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MILANESI Giancarlo

 

MILANESI Giancarlo

n. a Pavia nel 1933 - m. a Genzano nel 1993, sociologo della religione e della educazione italiano.

1.​​ Vita. M. nasce a Pavia nel 1933 ed entra dai Salesiani; consegue il dottorato in pedagogia presso il Pontificio Ateneo Salesiano. Dal 1965 al 1989 è professore di sociologia della religione e dell’educazione presso l’Università Pontificia Salesiana di Roma dove svolge l’incarico di direttore dell’Istituto di Sociologia dell’Educazione quasi ininterrottamente dal 1972 al 1989. Negli ultimi anni è direttore di ricerca presso il Labos e la Fondazione Italiana del Volontariato.​​ 

2.​​ Pensiero e opere. La sua attività scientifica si caratterizza per originalità, chiarezza e comunicatività. Coniuga in maniera versatile psicologia, sociologia e pedagogia, contribuendo a rafforzare la tradizione nella ricerca empirica esistente nella FSE. Il suo modello intreccia strettamente teoria e prassi, riflessione e operatività. È tra i primi in Italia ad aver utilizzato tecniche sofisticate come l’analisi fattoriale e delle corrispondenze e la «path analysis». Restano punto obbligato di riferimento le sue ricerche sulla religiosità e la condizione giovanile, sulla socializzazione, sulla formazione professionale, sulla pace, sulla prevenzione, la devianza e il volontariato. In particolare, nella sociologia dell’educazione il suo merito consiste nella definizione originale di oggetto e metodo in opposizione agli orientamenti di origine inglese e statunitense. Riguardo alla condizione giovanile M. sostiene che le problematiche possono essere identificate nella marginalità e nella frammentazione strutturale e culturale e che, nonostante ciò, i giovani dispongono di rilevanti potenzialità positive.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ M.G.,​​ Sociologia della religione, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1973; M.G. - M. Aletti,​​ Psicologia della religione, Ibid., 1973; M.G. (Ed.),​​ Oggi credono così, Ibid., 1982; M. G.,​​ I giovani nella società complessa, Ibid., 1989. b)​​ Saggi: Malizia G. - V. Pieroni,​​ Ricordando un amico e un maestro, in «Rassegna Cnos» 10 (1994) 2, 105-115.

G. Malizia




MILANI Lorenzo

 

MILANI Lorenzo

n. a Firenze nel 1923 - m. ivi nel 1967, sacerdote e educatore italiano.

1. Di famiglia alto-borghese, colta e agnostica, compie i primi studi in casa con un’insegnante privata e li prosegue a Milano, dove la famiglia si trasferisce all’inizio degli anni ’30. Nel 1933 è battezzato con il fratello e la sorella per evitare rischi di persecuzioni antisemite: la mamma, infatti, è ebrea. Terminati gli studi liceali (1941) sceglie la pittura, contrariamente alla carriera universitaria, che è prassi familiare. Il 1943 segna una svolta decisiva e radicale nella vita di M.: è l’anno della conversione a un cattolicesimo convinto e dell’entrata in seminario. Sacerdote nel 1947 è mandato a S. Donato di Calenzano, paese vicino a Prato, come coadiutore dell’anziano parroco. M. è colpito dalla profonda ignoranza della popolazione la cui pratica religiosa è formale, perché manca di forti convinzioni.

2. M. studia la situazione e decide di aprire una scuola per i giovani perché è convinto che per risvegliare in loro il senso religioso è necessario risvegliare prima il senso dell’umano. Si fa maestro dei giovani senza badare alla loro tessera di partito: unica tessera valida è un’umanità bisognosa di liberare intelligenza e cuore. Alla morte del parroco (1954) è «confinato» a Barbiana – una sperduta parrocchia del Mugello, senza strada carrozzabile – perché il suo modo di fare pastorale non è ben accetto e la sua persona è alquanto scomoda. Anche a Barbiana trova ignoranza, aggravata dalla timidezza e dalla solitudine tipiche dei montanari. Anche qui stesso rimedio: la scuola con cui appropriarsi della parola per comprendere gli altri, esprimere se stessi e poi accogliere la Parola che salva. La scuola di don M. è esigente ed austera, ma non priva di rapporto interpersonale e di autentico amore pedagogico, tanto che M. chiama quei piccoli montanari «figlioli». A Barbiana porta a termine un lavoro iniziato a S. Donato:​​ Esperienze pastorali​​ (1967), un saggio sociologico che pone in evidenza le carenze di una certa pastorale. Con i ragazzi della scuola di Barbiana scrive​​ Lettera a una professoressa​​ (1967), in cui critica un certo tipo di scuola, incapace di adeguarsi alle esigenze dei meno favoriti, selettiva in base a determinati canoni di cultura. Viene pubblicata nel maggio del 1967, a un mese dalla sua morte. Da ricordare la lettera​​ Ai cappellani militari toscani​​ e​​ Lettera ai giudici,​​ entrambe del 1965, come critica dell’istituzione militare ed ora raccolte in​​ L’obbedienza non è più una virtù​​ (1976). La sua figura e la sua opera sono oggetto di polemiche e letture di parte.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ Esperienze Pastorali, Firenze, L.E.F., 1958; Scuola di Barbiana,​​ Lettera a una Professoressa, Ibid., 1967;​​ Lettere di Don L.M. priore di Barbiana, a cura di M. Gesualdi, Milano, Mondadori, 1970;​​ Lettere alla mamma, a cura di A. Milani-Comparetti, Ibid., 1973;​​ Alla Mamma,​​ a cura di G. Battelli, Genova, Marietti, 1990;​​ Anche le oche sanno sgambettare, Roma, Stampa Alternativa, 1995;​​ I care ancora. Inediti. Lettere,​​ appunti e carte varie, Bologna, EMI, 2001. b)​​ Studi:​​ Di Giacomo M.,​​ Don M. tra solitudine e Vangelo, Roma, Borla, 2002; Lancisi M.,​​ Il segreto di don M., Casale Monferrato (AL), Piemme, 2002; Moraccini M.,​​ Scritti su L.M.,​​ Milano, Jaca Book, 2002; Simeone D.,​​ Don L.M. da S. Donato a Barbiana,​​ Milano, Università Cattolica, 2003; Eiterer O.,​​ La morte di L.M., Firenze, Polistampa, 2006; Pecorini G.,​​ Il segreto di Barbiana,​​ ovvero l’invenzione della scuola, Bologna, EMI, 2006.

R. Lanfranchi




MINORI

 

MINORI

Convenzionalmente l’universo dei m. comprende il gruppo di età 0-17 anni e si articola in tre grandi fasce: m. in età prescolare (0-5); dai 5 ai 14; dai 14 ai 17. È una categoria che si sovrappone parzialmente ad altre quali​​ ​​ bambini,​​ ​​ infanzia,​​ ​​ preadolescenza,​​ ​​ adolescenza e​​ ​​ giovani.

1. A unificare i vari gruppi contribuisce anzitutto il​​ diritto​​ e in particolare quello internazionale. Le leggi della maggior parte degli Stati considerano come m. tutti i soggetti che non hanno compiuto il diciottesimo anno di età. Una definizione simile si trova nella Convenzione internazionale sui diritti del bambino del 1989. Il documento si qualifica, rispetto alla precedente Dichiarazione dei diritti del fanciullo del 1959, sia per la sua natura giuridicamente vincolante per gli Stati contraenti, sia per il contenuto più ampio e innovativo che dà notevole rilevanza ai diritti indispensabili alla crescita.

2. Altro fattore unificante è la​​ ricerca.​​ In particolare riguardo all’Italia, i dati evidenziano che nei processi di​​ ​​ socializzazione l’influenza principale continua ad essere esercitata dalla famiglia; tuttavia, l’incidenza non è così preponderante come in passato. Nei confronti dei bambini la televisione sta sostituendo le forme tradizionali di socializzazione dell’immaginario, ma l’interazione con il teleschermo si presenta alquanto povera. La stragrande maggioranza degli adolescenti giudica la tv divertente e interessante e quindi un ottimo mezzo di svago; al tempo stesso, è giudicata violenta dal 40% quasi e volgare da oltre la metà (Eurispes - Telefono Azzurro, 2004). Inoltre, essi si rivelano grandi utenti di radio, film, musica leggera e calcio-spettacolo e dimostrano una passione crescente per il gioco elettronico e il personal computer. Nella vita quotidiana un ruolo sempre più rilevante viene svolto dal gruppo dei pari che si palesa come l’interlocutore primario dei m. Se cresce la percentuale dei m. che prosegue gli studi dopo l’obbligo, è anche vero che la scuola sempre meno esaurisce l’area dell’esperienza dei m. Il rapporto con gli insegnanti​​ assume un’importanza fondamentale per i m. tale da contenere o escludere nella maggioranza dei casi forme di scortesia. Rispetto a fenomeni di teppismo o ad atti di violenza, si evidenzia il dato di una metà di scuole in cui si verificano furti; abbastanza diffusi risultano anche gli episodi di bullismo che accadono in oltre un terzo dei casi. Nell’attuale contesto di grave disoccupazione i m. lavorano in misura sempre più modesta. A loro parere il lavoro assolve principalmente ad una funzione pratica, quella cioè della indipendenza economica (oltre un terzo). Il lavoro inteso invece come realizzazione personale e concretizzazione dei propri sogni interessa meno di un quinto dei m. Se migliorano le loro condizioni igieniche e sanitarie, crescono invece le preoccupazioni per il consumo della droga. Analogamente l’immagine della trasgressione minorile è caratterizzata dalla microcriminalità urbana, in particolare dai reati connessi alla droga. Il 6° rapporto nazionale Eurispes definisce i m. come «esploratori senza frontiere tra opportunità e rischi». Certamente è dovere delle nuove generazioni diventare esploratrici del futuro; è però altrettanto vero che essere senza frontiere significa essere senza protezione e sicurezza.

Bibliografia

Consiglio Nazionale dei M.,​​ I m. in Italia,​​ Milano, Angeli, 1988; Id.,​​ Secondo rapporto sulla condizione dei m. in Italia,​​ Ibid., 1990; Accornero G.,​​ M. e giovani: non solo doveri,​​ in «Tuttogiovani Notizie» 10 (1995) 37, 5-23; Eurispes - Telefono Azzurro,​​ 5° Rapporto Nazionale sulla Condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza, Roma, 2004; Id.,​​ 6° Rapporto Nazionale sulla Condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza, Roma, 2005.

G. Malizia




MITO

 

MITO

Nel pluralismo delle interpretazioni (storico, etnico, filosofico, religioso, psicoanalitico, linguistico), m. esprime fondamentalmente una realtà (avvenimento, persona, visione) di eccezionale importanza, paradigmatica, svincolata per sé da valutazioni puramente razionali, antecedente sovente i tempi storici, di portata simbolica, come archetipo, per spiegare il senso ultimo delle realtà storiche e contingenti.

1. Il m. è recepito dalla filosofia e dalla teologia come portatore di verità profonde in stile sapienziale (come ad es. il «m. della caverna» in​​ ​​ Platone e i racconti di creazione e di peccato in Gn 1-3). Ciò che importi questo nel processo educativo non è difficile a cogliersi. Ne enunciamo quattro aspetti: a) Comporta il riconoscimento che la mediazione razionale tipica dell’educazione non esaurisce le risorse di comprensione della realtà, per quanto riguarda in particolare il senso ultimo della​​ ​​ persona e del mondo in cui vive. b) Comporta ancora un misurato apprendimento del m. e del suo significato filosofico-religioso nell’approccio ai grandi interrogativi degli inizi (arché)​​ e della fine (éschaton)​​ (​​ educazione religiosa). c) Comporta pure il riconoscimento della valenza del m. come linguaggio, capace di allargare un mondo altrimenti esposto alla riduzione logico-operativa e tecnico-produttiva, introducendo ad una più compiuta comprensione del mondo mediante l’esperienza poetica e religiosa. d) Comporta infine la sollecitazione critica verso i tanti abusi della mitizzazione o mitomania, che erige a valore di principio fondante e a sapienza-guida, illusioni, ideologie, passioni, fantasie non di rado malate.

2. Nell’ambito dell’educazione cristiana, si ricorderà che la​​ ​​ Bibbia proponendo accadimenti storici come luoghi della rivelazione di Dio, invita a cogliere la verità del m. in limpida aderenza all’annuncio di un Dio unico e in una continua attenzione alla luce del Logos o Verbo fatto carne nella persona di Gesù di Nazaret.

Bibliografia

Eliade M.,​​ M. e realtà,​​ Torino, Borla, 1966; Rizzi A.,​​ Il​​ sacro e il senso. Lineamenti di filosofia della religione,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1995; Levi-Strauss C.,​​ M. e significato, Milano, Il Saggiatore, 1995.

C. Bissoli​​ 




MOBILITÀ SOCIALE

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MOBILITÀ SOCIALE

La m.s. è il passaggio di un individuo da uno​​ ​​ status sociale ad un altro, da uno strato ad un altro lungo una struttura gerarchica di classe (m.​​ verticale),​​ o da una posizione sociale ad un’altra entro lo stesso strato,​​ ​​ classe, o gruppo (m.​​ orizzontale).

1. La m. verticale può essere​​ ascendente,​​ quando il movimento tende verso l’alto della scala socio-economica, migliorando lo status, e​​ discendente​​ quando è mobile verso il basso e il soggetto perde di status. Si parla inoltre di m.​​ intragenerazionale​​ (o di carriera),​​ quando ci si riferisce alla m. verticale sperimentata da un singolo individuo nelle promozioni e avanzamenti della propria carriera professionale. La m.​​ intergenerazionale​​ invece è quella che si riferisce all’ascesa o alla discesa di status sociale che avviene dai nonni, ai figli e ai nipoti. La quantità di m. verticale in una società rappresenta l’indice principale del suo grado di «apertura» e di flessibilità lungo la scala socio-economica. È un fenomeno universale, regolato in genere da norme più o meno esplicite operanti all’interno dei sistemi sociali.

2. I fattori influenti sulla m.s. possono essere di tipo​​ strutturale:​​ come la flessibilità / rigidità della stratificazione sociale, il rapporto tra domanda e offerta del mercato del lavoro, lo sviluppo demografico, la struttura della parentela; e di tipo​​ culturale:​​ come l’ideologia della m., le immagini prevalenti di società, le regole del gioco e della carriera, l’uguaglianza delle opportunità. La m.s. produce​​ effetti​​ evidenti sia sulla società che sull’individuo, come per es. il cambiamento della composizione delle classi; il cambio dei valori dagli strati di partenza a quelli di arrivo; l’incremento della partecipazione negli ascendenti e di opposizione radicale nei discendenti; tensioni, ansia / incertezza rispetto ai temi dell’identità, dei valori, del protagonismo sociale; flessibilità dei confini fra strati, classi e ristrutturazione dei rapporti tra le diverse organizzazioni sociali.

Bibliografia

Rifkin J.,​​ La fine del lavoro, Milano, Baldini & Castoldi, 1997; Sennet R.,​​ L’uomo flessibile, Milano, Feltrinelli, 1998; Beck U.,​​ La società del rischio. Verso una seconda modernità, Roma, Carocci, 2000; Pisati M.,​​ La m.s., Bologna, Il Mulino, 2000; Lazzari F.,​​ L’attore sociale fra appartenenze e m. Analisi comparate e proposte socio-educative, Padova, CEDAM, 2000; Ranci C.,​​ Le nuove disuguaglianze sociali in Italia, Bologna, Il Mulino, 2002; Ballarino G. - A. Cobalti,​​ M.s., Roma, Carocci, 2003; Fullin G.,​​ Vivere l’instabilità del lavoro, Bologna, Il Mulino, 2004; Paci M.,​​ Nuovi lavori,​​ nuovo welfare, Ibid., 2005.​​ 

R. Mion




MODE PEDAGOGICHE

 

MODE PEDAGOGICHE

Istanze e modi emergenti ciclicamente nell’ambito dell’educazione e della pedagogia, che esaltano costrutti, modelli, prospettive educative, suscettibili di critica o comunque soggetti al logorio del tempo e della pratica educativa concreta.​​ 

1. Nel linguaggio comune, con il termine m. indichiamo non solo la foggia corrente di vestire e di acconciarsi, ma anche il costume, il modo di vivere e di comportarsi che emerge e si impone in un determinato periodo o epoca e che interpreta, almeno per un certo tempo, il gusto e il sentire sociale prevalente. Spesso si tratta di fenomeni indotti dalla propaganda messa in atto dal sistema della​​ ​​ comunicazione sociale, ma talora si ha a che fare con risposte ad esigenze ed urgenze profonde, emergenti dalle vicende e dal gioco storico-sociale.

2. Questa doppiezza si nota anche nelle m.p.: esse possono indicare esigenze fondamentali dell’educazione oppure affermazioni pedagogiche piuttosto passeggere. Esempi​​ recenti possono essere riferiti allo​​ ​​ spontaneismo, alla creatività, all’educazione ai valori, alle competenze, alla multimedialità, al​​ cooperative learning, al​​ tutor, ecc. In tal senso si impone costantemente un’analisi critico-linguistica delle «parole nuove» dell’educazione e della pedagogia e una critica della «certezza pedagogica». È certamente questo un compito dell’​​ ​​ epistemologia pedagogica o comunque di una riflessione teorico-pedagogica.

Bibliografia

Bertoldi F.,​​ Critica della certezza pedagogica,​​ Roma, Armando, 1981; Reboul O.,​​ Il linguaggio dell’educazione,​​ Ibid., 1986.

C. Nanni​​ 




MODELLO

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MODELLO

In campo educativo: schema concettuale e operativo secondo cui può essere strutturata e ordinata la pratica educativa in rapporto a un principio teleologico, un ideale di​​ ​​ uomo e di​​ ​​ società, che ne assicuri coerenza e organicità.

1.​​ Approfondimento del concetto.​​ La definizione adottata riprende, adattandola, quella di G. M.​​ ​​ Bertin: «schema concettuale secondo cui possono essere connessi e ordinati i vari aspetti della vita educativa in rapporto ad un principio teleologico che ne assicuri coerenza e organicità» (Bertin, 1968, 68). Un m. educativo è caratterizzato dunque dalla tensione verso un ideale di uomo e di società. Ma se ogni m. di pratica educativa è intrinsecamente caratterizzato dagli ideali guida che esso include circa il bene del singolo e di quello della comunità, occorre riconoscere che nell’idea di m. educativo sta la ricerca o la proposta di un’«eccellenza» nella pratica educativa stessa. Eccellenza che include coerenza con gli ideali guida perseguiti e organicità nella strutturazione delle azioni messe in atto, secondo le espressioni di Bertin. Un m. educativo, da un punto di vista descrittivo, può essere definito come una particolare strutturazione delle variabili fondamentali che entrano in gioco in una pratica educativa a partire da un insieme di concetti, principi e metodi di riferimento. Al posto del termine m. è spesso usato con analogo significato quello di sistema e anche quello di metodo. Così nella tradizione pedagogica salesiana si parla di​​ ​​ sistema preventivo, riprendendo l’espressione stessa di s. Giovanni​​ ​​ Bosco.

2.​​ Ulteriori significati.​​ Occorre però ricordare come il termine m. venga usato in una pluralità di accezioni che vanno dalla persona che fa da m. di riferimento per apprendere o sviluppare una competenza (ad es. il mastro artigiano), a una struttura fisica che riproduce in maniera ridotta, ma fedele, una qualche realtà del mondo (m. di edificio, mappamondo). La prima di queste due accezioni va estesa sia al concetto di testimonianza, sia a quello di esperienza indiretta o vicaria, tipiche di un apprendimento osservativo, quale si ha nell’assistere a uno spettacolo televisivo. La psicologia sociale utilizza in quest’ultimo caso le parole inglesi​​ model​​ e​​ modeling​​ (m. e fare da m.). In campo sia psicologico, sia educativo, sia spirituale si giunge a parlare di «m. ideali», riferimenti prospettici che includono il concetto di eccellenza, oppure di «m. reali», personaggi storici o viventi, che concretizzano un proprio ideale di vita.

3.​​ La modellizzazione.​​ Per chiarire ancor meglio il concetto di m. si può cercare di precisare il processo di modellizzazione. Esso consiste nell’individuare gli elementi salienti di una situazione, o di una pratica, e le relazioni fondamentali che la caratterizzano e nel rappresentare gli uni e le altre in forma adeguata. Tale rappresentazione può assumere forme varie: verbali, mediante descrizioni e narrazioni; fisiche, mediante disegni, diagrammi, immagini fisse o in movimento; simboliche, mediante opportuni sistemi di segni. La relazione che collega il m. alla realtà della pratica educativa a cui esso fa riferimento non può essere che di tipo omeomorfico, cioè di similitudine o di analogia, e non di isomorfismo. In effetti non solo si ha una riduzione della complessità della situazione reale, ma anche una sua rappresentazione analogica. In un m. di pratica educativa possono essere individuati concetti, principi e metodi che riguardano piani logici differenti: 1)​​ Piano delle asserzioni o degli assunti impliciti di natura teorica​​ (filosofica, teologica). Essi riguardano la concezione stessa della persona umana e della società, del loro significato, del loro destino, del loro bene. Da qui derivano le finalità fondamentali che caratterizzano la messa in opera di una pratica educativa ispirata al m. Questo piano viene definito «assiologico», perché riguarda i valori a cui il m. si ispira e quelli che intende promuovere attraverso la sua attivazione pratica. 2)​​ Piano delle assunzioni di ordine scientifico​​ in senso largo, in particolare di tipo psicologico e relativo allo sviluppo del soggetto nelle sue varie dimensioni, alle relazioni e interazioni educative, ai processi di apprendimento e di acquisizione delle conoscenze e delle competenze. Occorre chiarire che l’aggettivo scientifico qualifica le conoscenze a cui si rifà il m. in quanto derivanti da una qualche disciplina scientifica applicata all’educazione, come la psicologia dell’educazione o la​​ ​​ sociologia dell’educazione. Questo piano viene definito «scientifico», perché riguarda le conoscenze disciplinari di cui il m. tiene conto in maniera più o meno critica e mediata. 3)​​ Piano dei principi operativi e di metodo.​​ Nella storia della pedagogia, soprattutto di quella che può essere definita «pedagogia pratica», sono molte le proposte di questo tipo, generalmente raccolte sotto il titolo di indicazioni metodologiche o principi di metodo. Basti qui citare a questo proposito Corallo (1967) e Bertin (1968). Questo piano viene anche definito «prasseologico», perché appunto prende in considerazione gli aspetti operativi o pratici del m. Il termine prasseologico deriva dai vocaboli gr.​​ praxis​​ e​​ logos​​ che indicano un’organizzazione razionale della pratica educativa.

4.​​ Componenti.​​ Meirieu (1994) indica cinque componenti fondamentali di un m. educativo scolastico. Per analogia qui esse vengono estese a ogni m. educativo. 1) Il grado di strutturazione delle conoscenze, delle competenze, degli atteggiamenti e dei valori a cui ci si riferisce nel processo educativo. Si possono porre agli estremi di un continuo l’approccio destrutturato e basato su esperienze naturali o anche occasionali e per converso, un approccio assai organizzato, sia quanto a situazioni educative, sia quanto a una loro successione temporale. 2) Tipologia delle situazioni educative attivate. Ad es. si può impostare l’azione educativa in modo collettivo, rivolto cioè all’intero gruppo degli educandi, e basato sulla comunicazione diretta e unidirezionale; oppure preferire una situazione di natura più interattiva e centrata sugli interscambi tra educatore e gruppo e tra i membri del gruppo; oppure ancora dare spazio privilegiato agli interventi individualizzati. 3) Tipologia e qualità degli strumenti e materiali educativi adottati. Ad es., si può accennare ai diversi media coinvolti: dal​​ ​​ teatro, in particolare il teatro cosiddetto educativo, alla musica, sia come fruizione sia come produzione, all’uso del videoregistratore o del cinema, a quello del​​ ​​ computer e della​​ ​​ multimedialità, a quello del libro e del giornale. A questo proposito si può ricordare come la scelta dello strumento non è indifferente. Anche senza esasperare la posizione di chi dice, come Mac-Luhan, che il vero messaggio è dato dai caratteri propri del mezzo adottato, occorre riconoscere che uno stesso contenuto educativo ha una ben diversa valenza formativa a seconda di come e con quale mezzo viene proposto. Ben diverso è il caso di un coinvolgimento attivo personale in un’impresa a forte valenza educativa, da quello di una proposta a descrizione puramente verbale o anche presentata per mezzo di uno spettacolo da vedere. 4) Tipologia e qualità delle relazioni prefigurate. Qui entriamo nel campo del sistema di rapporti interpersonali e di quelli istituzionali. Tuttavia la piattaforma comunicativa che s’intende attivare o che viene privilegiata è certamente carattere peculiare di un m. educativo. L’accettazione di relazioni interpersonali tra educatore ed educando basate sull’​​ ​​ empatia, sull’accettazione incondizionata, sulla vicinanza ai suoi problemi esistenziali, è cosa ben diversa dalla teorizzazione di rapporti basati sul principio dell’autorità, della distanza, del rispetto di regole e regolamenti imposti dall’esterno. 5) Modalità di valutazione adottata. Anche in questo caso si possono distinguere: forme diagnostico-pragmatiche, dirette a conoscere per agire oppure a classificare gli educandi; valutazione formativa, intesa come modalità di regolazione o pilotaggio dell’azione educativa, oppure come giudizio sulla qualità delle prestazioni degli educandi; valutazione finale o sommativa più o meno concordata tra i vari partecipanti alla comunità educativa.

Bibliografia

Corallo G.,​​ Pedagogia,​​ II: L’atto di educare,​​ Torino, SEI, 1967; Bertin G. M.,​​ Educazione alla ragione,​​ Roma, Armando, 1968; Blankertz H.,​​ Teorie e m. della didattica,​​ Ibid., 1977; Dalle Fratte G. (Ed.),​​ Teoria dei m. in pedagogia,​​ Trento, FPSM, 1984; Id. (Ed.),​​ Teoria e m. in pedagogia,​​ Roma, Armando, 1986; Joyce B. - M.​​ Weil,​​ Models of teaching,​​ Englewood Cliffs, Prentice-Hall,​​ 1986; Scurati C.,​​ Realtà e forme dell’insegnamento,​​ Brescia, La Scuola, 1990;​​ Meirieu P., «Méthodes pédagogiques», in P. Champy - C. Étève (Edd.),​​ Dictionnaire encyclopédique de l’éducation et de la formation,​​ Paris, Nathan, 1994, 660-666; Id.,​​ La pédagogie entre le faire et le dire, Paris, ESF,​​ 1995; Pellerey M.,​​ Educare. Manuale di pedagogia come scienza pratico-progettuale, Roma LAS, 1999; Baldacci M. (Ed.),​​ I m. della didattica, Roma, Carocci, 2004.​​ 

M. Pellerey​​ 




MODERNITÀ

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MODERNITÀ

Il termine, dal lat. tardo​​ modernum,​​ derivato dall’avv.​​ modo​​ (= or ora), sta propriamente per «attuale». Ma storicamente è venuto ad indicare l’atteggiamento ed il modo di vedere tipico della coscienza storica occidentale post-medioevale, che tende a distinguersi dall’epoca precedente non solo cronologicamente ma anche in termini di prospettive culturali, di sistemi di significati e di criteri di valutazione per ciò che concerne la qualità della vita individuale e collettiva.

1. Già nel periodo medioevale ci si poneva il problema della differenza tra antichi e moderni. È nota l’affermazione riferita a Bernardo di Chartres, secondo cui noi moderni saremmo come dei nani sulle spalle dei giganti (riportata da G. di Salisbury,​​ Metalogicon,​​ III, 4). Ma la coscienza moderna acquista tutto il suo tipico significato con la concezione umanistico-rinascimentale dell’uomo-microcosmo e dell’uomo costruttore (homo faber)​​ del proprio destino. I secoli successivi hanno rafforzato il forte carattere antropocentrico della concezione moderna del mondo e della vita. L’uomo è visto come prospettiva totalizzante, come centro solare («uomo copernicano») attorno a cui tutto il resto vien fatto ruotare. Posta piuttosto in ombra la dimensione creaturale e quella di particella dell’universo, l’uomo moderno ha esaltato la sua qualità di soggetto e costruttore della storia, grazie alle sue capacità di libertà, di razionalità e di potenza politica. L’Illuminismo ha dato ulteriore consistenza teorica a queste prospettive umanistiche, affidandole alla forza illuminante della ragione, vista essenzialmente non come ragione contemplativa ma come ragione pratica, cioè funzionale e strumentale all’efficacia operativa dell’agire, della capacità produttiva e dell’abilità trasformativa dell’uomo nei confronti della natura e dell’ambiente. Scienza e tecnica ne sono diventate le figure culturali principali. L’affermazione dell’autonomia delle realtà terrestri si è combinata con una crescente tendenza alla secolarizzazione dei modi sociali dell’esistenza, poggiata su una fede laica nelle potenzialità umane di sviluppo illimitato, di progressiva liberazione, eguaglianza, giustizia sociale e felicità per tutti: nell’orizzonte di un «regno della libertà» e di una «pace universale», in cui si avrebbe finalmente il pieno affrancamento da ogni feudalesimo interiore ed esteriore.

2. Queste prospettive ideologiche sono alla base anche del concetto di «modernizzazione»,​​ vale a dire dell’insieme dei criteri orientativi dell’azione politica sia nei confronti dello «svecchiamento» dell’organizzazione sociale interna sia nel confronto politico-internazionale sui modelli di sviluppo, secondo cui regolare i processi di trasformazione economica, sociale, civile, giuridica a livello mondiale. Ne sono considerati «indicatori»: la partecipazione attiva dell’intera popolazione maschile e femminile a tali processi, la possibilità reale di mobilità ed innalzamento sociale, uno stato di diritto garante della sicurezza e delle libertà individuali, l’effettivo accesso di tutti ai beni di consumo del mercato internazionale, un’equa ripartizione e distribuzione delle risorse, la diffusione del benessere attraverso l’azione privata e pubblica.

3. L’​​ ​​ alfabetizzazione, l’​​ ​​ istruzione e la​​ ​​ formazione sono considerate condizione di base per il conseguimento di questi obiettivi (formazione). La fiducia nel potere illuminante dell’istruzione e nella forza rigenerante dell’educazione è stata vista come fondamentale fin dall’inizio dell’età moderna. Tuttavia, negli ultimi decenni – specie in rapporto ai tragici esiti delle due guerre mondiali, dell’eurocentrismo imperialistico e colonialistico, delle ideologie politiche totalitarie di destra e di sinistra, degli effetti ecologicamente devastanti dell’industrializzazione e del neo-capitalismo internazionale – la visione moderna è diventata oggetto di forti critiche. Diversi esponenti della​​ ​​ Scuola di Francoforte ne hanno evidenziato l’eclisse della ragione e la riduzione ad una umanità ad una sola dimensione. Altri ne criticano il carattere lineare, quantitativo e necessario del concetto di sviluppo, poco attento agli aspetti di contingenza, di non continuità, di situazionalità, di involuzione, di differenziazione soggettiva e socio-culturale, di creatività e di responsabilità etica individuale e collettiva. Così pure si problematizza fortemente la fiducia moderna nella razionalità e nella trasparenza dell’azione umana storica, che non sembra vedere la fondamentale ambivalenza delle scelte e delle produzioni umane. Individualismo, eclisse dei fini, perdita della libertà politica ne sarebbero gli «effetti perversi» più cospicui. Da parte religiosa se ne evidenzia il riduzionismo immanentistico, il materialismo economicistico, il laicismo anti-ecclesiastico che enfatizzano l’efficienza e il successo, rendono estremamente difficile il senso della gratuità e forme di pensiero spirituale aperto alla trascendenza o al desiderio del totalmente altro. In tal senso si è parlato di «fine della m.» o più comunemente di un passaggio a forme non univoche e non unidirezionali di​​ ​​ post-m. o, in positivo – in rapporto al forte incremento dell’innovazione tecnologica e delle sue potenzialità trasformazional-umanistiche – di seconda m. o di iper-m.

4. Per parte sua, la riflessione teorico-pedagogica evidenzia il forte tasso di problematicità che attraversa quelli che erano considerati i capisaldi della cultura educativa moderna: la fiducia nelle capacità soggettive di libertà e di trasformazione umana del reale; la fede quasi «sacrale» nella razionalità, nella scienza e nella tecnica; la speranza della possibilità di una comunicazione trasparente e di un dialogo corretto e fruttuoso tra le persone, i gruppi sociali, i popoli, le nazioni e le culture. Per altro verso è stimolata ad andare oltre le forme tradizionali di fare scienza e a ricercare forme di discorso pedagogico più adeguate alle molteplici possibilità conoscitive umane, fortemente provocate dall’accresciuta interazione multiculturale e dalle possibilità offerte dai nuovi media computerizzati. Ad un livello più ampio è chiamata a collaborare con altri approcci scientifici e teorici nella ricerca di una cultura formativa di un qualche significato e futuro rispetto ai modi «attuali» di essere, di agire, di educare.

Bibliografia

Fromm E.,​​ Avere o essere?,​​ Milano, Mondadori, 1977; Guardini R.,​​ La fine dell’epoca moderna,​​ Brescia, Morcelliana, 1979; Vattimo G.,​​ La fine della m.,​​ Milano, Garzanti, 1985; Arendt H.,​​ Vita activa. La condizione umana,​​ Milano, Bompiani, 1989; Habermas J.,​​ Il​​ discorso filosofico della m.,​​ Roma / Bari, Laterza, 1991; Campanini G.,​​ Cristianità e m.,​​ Roma, AVE, 1992;​​ Touraine A.,​​ Critique de la modernité,​​ Paris, Fayard,​​ 1992; Giddens A.,​​ Le conseguenze della m.,​​ Bologna, Il Mulino, 1994; Taylor C,​​ Il​​ disagio della m.,​​ Roma / Bari, Laterza, 2006; Eisenstadt S.,​​ Sulla m., Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2006.

C. Nanni




MODULI DIDATTICI

 

MODULI DIDATTICI

Il termine m. (dal lat.​​ modulus,​​ diminutivo di​​ modus,​​ misura, regola, modello) nell’ambito didattico viene utilizzato di recente per indicare un insieme di esperienze di apprendimento (costruite generalmente in forma di​​ ​​ unità didattica), riferite ad una disciplina o ad alcune discipline di studio, con l’indicazione precisa degli obiettivi da raggiungere, dei prerequisiti e della durata complessiva di svolgimento. A volte viene usato come sinonimo di unità didattica.

1. Ogni m.d. è un micro-curricolo (​​ curricolo), quindi include, in rapporto ai soggetti alunni a cui è destinato, gli elementi essenziali costitutivi quali: obiettivi - contenuti - procedimenti / attività - mezzi - momenti e modalità della verifica. La caratteristica di un m. è la possibilità di combinarlo variamente con altri, in relazione con le competenze o qualificazioni previste; la durata dello svolgimento di un m. spesso viene a coincidere con la periodicità interna assunta (settimanale, mensile, trimestrale, o quadrimestrale e più). Si parla così di corsi o insegnamenti modulari, o di organizzazione per m. che non ha una struttura sequenziale bensì quella a rete con un’ottica sistemica.

2. Data la diversa componibilità dei m. la modularità viene utilizzata soprattutto nell’ambito della​​ ​​ formazione professionale dove gli utenti possono essere, in partenza, di livello diverso di preparazione e aver bisogno di uscire al termine di un m. e di rientrare per proseguire la qualificazione più elevata attraverso altri m. La struttura di ogni m. include:​​ titolo​​ (tema disciplinare, pluri o interdisciplinare, o trasversale),​​ sommario​​ (indicazione dei destinatari, delle unità didattiche previste e della durata in termini di giorni, settimane e ore),​​ finalità e obiettivi​​ (espressi in termini di conoscenze, competenze e capacità),​​ prerequisiti,​​ contenuti​​ (temi, argomenti, problemi),​​ mezzi​​ (libro, saggi, fotocopie, software didattico, ecc.),​​ metodi,​​ valutazione​​ (criteri e tipi di prove).

3. Nell’ambito italiano si parla dell’organizzazione modulare anche in riferimento alla scuola primaria in cui di recente si è introdotta la pluralità dei docenti anziché il maestro unico, cosicché due classi vengono affidate a tre insegnanti e tre classi a quattro insegnanti. Ovviamente la programmazione educativo-didattica secondo questa riforma comporta una modalità particolare, chiamata appunto «organizzazione modulare».

Bibliografia

Arends R. et al.,​​ Handbook for the development of instructional modules in competency-based teacher education programs,​​ Buffalo, The Center for the Study of Teaching,​​ 21973; Warwick D.,​​ Teaching and learning through modules, Oxford, Blackwell, 1988;​​ Tiriticco M.,​​ La progettazione modulare nella scuola dell’autonomia, Napoli, Tecnodid, 2000; Zanchin M. R. (Ed.),​​ Le interazioni educative nella scuola dell’autonomia: itinerari di didattica modulare, Roma, Armando, 2002.

H.-C. A. Chang




MONACHESIMO

 

MONACHESIMO

Preistoria e protostoria dell’istituzione monastica non può interessare qui più di tanto. Esistono del resto, fruibilissimi, consuntivi che consentono di accedere a codesti ambiti [1].

1. L’istituzione assume rilevanza nei confronti dell’educazione, allorché incontra a sua volta Benedetto da Norcia (ca. 480-550). Di probabile origine senatoria, disgustato dalle futilità che la scuola gli passava, e più ancora dalla mediocrità della vita di città, se ne fuggì con la nutrice prima ad Affile e poi a Subiaco. Tale Romano, monaco, lo avviò alla pratica della vita solitaria. Solitudine tosto troppa affollata, al punto da indurlo a passare su Monte Cassino, ove visse con la comunità cenobitica che diresse fino alla morte.

2. La​​ Regola,​​ da lui composta, include settantatré capitoli al seguito di un prologo. Il​​ monastero,​​ che essa organizza, prevede una società cenobitica, retta da un​​ abate​​ eletto. Un anno di​​ probandato​​ è offerto a quanti vogliano valutare, in vista di un’ardua perseveranza, fino alla morte, le proprie attitudini. Materialmente ricavata da una precedente​​ Regula Magistri,​​ tuttora anonima e redatta nel meridione d’Italia, a ridosso della metà del secolo, quella di Benedetto resta originalissima nell’indole. Indiscutibile, per cominciare, la sua perentorietà formale [2]. All’epoca in cui i giuristi dell’Impero sono impegnati a coordinare la disparata proliferazione della giurisprudenza classica, anche Benedetto vuole scritta la sua​​ Regola​​ e ogni novizio deve leggerne o sentirne leggere ripetutamente il testo. Correlativamente l’obbedienza è la virtù decisiva. Il c. 68 propone il caso di una disposizione insostenibile dal monaco, presunto non renitente, ma effettivamente esausto o incapace; ebbene, egli deve chiarire al superiore le proprie condizioni, giacché in tutto e per tutto l’abate è di lui responsabile al cospetto di Dio; e qualora questi insista, il monaco deve obbedire, confidando a sua volta nell’aiuto di Dio. Appunto dalla paterna discrezione dell’abate (cfr. c. 64) è commisurata la complessiva autoritarietà del regime. Il monastero costituisce in effetti, a quanto dichiara il prologo della​​ Regola,​​ una​​ scola​​ a servizio di Dio:​​ Constituenda est ergo nobis dominici scola servitii​​ (Prol.,​​ 45); e​​ scola​​ nel gergo di Benedetto denomina l’uno dei distaccamenti militari che difendono, tra San Pietro e il Tevere, la città dilagata al di là delle mura. Più che un ritiro tranquillo e tutto sommato confortevole, il suo monastero è un avamposto, una sorta di unità di combattimento in cui reclute vogliose sono accuratamente addestrate al combattimento per raggiungere, sotto l’illuminata guida dell’abate, il controllo della sensualità e la disciplina della volontà.

3. Per più versi però il chiostro collude con la scuola nel senso ormai condiviso del termine. La​​ Regola​​ prevede la presenza di​​ oblati,​​ minori offerti al monastero dai rispettivi genitori; e per loro dispone alfabetizzazione e cultura; quanto basta, per cominciare, per poter prendere parte degnamente, in coro, alla celebrazione liturgica. E però Donato e Prisciano non lesinano indiscrezioni sulla produzione classica che sottende ed esprime le loro grammatiche; sicché il passo da queste a quella resta persistente lusinga [3].

4. Oltre a fissare i tratti del giorno da dedicare alla lettura e allo studio, naturalmente più a fini di maturazione spirituale che di mera curiosità intellettuale (cfr. c. 8,3; 9,8; 48​​ passim),​​ la​​ Regola​​ dispone inoltre che in Quaresima ciascun monaco prelevi in Biblioteca un codice da leggere integralmente lungo tutto l’anno:​​ Accipiant omnes singulos codices de biblioteca,​​ quos per ordinem ex integro legant​​ (c. 48,15) [4]. Ma come leggere senza libri? L’abbazia di Bec registra l’ammutinamento di una comunità in struggente indigenza e perciò priva di testi e tuttavia chiamata all’ineludibilità della meditazione da un inflessibile giovane priore. E così i chiostri fanno spazio agli​​ scriptoria​​ e alle biblioteche [5].

5. Unità di combattimento per accaparrarsi, nella più radicale disponibilità, la condiscendenza di Dio, il monastero sollecita e piccini e adulti. Questi anzitutto, più che non i primi. La perentorietà del c. 7:​​ De humilitate​​ ha scosso fin la imperturbabilità di un​​ ​​ Tommaso d’Aquino. Al di là del​​ Magister​​ anonimo, al di là di Cassiano, Benedetto attinge ad un​​ Libellus de humilitate​​ di estrazione provenzale, nel quale la accezione tardoantica del termine si è appropriata delle connotazioni neotestamentarie: l’umile controlla a tal punto le movenze della propria vita, da riuscire a lasciarne a Dio la definitiva disponibiltà. Non è facile dire come di fatto vivessero, i monaci, sì tese prospettive. Per un verso l’esercizio della​​ ​​ meditazione su testi autorevoli mette di continuo in questione insufficienze e mancamenti, in un continuo doloroso confronto con i parametri d’un inespugnabile ideale [6]; per l’altro, il chiostro esprime anche esercizi, i cosiddetti​​ Ioca monachorum​​ [7], il cui ingenuo minimalismo suscita più d’una perplessità. Fino a che punto siffatti intrattenimenti esprimono effettiva maturità?​​ 

6. Alle stesse strenue tensioni sono animosamente chiamati anche i piccini; ma naturalmente con la discrezione e il garbo che il c. 70 reclama. Non è facile lenire il trauma dell’oblatura [8]; né, qualora esso fosse stato comunque sopito, crescere disinibiti in un chiostro, affollato da maschi più o meno maturi, ai quali solo perché la​​ Regola​​ lo esige (c. 63,12) si può dare del​​ nonno​​ [9]. E tuttavia, tanto e tale resta il bisogno di tenera accoglienza, che l’esclusione dalla comune convivenza costituisce la prima delle punizioni che la​​ Regola​​ commina; si condisce la segregazione con rimproveri, privazioni e sanzioni corporali, solo se il malcapitato non è nemmeno in grado di stimare​​ quanta poena sit excommunicationis​​ (c. 30, 1-3). Fino ai quindici anni i varii​​ monachuli​​ dovrebbero trovare benevola assistenza presso tutti gli adulti del chiostro. Amorevole, dacché è previsto che le angustie della disciplina siano sempre accomodate alle risorse dell’età:​​ Infantum vero usque quindecim annorum aetates disciplinae diligentia ab omnibus et custodia sit; sed et hoc cum mensura et ratione​​ (c. 70,4). A nessuno è comunque lecito pretendere più di tanto, senza incorrere nei rigori della​​ Regola​​ e nelle rimostranze dell’abate (c. 37,1).

7. A qualche decennio dalla morte di Benedetto i Longobardi invasero la penisola. La resistenza bizantina fu tosto sopraffatta e Montecassino saccheggiata e distrutta (577). Per un secolo e mezzo l’insediamento rimase deserto. Nel 593 Gregorio Magno inserisce nei suoi​​ Dialogi​​ la biografia di Benedetto, divulgandone i meriti. Curiosamente, tuttavia, l’Italia, la Spagna, la Provenza, l’Aquitania, le zone di più assestata romanità, si mostrano poco o punto interessate. Inopinata giunge la fervente adesione delle comunità miste colombano-benedettine. Convinti della eccellenza della​​ Regola​​ di Benedetto, i Colombaniani franchi, anglosassoni o celti, si diedero a diffonderne la adozione, al punto che il sec. VIII la vede ormai generalmente diffusa. Anche l’Italia longobarda viene finalmente coinvolta. Nel 720 l’abbazia di Montecassino risorge e Benedetto torna al lavoro in Europa [10].

Bibliografia

[1]​​ Lexikon MA,​​ VI, München, 1993:​​ Mönch,​​ Mönchtum; MEL​​ - Medioevo Latino,​​ Spoleto, 1979 s.; [2] Jacobs U. K.,​​ Die Regula Benedicti​​ als Rechtbuch. Eine rechthistorische und rechtstheologische Untersuchung,​​ Köln,​​ 1987; [3]​​ Leclercq J.,​​ L’amour des Lettres et le désir de Dieu. Initiation aux auteurs monastiques du Moyen Age,​​ Paris, 1957, 1990; [4] Nebbiai - Dalla Guardia D.,​​ Les listes médiévales de lectures monastiques. Contribution à la connaissance des anciennes bibliothèques bénédictines,​​ in «Revue Bénédictine»​​ XCVI, 1986, 271-326; [5] Lehmann P., «The Benedictine Order and the transmission of the literature of ancient Rome in Middle Ages», in​​ Forschung des Mittelalters,​​ III, 173-183; [6] Carruthers M,​​ The book of memory. A study of memory in medieval culture,​​ Cambridge, 1970; [7]​​ Brunhölzl F.,​​ Geschichte der lateinischen Literatur des Mittelalters,​​ I, München,​​ 1975; [8] Martin McLaughlin M., «Survivors and surrogates. Children and parents from the Ninth to the Thirteenth Centuries», in​​ The history of childhood​​ (Ed. L. De Mause), New York, 1974, 101-181; [9] De Jong M.,​​ Growing up in a carolingian monastery: Magister Hildemar and his oblates,​​ in «Journal of Medieval History»​​ IX,​​ 1983, 99-128; [10]​​ Prinz F.,​​ Askese und Kultur. Vor-und frühbenediktinisches Mönchtum an der Wiege Europas,​​ München,​​ 1980; Penco G.,​​ M. e cultura,​​ Seregno, 1993.

P. T. Stella