permanente, è frutto della necessità operativa di chi intenda risolvere i problemi in termini istituzionalmente e professionalmente corretti. Il tutto va coordinato col dovere di una​​ valutazione, che sia attenta agli aspetti nazionali e internazionali, come agli aspetti locali e personali. L’INVALSI e l’INDIRE vanno ripensati come agenzie di supporto all’autonomia e alla funzionalità del​​ sistema educativo d’istruzione e formazione.

4.​​ Il ridisegno dei confini del sistema costituzionale di educazione e di istruzione.​​ Dopo la fase della scuola nazionalburocratica e la fase della scuola democratica, registriamo infatti, a partire dalla fine degli anni ’80, una domanda insistente di efficacia / efficienza del servizio, identificato nella prospettiva della scuola autonoma, manageriale, di qualità. Le fasi precedenti non sono superate, ma restano presenti nell’organismo della scuola, come negli alberi i cerchi di fasi di vita precedenti. La terza fase è iniziata sul piano normativo, ma non ha raggiunto ancora standard di efficacia / efficienza soddisfacenti. Dopo i cambiamenti vorticosi della stagione del primo Centro sinistra, che hanno introdotto novità istituzionali rimaste poi in vigore (il dpr 8.3.1999, n. 275 attribuisce alle singole scuole autonomia e personalità giuridica; la nuova Costituzione varata dalla l. cost. 3 / 2001 la riconosce all’art. 117), è giunta la legge delega 28.3.2003 n. 53 del ministro Letizia Moratti, con i relativi provvedimenti delegati, fra cui le​​ Indicazioni nazionali​​ per i piani di studio personalizzati, ispirate dall’idea guida della​​ personalizzazione, che ha introdotto il concetto di​​ cooperazione tra scuola e genitori​​ (art.1), ma che mette in ombra la collegialità. Su questa base si rende ancor più necessaria la modifica dei decreti delegati del ’74, sia quelli a livello scolastico, sia quelli a livello territoriale. Quanto ai primi, le novità che derivano dall’autonomia, dal dimensionamento-accorpamento delle scuole comprensive, in verticale e in orizzontale (1998) e dal conferimento della dirigenza ai capi d’istituto, dotati di poteri e responsabilità gestionali (d. leg. 30.3.2001, n. 165), pongono problemi di difficile armonizzazione delle procedure decisionali. Quanto agli o. a livello nazionale e periferico, il d. leg. 30.6.1999, n. 233 di Berlinguer che li ha riordinati non è entrato in vigore. Lo stesso è accaduto al testo «Norme concernenti il governo delle istituzioni scolastiche», votato nella passata legislatura il 23.2.2005 dalla VII Commissione della Camera. Il clima culturale si è fatto più incerto. Si può dire che si sia abbassata la marea delle energie motivazionali di tipo ideale, ideologico, pedagogico e politico, e anche demografico e finanziario, che avevano indotto il Parlamento ad un’apertura di credito verso le componenti scolastiche e le forze sociali, mettendo in cantiere le navicelle degli o.c. La nuova stagione del Centro sinistra, iniziata il 2006, sta cercando di consolidare gli ordinamenti sul piano della definizione giuridica e operativa dei confini fra ambiti e poteri sul piano della​​ governance,​​ anzitutto nel Tavolo Stato-Regioni; e cerca di rilanciare la partecipazione, con una rinnovata iniziativa parlamentare, sul «governo partecipato delle istituzioni scolastiche» e sui «rapporti tra queste, le istituzioni della Repubblica e il territorio». Il «sistema educativo d’istruzione e formazione», articolato in sottosistemi statale e paritario, va governato a quattro livelli relativamente indipendenti: statale, regionale, locale e scolastico, secondo le prospettive ancora acerbe del nuovo testo costituzionale, che affidano allo Stato le «norme generali sull’istruzione» e «la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» (art. 117, m e n). Che cosa è bene dire a livello di legge statale e che cosa lasciare alle regioni e all’autonomia dei singoli istituti, in materia di regolamento sugli o.c.? È certo che la normativa dev’essere a maglie più larghe.

5.​​ Un quadro di riferimento per l’azione.​​ Per quanto riguarda la vita degli o.c. interni alla scuola, si tratta di superare la distonia attuale e di valorizzare quel poco di partecipazione che si riesce ad ottenere, con criteri di accoglienza, di trasparenza, di spirito di servizio, non disgiunto dal rispetto dell’istituzione, dei ruoli e delle persone. A livello di istituto e di classe, si possono indicare gli elementi di una possibile matrice decisionale, da cui risultino risposte pertinenti ad un complesso sistematico di domande: chi partecipa a che cosa, perché, come, dove, quando, con quali risultati. Ricordiamo intanto che si possono raggiungere diversi livelli di partecipazione: si va dall’informazione,​​ alla​​ consultazione,​​ all’elaborazione,​​ alla​​ decisione,​​ all’esecuzione.​​ Non è opportuno che per ogni materia i genitori e gli studenti debbano salire ogni gradino di questa scala. Occorre poi passare in rassegna i momenti fondamentali del curricolo scolastico, dagli obiettivi educativi agli obiettivi didattici, ai contenuti disciplinari, ai metodi, alla condotta o disciplina nella scuola, alla valutazione, e metterli in relazione, in una tabella a doppia entrata, con i soggetti della comunità scolastica, dirigenti, docenti, genitori, personale ATA, altre figure professionali esterne. Se sulla conoscenza dei ragazzi, sugli obiettivi educativi, sulla disciplina, sui comportamenti, sulle motivazioni, sul complesso dell’organizzazione scolastica l’intervento dei genitori appare utile e pertinente, sui metodi d’insegnamento e sulla valutazione certo lo è meno, o non lo è affatto. L’ipotesi da verificare è che la partecipazione quale si è attuata finora nella scuola debba il suo relativo insuccesso alla mancata distinzione fra momenti​​ espressivi​​ e momenti​​ decisionali​​ e che ai genitori (e agli studenti) interessi assai più poter esprimere le loro aspettative, i loro bisogni e le loro valutazioni che partecipare alla presa di decisioni in materia di curricolo.

Bibliografia

Corradini L.,​​ Democrazia scolastica,​​ Brescia, La Scuola, 1975; Id.,​​ La comunità incompiuta,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1979; Agazzi L.,​​ Struttura organizzazione e attività degli o.c.,​​ Brescia, La Scuola, 1982; Corradini L.,​​ Educare nella scuola. Cultura comunità curricolo,​​ Ibid., 1983; Id., «I nessi tra famiglia e scuola e l’associazionismo familiare in campo scolastico», in P. Donati (Ed.),​​ Terzo Rapporto sulla famiglia in Italia,​​ Cinisello Balsamo (MI), CISF-San Paolo, 1993, 193-244; Auriemma S. - M. Tiriticco,​​ Carta dei servizi e progetto d’istituto,​​ Napoli, Tecnodid, 1995; Corradini L.,​​ Essere scuola nel cantiere dell’educazione,​​ Roma, SEAM, 1995; Osservatorio sulla Scuola dell’Autonomia,​​ Rapporto sulla scuola dell’autonomia 2004, Roma, LUISS University Press / Armando, 2004; Associazione Treelle,​​ Il governo della scuola autonoma: responsabilità e accountability, Fondazione per la scuola della Compagnia di San Paolo, Seminario n. 5, settembre, 2005; Barbieri E., «Governo della scuola», in G. Cerini - M. Spinosi,​​ Voci della scuola, vol. V, Napoli, Tecnodid, 2005.

L. Corradini




ORGANISMO

 

ORGANISMO

Si intende per o. un’entità unitaria risultante dall’organizzazione strutturale e funzionale di diverse componenti che prendono il nome di organi, apparati, sistemi.

1. Il termine è usato in diverse discipline, dalla fisica alla cibernetica, alla sociologia e alla stessa pedagogia (​​ organi collegiali,​​ ​​ istituzioni educative). Ma l’uso più comune è quello della biologia, dove si dà particolare risalto all’o. vivente. Tale entità è capace di svolgere le «funzioni vitali» o funzioni biologiche di base, che sono: la capacità di assimilazione, di adattamento attivo e passivo, di riproduzione, di autogestione. Tali capacità sono espresse in forma più elementare degli altri o. più semplici della scala dei viventi e in forma più elaborata man mano che cresce la complessificazione degli o. stessi. Negli animali più elevati della scala zoologica si può parlare, con sempre maggiore chiarezza, di funzioni più strettamente biologiche e funzioni psichiche.

2. Nell’​​ ​​ uomo (homo sapiens)​​ si parla anche di attività mentale. L’essere infatti, data la complessità della sua struttura, è capace di svolgere funzioni che si denominano «culturali». L’o. umano, o​​ soma​​ dell’essere umano, consta di organi e sistemi appropriati fra cui i più importanti sono: il​​ sistema nervoso​​ che coordina tutte le attività dell’o. e costituisce il substrato delle più elevate funzioni psichiche e mentali; il​​ sistema cardio-circolatorio​​ che consente l’irrorazione di ogni parte dell’o.; il​​ sistema muscolo-scheletrico​​ che, coordinato dal sistema nervoso, attua le posture e i movimenti; l’apparato digerente​​ che serve per l’alimentazione; il​​ sistema secretore​​ che provvede alla depurazione.

3. È evidente che per educare adeguatamente un soggetto umano è necessario conoscere bene anche le esigenze del suo o. e le risonanze di esse nei sentimenti, negli atteggiamenti e nei comportamenti del soggetto medesimo. Lo studio appropriato della biologia entra così a far parte del curriculum delle scienze dell’educazione (​​ biologia e educazione).

Bibliografia

Polizzi V.,​​ Psiche e soma,​​ Roma, LAS, 1976; Martínez Costa J.,​​ Biología,​​ personalidad y conducta,​​ Madrid, Paraninfo, 1981; Polizzi V.,​​ Identità dell’homo sapiens,​​ Roma, LAS, 1986; Umiltà C. (Ed.),​​ Manuale di neuroscienze,​​ Bologna, Il Mulino, 1995; Reitano M. (Ed.),​​ Appunti di fondamenti anatomo-fisiologici dei processi psichici,​​ Roma, Kappa, 1996.

V. Polizzi




ORGANIZZAZIONE SCOLASTICA

 

ORGANIZZAZIONE SCOLASTICA

L’o.s. è quella disciplina delle​​ ​​ scienze dell’educazione che studia la gestione dei sistemi formativi a livello​​ micro​​ (singola scuola) allo scopo di conoscerla meglio e di renderla più efficace. Per il livello​​ macro,​​ come per la giustificazione della definizione di o.s. vedi​​ ​​ amministrazione scolastica: data la difficoltà di tracciare un confine netto tra le due voci si consiglia di leggerle insieme. L’o.s. è anche il complesso degli organi, delle persone e delle strutture che provvede al funzionamento della singola scuola.

1.​​ La nuova cultura delle o.​​ Nell’accezione più condivisa o. significa quel tipo di unità sociale che si caratterizza per la finalizzazione a obiettivi specifici. In questo senso si distingue da una famiglia, da una comunità, da una nazione che, invece, perseguono una pluralità di fini generali. La definizione è stata messa in discussione in relazione alla scuola in quanto se è vero che quest’ultima si propone la meta dell’educazione, tuttavia tale finalità si presenta complessa e molteplice. Un altro tratto distintivo dell’o. sarebbe costituito dal coordinamento delle attività individuali in vista dell’interesse generale. Non mancano anche in questo caso osservazioni circa l’eccessiva sottolineatura del controllo dall’alto, implicita nel concetto appena richiamato, rispetto alle più comuni forme di autodisciplina dei membri. La teoria organizzativa più antica si caratterizza per la focalizzazione sulla​​ razionalità​​ tecnica e funzionale, sull’efficienza, sul rapporto ottimale tra mezzi e scopi. L’accento è posto su due proprietà strutturali: la specificità dei fini e la formalizzazione dell’o. Un secondo approccio, la scuola delle​​ relazioni umane,​​ benché sia sorto in contrapposizione alla concezione razionale, ha di fatto sottolineato due aspetti che si presentano come complementari ai precedenti, piuttosto che contraddittori. Le o. non possono essere concepite semplicemente come meccanismi mirati al perseguimento di fini specifici esterni di produzione, ma costituiscono anche dei gruppi sociali che devono preoccuparsi di soddisfare una serie di bisogni di autosostentamento e di mantenimento del sistema. In secondo luogo viene affermata l’importanza delle strutture informali che possono incidere su quelle formali, perfezionandole, condizionandole e persino cambiandole. Nonostante gli indubbi progressi compiuti dalla riflessione e dalla prassi, le due concezioni citate conservano un carattere autocentrato. Tuttavia, già negli anni ’70 l’o. viene ad essere concepita in termini di​​ sistema,​​ cioè come un insieme di parti tra loro interrelate, e questo sistema è​​ aperto​​ nel senso che si trova in un rapporto di stretta interdipendenza con il contesto in cui opera. Esso può conservarsi solo sulla base di un flusso continuo di risorse da e per l’ambiente; lo scambio con il contesto costituisce il meccanismo fondamentale che consente il funzionamento dell’o. Indubbiamente, apertura non significa assenza di confini, ma piuttosto sta a sottolineare la loro flessibilità: l’o. deve certamente impegnarsi per conservarli, ma al tempo stesso svolge attività che si situano oltre i confini stessi. Il collegamento con l’ambiente mette in crisi tra l’altro uno degli assunti di fondo della prospettiva razionale che presupponeva l’esistenza di un modello di o. migliore in assoluto e si sforzava di elaborarlo; la formula più valida dipende al contrario dalle caratteristiche del contesto in cui opera l’o. L’approccio del sistema aperto mette in evidenza come le o. (con particolare riguardo a quelle formative) non si presentano sempre come strutture compatte le cui parti siano strettamente collegate e coordinate tra loro, ma anche come o.​​ a maglie larghe​​ (loose coupling).​​ Le relazioni tra le varie componenti si caratterizzano spesso per la complessità e la variabilità, per la mancanza di rigidità delle connessioni per la forte autonomia operativa di ciascun sottosistema. La​​ leadership​​ non appare sempre come un’unità di comando monolitica, ma si rivela anche come una coalizione piuttosto allentata di gruppi mutevoli, ciascuno con i propri interessi, obiettivi e strategie. La presenza di collegamenti non molto rigidi non costituisce di per sé un ostacolo allo sviluppo, ma può contribuire in maniera importante alla crescita, stimolando l’intraprendenza delle componenti. Il sistema aperto è anche in grado di regolarsi autonomamente in base a propri parametri. La complessità della società attuale pone tre sfide alle o.: cresce la diversità, cioè il numero degli elementi tra loro differenti, anche fortemente, da trattare al medesimo tempo; l’imprevedibilità diviene una condizione normale; aumenta l’interdipendenza tra i fattori da tenere sotto controllo. Questa situazione ha messo in risalto l’insufficienza dei meccanismi strutturali con cui le o. avevano cercato finora di far fronte alla complessità, quali, per citare quelli comuni anche alle scuole, i regolamenti, i programmi, gli orari, l’articolazione in dipartimenti, la gerarchia e la delega. Una strada alternativa è consistita nel rafforzamento dei centri decisionali mediante la diffusione della distinzione «staff / line». Gli esperti che compongono lo «staff» forniscono consulenza tecnica ai dirigenti generalisti che sono incaricati delle deliberazioni definitive: ciò consente di aumentare la capacità di trattare le informazioni senza introdurre un decentramento formale e senza infrangere il principio dell’unicità della funzione di comando, anche se molto potere viene acquisito dagli esperti. Una strategia promettente è costituita dall’o.​​ a matrice​​ che consiste nell’introduzione di un gruppo di meccanismi strutturali che mirano alla promozione della comunicazione delle informazioni a livello orizzontale, mentre finora si era generalmente cercato di potenziare i canali verso l’alto o il basso. Il tratto qualificante è dato dalla compresenza sia di reparti funzionali che garantiscono lo svolgimento dei dinamismi verticali e rispondono a bisogni consolidati, sia di gruppi di progetto che assicurano le connessioni laterali e vengono incontro alle domande mutevoli del contesto. Un’altra strategia rilevante è offerta dal modello della​​ qualità totale. La qualità viene intesa in base a una prospettiva non più interna all’impresa, ma esterna, e consiste nella soddisfazione del cliente per cui diviene centrale nel rapporto con l’esterno l’impegno per identificare la domanda: è la qualità percepita che è decisiva e la misura operativa è fornita dal successo commerciale. All’interno, poi, il collega non deve più essere immaginato come un competitore, ma come un cliente a cui fornire un prodotto di qualità. A monte vi sarebbe la riscoperta della finalizzazione del processo produttivo all’uomo che tornerebbe al centro della scena, anche se lo sganciamento della definizione della qualità da parametri assoluti potrebbe essere foriero di un relativismo pericoloso. Comunque, i modelli a matrice, progettuale e della qualità totale segnano il passaggio dalla burocrazia alla «adhocrazia».​​ Un ulteriore progresso è rappresentato dai​​ modelli culturali​​ di o. che concentrano l’attenzione sui principi, le idee, i simboli e le tradizioni condivisi dai membri di una o. in quanto contribuiscono a definire l’identità dell’o. L’approccio ritiene che l’o.s. non sia un scienza applicativa, come nell’impostazione tradizionale, ma sostiene che il suo oggetto è la pratica riflessiva, cioè una interrelazione tra teoria, intuizione ed esperienza. Dal punto di vista organizzativo, i principi fondamentali sono quelli della cooperazione, dell’empowerment​​ dei membri dell’o., della responsabilità nella gestione, della partecipazione, della significatività del proprio lavoro e dell’equilibrio tra competenza e autorità.

2.​​ Modelli di o.s.​​ Tra i più antichi e diffusi si può ricordare quello​​ burocratico​​ ispirato alle teorie organizzative di​​ ​​ Weber. La singola scuola è qualificata da tratti come il carattere gerarchico dell’autorità, la divisione del lavoro, la specializzazione basata sulla competenza, la strutturazione in ruoli impersonali, una regolamentazione fondata su norme generali e astratte, una carriera per merito. La formula burocratica ha costituito uno strumento utile per regolare i rapporti tra diritti, responsabilità, ruoli e funzioni e per coordinare o. complesse; inoltre, ha trovato ampie applicazioni nei sistemi formativi centralizzati e più recentemente nei Paesi in via di sviluppo durante la fase di costruzione delle strutture statali. Sul piano negativo, essa non offre adeguato riconoscimento a dimensioni importanti dei processi educativi come l’autonomia della singola scuola, la professionalità degli insegnanti, la personalizzazione dell’azione educativa, l’efficacia, la flessibilità e l’innovatività degli interventi. Il modello​​ industriale​​ classico segue i principi dell’o. tayloristica del lavoro: standardizzazione, che si manifesta nella presenza di un curricolo nazionale, di esami centralizzati, di requisiti minimi di conoscenze e di competenze; specializzazione, a livello di insegnanti e di programmi; sincronizzazione, che si esprime in calendari ed in orari dettagliati; concentrazione, per cui si tende a coniugare varie attività nella stessa istituzione; razionalizzazione delle offerte sul territorio; centralizzazione dei controlli. La formula presenta i suoi vantaggi soprattutto in un contesto di espansione della scuola, ma può portare a gravi inconvenienti perché la scuola non è del tutto identificabile con una grande impresa stile anni ’30 o ’60. Il modello​​ politico,​​ ispirato alle teorie conflittuali di Weber e neo-marxiste, concepisce la scuola come un’o. in cui la lotta per il potere o sui valori tra gruppi di interesse è normale e va risolta attraverso la negoziazione. La formula è utile per rispondere alla domanda di partecipazione e di democrazia che ha raggiunto il sistema formativo durante soprattutto gli anni ’70 e per correggere una visione troppo idilliaca della scuola. Al tempo stesso non manca di svantaggi perché può portare a una conflittualità endemica, a una svalutazione della professionalità, a forme di assemblearismo e soprattutto si muove in controtendenza rispetto agli orientamenti attuali del rinnovamento della scuola che sottolineano la collaborazione, la comunità e il lavoro di gruppo. Il modello​​ culturale​​ è caratterizzato da: complementarità tra coordinamento centrale e potere d’iniziativa e decisionale locale, focalizzazione sulla comunità educativa, partecipazione delle varie componenti, centralità dell’educando, responsabilità per i risultati, imprenditorialità, innovazione dal basso, introduzione di una funzione intermedia fra dirigenti e docenti. Corrisponde agli orientamenti più recenti della teoria organizzativa e può essere interpretato in due forme diverse, una manageriale che subordina le finalità formative alle esigenze organizzative e di mercato e una educativa che afferma la priorità della formazione. Il modello nella seconda accezione sembra adeguato sia sul piano ideale sia su quello pratico della corrispondenza alle caratteristiche della società complessa. La sua realizzazione, però, presuppone una cultura organizzativa conforme nelle componenti della scuola, soprattutto nel personale docente e dirigente, e una politica di impulso, sostegno, coordinamento e verifica da parte del centro senza indebite ingerenze gestionali. Il modello culturale ha approfondito in particolare le funzione della​​ leadership​​ educativa, articolandola nelle seguenti direzioni: la funzione tecnica che consiste nell’uso di valide tecniche di gestione (pianificazione, gestione del tempo, coordinamento, programmazione e o.); la funzione di gestione delle relazioni umane che si esprime nella capacità di rapportarsi con le persone, si esplica nel sostegno al miglioramento e ha come base la motivazione e lo sviluppo degli studenti e del personale, a partire da quello docente, nella prospettiva della collegialità e dell’autonomia scolastica; la funzione educativa in senso stretto che deriva dalla conoscenza esperta dell’istruzione e dell’educazione e fa percepire il dirigente come leader riconosciuto dai propri insegnanti; la funzione simbolica che si esprime nella capacità di finalizzazione, di visione, o di far cogliere il senso delle cose, di indicare le priorità, di orientare ed identificare le varie componenti della scuola e interpretare i loro sentimenti e aspettative; la funzione culturale che è la forza chiave per creare un’identità condivisa attorno ai valori distintivi dell’istituto e per inserire i nuovi collaboratori e studenti, per costruire un pensiero comune e una «comunità morale».

Bibliografia

Bredeson P. V., «Organizational theory in education: comparative management perspectives», in T. Husen - T. N. Postlethwaite (Edd.),​​ The International encyclopedia of education,​​ Oxford, Pergamon Press, 1994, 4240-4246; Scott W. R.,​​ Le o., Bologna, Il Mulino, 1994; Bush T.,​​ Manuale di management scolastico, Trento, Erickson, 1997; Everard B. - G. Morris,​​ Gestire l’autonomia.​​ Manuale per dirigenti e staff di direzione, Ibid., 1999; Ribolzi L. (Ed.),​​ Il dirigente scolastico, Firenze, Giunti, 1999; Malizia G. (Ed.),​​ Un’educazione di qualità per il XXI secolo, in «Orientamenti Pedagogici» 48 (2001) 577-828; Sergiovanni T. J.,​​ Dirigere la scuola comunità che apprende, Roma, LAS, 2002; Serpieri R.,​​ Leadership senza gerarchia, Napoli, Liguori, 2002; Cssc-Centro Studi Scuola Cattolica,​​ Dirigere e coordinare le scuole. Scuola Cattolica in Italia. Sesto Rapporto, Brescia, La Scuola, 2004; Toni R.,​​ Il dirigente scolastico, Milano, Mondadori, 2005; English F. W. (Ed.),​​ Encyclopedia of educational leadership and administration, Thousand Oaks, Sage, 2006.

G. Malizia




ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI

 

ORGANIZZAZIONI​​ INTERNAZIONALI

Molte sono le o.i. che, direttamente o indirettamente, si occupano di problemi educativi; soltanto poche, però, sono tali in senso stretto, cioè interstatali. Sorte per promuovere e rendere stabile e organica la cooperazione fra gli Stati membri in vista del conseguimento di scopi comuni, esse hanno struttura, organi e norme giuridiche propri che disciplinano gli interessi di ciascun Paese.

1. Al di là degli scopi specifici, gli obiettivi comuni in ambito pedagogico sono: offrire una visione di insieme sui problemi educativi, individuare tendenze e indirizzi, proporre soluzioni ai problemi, valutare i risultati di queste e confrontarli. L’efficacia reale del loro operato dipende dal potere effettivo che ciascuna ha di impegnare gli Stati membri. Gli strumenti operativi di cui dispongono sono​​ Direttive​​ e​​ Regolamenti​​ (gli unici per sé vincolanti perché hanno valore di leggi),​​ Convenzioni​​ (forme decisionali con possibilità di diventare vincolanti ma soltanto se ratificate dagli Stati e integrate nella legislazione nazionale),​​ Raccomandazioni,​​ Risoluzioni,​​ Dichiarazioni​​ e​​ Avvisi​​ (non vincolanti se non come impegno morale, e con contenuti sovente di natura pratica). Tutte le o.i. offrono un contributo significativo a livello conoscitivo (studi, ricerche, incontri, dibattiti), operativo (sperimentazioni, progetti pilota) e informativo. Reti per la raccolta di documentazione e per lo scambio di informazioni sui sistemi formativi europei sono state attivate dalla CEE con EURYDICE, dal CdE con l’EUDISED, sull’istruzione e l’educazione mondiale dall’UNESCO con il BIE. Quest’ultima, in collaborazione con le altre o.i., elabora le statistiche educative attraverso un ufficio con sede a Parigi a cui si deve, tra l’altro, la pubblicazione dell’annuario internazionale dell’educazione.

2. CEE (Comunità economica europea)​​ ora UE (Unione Europea): è dotata di strutture istituzionali dal Trattato di Roma (1957) e si è occupata, dal suo nascere, della​​ ​​ formazione professionale nei Paesi aderenti (art. 118 e 128 del Trattato). L’obiettivo limitato rispecchia lo scopo proprio dell’istituzione: «promuovere lo sviluppo economico degli Stati Membri». Soltanto con difficoltà e lentamente gli interessi educativi si espandono fino al Trattato di Maastricht (1991), in cui, per la prima volta, le competenze comunitarie riguardanti l’educazione e la formazione vengono ufficialmente ampliate e ratificate (art. 126 e 127). Nel 1975 viene creato a Berlino il CEDEFOP (Centro Europeo per lo sviluppo e la formazione professionale)​​ con il compito di fornire consigli e informazioni tecniche e scientifiche alle istituzioni della Comunità. La CEE è l’unica o.i. che ha un’autorità reale sancita da poteri sovranazionali, con possibilità di emanare​​ Direttive​​ e​​ Regolamenti.

3. CdE (Consiglio d’Europa):​​ è la prima o.i. europea creata nel dopoguerra (1949) con lo scopo di promuovere la riconciliazione e la pace tra i popoli. Fin dal suo nascere il CdE ha sostenuto la cooperazione culturale e educativa come mezzo per avvicinare gli Stati e per raggiungere una pace durevole. Nel 1954 ha attivato al suo interno la «Convenzione Europea della Cultura», a cui possono aderire anche Stati che non fanno parte a pieno titolo dell’o., per partecipare ai programmi in materia di cultura, educazione, sport e gioventù. Il programma riguardante la cultura e l’educazione, parte integrante dell’o., è sviluppato dal CDCC (Consiglio per la cooperazione culturale)​​ al cui interno operano 4 comitati permanenti.

4. OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico):​​ è creata a Parigi nel 1961 con lo scopo di promuovere la cooperazione e lo sviluppo economico, condividendo la fiducia nei valori democratici e in una economia di libero mercato. La sua politica formativa riflette gli scopi istituzionali. L’o. non dispone di alcun potere coercitivo né finanziario. Il Comitato per l’educazione (uno tra i tanti) e il CERI (Centro per la ricerca e l’innovazione nell’insegnamento),​​ organismo che funziona in modo autonomo in seno all’OCSE, attuano congiuntamente i programmi in tale ambito. I principali interessi dell’o. sono: il contributo dell’istruzione allo sviluppo sociale e alla perequazione economica; il miglioramento della qualità dell’insegnamento.

5. UNESCO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione,​​ la scienza e la cultura):​​ Istituto specializzato e autonomo dell’ONU, fu fondato a Londra nel 1945 e iniziò le sue attività a Parigi nel 1946. L’o. si propone di contribuire al mantenimento della pace e della sicurezza, rafforzando, attraverso educazione, scienza e cultura la collaborazione tra le nazioni. Per il numero degli Stati aderenti è la prima e sicuramente la più importante o.i. che si occupa di problemi educativi. La sua peculiarità strutturale e operativa deriva dal suo carattere mondiale. La struttura di lavoro dell’Unesco è costituita innanzitutto dalle «Commissioni nazionali». L’o. dà grande importanza alla cooperazione.

Bibliografia

Unesco (Ed.),​​ L’Unesco et l’éducation dans le monde,​​ Paris, 1985; Conseil de l’Europe, Conférence permanente des Ministres Européens de l’éducation,​​ La coopération européenne en matière d’éducation: activités de l’Unesco,​​ du Conseil de l’Europe,​​ des Communautés européennes…,​​ Strasbourg,​​ 1991; Rissom H. W.,​​ Unesco​​ and the new Europe,​​ in «International Review of Education» 38 (1992) 700-705; Skilbeck M. - I. Whitman,​​ OECD and education links with central and eastern Europe,​​ in Ibid., 696-700; Unità Italiana di Eurydice,​​ Normativa comunitaria in materia di istruzione,​​ Firenze, Biblioteca di Documentazione Pedagogica, 1992;​​ Allegri M. R.,​​ Le o.i. Strategie e strumenti della comunità internazionale,​​ Padova, CEDAM, 2002.

C. Di Agresti




ORIENTAMENTO

 

ORIENTAMENTO

L’o. è un processo educativo unitario in cui vengono distinti alcuni aspetti ed accentuati alcuni obiettivi dando in tal modo origine alle seguenti specificazioni: o. vocazionale, scolastico, personale e professionale. Nel senso generale, che sta alla base di queste specificazioni, l’o. consiste nell’aiuto che l’educatore offre al soggetto perché egli possa elaborare un progetto di vita e realizzarlo durante le singole fasi dello sviluppo.

1. Tipi.​​ Con l’o.​​ vocazionale​​ il soggetto è aiutato a scoprire la sua chiamata ad una vita impostata sui valori sociali e religiosi a servizio degli altri. L’o.​​ scolastico​​ consiste nel costante aiuto dato all’alunno perché egli possa avere successo negli studi e perché possa operare progressivamente le scelte scolastiche consone al suo modo di essere. L’o.​​ personale​​ consiste nell’aiuto al soggetto perché affronti in modo adeguato la vita e prenda le sue decisioni in modo costruttivo, assumendo responsabilmente le conseguenze delle sue scelte. Infine l’o.​​ professionale​​ consiste nell’aiuto offerto al soggetto perché sviluppi alcune sue caratteristiche in vista di una futura occupazione, formi le sue preferenze in rapporto a tale occupazione per realizzare poi, esercitando la relativa attività lavorativa, determinati​​ ​​ valori. Questi aspetti dell’o. sono basati sull’aiuto dato al soggetto ad autodefinirsi, a formare in tal modo la sua identità personale e sociale e ad autorealizzarsi (Macario et al., 1989). L’esito di questo processo formativo è rappresentato dalla collocazione del soggetto nella vita attiva svolta con soddisfazione e dal raggiungimento di un determinato stato sociale.

2.​​ Discipline fondanti.​​ L’o. trae contenuti e metodi da numerose discipline: la​​ ​​ filosofia dell’educazione offre l’informazione sul significato del destino umano e in modo specifico sul significato della attività lavorativa; la​​ ​​ metodologia pedagogica offre delle norme sul come deve avvenire la formazione intellettiva, sociale, etica e professionale del soggetto; la​​ ​​ sociologia della gioventù dà delle importanti informazioni sulle aspirazioni, atteggiamenti, tendenze dei giovani e in modo particolare sul significato che il lavoro assume nei loro progetti esistenziali. Segue poi il contributo delle singole psicologie: la​​ ​​ psicologia dello sviluppo, con la descrizione delle fasi evolutive, offre dei criteri di valutazione dei processi maturativi e dei condizionamenti che gli specifici sviluppi subiscono, come quello affettivo, sociale, intellettivo ed etico; su tali sviluppi si innesterà quello professionale; la​​ ​​ psicologia differenziale informa sulle caratteristiche individuali nel loro aspetto attitudinale, emozionale, motivazionale e sulla caratterizzazione dei gruppi professionali; la​​ ​​ psicologia del lavoro, in una prospettiva piuttosto remota, media informazioni sull’adattamento al lavoro e sulle possibili fonti di soddisfazione; la​​ ​​ psicologia clinica infine offre informazioni sulle eventuali tendenze devianti del soggetto e quindi controindicazioni all’esercizio di una specifica attività lavorativa. In sintesi, nelle discipline citate possono essere distinti i contributi che si riferiscono ai fini, alle conoscenze della società e del soggetto. Da esse vengono tratti dei​​ ​​ costrutti e adottati dei metodi in base ai quali vengono elaborati dei progetti di o.

3.​​ Metodi e approcci.​​ Il passaggio del soggetto dalla scuola al lavoro viene mediato con vari metodi. Il primo è rappresentato dalla diagnosi con la quale vengono esaminate varie componenti del soggetto. A tale scopo sono adatte scale di valutazione destinate all’insegnante, questionari per rilevare le più svariate dimensioni della personalità ed alcuni test dai quali emerge l’individualità del soggetto nei suoi lati forti e deboli e le sue capacità. Un secondo metodo è rappresentato dalla valutazione dell’apprendimento delle singole materie condotto dall’insegnante; il successo scolastico ne costituisce il migliore predittore. Il terzo metodo è rappresentato dal​​ ​​ colloquio nella sua duplice funzione: completare le informazioni mancanti e operare una sintesi di tutti i dati in un quadro organico e consistente in stretto rapporto con il progetto di vita e con quello professionale del soggetto. Tale sintesi è un presupposto per una valida decisione professionale. In tale contesto si possono individuare tre approcci all’o.: scelta professionale, sviluppo professionale e processo decisionale. Nel primo l’orientatore aiuta il soggetto a operare una valida scelta, che consiste nell’accordo della struttura della personalità con i requisiti specifici dell’occupazione. Il secondo è articolato in base alle fasi della vita umana; e pertanto lo sviluppo professionale viene visto come una parte della crescita. Gli stadi evolutivi sono caratterizzati da competenze acquisite che impongono decisioni da prendere e che rappresentano nello stesso tempo indici di maturità. Nel terzo approccio il soggetto raccoglie informazioni sulle varie attività lavorative, seleziona alternative adatte valutandone vantaggi e svantaggi, opera la prima scelta e la verifica con un’ulteriore riflessione ed infine la valuta. La finalità di questo approccio consiste soprattutto nell’acquisizione della capacità decisionale. Il processo viene articolato in alcuni stili decisionali, come quello razionale, intuitivo ed emozionale. Nel primo predominano i fattori logici e vengono esaminati i pro e contro della scelta; il secondo tiene conto dei vantaggi e degli svantaggi in modo globale; il terzo infine è basato sui motivi affettivi. Lo stile razionale sembra più adatto degli altri due in quanto risulta correlato con l’età dei soggetti; si nota infatti un progressivo spostamento in rapporto all’età dei soggetti dallo stile intuitivo ed emozionale allo stile razionale.

4.​​ Teorie.​​ Sull’o. professionale sono state elaborate varie teorie tra le quali le più note sono quella di A. Roe, di J. L. Holland e di D. E. Super. La Roe sostiene che lo sviluppo professionale sia guidato dallo stile educativo dei genitori. L’autrice distingue vari stili educativi che soddisfano i bisogni dei figli in modo differente e che quindi li formano o li deformano. In base ai bisogni formati il figlio opta per una specifica area professionale; per es., il figlio amato dai genitori, acquisendo le competenze di una valida interazione con le persone si orienterebbe verso le professioni che richiedono il contatto sociale; al contrario, il figlio rifiutato dai genitori si orienterebbe invece verso il settore tecnico. La teoria offre delle utili indicazioni per capire la struttura dei bisogni del soggetto e il modo in cui tende a soddisfarli nell’attività lavorativa. Holland fonda la sua teoria sui tipi professionali; sostiene che vi sono fondamentalmente sei tipi professionali e sei identiche aree. Il tipo è attratto dalla rispettiva area e se entrerà in essa sarà soddisfatto, renderà bene nel lavoro e sarà perseverante. Le stesse conseguenze sono previste in rapporto agli indirizzi scolastici e alle facoltà universitarie. La teoria offre, quindi, delle valide predizioni sull’esito dell’interazione del soggetto con il suo ambiente scolastico e lavorativo. Super basa la sua teoria sulle fasi evolutive e successivamente sulle fasi della vita umana dalla preparazione all’abbandono dell’attività lavorativa. Lo sviluppo viene visto come potenziamento del concetto di sé ed è articolato nell’arco evolutivo principalmente in tre costrutti:​​ ​​ interessi,​​ ​​ abilità e​​ ​​ valori. Nell’infanzia le prime preferenze professionali sono basate sul sentimento di piacevolezza, nell’adolescenza vengono prese in considerazione le abilità mentre in giovane età emergono i valori. Il​​ ​​ concetto di sé positivo è un valido presupposto alla continuità dello sviluppo; se potenziato inoltre esso equivale ad una buona maturazione professionale. Viceversa, un concetto di sé negativo limiterà l’esplorazione professionale alle aree professionali meno impegnative; se poi è anche indifferenziato non permetterà al soggetto di confrontarsi con aree professionali specifiche, renderà difficile la sua scelta e se sarà effettuata essa risulterà instabile. Le tre teorie si completano: la prima pone l’accento sull’origine del progetto professionale, la seconda sulla sua consolidazione per mezzo dell’interazione sociale e la terza sulla realizzazione e la conduzione dell’intero processo professionale.

5.​​ Fattori ed effetti.​​ L’o. si realizza in una determinata cultura intesa come un sistema di credenze, costumi, valori e istituzioni che rappresentano il significato dell’esistenza umana e in modo specifico il significato del lavoro. Tra le istituzioni, la prima è la famiglia che entra nel processo dell’o. con il suo livello socioculturale e con i suoi valori ed atteggiamenti. Insieme con le aspirazioni sul futuro del figlio i genitori facilitano oppure involontariamente ostacolano il suo sviluppo professionale. La seconda istituzione formativa è la scuola con i suoi primi modelli professionali per l’alunno, le differenti discipline scolastiche e con la valutazione dell’apprendimento. Infine, la terza consiste nei centri di o. che guidano l’intero processo in vista di un valido inserimento del soggetto nella società. Al giorno d’oggi il processo dell’o. può essere gestito efficacemente con il computer, usufruendo di banche dati o di informazioni di rete.

Bibliografia

Viglietti M.,​​ O.: una modalità educativa permanente,​​ Torino, SEI, 1988; Macario L. et al.,​​ Orientare educando,​​ Roma, LAS, 1989;​​ Walsh W. B. - S. H. Osipow (Edd.),​​ Career counseling: contemporary topics in vocational psychology,​​ Hillsdale, Erlbaum, 1990;​​ Macario L. - S. Sarti,​​ Crescita e o.,​​ Roma, LAS, 1992; Guichard J. - M. Huteau,​​ Psicologia dell’o. professionale,​​ Milano, Cortina, 2003; Cospes,​​ Orientare alle scelte: Percorsi evolutivi,​​ strategie e strumenti operativi, Roma, LAS, 2005; Guindon M. H. - L. J. Richmond,​​ Practice and research in career counseling and development-2004, in «The Career​​ Development Quarterly» 54 (2005) 90-137; Greenhaus J. H., «Career dynamics», in I. B.​​ Weiner (Ed.),​​ Handbook of psychology, vol. 12, New Jersey, Wiley, 2003, 519-540; Harrington T. E. - T. A. Harrigan,​​ Practice and research in career counseling and development-2005, in «The Career Development Quarterly» 55 (2006) 98-167.

K. Poláček




ORTEGA Y GASSET José

 

ORTEGA Y GASSET José

n. a Madrid nel 1883 - m. ivi nel 1955, saggista e filosofo spagnolo.

1. Conseguito, all’università Madrid, il dottorato in filosofia e lettere (1904), completò gli studi filosofici in Germania (Lipsia, Berlino, Marburgo), dove ricevette l’influsso della scuola neokantiana. Nel 1910 occupò la cattedra di metafisica all’Università di Madrid, dopo essere stato professore di filosofia presso la Escuela Superior del Magisterio.​​ Nel 1923 fu nominato membro della Real Academia de Ciencias Morales y Políticas.​​ Nello stesso anno fondò la «Revista de Occidente», attraverso cui diffuse l’opera dei pensatori tedeschi contemporanei. Nel 1931 è eletto deputato della seconda repubblica spagnola; ma l’anno seguente, «deluso dal settarismo» della costituzione repubblicana, abbandona l’attività politica. Dal 1936-39 vive in esilio a Parigi; poi in Argentina. Ritorna in Spagna nel 1946. Il pensiero filosofico di O. «potrebbe riassumersi e fissarsi nella frase che si legge già nelle​​ Meditaciones del Quijote​​ (1914): “Io sono io e la mia circostanza”. Il mondo è concepito come una “prospettiva” che rientra in modo essenziale nella esistenza umana» (Muñoz Alonso-Savignano, 2006, 8202).

2. I saggi su temi pedagogici rappresentano una parte modesta nell’insieme della vasta produzione di O. Tra i più significativi:​​ La pedagogía del paisaje​​ (1906),​​ Sobre los estudios clásicos​​ (1907), «Prólogo» a​​ Pedagogía general​​ di Herbart (1914),​​ Pedagogía y anacronismo​​ (1923),​​ Misión de la universidad​​ (1930),​​ El Quijote en la escuela​​ (1945). Questi saggi non costituiscono una trattazione completa e sistematica. Idee e suggestioni sull’educazione e la scuola si trovano pure in scritti non prettamente pedagogici, e si inseriscono nel quadro del pensiero filosofico di O. Per questi l’uomo, capace di una prospettiva che cambia, non può limitarsi a contemplare la realtà, ma deve modificarla e crearla nella sua propria​​ «circunstancia»,​​ dandole il senso e significato di cui è priva quando egli comincia il compito di costruire se stesso, aiutato dagli «artifici» e dai «reattivi» di un intervento «positivo» esterno. L’uomo è mosso dalle idee e dalle credenze, ma solo queste ultime, a cui è «inesorabilmente unito», lo spingono all’azione che diventa strada della propria autorealizzazione. La società, invece, come piattaforma di comunicazione, lo porta alla convinzione che in essa non può manifestarsi che come un essere anonimo e impersonale. Profondamente caratterizzato nella sua sfera individuale dalla​​ ​​ solitudine, l’uomo cerca di superarla entrando nella prospettiva e nell’essere degli altri mediante l’​​ ​​ amicizia. Insoddisfatto, perché essa non lo rende capace di uscire totalmente da se stesso, ricorre all’espressione più alta dell’amicizia, che è l’amore. Ma se questo si riduce ad uno «scambio di solitudini», se gli altri «non sono qualche cosa» per lui e non fa la scelta di vivere in comunità di vita con loro, con piena consapevolezza di quella scelta e accettando le responsabilità che nascono dalla medesima, neppure l’amore rende l’uomo capace di uscire da se stesso.

3. Nella prospettiva di​​ ​​ Natorp, O. concepisce la politica come una pedagogia sociale per la trasformazione della società, trasformazione impossibile da raggiungere per mezzo di una «pedagogia individuale», che sarebbe «un errore e un progetto sterile». Vicino, d’altra parte, alle tesi di​​ ​​ Herbart, afferma che la pedagogia poggia su due scienze filosofiche: l’etica e la psicologia. Cercando di superare l’«anacronismo» del pensiero pedagogico, propone una scuola – unica e laica – fondata su una «pedagogia perenne» che offra a tutti una educazione essenziale, che adatti l’ambiente all’uomo e non l’uomo all’ambiente. Il significato del contributo di O. alla storia dell’educazione va individuato soprattutto nell’influsso del suo pensiero, in particolare, sulla cultura spagnola e ispano-americana contemporanea. A gran parte degli scritti orteghiani di filosofia, sociologia e critica letteraria è infatti sottesa una vigorosa intenzione educativa.

Bibliografia

Escolano A.,​​ Los temas educativos en la obra de J.O.​​ y G., in «Revista Española de Pedagogía» 26 (1968) 211-230; Rukser U.,​​ Bibliografía de O.,​​ Madrid, Revista de Occidente, 1971; Escolano A., «J.O. y G.», in Á. Galino,​​ Textos pedagógicos hispanoamericanos,​​ Madrid, Narcea, 1974, 1539-1577; La Rubia Prado F.,​​ Una encrucijada española: ensayos sobre M. de Unamuno y J.O. y G., Madrid, Biblioteca Nueva, 2005; Muñoz Alonso A. - A. Savignano,​​ «O. y G., J.», in​​ Enciclopedia filosofica, vol. 8, Milano, Bompiani / Fondazione C. S. F. Gallarate, 2006, 8201-8204.

J. M. Prellezo




ORTOGRAFIA

 

ORTOGRAFIA

Agli effetti didattici, pare convenga accettare la distinzione tra​​ o. d’uso​​ e​​ o. grammaticale.​​ La prima rappresenta la riproduzione della parola in se stessa, come è data dal vocabolario, indipendentemente dalle alterazioni che il dinamismo grammaticale viene ad inserire. La seconda si connette appunto con queste alterazioni verbali.

1.​​ Fattori psicologici della scrittura ortografica.​​ Tanto nel primo quanto nel secondo caso la riproduzione ortografica non è legata esclusivamente a fattori d’ordine percettivo, sensoriale, ma anche a fattori linguistici o di articolazione fonetico-motoria, e non meno a fattori di carattere intellettuale. J. Simon aveva già criticato le teorie sensoriali, che facevano dipendere l’o. totalmente dalle immagini verbali localizzate nell’emisfero sinistro del cervello, poiché, come risultava dalle sue esperienze, la riproduzione ortografica della parola dipende anzitutto dalla memoria uditiva associata alla memoria visiva (segno fonico + segno grafico), e inoltre da operazioni mentali di connessione logica, analogica, etimologica. La psicologia dell’o. si è venuta definendo soprattutto attraverso gli studi delle cause della «disortografia». Ecco alcune delle conclusioni, a cui sono pervenuti gli sperimentatori: a) Lo scrivere male non dipende di per sé dal leggere male, ma entrambi i difetti emergono da una stessa causa più fondamentale: secondo Simon ed altri psicologi francesi, tale causa starebbe in un disordine o in una deficienza nella​​ percezione dello spazio e del tempo.​​ Vale a dire, il soggetto si dimostra incapace di orientarsi nello spazio, non riconoscendo la destra e la sinistra, l’alto e il basso, così che le lettere sarebbero conseguentemente collocate fuori posto o verrebbero confuse tra loro (es.:​​ p,​​ b,​​ d,​​ q,​​ e, d’altra parte,​​ n​​ e​​ u).​​ Parallelamente si è riscontrata una correlazione tra difficoltà ortografica e deficienza nella riproduzione di ritmi e cadenze. b) Affine a questa pare vi sia una seconda causa: la​​ dominanza​​ o​​ preferenza laterale,​​ particolarmente nella forma del mancinismo. Il disturbo più grave sarebbe la «scrittura speculare». Ma le cose si complicano molto quando intervenga una «preferenza laterale incrociata» (mano destra e occhio sinistro). c) Secondo altre ricerche, i difetti visivi non sarebbero legati tipicamente alla disortografia; vi sarebbe invece una correlazione tra conoscenza lessicale ed o. (più che non tra QI ed o.), e così pure un netto influsso sull’o. dei seguenti fattori: pronuncia, bilinguismo, articolazione fonatoria, e forse anche il cambio di scuola e di metodi didattici. d) Cause di difficoltà possono ancora essere il non applicare le regole fonetiche, una scarsa immaginazione visiva e una pronuncia difettosa. e) La buona o. ha un’alta correlazione positiva con l’abilità fonetica e la discriminazione visiva, non necessariamente invece con la discriminazione uditiva. f) Generalmente, chi legge correttamente, scrive anche bene. Pertanto, possiamo affermare sinteticamente che alla base dell’abilità ortografica stanno fattori​​ percezionali,​​ motori​​ (capacità normale di scrittura),​​ fonetici,​​ intellettuali​​ e​​ culturali.​​ Conseguentemente, un metodo didattico che voglia assicurare un effettivo possesso dell’o., deve prender le mosse da una considerazione psicologica multilaterale.

2.​​ Indicazioni psicologiche per una didattica dell’o.​​ I problemi fondamentali di una didattica dell’o. si possono racchiudere in due categorie: il contenuto lessicale e il metodo da usarsi. a) Parlando di contenuto, è necessario distinguere due aspetti di immediato valore metodologico: quali parole dovrebbero saper scrivere correttamente gli allievi di un dato livello scolastico? e quali sono gli errori più comuni a ciascuno stadio della scolarità? Sostanzialmente, dunque, se si vuole progettare un programma razionale di insegnamento ortografico, occorre risolvere il problema della quantità e gradualità del vocabolario ortografico, nonché il problema della correzione degli errori comuni. Ciò significa che occorrerà determinare sperimentalmente anzitutto il contenuto del «vocabolario di base» usato dagli adulti nello scrivere, e, in secondo luogo, il contenuto di un vocabolario scritto proprio dei fanciulli dei diversi stadi di evoluzione psichica. La ricerca e compilazione di un vocabolario di base comportano un lavoro di proporzioni colossali. Stabilito il contenuto, è necessario determinare per ciascun grado scolastico quali parole debbano essere insegnate. A tale proposito, i criteri finora usati per la compilazione di un vocabolario ortografico graduato si possono ridurre ai seguenti: 1) importanza della parola rispetto alla sua permanenza nell’uso; 2) difficoltà della parola nella sua composizione fonetica; ma questo criterio è oggi integrato da altre considerazioni: 3) considerazioni logiche, tra cui l’appartenenza delle parole ad un comune tema o ad una comune famiglia lessicale che viene man mano costruita; e 4) frequenza dell’uso di tali parole negli scritti dei fanciulli; poiché, pur ammettendo che una certa parola offra particolari difficoltà ortografiche, qualora essa venga usata frequentemente da fanciulli dell’epoca attuale, i quali la odono pronunciare alla radio o al cinema e la vedono scritta sui giornali, è evidente che la rispettiva o. dovrà essere curata fin dagli inizi. b) Al problema del contenuto fa immediatamente seguito quello del​​ metodo.​​ Oggi, le ricerche più severe hanno condotto anzitutto a precisare i settori didattici, che si offrono come terreno funzionale e vitale per un insegnamento occasionale dell’o. Così si è chiarita l’utilità di connettere tale insegnamento con la composizione scritta, con l’espressione orale (pronuncia), con la lettura, con la scrittura (corsiva o stampatello). Pertanto, si afferma che un certo apprendimento occasionale si ha di fatto e dovrebbe essere coltivato in tali settori dell’insegnamento. Tale insegnamento sistematico dovrebbe incominciare là ove vien meno quello occasionale o incidentale. Appropriati​​ test​​ diagnostici amministrati prima dello studio sistematico riveleranno agli allievi e all’insegnante quali parole non sono state ancora imparate occasionalmente, economizzando in tal modo e motivando il lavoro della lezione di o.

Bibliografia

Calonghi L.,​​ Errori ortografici nella scuola secondaria,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 7 (1960) 245-265; Titone R.,​​ L’insegnamento delle materie linguistiche e artistiche,​​ Roma, LAS, 1963; Frith U. (Ed.),​​ Cognitive processes in spelling,​​ London, Academic Press, 1980; Fresch M. J. - A. Wheaton,​​ Teaching and assessing spelling, New York (NY), Scholastic Books, 2002; Marten C.,​​ Word crafting: teaching spelling, Portsmouth (NH), Heinemann, 2003.

R. Titone




ORTOPEDAGOGIA

 

ORTOPEDAGOGIA

Il​​ Lessico universale​​ (vol. 15, 520) intende l’o. come: «L’insieme delle conoscenze e delle tecniche educative rivolte a influenzare le facoltà intellettuali di soggetti mentalmente ritardati o con anomalie del carattere al fine di migliorare le possibilità di una loro integrazione nel consorzio sociale. Tale programma trova pratica realizzazione nell’opera di tecnici specializzati (ortopedagogisti) in problemi particolari riguardanti la vita scolastica, il lavoro, l’attività ricreativa, ecc.». La​​ Nuova enciclopedia universale​​ (vol. 14, 515) scrive che si tratta di un «termine usato, soprattutto nei paesi di lingua anglosassone, per indicare quella pedagogia che si interessa, con metodologie e tecniche specializzate, dei problemi relativi all’educazione dei soggetti irregolari, ipodotati o disadattati». Date le sue finalità altamente umanitarie, l’o. dà la giusta misura degli sforzi che la scienza fa per mettersi al servizio di tutti compresi coloro che per ragioni indipendenti dalla loro volontà non potrebbero farcela da soli e hanno assoluto bisogno di essere assistiti. A seconda del tipo di sofferenza si distinguono le seguenti principali categorie di soggetti con ritardo congenito o acquisito dello sviluppo mentale, psichico, sensoriale (vista, udito e qualche volta anche tatto), motorio (paresi, paralisi, spasmo) o per malattie interne congenite. Finora, per la maggior parte, gli ortopedagogisti provenivano dalla classe medica e paramedica, adesso anche gli psicologi non medici portano il loro prezioso contributo. Una particolare sottolineatura va posta per i progressi attuati dalla tecnica per l’ortofonia, per le attrezzature a favore dei non vedenti e non udenti, per la riabilitazione motoria.

Bibliografia

Allen J. R.,​​ Human stress,​​ its nature and control,​​ New York, Macmillan, 1983; Ancona L. - M. Di Giannantonio,​​ Le radici della sofferenza mentale,​​ Roma, Borla, 1987; Aragona M. - L. Di Geronimo,​​ II training autogeno e lo stress,​​ Messina, EDAS, 1987; Garofolo G.,​​ Prevenzione psicosociale e salute,​​ Roma, Borla, 1989; Vico G.,​​ Disadattamento,​​ Brescia, La Scuola, 1991; Biondi M.,​​ La psicosomatica nella pratica clinica,​​ Roma, Il Pensiero Scientifico, 1992; McKay M. - P. Fanning,​​ Self-esteem,​​ Oakland, New Harbinger Publications, 1994; Minuto I.,​​ La patologia del linguaggio infantile,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1994.

V. Polizzi




OSSERVAZIONE

 

OSSERVAZIONE

L’o. è una rilevazione di informazioni intenzionale e rigorosa. In senso tecnico​​ osservare​​ è distinto da​​ vedere​​ (percepire con gli occhi) e da​​ guardare​​ (che aggiunge intenzionalità), e implica un guardare selettivo, secondo ipotesi, finalizzato a rilevare informazioni in modo valido e costante. L’o. comporta un osservatore adeguatamente formato, un contesto scelto con attenzione, un oggetto da osservare ben delimitato, strumenti idonei e coerenti, un modo di raccogliere, codificare e analizzare i dati rilevati per trarne conclusioni.

1. La​​ classificazione​​ delle forme di o. può essere operata adottando diversi criteri. A seconda del grado di​​ partecipazione​​ dell’osservatore, ad es., si distinguono: l’o. documentaria (fondata su notizie d’archivio, registrazioni audio, video, diari…); l’o. indipendente (con il ricercatore nel contesto da osservare, però adeguatamente distanziato dallo stesso) e partecipante (con il coinvolgimento diretto dell’osservatore nel contesto). A seconda del grado di​​ controllo​​ esercitato dal ricercatore sull’ambiente​​ si possono distinguere: l’o. naturalistica (con la quale si rilevano i comportamenti del soggetto nel suo ambiente naturale), l’o. in condizioni controllate (in cui si impone un certo grado di vigilanza sulla situazione da osservare) e l’o. in ambiente artificiale. Tenendo conto del diverso grado di​​ strutturazione​​ preliminare degli​​ strumenti​​ si possono distinguere: le tecniche di o. sistematica (con risultati numerici) e quelle di descrizione narrativa (che richiedono la stesura di resoconti). Tra gli strumenti di o. sistematica si possono distinguere:​​ check-list, sistemi di segni, sistemi di categorie, sistemi di codifica interattiva e​​ ​​ scale di valutazione. Tra le tecniche narrative si possono annoverare: diari, registrazioni anedottiche, annotazioni autobiografiche. Gli strumenti di o. possono essere distinti inoltre in base al fatto che prevedano una rilevazione diretta dei comportamenti (es.​​ check-list) o mediata attraverso l’autodescrizione del soggetto (es. questionario, scale).

2. Circa a metà del sec. XIX si è sviluppato nella​​ ​​ pedagogia un filone di studi che recepiva lo statuto delle scienze naturali. Si è cercato dunque di teorizzare anche un tipo d’o. che consentisse rilevazioni oggettive dei fatti, che fondasse spiegazioni generalizzabili. Secondo questo approccio l’osservatore doveva evitare di modificare la situazione, non farsi influenzare emotivamente, perché le rilevazioni non fossero distorte. Per raggiungere tale scopo doveva usare mezzi idonei, ovvero strumenti di rilevazione strutturati. Dal 1960-70 hanno cominciato ad emergere riserve verso questo tipo d’o. e si è andato affermando un altro paradigma epistemologico. Si è optato per l’o. partecipante d’una esperienza che viene colta in modo olistico. Questo tipo di o. mira alla comprensione o interpretazione della situazione, a descrivere e caratterizzare casi più che alle generalizzazioni. Adotta tecniche d’analisi qualitativa. L’osservatore vive nella situazione che osserva (questo gli dà modo di capirla dall’interno), non assume una posizione distaccata, ma al contrario cerca di servirsi dell’empatia per comprendere più a fondo. L’osservatore si propone così di scoprire il significato di quel fenomeno vivente che è la situazione pedagogica considerandola nella sua globalità, per non devitalizzarla. I procedimenti e gli strumenti di o. che si possono usare nella ricerca qualitativa sono svariati: dal metodo clinico piagetiano, alla​​ ​​ riflessione parlata di​​ ​​ Claparède e​​ ​​ Buyse, all’intervista non direttiva, al​​ focus group, alle varie forme di o. del​​ ​​ problem solving.

Bibliografia

Zambelli F.,​​ L’o. e l’analisi del comportamento,​​ Bologna, Patron, 1983; Perricone G. (Ed.),​​ Agire l’o.: modelli e percorsi, Milano, McGraw-Hill, 2003; Simpson M. - J. Tuson,​​ Using​​ observations in small-scale research: a beginner’s guide, Glasgow, SCRE, 2003; Baumgartner E.,​​ L’o. del comportamento infantile, Roma, Carocci, 2004.

C. Coggi




OTTIMISMO

 

OTTIMISMO

L’o. è l’attitudine a valutare favorevolmente lo stato e il divenire della realtà (Zanichelli).

1. Nella «ruota delle emozioni» (una classificazione di R. Plutckik) l’o. è considerato come uno stato emotivo che compone in armonia le emozioni primarie della gioia e dell’aspettativa. L’una si collega strettamente a un’attività gratificante che tende verso lo scopo desiderato; la seconda si pone a livello di valutazione e apprezzamento degli avvenimenti, prevedendone un esito positivo (D. Krech e R. S. Crutchfield). Secondo E.​​ ​​ Erikson l’o. sarebbe l’atteggiamento fiducioso che si sviluppa con la risoluzione delle crisi psicosociali (raccordo tra individuo e ambiente) attraverso le otto fasi dello sviluppo sino alla maturità. Nelle correnti culturali odierne esso viene collocato nel cosiddetto «pensiero positivo» o «cultura del sì», che prospetta il riconoscimento e la valorizzazione di tutte le positività del vivere sociale moderno e che rende abili a sviluppare una personalità in continua maturazione, a usufruire della voglia di vivere, a osare ciò che è creativo e divergente di fronte a situazioni inedite, a usare la forza della fede per giungere al meglio. Oggi riscontriamo inoltre o. in quella visione umanistica che crede nella possibilità della crescita dell’uomo, pur nelle ambiguità e ambivalenze, e che si radica sulla realtà salvifica proposta dall’evangelo. E anche se non si nasce ottimisti per decreto, si può diventarlo agevolmente, orientando il proprio modo di interpretare gli eventi e di guardare all’esistenza umana.

2. Nella prospettiva pedagogica ci si dibatte tra l’o. utopico, che promette infinite possibilità di successo all’educazione (idealismo, essenzialismo, naturalismo, positivismo) e il pessimismo nichilista, che nega all’educazione ogni capacità di vincere i condizionamenti ereditari o ambientali (manicheismo, dirigismo, comportamentismo, innatismo). L’o. realista ritiene sempre possibile educare con successo, pur riconoscendone tuttavia limiti e difficoltà. È questo l’orientamento di grandi educatori come un don​​ ​​ Bosco. Essi riconoscevano che la via dell’o. è percorribile nel rapporto educativo: l’educando si trova in situazione di attese e di potenzialità; l’educatore fa propria la disponibilità comunicativa, specie nella sua espressione oblativa; la relazione tra loro dispone a instaurare ed esplicitare un’esperienza significativa di crescita educativa. In questo processo l’atteggiamento ottimistico suscita energie e risorse impensate negli interlocutori, che percorrono, con il dialogo e il confronto, le vie della ricerca del bene educativo e dei valori esistenziali. La strada dell’o. è percorribile, perché si constata una sufficiente indeterminatezza nella costituzione biologica e nei condizionamenti ambientali, e lo stato di potenzialità del soggetto assicura la disponibilità al processo di sviluppo. La natura razionale e intenzionale della persona, come la sua libertà e responsabilità etica rendono pertanto possibile il percorso educativo. In definitiva è la natura sociale e spirituale dell’uomo a renderlo educabile nell’ottica dell’esito positivo, anche in situazioni drammatiche. Lo ha accertato V.​​ ​​ Frankl quando parla di «o. tragico»: la «volontà di significato» restituisce all’uomo la felicità, poiché «potenzialmente non solo esiste un senso incondizionato della vita, ma anche un valore incondizionato dell’uomo: è questo a fare la dignità umana». L’o. sul senso della vita rende praticabile l’educazione ai grandi valori e ideali dell’esistenza umana.

Bibliografia

Frankl V. et al.,​​ O. per vivere OK,​​ Milano, Paoline, 1991; Peale N. V.,​​ Il pensiero positivo oggi, Roma, Armenia, 2004; Seligman M. E. P.,​​ Imparare l’o., Firenze, Giunti, 2005.

G. B. Bosco